e se il mio lavoro fosse come “un bacio”

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e se il mio lavoro fosse come “un bacio”
E SE IL MIO LAVORO FOSSE COME “UN BACIO”
Silvana Costanza, Rosalia Giammona, Rosaria LaPorta
IIa Rianimazione Arnas Ospedale Civico, Palermo
Mi chiamo Silvana, sono un’infermiera e lavoro in un reparto di Rianimazione ormai
da parecchi anni.
Voglio qui cimentarmi nella non facile descrizione del mio mondo lavorativo, fatto
non solo di luoghi fisici con aspetti strutturali e strumentali ma anche, e forse
soprattutto, di umanità: quella degli operatori, dei pazienti, dei congiunti dei pazienti.
Certamente la componente strumentale, tecnologica di un reparto di Rianimazione,
fatta di monitor, pompe di infusione, respiratori che attimo dopo attimo sostengono le
funzioni vitali dei pazienti e ne segnalano lo stato clinico ed emotivo, è molto
complessa ma ancora possibile da comprendere ma ciò che invece è più difficile da
capire è la componente umana di un reparto di Rianimazione, componente troppo
spesso considerata di secondo piano.
La Rianimazione è uno spaccato di mondo in cui tutti gli uomini e le donne che ne
fanno parte mettono in gioco se stessi, il proprio bagaglio umano e culturale. Qui
l’operare è fatto della tecnica e dei sentimenti di ognuno, ma l’una e gli altri non
sempre possono procedere lungo un percorso parallelo, e mai è concesso estraniarsi
da questo mondo.
Come comincia la mia giornata in reparto?
Nel momento in cui si viene “allertati” per l’arrivo di un paziente il gruppo di
infermieri si attiva nella preparazione del posto letto e al tempo stesso si cominciano
ad acquisire le informazioni strettamente necessarie all’accoglienza.
All’arrivo del paziente la prima fase dell’osservazione inizia con la visione d’insieme
del paziente e la rilevazione tecnologica dei parametri. Dopo i segni tecnologici (che
sono sempre dinamici) ci si concentra nell’osservazione clinica (“sensoriale”) del
paziente cercando di individuare, oltre ciò che di nostra competenza, anche tutto ciò
che non è di competenza rianimatoria e che quindi può richiedere interventi mirati da
parte di consulenti esterni al reparto.
L’attenta e continuata osservazione diretta del paziente, supportata anche dalla
strumentazione a cui esso è collegato, ci permette di cogliere segni e sintomi della
malattia del malato di cui l’infermiere diventa interprete. Infatti al di là della
incapacità momentanea di comunicazione da parte del paziente (paziente sveglio ma
intubato, in coma o con afasia), l’infermiere legge segni e sintomi che si evidenziano
e li comunica al medico che li valuta.
In questa intensa relazione di accudimento l’infermiere mette in gioco non soltanto la
sua capacità professionale ma anche quella emozionale, grazie alla quale gli è
possibile entrare in contatto oltre che col malato incapace a comunicare anche con
l’equipe con cui lavora, perché il nostro lavoro deve essere da tutti ugualmente
partecipato.
L’infermiere ha poi l’esigenza di approfondire la conoscenza del malato acquisendo
informazioni dai familiari; il contatto con i familiari determina non solo
l’acquisizione di un maggior bagaglio di informazioni inerenti la patologia del malato
stesso ma fa sì che l’infermiere spesso diventi un tramite di comunicazione tra il
familiare e il paziente.
Un rischio possibile è che si sviluppi tra l’operatore e il paziente (e/o parenti) una
relazione tanto intensa che l’operatore si faccia carico eccessivo del paziente. Questo
può portare ad un grado di coinvolgimento, di identificazione con il paziente o con un
suo familiare tale da riflettersi negativamente sia sul paziente che sul gruppo di
lavoro poiché l’operatore tende ad escludere o a sminuire il lavoro del gruppo, e
come ho detto prima il lavoro della rianimazione per essere efficace deve essere da
tutti egualmente partecipato.
Da quanto su esposto nasce una riflessione: l’infermiere porta con se nel suo lavoro
un carico di emozionalità tale che diventa parte integrante dello stesso, e se così non
fosse il lavoro dell’infermiere si ridurrebbe solo all’aspetto tecnico. Ma escludere
l’aspetto umano, negare le emozioni del nostro lavoro ci porta certamente ad essere
più ingranaggi meccanici che interpreti del lavoro, ci porterà all’isolamento rispetto
al malato e all’equipe e al conseguente decadimento complessivo delle qualità
lavorative personali e del gruppo che si può concretizzare nella progressiva perdita di
iniziativa.
Ed è allora naturale chiedersi, se l’infermiere non ha le capacità personali di gestione
delle proprie emozioni con il conseguente isolamento chi e quando si fa carico della
problematica?
Mi chiedo allora come va affrontato il problema:
- è necessaria nel momento della formazione universitaria prevedere una figura
di docente che orienti adeguatamente la persona ad affrontare l’eventuale
proprio disagio?
- avere all’interno dell’equipe del proprio reparto una figura di riferimento
preparata ad accogliere il disagio del singolo e a coadiuvarlo nell’inserimento?
Ho in mente un immagine: “Il bacio” dello scultore Brancusi.
Quest’opera a mio parere può rappresentare idealmente attraverso la purezza delle
forme, ottenuta per mezzo della eliminazione di tutti gli attributi accessori, il giusto
operare dell’infermiere nel perfetto equilibrio tra emozionalità e lavoro.
Intendo con ciò il risultato della ricerca che ogni operatore fa della giusta forma di
relazione tra se e il paziente per raggiungere un equilibrio tra i sentimenti e la propria
professionalità.