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Comuni e governance dei fondi
Mara Rumiz
Mi piace iniziare l'intervento ricordando la legge n. 43 approvata dal Parlamento il 28/2/1949,
il "PdL per incrementare l'occupazione operaia agevolando la costruzione di case per lavoratori". La
gestione fu affidata a INA Casa. Il modello a cui si guardava era il cosiddetto Piano Beveridge.
Il Piano ebbe, davvero, un forte impatto sulla vita economica e sociale del Paese, con più di
600 cantieri aperti nei mesi immediatamente successivi alla promulgazione della Legge. Nei 14
anni di vigenza del Piano vennero realizzati 355.000 alloggi, attraverso l'apertura di circa
20.000 cantieri, con l’impiego di piú di 41.000 lavoratori all'anno. Non va dimenticato che tra i
progettisti troviamo buona parte degli architetti dell'epoca: Ajmonino, Sottsas, Gardella,
Ridolfi.
Perché questo accenno iniziale al Piano Fanfani? Perché fu l'ultima grande operazione, l'ultimo
investimento del '900.
Oggi si costruiscono meno di 6500 alloggi di edilizia residenziale pubblica all'anno. Numeri
assai distanti da quelli di altri Paesi Europei; distanti, sopratutto, dai reali bisogni dei cittadini.
La maggior parte degli alloggi ERP è stata costruita più di 40 anni fa ed è assegnata in
locazione alle famiglie a tempo indeterminato. Questo provoca due conseguenze: la prima è
che il patrimonio residenziale pubblico è spesso degradato, non a norma, obsoleto sia dal
punto di vista edilizio che da quello dei requisiti socio-ambientali. La seconda conseguenza è
che gli alloggi sono utilizzati sopratutto da famiglie di età avanzata. Il turn over avviene solo in
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seguito a decesso dell’inquilino. Questo significa che per le nuove famiglie,le giovani coppie, i
giovani in generale, non c’è proprio prospettiva.
Negli anni '90 e agli inizi del 2000 il tema della casa era addirittura sparito dalle agende
politiche. Nessun investimento, solo una logica di assistenza e supporto attraverso il Fondo
per il Sostegno all'affitto. Non posso qui fare a meno di ricordare che negli ultimi dieci anni
tale fondo è passato da 360 milioni di euro ai 33 previsti per l’anno in corso.
Il disagio abitativo, peró, lungi dall'essere sparito, si allargava ad altre fasce sociali, a cittadini
che fino a pochi anni prima riuscivano a soddisfare la propria domanda di casa sul libero
mercato. Ció a causa della forte incidenza degli affitti e dei mutui sui redditi, dell'instabilità
della locazione, della progressiva e drastica riduzione dell'offerta residenziale pubblica. La
perdita del potere d'acquisto dei redditi, la precarietà del lavoro, l’immigrazione, la maggiore
mobilita' sul territorio, la scomposizione/ricomposizione delle famiglie, un forte aumento del
numero di famiglie costituite da un'unica unita', la maggiore longevità, sono le cause che
determinano l'aumento della domanda abitativa che, in mancanza di alternative, tende sempre
più a rivolgersi alla Pubblica Amministrazione.
E' pur vero che sinora la Pubblica Amministrazione ha risposto solo con due tipologie di
intervento: attraverso l'ERP e attraverso i contributi all'affitto, rivolti entrambi alle fasce più
deboli, creando con ciò macroscopiche distorsioni, sopratutto nelle grandi città (dai quartieri
ghetto alle situazioni paradossali di alcuni centri città', ormai proibite al ceto medio e ai
giovani, città in cui vivranno solo i molto ricchi, che possono permettersi gli alti costi
dell'abitazione, e i molto poveri, inquilini degli alloggi pubblici. Non ci sarà quella middle class
che è la spina dorsale di una società.
Ad un'inerzia dello Stato ha corrisposto una sostanziale miopia dell'imprenditoria privata: in
molte città si e' costruito molto negli anni passati ma si e' costruito senza guardare alla
domanda. Abbiamo, così, molti appartamenti invenduti o non locati perché troppo costosi e,
contemporaneamente, tante giovani famiglie che emigrano nei Comuni della cintura urbana,
laddove i costi dell'abitare sono più sostenibili.
Il problema della casa non deriva da una carenza di alloggi, com’era nel dopoguerra, ma risiede
nelle modalità dell’offerta, poco incline all’affitto, e nella crescita dei valori immobiliari,
insostenibili con la capacità di reddito delle famiglie.
E' evidente che a una domanda variegata, costituita da coloro che non possono più
permettersi di comprare o locare un appartamento sul libero mercato, da coloro che hanno
uno sfratto, dai giovani che ancora abitano nella casa dei genitori, dagli immigrati, dai separati,
da coloro che per ragioni di studio o di lavoro cercano una casa temporanea, non si può
rispondere in modo rigido, prospettando un'unica tipologia di intervento. E non si può
neppure considerare il territorio come un tutt'uno: il problema della casa non ha la stessa
connotazione e la stessa intensità in un piccolo Comune piuttosto che nella grande città; non
e' indifferente il numero di immigrati o la presenza di Università o di grandi aziende che
richiamano studenti e cittadini.
Se è vero, poi, che il popolo italiano anela alla proprietà dell’alloggio in cui abita (e il 75% di
case in proprietà sta a dimostrarlo) è altrettanto vero che l’estendersi della mobilità lavorativa,
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dell’immigrazione, del precariato, dell’aumento della domanda di residenza temporanea di
studenti e lavoratori, non potrà che far lievitare la domanda di alloggi in affitto.
Con il DM del Ministero delle Infrastrutture del 22/4/2008 si definisce l'alloggio sociale:
"insieme di alloggi e servizi, di azioni e strumenti rivolti a coloro che non riescono a soddisfare sul mercato il
proprio bisogno abitativo, per ragioni economiche o per l'assenza di un'offerta adeguata. La finalità dell'housing
sociale e' di migliorare e rafforzare la condizione di queste persone, favorendo la formazione di un contesto
abitativo e sociale dignitoso all'interno del quale sia possibile non solo accedere ad un alloggio adeguato, ma
anche a relazioni umane ricche e significative". Una definizione, come si vede, non banale, che tiene
conto di un'evoluzione del concetto di residenza sociale, che ne allarga il campo , che non
isola le mura dell'appartamento ma che considera il contesto ambientale, urbanistico,
architettonico, che comprende che il disagio abitativo non e' solo bisogno di quattro mura ma
che presuppone anche il miglioramento delle relazioni e della qualità complessiva della vita.
Del resto, e' ormai consolidato il concetto che i nuovi interventi debbano basarsi sull'alta
qualità architettonica e ambientale, sul mix sociale, sulla presenza di servizi, infrastrutture,
quote di terziario: non più casermoni popolari di antica memoria ma veri pezzi di città. Anzi,
la sfida vera e' concorrere, attraverso, l'edilizia sociale, all'innalzamento della qualità
delle nostre aree urbane.
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Dicevamo che l'Amministrazione Pubblica oggi ha a disposizione meno risorse finanziarie ma
molti più strumenti su cui agire.
Fondamentale, ad esempio, è stato il riconoscere normativamente che l'alloggio sociale e'
servizio pubblico e, in quanto tale, è standard urbanistico.
Il fatto che in una lottizzazione privata, oltre alla viabilità, al verde, ai servizi, sia possibile
prevedere una quota di alloggi destinata ai fini sociali, aumenta la capacità di risposta dei
Comuni al disagio abitativo.
Altra leva fondamentale e' la proprietà delle aree.
E' questa la leva fondamentale su cui agire. Vanno previsti interventi di intensificazione delle
superfici pubbliche finalizzati al perseguimento di interessi sociali e, contemporaneamente,
mirati alla riqualificazione urbana.
Per tanti anni è passata l’idea che i privati avessero la titolarità esclusiva di sviluppare le aree,
traendone i relativi profitti, mentre al Pubblico spettava l’onere di realizzare il verde, la
viabilità, i servizi. E’ vero, c’erano e ci sono gli oneri di urbanizzazione ma sappiamo bene che
i Piani Regolatori e, soprattutto, le loro Varianti hanno concesso cambi delle destinazioni
d’uso e aumenti di volumetria “gratis”, come si suol dire, senza una puntuale valutazione del
valore della trasformazione e del conseguente beneficio che si sarebbe potuto/dovuto
computare a favore della Pubblica Amministrazione.
Oggi c’è un’altra importante opportunità in questo campo, costituita dal sistema dei Fondi
Immobiliari per l’Housing Sociale.
Ma questo tema è già stato approfonditamente trattato in relazioni precedenti.
Non si può, poi, non fare presente le potenzialità offerte dalla dismissione del patrimonio
demaniale. Se non prevarranno logiche speculative e la mera necessità di far cassa, saranno
davvero consistenti le opportunità anche per i programmi di social housing.
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L’introduzione della cedolare secca avrebbe potuto essere un’importante occasione per
sbloccare il mercato dell’affitto e far emergere gli affitti in nero. La norma approvata non
incentiva il canone concordato e non aiuta, quindi, a incrementare l’offerta di alloggi a canone
sostenibile. Bisognerebbe, inoltre, dare dei vantaggi fiscali anche all’inquilino, introducendo la
deducibilità dell’affitto, e introdurre la tracciabilità dei versamenti dei canoni.
Sono molteplici ormai le esperienze diverse dalla tradizionale edilizia popolare avviate in Italia,
a partire da Crema, dove sono stati realizzati 90 alloggi, tutti destinati all'affitto calmierato. Il
complesso in cui essi sono inseriti comprende una piazza pubblica, una scuola per l'infanzia,
attività commerciali e aree verdi dotate di percorsi pedonali e piste ciclabili. L'intervento è
stato reso possibile dalla Fondazione Housing Sociale.
Interessante è il Progetto Casa di San Benedetto del Tronto che ha varato un programma
per la valorizzazione del patrimonio pubblico e di edilizia sociale, comprendente anche alcuni
edifici dimessi. Tale programma segue l’iniziativa avviata mediante variante urbanistica con cui
si autorizzava una volumetria residenziale e commerciale in cambio di cessione in proprietà o
in affitto convenzionato di edilizia sociale.
La Regione Marche ha approvato nell’ottobre del 2009 la Legge n.22, Interventi della Regione
per il riavvio delle attività edilizie al fine di fronteggiare la crisi economica, difendere l’occupazione,migliorare la
sicurezza degli edifici e promuovere tecniche di edilizia sostenibile. Qui si disciplinano gli interventi di
demolizione, sostituzione, ricostruzione anche per gli edifici di pubblica utilità consentendo
l’eventuale ampliamento fino al 50% della volumetria esistente.
La Regione Veneto sostiene e partecipa direttamente ad un Fondo per il Social Housing.
A Venezia l'Amministrazione Comunale insieme a IVE, societa' appositamente costituita
dallo stesso Comune, partendo proprio dalla proprietà delle aree e dall’uso intelligente della
leva urbanistica, ha avviato la realizzazione di cinque aree residenziali in un proficuo rapporto
con l'imprenditoria privata, selezionata attraverso trasparenti procedure di evidenza pubblica.
Gli alloggi sociali "si pagano" proprio attraverso la cessione di altri alloggi a prezzo di mercato
e delle quote di direzionale e commerciale. Si e' raggiunto così il duplice obiettivo: sostenibilità
economica e alta qualità dell' insediamento.
La collaborazione con i privati non e' solo dettata dalla necessità di reperire risorse ma
condizione indispensabile per creare quel mix sociale che eviti rischi di marginalizzazione.
Significativo è anche il progetto di recupero e di riuso dell’ex Caserma Manin, un grande
edificio nella città storica, varato dall’Amministrazione Comunale, proprietaria del complesso,
insieme alle Università e la Fondazione IUAV (costituita dall’Università per operare nel campo
della residenza studentesca) e in collaborazione con l’ESU e la Fondazione Cassa di Risparmio
per la realizzazione di una residenza per 170 studenti, 32 appartamenti per giovani e ricercatori
e una serie di servizi (biblioteca, internet point, lavanderia, bar e ristorante) aperti anche alla
comunità circostante.
L’intervento è stato appaltato e si sta aprendo in questi giorni il cantiere.
Per stare a Venezia, città che conosco meglio, va ascritto al piano social housing anche la
convenzione con Acqua Marcia: in cambio della destinazione ad albergo dell’ex Mulino
Stucky, oltre alla realizzazione di un parco e di spazi per l’uso culturale, si stanno costruendo
26 appartamenti già venduti a prezzo convenzionato a nuclei residenti in città, con procedure
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di evidenza pubblica seguite direttamente dal Comune, e un nuovo complesso di 16
appartamenti che verranno ceduti in proprietà al Comune.
Di analogo interesse è l'esperienza del Villaggio Barona, esempio, fra l'altro, di riconversione
di un'area industriale dismessa.
Grazie alla collaborazione fra il Comune di Milano, la Fondazione Cariplo e la Banca Popolare
di Milano si e' riqualificata un'area, si è data un'abitazione a 250 persone, si sono creati spazi
per attività commerciali a connotazione sociale (laboratori di avviamento al lavoro per ragazze
madri o botteghe per giovani usciti dal carcere), si è realizzato un pensionato sociale integrato,
con 120 posti letto.
.Mi piace qui richiamare, anche se esce dal quadro degli interventi che convenzionalmente si
richiamano al social housing, un progetto presentato a Treviso, l’Eco Quartiere Quattro
Passi, piccolo ma assai significativo sia per i soggetti che lo hanno pensato e che lo stanno
promuovendo ( un movimento di cittadini consapevoli, uno studio di architettura e
comunicazione, una onlus che si occupa di ambiente, di risparmio energetico e di stili di vita e
una cooperativa di costruzione) che per la tipologia dell’intervento: cohousing, che combina
l’autonomia di ogni singola abitazione con i vantaggi di servizi, spazi e tempi condivisi e
grande attenzione alle tecniche costruttive per assicurare contenimento dei costi e risparmio
energetico.
Quelli che ho citato sono solo degli esempi di quello che si sta muovendo in Italia, visto sono
davvero molteplici le esperienze che ormai si possono annoverare nel campo del social
housing, a partire da quelle di Parma e di Milano, di Torino.
E’ proprio da queste prime esperienze che scaturiscono alcune considerazioni e si pongono
alcune esigenze.
Dicevamo che in questo ultimo decennio il disagio abitativo sì è esteso alla cosiddetta middleclass. L’aver riconosciuto questo fatto e l’avere avviato programmi di edilizia residenziale
destinati all’affitto sostenibile è importantissimo.
E’ necessario però essere consapevoli che questa domanda abitativa si aggiunge e non
sostituisce quella di chi sta peggio, della fascia sociale più debole. I programmi dovranno
tenere conto che ci sarà sempre chi non sarà in grado di pagare neanche quei 350/400 e più
euro previsti per il cosiddetto social housing e di questa fascia dovrà sempre farsi carico la
Pubblica Amministrazione.
E’, poi, assolutamente necessario che l’Amministrazione Pubblica, a partire dai Comuni,
si attrezzi a fare il suo mestiere, a svolgere il suo ruolo di programmazione e di controllo in
un campo complesso, articolato, in cui agisce una pluralità di attori. Quando si trattava di
formare e gestire le graduatorie ERP, quando si trattava di mettere a disposizione direttamente
o attraverso le ATER, ALER o come comunque viene chiamato l’ex IACP, il patrimonio di
alloggi di proprietà pubblica e che richiedeva semplicemente interventi di manutenzione,
messa a norma, rimessa a reddito, era più semplice. Bastava un efficiente Assessorato alla
Casa.
Oggi, che il ricorso al mercato diventa il metodo per realizzare programmi pubblici è, davvero,
indispensabile che i Comuni imparino o, comunque rafforzino le loro capacità nella
definizione delle politiche. E’ questo il tema fondamentale, più importante ancora
dell’assenza di risorse pubbliche.
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La concertazione istituzionale, i processi partecipativi, l’integrazione tra politiche territoriali e
strumenti di pianificazione e programmazione, l’innovazione tecnologica sono questioni
imprescindibili se si vuole raggiungere un risultato apprezzabile.
IL tema dell’edilizia residenziale sociale richiede un’attenzione multidisciplinare, che va dal
settore finanziario a quello urbanistico, dalle politiche sociali all’ambiente e al patrimonio. E
l’approccio non può più essere quello fondato sulla correttezza delle procedure, per segmenti
ordinati per fasi successive.
L’organizzazione fondata sul progetto e la modalità della Conferenza di Servizi , degli
Accordi di Programma, delle Convenzioni devono diventare il modello da perseguire.
Sono proprio i Comuni che hanno gli strumenti per trasformare in reali opportunità di
sviluppo e di qualificazione urbana le possibilità prospettate dal Piano Casa e le disponibilità
offerte dai Fondi.
Si può rispondere alla domanda abitativa attraverso la realizzazione di edifici composti da
appartamenti da offrire ad un affitto calmierato, analogamente a quanto si è sempre fatto
attraverso l’edilizia convenzionata. Io credo che facendo così si sprecherebbe un’occasione. E’
possibile, invece, utilizzare questi strumenti per una vasta azione di rigenerazione e
riqualificazione urbana, di correzione anche di errori/orrori, di scempi avvenuti nel passato
recente nel nostro territorio. E per fare questo è indispensabile il ruolo dei Comuni.
Sono i Comuni che, attraverso la pianificazione, possono individuare le aree più appropriate,
determinare gli standard, le caratteristiche, le volumetrie. I Comuni possono negoziare
condizioni migliorative, dal punto di vista architettonico e ambientale.
I Comuni possono mettere a disposizione aree o proporre, invece, la riconversione di
complessi industriali o residenziali. Pensiamo, ad esempio, ai quartieri popolari, ancora ben
presenti nelle nostre città, realizzati nel dopoguerra, obsoleti, inadeguati, fuori norma. I costi di
ristrutturazione sarebbero superiori a quelli di una nuova costruzione. Ciò senza considerare
che resterebbero comunque case per la povera gente e basta, zone di emarginazione, vere e
proprie bombe sociali.
Ecco, offrire agli investitori questi quartieri, da abbattere e ricostruire, premiare l’investimento
con quote volumetriche aggiuntive, prevedere l’inserimento di attività che abbiano un
recupero economico, consentire la vendita di una parte degli alloggi avrebbe il grande pregio
di rispondere alla domanda di casa, di riqualificare un’area urbana e di risparmiare
territorio.
Un elemento che potrebbe impedire un’iniziativa di questo genere è dato dalla vendita
generalizzata del patrimonio residenziale pubblico. Nel Veneto, ad esempio, la Regione
intende vendere buona parte degli alloggi gestiti dall’ATER, con priorità agli inquilini.
Diventerà difficile, a questo punto, prevedere un piano di riqualificazione che contempli anche
l’abbattimento. Fin quando si tratta di inquilini pubblici è sempre possibile studiare un sistema
di mobilità. Altra cosa è avere a che fare con famiglie proprietarie di uno o di alcuni alloggi
inseriti in un condominio misto. E’,quindi, assolutamente necessaria una forte concertazione
tra Regione, ATER e Comuni per evitare che la vendita degli alloggi pubblici diventi
ostativa dei programmi di riqualificazione delle città.
E’ indispensabile per i Comuni e per l’AP in genere affinare le capacità sull’uso di procedure
perequative e compensative. Il ricorso a strumenti e modalità di calcolo oggettivi deve
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diventare prassi generalizzata. Non è lontano il tempo in cui questa materia era lasciata alla
discrezionalità della struttura comunale, per non dire del Sindaco o dell’Assessore: io
trasformo un’area agricola in area edificabile o ti consento un 20% di volumetria aggiuntiva e
tu, in cambio, mi fai una piscina o un giardinetto pubblico. Temo, peraltro, che questa prassi
da qualche parte continui a esistere.
Ora si sta diffondendo la consapevolezza dell’importanza anche economica, oltre che
urbanistica, dei diritti edificatori. Non è un caso che la Camera di Commercio di Milano abbia
affidato ad una sua azienda, l’OSMI, il compito di studiare il tema per giungere all’istituzione
di una Borsa che sia di utile riferimento per la contrattazione del prezzo delle volumetrie da
trasferire attraverso la perequazione.
Sono i Comuni che possono richiedere e avviare percorsi partecipativi in grado di
coinvolgere la comunità locale nella progettazione e nella realizzazione degli interventi,
facendo emergere i bisogni reali ed evitando conflitti.
Sono i Comuni che, attraverso la pianificazione sociale (i piani socio-sanitari di zona)
possono stabilire quali sono le necessità in termini di residenze per anziani, residenze
temporanee, cohousing, etc.
Sono i Comuni che possono convogliare sugli interventi eventuali ulteriori risorse.
Spetta sempre ai Comuni definire i criteri di accesso e di selezione dei destinatari degli
alloggi.
L’obiettivo impone la piena collaborazione tra livelli istituzionali. Piani complessi e
articolati toccano le competenze di diversi enti, se non altro in materia urbanistica e
ambientale. Pensiamo poi alla necessità di superare i confini dei piccoli Comuni per la
realizzazione di programmi edilizi che abbiano quelle caratteristiche che qui abbiamo
richiamato.
Senza voler ricomprendere nel tema l’universo mondo, concludo ricordando che il disagio
abitativo è, comunque, solo una componente di un disagio più complessivo e che perciò
accanto alle politiche abitative, devono essere affrontate quelle del lavoro, quelle fiscali, quelle
dell’accoglienza e della prevenzione.
Altro, quindi, che rinuncia del Pubblico e delega in bianco a Banche e a Imprese! Allo Stato,
alle Regioni, ai Comuni viene oggi chiesto molto, ma molto di più.
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