Untitled - Rizzoli Libri

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Giampaolo Pansa
La destra siamo noi
Una controstoria italiana da Scelba a Salvini
Rizzoli
Proprietà letteraria riservata
© 2015 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-08050-7
Prima edizione: febbraio 2015
Realizzazione editoriale: studio pym / Milano
Prefazione
Chi ha paura del lupo?
Per molti anni, la parola “Destra” ha puzzato di cose
vecchie, di storie del passato, di personaggi tramontati da tempo, di comparse con la pretesa di occupare la
scena. Nell’Italia uscita dalla guerra civile, evocava un
mondo di fascisti sconfitti, di neofascisti minoritari, di
gruppi e gruppetti che agitavano bandiere più o meno
nere, ma non contavano nulla.
Indicava un’Italia senza potere e senza futuro. In grado soltanto di dedicarsi al culto di un grande scomparso: il regime di Benito Mussolini. Un cadavere che l’antifascismo riteneva di aver seppellito per sempre, dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale e poi nel
mattatoio del 1943-1945.
Se ripenso a quando avevo vent’anni, nella mia piccola città della provincia piemontese era di destra soltanto qualche reduce della Repubblica sociale e pochissimi giovani che si dichiaravano fascisti, pur sapendo
poco dei loro antenati. Immagino ci sia stato almeno
un consigliere comunale eletto nelle file del Movimento
sociale. Però mi accorgo di non rammentarne il nome.
Da cane sciolto e allergico a qualsiasi militanza, mi
consideravo di sinistra. Tuttavia leggevo anche autori
ritenuti di destra, come Giovanni Guareschi, o settimanali come “Il Borghese”, ma soltanto perché provavo
una forte curiosità per chi era lontano da me. Lo facevo soprattutto per incitamento del mio maestro libraio,
un liberale avveduto, che mi spingeva a uscire dal cerchio stretto della cultura legata al Pci, in quel momento imperante.
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Mentre scrivo, mi rendo conto di aver conosciuto bene soltanto un neofascista a pieno titolo. Era il barone
Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse. Aveva tre anni più
di me, era nato a Vercelli ma abitava nella nostra città.
Un giovane aitante, cortese, di buon carattere. Mi accadeva spesso di discutere con lui, senza eccessi di animosità. Ma al nostro gruppo di amici la sua posizione politica
interessava assai di meno della sua fama di dongiovanni.
Si raccontava che avesse conquistato le grazie di una
giovanissima attrice del cinema, arrivata dalle nostre
parti al seguito del marito. Staiti non veniva ritenuto un
violento, era soltanto un fascista appassionato, sia pure
pronto a litigare, di solito con i suoi camerati. A diciotto
anni, aveva preso la tessera del Msi. E rimase per molto
tempo nel partito di Giorgio Almirante, tanto da essere
eletto deputato per tre volte.
I fascisti li incontravo soltanto nei libri di storia. Ne
conobbi qualcuno che lo era stato quando iniziai a fare il
giornalista. Alla “Stampa”, il mio primo quotidiano, uno
dei colleghi, poi diventato un amico, aveva combattuto
nella Littorio, una divisione della Repubblica sociale. Il
corrispondente da una città importante si era arruolato
nella Brigata nera di Cuneo. Lo considerava un peccato
da non rivelare. Un giorno accettò di raccontarmi il suo
25 aprile in camicia nera. Però mi fece giurare che la testimonianza sarebbe stata pubblicata senza il suo nome.
Altri ex ragazzi di Salò, per usare un’etichetta sbrigativa che non mi piace, li conobbi quando andai a lavorare al “Giorno”, il quotidiano dell’Eni diretto da Italo
Pietra. Qui non pochi degli uomini di macchina, quelli
che si sobbarcano la fatica di fare il giornale, venivano
da due testate di destra senza fortuna. Una era appartenuta all’armatore Achille Lauro, il re di Napoli. Il leader dei monarchici aveva tentato inutilmente di crearsi
un avamposto a Milano grazie a un quotidiano improvvisato. I colleghi rimasti senza lavoro li aveva assunti
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Gaetano Baldacci, il fondatore del “Giorno”, mentre
metteva insieme la squadra della nuova testata.
Erano capiservizio, grafici, redattori esperti, tutti
professionisti di valore. Loro non nascondevano di essere stati militari della Rsi. Pietra, ex comandante partigiano, qualche volta gli chiedeva, per uno scherzo bonario: «Chi di voi ha bruciato la mia casa nell’Oltrepo
pavese, durante il rastrellamento dell’agosto 1944?».
Tutto si concludeva tra le risate.
Quello del “Giorno” mi appare un buon test di quanto stava accadendo nella società italiana. Eravamo a metà degli anni Sessanta. Un ventennio dopo la fine della
guerra civile, la differenza astiosa tra chi si era schierato con una parte e chi combatteva sul fronte opposto si
stava dissolvendo. In qualche caso con un po’ di lentezza, ma senza ripensamenti.
Invece la barriera tra antifascisti e fascisti, una parodia
mentale del muro di Berlino, resisteva immutata nei territori della militanza politica, sia quella rossa che quella
nera. Non esisteva nessun dialogo tra i missini da una
parte e gli antifascisti dall’altra. Potevano soltanto combattersi e qualche volta uccidersi.
In realtà si stava di nuovo presentando, o forse non
era mai scomparso del tutto, il clima feroce della guerra
civile. Il confronto peggiorò con il divampare del Sessantotto e la nascita dei gruppi che allora venivano definiti extraparlamentari. La legge numero uno degli ultrà di sinistra era di una brutalità animalesca e diceva:
“Uccidere un fascista non è reato”.
In questo libro vengono rievocati alcuni delitti compiuti da gruppi di sinistra ai danni di militanti o simpatizzanti della destra neofascista. Poi con la nascita delle
Brigate Rosse, all’inizio degli anni Settanta, gli scontri
tra rossi e neri divennero soltanto le tragiche sequenze
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di una sanguinosa resa dei conti senza più confini. Assassinare un magistrato, un manager, un operaio o un
giornalista contrari al terrorismo brigatista venne considerato un gesto di antifascismo militante.
Fu necessario arrivare all’inizio degli anni Novanta
per avere un quadro più chiaro del nuovo assetto che
stava prevalendo nella politica italiana. È quello che
regge ancora oggi. Non più fondato sul contrasto tra fascismo e antifascismo, bensì tra destra e sinistra. Il merito di questa svolta è di un leader politico non professionale, ma destinato a diventarlo e a restare sul campo
per molti anni, sino a questo 2015: Silvio Berlusconi.
È stato il Cavaliere a dare uno scossone a un mondo
che sembrava resistere a tutte le burrasche. Persino alla tempesta rovinosa di Tangentopoli.
Accadde il 23 novembre 1993. In quel momento era
in corso la battaglia per il sindaco di Roma fra due politici sulla cresta dell’onda: Francesco Rutelli e Gianfranco Fini. Berlusconi stava inaugurando un supermercato
a Casalecchio di Reno, in provincia di Bologna. I cronisti gli chiesero per chi avrebbe votato al ballottaggio fra
i due candidati. Lui non ebbe esitazioni e indicò Fini.
Poi aggiunse: «Se abitassi a Roma e non a Milano, voterei per lui poiché rappresenta bene i valori del blocco
moderato nei quali io credo: il libero mercato, la libera iniziativa, la libertà d’impresa, insomma il liberismo.
Se le forze moderate non si unissero, allora dovrei assumermi le mie responsabilità. Non potrei lasciare andare
il paese su una strada sbagliata senza far nulla».
Berlusconi doveva essere considerato un fascista, dal
momento che suggeriva di votare per Fini, cresciuto nel
Movimento sociale? Assolutamente no, anche se poi i
suoi avversari, tra i tanti peccati, gli rinfacciarono pure questo. Ho commesso anch’io il medesimo errore.
Quando lavoravo all’“Espresso” con Claudio Rinaldi,
pubblicammo una copertina dove il Cavaliere appariva
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un perfetto gerarca mussoliniano, in divisa e con i fasci
sul berretto.
Vorrei dire a molti miei colleghi: “Alzi la mano chi
non ha preso cantonate come questa!”. Berlusconi sembrava costruito apposta per eccitare la nostra sterile faziosità politica. In realtà il Cavaliere non possedeva la
struttura mentale, e neppure la volontà, per essere un
nuovo Mussolini. Preferiva piacere a tutti, amava essere amato, sapeva sorridere e non minacciare. Era sì un
uomo di destra, ma di una destra aliena dalla violenza
fisica, incline a promettere molto e a mantenere poco.
Tuttavia un merito gli va riconosciuto. Forse senza
rendersene conto, il Cavaliere ci obbligò a riesaminare
con attenzione la topografia della politica e della cultura italiane. Per disegnarla con criteri più moderni, realistici ed europei, su un asse semplificato: sinistra e destra. Liberandoci dal vecchio schematismo, diventato
una trappola: la contrapposizione tra fascismo e antifascismo.
Oggi definirsi antifascisti non ha senso. Chi non è
contro una dittatura nera? Continuano a dichiarare la
loro avversione al fascismo soltanto vecchi partigiani
ancora in vita e i loro nipoti politici, piccoli agitatori
convinti che il capitalismo, e il regime nero che ne deriva, siano due mostri pronti a schiavizzare l’umanità.
La stessa grottesca inutilità la rivela chi si affanna a dichiararsi anticomunista. Nell’Europa democratica il fascismo e il comunismo non esistono più. Oggi i pericoli
che insidiano la democrazia vengono da fanatismi religiosi pronti a sgozzare gli infedeli. Ce lo confermano
le cronache terribili di tanti conflitti sempre più vicini
all’Europa, come dimostra la strage di Parigi.
Nel 2015 la parola “Destra” non puzza più di fascismo.
Anche perché le destre italiane sono tante, quasi sem9
pre senza rapporti tra di loro e molto diverse. La destra
siamo noi racconta vicende e personaggi che dal 1945 al
1994, per cinquant’anni, hanno rappresentato nel bene
e nel male un’Italia poco descritta dai media per un motivo banale, ma implacabile: non apparteneva al campo
delle sinistre, quello dei vincitori. E dunque era un pianeta inesistente per la cultura, il giornalismo e la politica espresse dal Pci e dai suoi eredi.
Il lettore troverà qui anche figure che possono apparire fuori posto. Per esempio alcuni leader democristiani, come Mario Scelba e Amintore Fanfani. Capitani
d’industria come Eugenio Cefis e Cesare Romiti. Eroi
civili come Giorgio Ambrosoli. Star del giornalismo come Indro Montanelli. Spero di essere riuscito a spiegare
di volta in volta perché non sia sbagliato ricordarli sotto
il titolo La destra siamo noi.
Ho rinunciato di proposito a spingermi sino ai giorni nostri. L’Italia di questi ultimi anni è un paese soggetto a terremoti continui. Anche i leader politici cambiano e ne nascono di nuovi. È il caso di Matteo Salvini, il segretario leghista che ha la velleità di guidare il
centrodestra. Penso di aver ben chiaro in mente il suo
personaggio. E ne ho scritto più volte nei miei articoli
su “Libero”.
Mi sono domandato se il nuovo capo della Lega fosse
soltanto una meteora di passaggio o un politico destinato a durare, a contare molto, a cambiare il futuro della
destra italiana. Nell’incertezza, ho deciso di raccontarlo
nell’ultimo capitolo di questo libro, sia pure isolandolo
dal contesto.
Da noi si parla e si scrive troppo dei sussulti che rendono incerti i profili dei nostri partiti e dei loro leader.
Con il risultato di ritrovarci in tanti su una giostra che
non si ferma mai. La giostra può essere divertente. Mi è
piaciuta per tanti anni, ma adesso preferisco stare con i
piedi per terra e coltivare qualche certezza.
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Questo lavoro si fonda su una convinzione che provo a spiegare nel modo seguente. La destra è necessaria
alla sinistra, quanto la sinistra alla destra. In una democrazia parlamentare non soltanto possono convivere,
ma devono farlo. Perché entrambe sono indispensabili
a garantire la libertà di una nazione. Cercare di annullarsi a vicenda sarebbe il crimine peggiore. E aprirebbe
le porte a un caos capace di distruggere tutto.
Per molto tempo, in Italia abbiamo avuto paura del
lupo nero o del lupo rosso. È una constatazione che mi
ricorda una filastrocca recitata da mio padre Ernesto
quando ero bambino. Faceva così: «Hai mangiato? Hai
bevuto? Hai dormito per terra? Hai fatto la guerra? Hai
paura del lupo? Certamente no!». Anche nell’Italia del
2015 c’è ben altro che deve incuterci timore. E sappiamo tutti che cos’è: l’enorme mole dei nostri difetti e la
fragilità del mondo che sta attorno a noi e ci fa sentire
assai più deboli di un tempo.
Oggi i lupi veri non hanno più colore. È sufficiente
un crollo dei mercati finanziari, una battaglia di piazza,
un attentato islamico, un maxi scandalo come quello di
Roma, per renderci conto di chi sia il nemico che può
insinuarsi nelle nostre esistenze in qualsiasi momento.
Anche per questo, destra e sinistra dovrebbero trovare
un modo per convivere. Sarebbe il primo passo per non
temere di svegliarci una mattina e scoprire che abbiamo
di fronte soltanto macerie.
Infine, al lettore di La destra siamo noi devo un’avvertenza. In questo libro ci sono anche personaggi nati dalla mia fantasia. Il più importante è Giorgio Morsi, il
vecchio sbirro che mi accompagna lungo tutto il libro.
L’ho costruito perché avevo bisogno di un interlocutore, dal momento che i monologhi sono sempre noiosi e
stancano i lettori.
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