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L'IDEA METAFISICA NELL'ESPERIENZA
PITTORICA DI G. DE CHIRICO
L'intermezzo italiano (1908-1910)
Alla fine del 1908 De Chirico, tornato in Italia e stabilitosi a Firenze, ebbe
modo di maturare quanto dell'esperienza monacense era germinato in lui. « A Firenze — scriverà nelle sue memorie (21) — la mia salute peggiorò. Il pericolo boeckliniano era passato e avevo cominciato a dipingere soggetti ove cercavo di esprimere quel forte e misterioso sentimento che avevo scoperto nei libri di Nietzsche,
la malinconia delle belle giornate d'autunno, di pomeriggio. nelle città italiane.
Era il preludio alle "Piazze d'Italia", dipinte un po" più tardi a Parigi ».
Nasce così il « ciclo » pittorico degli « enigmi »: ogni dipinto, che pur trae
forma da immagini riscontrabili nella realtà, cerca di svincolarsi da questa, per
salire ad un livello metempirico, attraverso sapienti accostamenti di oggetti eterogenei per connessione logica, ma del tutto coerenti nel rappresentare una connessione simbolica. Del 1910 è l'Enigma dell'oracolo, ove nell'evocazione mitica ellenizzante il richiamo dell'Odisseo e Calipso di Boecklin è facilmente avvertibile.
Più personale e libero da diretti rapporti col maestro tardo-romantico appare il
quadro Enigma di una sera d'autunno, di poco successivo, anche se eseguito sempre nel 1910 (fig. 5): ivi si scorge come le frequenti visite agli Uffizi e a Pitti abbiano reso la mano di De Chirico più sensibile alla qualità della materia. Il piccolo
tempio ha proporzioni che si addicono alla statura dell'uomo e dietro le tende
non ci sono oracoli. La statua decapitata sul piedistallo è l'ornamento d'una semplice e piccola fontana e potrebbe venir cantata dal Poliziano. La vela, che naviga a filo con le case, la coppia chiusa nei panneggiamenti, il profilo del tempio
in ombra, il silenzio sospeso, sono tutti numeri d'un mistero che si compone in armonia.
Già, a Monaco, il pittore aveva temperato i suoi sogni col metro della lineare
geometria rinascimentale: « Molti palazzi e scorci della città bavarese — nota -il
Valsecchi (22) — a partire dalla copia riprodotta, davanti alla mole biancastra
e rococò della chiesa dei Tolentini, della fiorentina loggia de' Lanzi. gli avevano
ripetuto dinanzi agli occhi le forme e gli schemi della classicità ritrovata dell'urna-
(21) DE CHIRICO, Memorie della mia vita, Roma 1945.
(22) VALSECCHI, op. cit., p. 20.
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Fig. 5 - G. DE CHIMICO : Enigma di una sera d'autunno (1910)
Coll.ne privata
nesimo italiano »; ma a Firenze, nel vivo contatto, nella profonda immersione nello spirito rinascimentale, egli ritrovava equilibrio di forme e purezza di espressione: fattori anch'essi tradizionali, ma essi pure rivissuti alla luce di un'estetica rinnovata.
Segni conclusivi di queste esperienze formali, si colgono nel dipinto Enigma
dell'ora, del 1912 (fig. 6 ): l'immagine, composta ed essenziale, del Convento del
Carmine, salda e completa stilisticamente la risonanza dell'unica figura bianca col
quadrante dell'orologio incastrato nel timpano, le cui lancette restano fisse sulle
quindici meno cinque di un tempo che non diviene. L'esclamazione goethiana:
« Attimo, fermati, sei bello! », sembra qui prender vita e divenire realtà.
L'Enigma dell'ora conclude, in certo modo, le esperienze toscane: questo dipinto assai valido non solo sotto un profilo contenutistico, non deve tuttavia ingannare riguardo ad una presunta maturità raggiunta dal pittore. Alla vigilia del periodo francese, De Chirico cercò soltanto di tradurre i propri concetti letterari in
equivalenti pittorici i quali mostrassero pregnanza di significato senza, per questa,
compromettere la coerenza di stili, come era avvenuto per la pittura romantica. Ed
è proprio la misura toscana a realizzare e, a volte, a mascherare pittoricamente
gli assunti intraducibili dell'estetica dechirichiana. « La parola " enigma "
— nota ancora il Valsecchi (23) — denunzia una sorta di mistificazione, di trom-
(23) VALSECCHI, op. cit., p. 20.
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Fig. 6 - G DE CHIRICO : Enigma dell'ora (1912)
Coll.ne privata.
pe — roeil della memoria, per cui li pittore stesso si sorprende delle sue rappresentazioni oscillanti tra il fantomatico e l'evocazione malinconica ».
Ma, rileggendo il passo della sua biografia, ricordiamo ch'egli scriveva: «
era il preludio alle "Piazze d'Italia", dipinte un po' più tardi a Parigi »: ed invero. come si vedrà, in nessun ciclo come in quello delle « Piazze d'Italia l'orditura spaziale rinascimentale riesce a comporre in raffinatezze formali la preponderanza dei contenuti: e per questo. il primo periodo italiano dell'artista ha valore
solo se riscontrato nei dipinti di Parigi. Souvezzirs (rifalle definirà l'Apollinaire le
« Piazze d'Italia »: e l'accezione del termine deve prendersi nel senso meno ristretto e provinciale. ché invero, in Francia. De Chirico mostrò come l'introspezione creativa possa prescindere da distanze spazio — temporali dall'opetto rappresentato.
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Il soggiorno a Parigi (1911-1915)
LE " PIAllE D'ITALIA „
Vedo una piazza; d'oro antico e caldo
nelle sue azzurre pietre si dipinge:
occiduo il sol la sfiora.
Fermi profili di palazzi! Aspetti
castissimi del mondo
nella soave perfezione dell'ora!
Ombre violacee scendono dai tetti...
La prima strofa de La fine del inondo di Corrado Tavolini c'è parsa ben rispondente allo spirito che il pittore intese esprimere attraverso i dipinti di questo
ciclo. In ognuno di essi infatti affiora sempre una così immanente solarità, una levità così casta e mattinale, un'aura così purificatrice e vivificante, da farci dimenticare qualsiasi artifizio retorico e intellettualistico, che, sia prima, sia dopo, opprime il libero sciogliersi dell'ispirazione di questo pittore.
Non più, in queste tele, apparenze ingannatrici della memoria; non più definizioni arbitrarie e indecifrabili; non ancora simbolismi ermetici, intradueibili,
ma solo un'arte pura: che delle passate esperienze conserva il meglio, e cioè la tensione e sospensione dell'istante, l'equilibrio tra misura classica ed « evasione » romantica, l'aspirazione a coglier nel fondo il vero, eliminando « il troppo e il vano ». « Nel comporre quelle immagini — scrive il Valsecchi (24) — giocava in
De Chirico la memoria della sua patria d'origine; l'Italia dalle silenziose piazze
assolate, dai lunghi crepuscoli estenuanti, con le vestigia di un illustre passato
arcaico mescolate a ciminiere di fabbriche, a treni lenti e sbuffanti che svegliano
il sonno delle antiche statue addormentate; una patria che gli cresceva nella memoria con l'alone struggente della nostalgia, sul cui ricordo spargeva sali ironici
e un senso di segreta delusione umana ». Codeste osservazioni trovan riscontro nelle stesse parole dell'artista il quale, in un passo dell'autobiografia, scrive: « Mi
trovo in una piazza di grande bellezza metafisica: è la piazza Cavour a Firenze... da
un lato si vedono i portici sopra i quali ci sono degli appartamenti dalle persiane
chiuse, dai balconi solenni. All'orizzone si vedono le colline, sulla piazza il cielo
è molto chiaro, lavato dal temporale, però si sente che il sole tramonta perché le
ombre delle case e delle rarissime persone sono molto lunghe sulla piazza ».
Tali sensazioni ci sembra di riscontrare tutte nella prima, folgorante intuizione del ciclo, la tela Nostalgia dell'Infinito del 1911 (fig. 7 ): in essa l'ombra portata dall'accenno di un portico rinascimentale quasi esclude io sguardo dalle risibili figure umane, che proiettano ombre simili a macchie colanti sul suolo concavo, inclinato, imbevuto di sole; e il netto stagliarsi della tronca piramide (espres-
(24) VALSECCHI, op. cit., p. 19.
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Fig. 7 - G. DE CHIRICO :
Nostalgia dell'infinito (1911)
Museum of Modern Art, New York
sione d'eroica virilità olimpica — sovente il pittore adopera anche piramidi di tipo babilonese, polistile, a piani sovrapposti) su un cielo azzurro cristallino, si estingue nel fluttuare dei bianchi pavesi al vento «autunno.
Da questo primo accenno con ispirazione unitaria, intensissima, l'insieme dei
dipinti si snoderà fino al 1915; e facile è scorgere in essi comuni valori, pur nella
varietà di svolgimenti: e cioè alti orizzonti verso i quali ribaltano i primi piani
ripidamente inclinati con inquadratura dal basso — più tardi, con l'intellettualiz175
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Fig. 8 - G. DE CHIRICO : Piazza d'Italia (1912)
Coll.ne Adriano Pallini, Firenze
Fig. 9 - G. DE CHIRICO : Piazza d'Italia (1915)
CoiI.ne privata. Milano
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Fig. 10 - G. DE
: I passatempi di una ragazza (1915)
Coll.ne privata. U. S. A.
zarsi e l'involversi dell'ispirazione, descritti con un piancito ligneo ad assi longitudinali, fuggente verso l'orizzonte, zone d'ombra nei primi piani che allontanano dalla chiarità meridiana degli sfondi; aberranti prospettive di quinte laterali e di
portici (fig. 8-9). In questi dipinti, il netto contrasto di zone di luce e d'ombra,
privo di giustificazione naturalistica e configurantesi in una astratta dinamica compositiva come per un commesso di pietre dure o una tarsia. nonché il colore severo,
disteso in ampie circoscrizioni, intenso e pur di leggera e arida stesura, che conferisce solidità plastica alle forme, evocano appunto quel «silenzio strano ed inesplicabile» che precede un cambiamento di stato; il senso d'incertezza. di un tale assurdo e
tuttavia stabilissimo essere delle cose, l'attesa per « qualche cosa di nuovo che debba accadere (Faldi).
L'orditura spaziale, che nei dipinti ferraresi maturerà in perfette forme architettoniche, è già l'ordine di una misura morale, evoca un'armonia di tipo pitagorico.
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Le pietre disposte in case, i quadrati e rettangoli che il colore riveste di gamme tranquille e splendide, le teorie di finestre distinte e ritmate da ombre rosse e smeraldine; le locomotive — e il ricordo di quella costruita dal padre risorge con veemenza — o le vele che si allontanano, suscitano risonanze affettive.
Ma sovratutto, ogni elemento compositivo, dagli spigoli che fanno blocco intorno all'alto silenzio, alla fantomatica apparizione delle statue al centro della composizione o disposte ai lati, tra le quinte o nelle nicchie, concorre a realizzare una
tensione verso uno stato di libertà. Le torri, i pavesi, le statue, i portici, gridano
silenti la loro aspirazione a confondersi nell'azzurro infinito. E' questo il momento centrale della concretizzazione pittorica dechirichian a.
Con questa sua pittura, De Chirico veniva a dare risposta agli inevasi interrogativi posti dall'ultimo decadentismo: tale stagione letteraria, che in Francia aveva
espresso il meglio di sè, andava in quegli anni esaurendo il suo vigore, sotto la
spinta di nuovi interessi e di differenti prodottive, lasciando tuttavia un senso di
vuoto, originato dalla coscienza di non aver raggiunto alcunché di risolutivo. « Il
simbolismo — nota lo Schmidt (25) — aveva cercato di liberare totalmente l'uomo provocando l'irruzione delle verità indicibili dell'anima in un modo perverso
che muore delle imposture di una civiltà meccanica »: ma evidentemente, tali
« imposture » dovettero prevalere, se proprio prima della grande guerra tutto il
movimento andava subendo un definitivo processo involutivo. Nella liquidazione
dei valori simbolisti, il Jammes, il Péguy, l'Apollinare, il Cocteau, il Valéry, ancor tentavano le vie d'un proseguimento: ma, con travisamenti e aberrazioni, da
ciò non sarebbe nato che il surrealismo e l'affine movimento dadaista. Talché, amaramente, il Redon doveva constatare (26 ): « Tutto ciò che illumina o estende
l'oggetto e innalza lo spirito nella regione del mistero, nello smarrimento dell'insolubile e nella sua squisita inquietudine, tutto ciò è stato completamente chiuso agli
artisti della mia generazione. Tutto ciò che di inaspettato, di indefinibile offre la
nostra arte e le dà l'aspetto che confina con l'enigma, da ciò si sono guardati, di
ciò hanno provato sgomento ».
Coerente con la affermazione nietzschiana, che aveva definito l'arte « ultima
attività metafisica entro il nihilismo europeo », De Chirico volle dunque affrontare
una problematica le cui premesse spirituali e le cui risoluzioni pittoriche, pur risolvendo una sconcertante depressione qualitativa del livello artistico del momento,
assumeva una posizione estremamente contraddittoria delle mode correnti.
Ne risultò che una pittura che avrebbe dovuto far gridare di consolazione i
cultori della vera arte, s'attirò solo l'ostracismo dei progressisti e la noncuranza dei
conservatori. La puntata solita — scrive il nostro, riferendosi ai giudizi che accolsero il ciclo delle « Piazze » — che degenerò poscia in luogo comune, era quella
di dire: c'est de la litterature. Frase che faceva pendant a quella lanciata dai cubisti o avanguardisti alle armate dei loro nemici tradizionalisti: c'est pompier: è
(25) A. M. SCHMIOT, La litérature s i mboliste, Paris 1956.
(26) 0. REDON, A sói meme, Paris 1914.
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Fig. 11 - G. DE CHIRICO : Le Muse inquietanti (1916)
Coll.ne Gianni Mattioli, Milano
chiaro che le due accuse si annullano reciprocamente ». Provincialismo, conformismo, aritificiosità letteraria; i giudizi del tempo (corretti solo in parte dall'affettuoso omaggio dell'Apollinaire, che definì la pittura del nostro le plus étonnant
de la jeune géneration) non facevano che anticipare una serie di equivoci e di
travisamenti palesi, di cui si tratterà più avanti. gran parte dei quali è imputabile
alla incomprensione e alla diseducazione dei contemporanei; intolleranti, ormai,
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delle leziosità romantiche, tutti correvano ai più torbidi africanismi, e non poterono perciò gustare l'ambrosia olimpica stillante dalle statue accovacciate di De
Chirico, vere espessioni di superuomismo, di superamento umano dei confini divini, di divinizzazione umana, nell'eroica esaltazione del principio della virilità
solare, nella nuova elaborazione d'una spiritualità laica che, come ben vide il Cocteau (27), cercava di superare ogni ritualismo esteriore per spostare all'interiorità
ogni rappresentazione drammatica e tragica dei misteri religiosi, studiandosi così di realizzare, nel superamento di ancestrali tabù, di angosciose inibizioni, di
innominabili inquietudini, un magico stato di libertà spirituale.
Proprio in quegli anni De Chirico scriveva: « Noi costruiamo una nuova psicologia metafisica delle cose... l'opera profonda l'artista attingerà alle più remote
profondità della sua esistenza: lì non penetra più mormorio di ruscelli, canto di
uccelli, fruscio di foglie (28) ».
Era questo messaggio, teso ad un eleuteriologico possesso autocosciente della
propria individualità psichica, seppur mitizzato in una ricerca estetica autopistica e moderna quasi al punto d'essere avveniristica, che indusse il George (29) a
parlare, riferendosi all'opera dechirichiana, dell'elaborazione essenziale di un nouvel
ltumanisme il quale, ancor involto, a Parigi, entro schemi intellettualistici e teoretici inespressi figurativamente, s'aprirà, a Ferrara, nell'affettuosa adesione di
compagni entusiasti, ml una visione integrale del mondo, fino a sfociare in un sostanziale cristianesimo scevro (la retorica e da assunti luciferini.
Ferrara (1915-1918)
Nel 1915. dopo l'entrata in guerra dell'Italia, De Chirico tornò in patria per
compiervi il servizio militare e fu mandato a Ferrara ove rimase sino al 1918.
In questo periodo, ispiratrice la città di « deserta bellezza », in piena comunione affettiva con l'ambiente che lo circondava, l'artista concluse l'intento di
esprimere con un corpus simbolico pregnante le immaginazioni poetiche teorizzate.
Ai manichini, che De Chirico aveva introdotto nelle sue tele ispirandosi al
dramma I racconti della mezza morte del fratello Alberto Savinio (che possono
considerarsi gli autentici esponenti stilistici del simbolismo metafisico); alle quinte sceniche sempre più fissate entro un ambiente che l'influenza cubista aveva definito in netti contorni, in cromi lucidi e squillanti, chiaramente contrastati in
nitidi tagli di luce e d'ombra: alla partitura geometrica dei piani intersecantisi per
l'innesto di prismi e di cubi policromi. posti come supporti degli oggetti-simbolo,
(27) J. COCTEAU, Le mystère laic. Essai d'étude indirette (Giorgio De Chirico). Paris 1928.
(28) G. DE CHRICO. Lettera (1914) rip.ta in BRETON. Le surrealisrne et la Peinture,
Paris 1928.
(29) W. GEORGE, Chirico, aree des fraguentes litteraires de l'artiste, Paris 1928.
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Fig. 14 - F. DEL COSSA: Il Battista (particolare) (1470)
Pinacoteca di Brera. Milano
s'aggiungono ora i motivi d'una realtà « casalinga », che riscopre un'urgenza vitale, una forza-sentimento nel semplice e nel consueto: e facile è l'accostamento,
nonostante la superiore attitudine tecnica del nostro, al candore dei « pittori della
domenica ».
Nel percorrer le vie d'una città resa ancor più silenziosa dalla sospesa tragedia della guerra, De Chirico ritrovava i valori della tradizione pittorica nostrana:
sugli sfondi dei primi piani zeppi di rocchetti, di scatole di fiammiferi, di guanti
(che ci sembrano una sorta di hommage à Courbet cui l'artista guardò a Parigi
con speciale interesse), e delle quinte ospitanti la sospesa inquietudine delle
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Fig. 15 - G DE CHIRICO : Natura morta evangelica (1917)
Coll.ne Frua de Angeli, Milano
nuove muse-manichino ispiratrici (figg. 10-11), compaiono i palazzi di Ferrara,
fermi e definiti al di là di fughe prospettiche e di piani ribaltati come persistenti
valori di tradizione posti accanto agli opifici dalle alte ciminiere. che esprimono
lo spirito della nuova spiritualità laica subentrata nel tempo alle cattedrali gotiche dai campanili svettanti. L'impostazione spaziale fraziona i punti d'osservazione realizzando tagli, scorci e inclinazioni prospettiche alla maniera di Piero
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Fig. 16 - G. DE CHIRICO : Pomeriggio soave (1916)
Col] ne Peggy Guggenheim, Venezia.
della Francesca o di Paolo Uccello: e le ombre assumono sempre più un significato luminoso-funzionale, non isolabile dal contesto pittorico.
In questa orditura spaziale tutta la « carpenteria magica » evocata dall'artista (i biscotti e i pani romagnoli, che evocano uno struggimento simile al ricordo proustiano delle paste madeleine, i pesci di latta, accanto alla candela che
s'apre, in cima, con una stella di mare ( figg. 12-13) sono anche pretesti per
splendide risoluzioni plastiche) chiude il ciclo simbolico ricercato dal pittore sin
dal periodo monacense. Nelle cose semplici e sincere scoperte nelle botteghe di
Ferrara, nei meravigliosi oggetti d'ornamento colti sulle vesti dei personaggi del
Tura, del Foppa, del Cricelli o del Cossa ( fig. 14 ), egli riscopriva il gioioso
mondo dei balocchi della sua infanzia: e questa nuova innocenza elevata ad arte
gli apriva l'animo a concepir nelle tele una purificata visione cristiana dell'animo
umano: le sue « nature morte evangeliche », nel loro fresco candore, si pongono
come uno dei più alti conseguimenti figurativi di un'epoca di dolorosa dissoluzione spirituale (figg. 15-16 ).
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Fig. 17 • G. DE CHIRICO: Interno metafisico (1917)
Coll.ne Frua de Angeli. Milano.
Era fatale che, prima o poi, gl'intenti pittorici del Nostro riscontrassero Fattenzione dell •ambiente pittorico italiano. E quella stessa arte che. per voler restar
quieta e appartata, lontana dai frastuoni belluini e dagli orpelli esteriori. s'era
dovuta subire le derisioni di Parigi, attrasse, per il fortuito incontro nell'ospedale militare di Ferrara, nel 1917, i tre maggiori ingegni pittorici italiani d'allora: il giovanissimo ferrarese De Pisis, Carrà, reduce dalle esperienze futurista,
cubista e di Guerra-pittura e Morandi, il pittore-incisore bolognese che più d'ogni
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altro seppe rilevare l'eredità del nuovo « grido » dechirichiano, « santificando »,
per usare un'espressione del Nostro, l'idea metafisica.
Gli studi più recenti — e per ciò rimandiamo al circostanziato saggio del
Modesti, del 1961 ( 30 ) — vanno riscoprendo però ancor più vaste e sottili influenze nell'arte italiana dell'immediato primo dopoguerra: è facile rilevare chiarissimi segni, in Sironi, in Tomea, in Campigli, in Casorati, che il messaggio
metafisico era capace di aprirsi alle dimensioni di una autentica scuola pittorica.
*
*
A questo punto, in coincidenza con la fine della guerra, l'estro inventivo di
De Chirico entra in una fase declinante, per poi riprender quota in diversissima
direzione; il plen air delle « Piazze d'Italia », come la spazialità rinascimentale
delle muse ferraresi, si richiude, ripiega in sé, in « interni che incorniciano la
realtà, invece di rappresentarla libera, con squadre e compassi, supporti, cavalletti e tele entro cui case ed opifici s'inseriscono a mo' di ekfrasis, ma, si vede, perdono in splendore (fig. 17 ). Solo Morandi soprà rivelar qualcosa in un mondo così inclinante verso una mediazione intimistica, quasi astratta e del tutto priva di
coralità. De Chirico, invece, si dedica ormai a diffondere il verbo metafisico con
scritti e proposizioni estetiche. Allo scoppiar della pace, la speculazione commer
ciale si sposa all'ispirazione declinante per liquidare i valori metafisici: d'ora in
avanti, a causa della pletora di copie e di varianti d'uno stesso prototipo, di falsi,
ripetizioni di maniera autografe e retrodatate (per non dire dei restauri che molti degli originali hanno dovuto subire a colpa d'una tecnica esecutiva disponente
a screpolature della superficie pittorica) l'indagine filogico - critica dei dipinti metafisici dechirichiani è costretta ad arrestarsi.
La parabola discendente del periodo metafisico si conclude così, nel confluire
nelle false mitografie del « Novecento », un gruppo pittorico sorto a Milano nel
1922, al quale aderirono il Bucci, Funi, Vellani - Marchi, Salietti? Tosi, Marussig
ecc. A causa di una improvvisa, inattesa frattura, imputabile più alla incomprensione dei contemporanei che ad un atteggiamento incostante di De Chirico, i manichini divennero un prodotto d'esportazione pittorica internazionale, nel momento
stesso in cui moriva l'ispirazione che li aveva generati.
ENRICO MONTANARI
(30) R. MODESTI, La pittura metafisica, Como 1961.
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