Quasi dieci anni fa ricevetti una richiesta da un reparto ospedaliero

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Quasi dieci anni fa ricevetti una richiesta da un reparto ospedaliero
Felicia Di Francisca
Corpo, ospedale, psicoanalisi
Quasi dieci anni fa ricevetti una richiesta da un reparto ospedaliero di rianimazione e terapia
intensiva: il caposala, d’accordo col primario, chiedeva la disponibilità dell’Unità Operativa di
Psicologia per il lavoro ospedaliero. Il direttore dell’Unità affidò ad un mio collega e a me il
compito di valutare la possibilità di una risposta.
A quei tempi gli psicologi clinici del Servizio sanitario toscano riflettevano sul modello specifico
d’intervento della propria professionalità a partire dalla richiesta più o meno elaborata dell’utente.
Ci accingemmo, dunque a fare la cosiddetta analisi della domanda (molti ricorderanno le fasi di tale
modello).1
La richiesta che venne espressa nel primo incontro con il capo sala, l’infermiera più anziana del
reparto e alcune giovanissime infermiere fu stupefacente per il raffinato livello di percezione del
bisogno che manifestava. Ci saremmo aspettati una richiesta di aiuto per poter lavorare meglio con i
pazienti, un aiuto per il gravoso compito di assistere pazienti fra la vita e la morte. Invece, mentre,
intorno ad un tavolo tutti esprimevano liberamente le loro idee sulla vita del reparto, l’infermiera
più anziana (di servizio in quel reparto), ci spiegò l’angosciante situazione in cui si trovavano. Da
un po’ di tempo era chiaro come molti operatori del reparto volessero trasferirsi in altro reparto,
andarsene, ma nessuno riusciva a farlo. No, non perché fossero ostacolati dalla burocrazia: anche gli
operatori che avevano ottenuto il trasferimento, non riuscivano all’ultimo momento a staccarsi dal
reparto. “Non capisco perché, ma è come se fossimo prigionieri della rianimazione” disse
l’infermiera e tutti furono d’accordo, come se la constatazione claustrofilica fosse stata oggetto di
lunghe discussioni fra loro. Ma non lo era stata. Emergeva per la prima volta in quello strano setting
che era quello di una riunione ma, proprio per la comunicazione sull’area claustrofilica (Fachinelli
1983), evocava una stanza di analisi. Ritengo che allora grande sia stata la spinta a cogliere tale
stupefacente comunicazione2 e a “restituirla” a conclusione del colloquio. Fortunatamente
rimanemmo sospesi e il colloquio si concluse con la nostra disponibilità ad un nuovo incontro dopo
un periodo di riflessione. Nessuno ci richiamò più dalla rianimazione, se non dopo quasi un anno. Il
1
Analisi della domanda, confrontazione-elaborazione, restituzione, sono tuttora considerate le fasi schematiche del
colloquio psicologico-clinico, a prescindere del modello teorico di riferimento dello psicologo.
2
Elvio Fachinelli (1983) in Claustrofilia: “Ora, il mancato riconoscimento dell’area claustrofilica e della sua forza
agente ha fatto sì che i tentativi di intervento sul tempo dell’analisi risultassero in definitiva sforzi per far precipitare
situazioni bloccate; risultassero cioè modi d’agire dell’analista, movimenti che, pur nella più sofisticata giustificazione
teorica, a volte, rivelano con chiarezza la difficoltà di chi si è scontrato con una barriera opaca. (…) il primo di questi
tentativi risale a Freud stesso”. Qui Fachinelli descrive il termine fissato da Freud all’Uomo dei lupi che portò alla
rapida guarigione del paziente. “Ciò che si coglie insomma nel testo freudiano è che la prescrizione di un termine
all’analisi determinò un rapido movimento che, per la sua chiara connotazione perinatale, richiamava una nascita
forzata”.
mio collega si era già trasferito ad altro servizio, così continuai da sola una delle più importanti
avventure professionali che mi è finora capitato di vivere.
Quasi un anno dopo, dunque, ricevetti la telefonata dalla rianimazione. Questo tempo che sarebbe
comunque notevolmente lungo per qualunque richiesta di secondo colloquio, lo è ancor di più
trattandosi della rianimazione, dove i ritmi sono così rapidi e le risposte così tempestive da non
lasciar distinguere il tempo della formazione del bisogno e il tempo della risposta.
Intanto, alcuni fra gli infermieri erano riusciti a trasferirsi, compresa l’infermiera anziana che, però,
chiese di partecipare agli incontri con me “per riflettere su ciò che era accaduto in rianimazione.”
Cominciai a lavorare in reparto con un gruppo spontaneo di infermieri, dopo aver fatto con il
primario il patto che niente di ciò che il gruppo avrebbe prodotto sarebbe stato usato per giudizi o
valutazioni personali o collettive.
L’unica condizione che posi al gruppo, e che fu accolta, riguardava l’area condivisa di lavoro: ogni
partecipante al gruppo avrebbe portato a turno una situazione clinica o una situazione d’interazione
fra i membri dell’équipe di rianimazione, in forma scritta.
Orietta, l’infermiera anziana, ormai nell’organico di altro reparto (venne per un anno alle nostre
riunioni al di fuori del suo orario di lavoro), porta il primo caso. Ricostruisco l’intervento (orale) di
Orietta sulla base dei miei appunti di allora. Trascriverò integralmente i testi degli operatori che
utilizzerò in seguito conservando le parole e la forma che essi scelsero per
portare la loro
esperienza nelle riunioni. Questa fedeltà testuale deriva anche dal debito di gratitudine che sento
verso di loro. Non posso dimenticare come fu subito facile lavorare assieme sostenuti dalla capacità
di osservazione delle relazioni vive del mio primo gruppo in RTI, relazioni che avvengono tutti i
giorni nei luoghi di cura. Non sempre è così negli ospedali tra pazienti e operatori, ma è anche così.
Il caso presentato da Orietta
Un bambino muore in rianimazione per i traumi riportati in un incidente. I genitori donano gli
organi del bambino.
Orietta descrive il ricordo dell’accompagnamento in sala operatoria per l’espianto. La madre
accanto alla barella va sistemando i capelli del figlio e ne accarezza il visetto ancora roseo come se
lui dormisse. Orietta e un medico stanno vicini alla mamma.
Nessuno del gruppo accenna, nella discussione, al comportamento della madre nella mesta
processione. Tutti gli interventi descrivono la terribile percezione di un corpo vivo di un paziente
già morto.
La madre del bambino sembra vivere in ognuno dei partecipanti, un’identificazione così ben riuscita
da far sembrare vivo il paziente, ma il bambino è morto.
Alcuni anni dopo, ormai consulente anche per il personale del nucleo di donazione e trapianto di
organi, ritrovo lo stesso diniego nei medici e infermieri che devono fare una proposta di donazione
ai familiari di un paziente con morte cerebrale accertata. Il congiunto vivrà, con i suoi organi, in
altre persone che attendono un trapianto d’organo. Le difese dall’angoscia claustrofilica sembrano
raggiungere lo scopo di una rinascita forzata, sennonché gli operatori appaiono eccitati, concentrati
sul futuro del paziente trapiantato, svogliati nel riflettere sulla relazione con i familiari del morto.
Non sono contraria alla civile e generosa donazione degli organi,3 mi preoccupa il maniacale rigetto
dell’evento luttuoso.
Il mio gruppo della rianimazione torna ad essere la processione mesta che accompagna il bambino
morto, e Orietta si riconosce nei colleghi che esprimono tutta l’angoscia della veglia (così prescrive
la legge) accanto al paziente morto-cerebrale nell’attesa che passino le sei ore. Adesso nessuno
pensa al trapianto. Tutti piangono il morto.
Gli interventi successivi si riferiscono a ricordi o a ricordi di racconti uditi, sui riti funebri delle
proprie origini.
Adesso la donna, il femminile, è presente, testimone e protagonista della nascita e della morte,
anche nel racconto degli uomini del gruppo. Qualcuno butta lì, come per caso, che il lavoro
dell’infermiere ha una sua femminilità perché è prossimo al corpo.
“In verità, – scrive Winnicott (1958a, 362) – per riconoscere la dipendenza assoluta dalla madre e
la sua capacità di ‘preoccupazione materna primaria’, o comunque vogliamo chiamarla, è necessaria
un’estrema elaborazione, e questo è un livello non sempre raggiunto dagli adulti. Generalmente
non si riconosce la dipendenza assoluta degli inizi, ciò contribuisce a generare la paura della
DONNA, destino sia degli uomini sia delle donne”.
Il testo di Francesca
3
“Badate bene: sono assolutamente convinto della utilità – nei casi indicati – dei trapianti, così come sono convinto
della utilità della procreazione assistita o delle prospettive che si aprono all’umanità nel momento in cui la circolazione
di beni e di idee riguarda tutto il mondo.
Ma penso anche che, dietro queste lenzuola, possa annidarsi il fantasma della non-necessità dell’individuo, anzi della
necessità di annullarlo in quanto portatore di un elemento selvaggio e non riducibile, ossia di un elemento derivante, in
ultima analisi, dal quanto i desideri esprimano la violenza delle pulsioni.” (Semi, A.A. Filiazione, sviluppo teorico,
eclissi dell’individuo, letto al convegno Parricidio e figlicidio: crocevia d’Edipo e dintorni. Fondamenti della teoria e
clinica psicoanalitica. Rivista di Psicoanalisi, Venezia, 10 giugno 2005).
“L’episodio che desidero descrivere è accaduto molto tempo fa, ma è ancora vivo nella mia mente
ed ogni volta che ci penso mi rimetto in discussione professionalmente.
Era un paziente che si chiamava T. di circa 70 anni, ricoverato in terapia intensiva cardiologica con
infarto miocardico acuto, era cieco a causa del diabete, riconosceva le persone dalla voce. Era
lucido, cosciente e collaborante; avevo instaurato con lui un ottimo rapporto di fiducia attraverso la
voce.
Dopo il trasferimento nel reparto di medicina, a distanza di circa due mesi T. fu ricoverato in
rianimazione con edema polmonare acuto: per questo fu intubato e collegato ad un respiratore
automatico.
In quel periodo io stetti a casa per qualche giorno (non ricordo il motivo).
Quando tornai al lavoro e lessi il suo nome sulla lavagna ci rimasi male. Mi avvicinai al box dove
era allettato e vidi che era contenuto agli arti superiori.
La collega addetta all’assistenza di quell’uomo mi riferì che era agitato, confuso, che l’intubazione
era stata difficile e che aveva il timore che si togliesse il tubo o il catetere venoso centrale o altro.
Mi avvicinai a T. e lo salutai; mi sorrise leggermente facendomi capire che mi aveva riconosciuto e
poi cominciò a piangere.
La moglie mi chiese se gentilmente potevo togliere i lacci, seppure per pochi minuti. Dopo avergli
ribadito l’importanza di quei tubi, gli liberai le braccia.
Egli allora mi prese la mano e me l’ avvicinò al naso, facendomi capire che si doveva grattare;
dopodichè mi portò la mano sul suo addome massaggiandosi in modo circolare. Gli chiesi se aveva
dolore e mi fece cenno di sì; gli chiesi se voleva evacuare e mi disse di sì. Gli portai la padella ed
evacuò in quantità abbondante (non lo faceva da quattro giorni).
Dopo l’igiene intima parlai con lui che aveva ricominciato a piangere.
La moglie mi riferì che aveva vergogna di evacuare nel letto e che non aveva avuto la possibilità di
chiedere aiuto a causa del tubo e delle braccia contenute.
Provai a fidarmi di lui lasciandogli le mani libere. Gli consegnai il campanello in caso di bisogno.
Lo sorvegliai per un po’ da dietro il vetro (lui non poteva vedermi). Mi resi conto che potevo
fidarmi di lui.
Ma il suo comportamento non era lo stesso con tutti gli operatori: con alcuni, anche senza i lacci
alle braccia, egli rimaneva immobile e non suonava mai; con altri era più spontaneo e la sua
espressione era più o meno tirata a seconda dell’operatore che gli si rivolgeva, fosse medico o
infermiere.
T. ora è deceduto, ma penso a lui quando confronto il mio comportamento con un paziente, con
quello che ho con un altro”.
Francesca che ha appena letto il suo caso, aspetta i commenti dei suoi colleghi e anch’io aspetto.
“T. ora è deceduto” rimane nell’aria: nient’altro ora c’è da dire o fare. Qualcuno racconta di un
paziente attualmente in reparto che non evacua. Francesca dice che non è la stessa cosa: T. non
voleva perché aveva vergogna , “non è la stessa cosa non potere o vergognarsi. In un caso si oppone
il corpo, nell’altro non si vuole”. “Ma la mano dell’infermiera?” chiede un altro. Gli interventi
successivi si concentrano sui ricordi di pazienti toccati, lavati, accuditi. Sul toccare ed essere
toccati: non si può permettere a tutti, nemmeno se si è pazienti in ospedale, nemmeno in
rianimazione. Francesca e i suoi colleghi pensano che certamente
gli operatori non sono
intercambiabili. Come si fa? I turni, le esigenze dei pazienti, come si possono conciliare? Penso ai
luoghi comuni, al pensare corrente sulla spersonalizzazione della sanità. Come conciliare tale
sentire con il lavoro del mio gruppo? Mi accorgo che l’idealizzazione del mio gruppo mi porta
lontano da quella mano, da quel addome duro che tiene duro finché Francesca non ritorna e
provvede.
Francesca in realtà “vede” la sofferenza del suo paziente e opera come chi sa che “nel sintomo, si
fa conoscere innanzi tutto al soggetto come una limitazione della sua libertà, una realtà che si prova
come resistenza al suo volere, al suo potere di vivere e di provare la vita in sé. E questo è innanzi
tutto vissuto, radicalmente e assolutamente, come una sofferenza. Prima di ogni altra cosa, il
soggetto è originariamente soggetto di una sofferenza. Quale che sia il sintomo, lesionale, isterico o
ipocondriaco, il corpo vi si mostra soggettivamente come sofferenza.. E il soggetto di questa
sofferenza corporea è in attesa di occasioni per superare questa sofferenza. La sofferenza non è
solo un vissuto passivo. Lo è, è anzi una proprietà trascendentale della sofferenza, ma essa è anche,
contemporaneamente, protensione verso il mondo e verso l’altro, alla ricerca di un’occasione per
trasformare se stessa, per evolversi, superarsi” (Dejours 2002, 95).
E’ troppo dire che Francesca avverte, pur inconsapevolmente, che questo corpo, il corpo di T. non
è solo un corpo biologico ma un corpo erogeno? “Per quanto la libertà d’uso del corpo sia effettiva
solo quando esso è mosso dal desiderio o dalle attività sessuali, la sofferenza di cui sopra è non solo
corporea, è limitazione del potenziale erotico, del potenziale del godimento del proprio corpo e del
corpo altrui” (Ibidem).
Mi pare che anche la richiesta iniziale dell’ infermiera anziana, e l’angoscia claustrofilica, con la
quale ho dovuto fare i conti, partisse da un corpo erogeno prigioniero, limitato nel potenziale
erotico e, in definitiva, specchio già capace di riflettere il dramma del paziente oggetto di cure. Si
potrebbe dire che anche quella richiesta, fosse espressione del bisogno di “affrancarsi [dalla
limitazione del potenziale erotico] che fa
soffrire [e che] passa dunque fondamentalmente
attraverso un’attività che si chiama lavoro o Arbeit, nel testo freudiano” (ibidem). Il corpo come
“esigenza di lavoro” per il pensiero, intitola Dejours il suo capitolo, certamente riferendosi al
lavoro analitico con il paziente lesionale, isterico o ipocondriaco, ma io non posso non pensare
all’“esigenza di lavoro” degli operatori della Rianimazione, disposti ad andare al di là dell’azione
del gesto di cura e fino al gesto spontaneo e creativo.
Il testo di Lara
“Io non voglio parlarvi di un caso singolo o di un avvenimento in particolare, ma di una cosa molto
più generale che mi tedia : i cronici.
Spero vivamente che serva agli altri, sicuramente per me è uno sfogo o meglio un ‘vomitare’
sensazioni provate e mai dette.
A volte infatti provo delle sensazioni talmente forti... perché il paziente diventa un tuo parente e,
cosa non indifferente, ha un equilibrio talmente instabile .... questi pazienti vivono solo grazie a noi,
se vengono dimessi muoiono nell’arco di pochi giorni, al massimo pochi mesi. In quel momento ci
sentiamo completamente frustrati, perché tutto è diventato vano. I nostri sforzi diventano inutili.
Questi pazienti diventano pesanti da ogni punto di vista: fisico, psichico, morale. Io li assisto e
spesso mi sforzo talmente tanto che la sera vado a letto stremata. Forse è perché questi pazienti non
hanno bisogno solo di medicazioni o di un cambio flebo. Hanno bisogno di cure affettive. A volte
hanno semplicemente bisogno di una stretta di mano che mi costa moltissimo. Nonostante questo
mio enorme limite mi sono ritrovata con parenti e pazienti che mi chiedevano cose personali, per
cui ho capito che non rimango indifferente come credevo. Penso che di questi pazienti odio
l’egoismo con cui chiedono, chiedono, chiedono e si imbestialiscono se non sei veloce. Spesso il
primario chiede: ‘Cosa fareste se aveste un parente in questa situazione?’ Beh, io ci ho pensato
spesso a questa cosa, ma non so rispondere. Certo è che non vorrei vederlo soffrire e non vorrei che
si affezionasse alle cose della vita per così poco tempo”.
Lara si fa interprete dell’evoluzione del lavoro nel gruppo, sono passati tre anni dall’inizio e ormai i
gruppi sono diventati tre, il gruppo originario, il gruppo dei medici rianimatori e dei medici
anestesisti, il gruppo misto di infermieri e medici. Lara ci parla del tedio o meglio dell’odio per i
pazienti che non guariscono e mettono l’équipe di fronte allo smacco dell’onnipotenza guaritrice dei
sanitari. Altre volte abbiamo affrontato l’evidenza della precarietà della “missione” professionale,
dell’idealizzazione del proprio ruolo ma nessuno, come Lara, riesce a dire l’odio sottostante molte
amorevoli pratiche infermieristiche e mediche. Nessuno dei presenti ha niente da rimproverare a
Lara sul piano della condotta terapeutica ed assistenziale. Nessuno, salvo qualche riottoso seguace
dell’ “etica prima dei sentimenti”, le addebita tali sentimenti come solo ed esclusivamente suoi.
Tutti si scoprono “tediati” da almeno un paziente della propria storia professionale. Ma come si
permettono di morire o di non guarire se non c’è bisogno? Qualche paziente “si lascia andare”
nonostante le cure e le “reali” condizioni cliniche. C’è sorpresa e sollievo nel gruppo nello scoprire
che una parola tanto grossa come odio possa non essere contrapposta a cure assistenziali o amore
terapeutico. “Qualunque sia il suo amore per i pazienti, egli non può impedirsi di odiarli e temerli, e
più se ne rende conto meno lascerà che odio e timore determinino ciò che fa ai suoi pazienti”
(Winnicott, 1958b, 235).
Recentemente, a distanza di anni, partecipando ad una tavola rotonda sull’etica in medicina di area
critica in un’altra città ho incontrato tra il pubblico un’ infermiera del gruppo della rianimazione,
che non vedevo da tempo. Mi ha detto che la scoperta dell’odio era stata tra le più importanti e
formative della sua vita professionale.
A lungo questa nostra esperienza è stata l’unico esempio di lavoro psicologico con il personale di
un reparto di rianimazione e terapia intensiva in Italia. Sapevo in anticipo che sarebbe stato difficile,
sapevo che avrei lavorato con l’angoscia di morte sempre in primo piano.
Pontalis (1977) in “Sul lavoro della morte” scrive: “…l’espressione ‘lavoro della morte’ evoca
immediatamente, per analogia, certi termini freudiani familiari. Prima, quello del lavoro del sogno
(…). Poi quello del lavoro del lutto (…). Infine, ciò che rimarrà sempre, la definizione più generale
del Trieb, della pulsione: una costante esigenza di lavoro imposta ad un apparato psichico, le
complesse modalità di risposta a tale apparato a ciò che è per lui ‘corpo estraneo’ ma lo costringe a
funzionare essendo l’oggetto stesso dell’analisi. In effetti, il rapporto tra il lavoro della morte e
questi modelli di lavoro psichico è, lo vedremo, più che analogico” . E più avanti: “Ai miei occhi, la
tematica della morte è altrettanto costitutiva della psicoanalisi freudiana di quella della sessualità.
Penso anche che quest’ultima sia stata portata avanti per coprire l’altra. L’una e l’altra usciranno
tanto trasformate dall’opera freudiana, mediante il lavoro dell’apparato teorico, quanto la pulsione
mediante il lavoro dell’apparato psichico” (Ibidem, pp. 230 sg.).
Bibliografia
Fachinelli, E. (1983) Claustrofilia. Adelphi, Milano.
Dejours, Ch. (2002) Il corpo come «esigenza di lavoro» per il pensiero. In: R. Debray, Ch. Dejours,
P. Fédida, Psicopatologia dell’esperienza del corpo. Borla, Milano 2005.
Pontalis, J.-B. (1977) Sul lavoro della morte. In Tra il sogno e il dolore. Borla, Roma 1988.
Semi, A.A. Filiazione, sviluppo teorico, eclissi dell’individuo. Parricidio e figlicidio: crocevia
d’Edipo e dintorni. Fondamenti della teoria e clinica psicoanalitica. Venezia, 10 giugno 2005
Winnicott, D.W. (1958a) La preoccupazione materna primaria. In: Dalla pediatria alla psicoanalisi.
Martinelli, Firenze 1975.
Winnicott, D.W. (1958b) L’odio nel controtransfert. In: Dalla pediatria alla psicoanalisi. Op. cit..
RIASSUNTO
L’autrice racconta l’esperienza di lavoro con un gruppo di infermieri di un reparto ospedaliero di
rianimazione. Descrive, attraverso le parole degli operatori, i vissuti di “claustrofilia” di chi vi
lavorava, il rischio di diniego di fronte alla morte dei pazienti o di fronte al corpo pur vivo del
paziente cronico, la buona scoperta dell’odio (che, qui, rende possibile l’handling).
SUMMARY
Body, hospital, psychoanalysis
The author tells about her working experience with a group of nurses of a
reanimation ward. The author describes by operators’ words their experience of
“claustrophilia”, the risk of denial in front of the patients’ death or the chronic
invalids’ body still alive, the good discovery of hate that make possible the handling.
Key-words: reanimation ward – claustrophilia – denial – hate
Felicia Di Francisca
Via Della Fonderia, 34
50142 Firenze
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