palazzo chigi: anni roventi

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palazzo chigi: anni roventi
MARIO LUCIOLLI
PALAZZO CHIGI: ANNI ROVENTI
Ricordi di vita diplomatica italiana
dal 1933 al 1948
Le Lettere
III
DOLCE EBBREZZA
Poco prima di essere nominato vice console a Zurigo (Oh dolce ebbrezza della prima destinazione all’estero, paragonabile solo al primo
amore!) avevo letto un passo di una corrispondenza di viaggio che
diceva pressappoco: «Nella scuola dell’Europa, la Svizzera è la prima
della classe. Silenziosa, ordinata e diligente, sembra appena accorgersi
dei suoi tanto più grandi e turbolenti compagni». Queste parole, sotto
l’ironia superficiale, contenevano un elogio meritato. Tuttavia, a ventiquattr’anni, avevo lasciato da troppo poco tempo i banchi di scuola per
nutrire simpatie verso i primi della classe. Perciò l’ordinato ritmo della
vita della Confederazione Elvetica suscitò in me più fastidio che ammirazione. Detestai la Polizeistunde1, cioè la chiusura obbligatoria dei
locali pubblici alle 23.45, e il Frauenverein2, fustigatore di ogni più innocua licenza, assai più di quanto viceversa apprezzassi il fatto di poter
lasciare in strada l’automobile senza chiuderne le portiere a chiave (e
magari, d’inverno, con una bella coperta sul radiatore perché il motore
non si raffreddasse troppo) e senza timore che la rubassero. Solo per
l’età molto avanzata di mio padre e il carattere apprensivo di mia madre
non chiesi una sede più lontana, esotica e avventurosa. Tuttavia Zurigo
non presentava soltanto quei vantaggi che allora ero meno in grado di
apprezzare, ma anche altri che sapevo già riconoscere. Ad esempio,
quello di farmi fare una buona esperienza di lavoro consolare.
Era allora prescritto che tutti i funzionari, prima di raggiungere il cosiddetto smistamento (cioè la biforcazione, che a quel tempo esisteva,
fra la carriera diplomatica e quella consolare) dovessero prestare almeno tre anni di servizio in sedi consolari. Quasi senza eccezione, quei tre
anni cominciavano con la prima destinazione all’estero, circa un anno
dopo l’ingresso nella carriera. Si riteneva, giustamente, che tutti i funzionari dovessero familiarizzarsi al più presto con un’attività che, se è
meno brillante di quella assegnata ai giovani segretari di una rappresen-
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Letteralmente: ora di polizia.
Unione delle donne.
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tanza diplomatica, è però più formativa, perché comporta contatti più
diretti con gli italiani all’estero, esige una buona conoscenza del diritto
civile, del diritto internazionale privato e, in certe sedi, del diritto marittimo, e infine abitua ad assumere presto responsabilità dirette.
Nei miei primi passi sulla via del servizio consolare non avrei potuto avere una guida migliore di quella che la sorte mi dette: il console
generale Dolfini. Questi era entrato prima della guerra mondiale nella
carriera consolare, allora completamente divisa da quella diplomatica,
e l’aveva percorsa brillantemente. Aveva così acquistato una profonda
esperienza, della quale profittai con entusiasmo. Possedeva anche una
vastissima cultura. Parlava e scriveva perfettamente numerose lingue,
fra cui il russo. Era un cultore del greco antico e ne rinfrescava continuamente la conoscenza leggendo Omero in un’edizione senza traduzione né note. Ogni tanto mi declamava qualche brano dell’Iliade
o dell’Odissea e si sorprendeva che io, uscito da pochi anni dal liceo
classico, non soltanto non condividessi il suo godimento, ma addirittura non intendessi quasi nulla.
Un anno dopo il mio arrivo a Zurigo, il console generale Dolfini
fu sostituito dal ventottista Gemelli, che era la perfetta antitesi di lui.
Medaglia d’Oro, mutilato di guerra, ex deputato del listone del 1924,
nazionalista fanatico e fascista convinto, meritava stima per la sincerità,
ma non per l’intelligenza dei suoi atteggiamenti. Per di più, dire che
era analfabeta significava esagerare di poco. Con lui, le parti furono
invertite: dal posto di allievo passai a quello di maestro e, se non mi fa
velo l’immodestia, fui meno fortunato di Dolfini per quanto riguarda le
capacità di apprendimento dell’allievo. In tema di servizio non riuscii
mai (faccio un esempio fra mille) a fargli capire quale differenza passi
legalmente tra la residenza e il domicilio. E, in fatto di cultura generale,
ricordo che davanti alle cascate del Reno a Sciaffusa commentò pensoso: «Quanta strada deve fare questo fiume per arrivare al Mar Nero!».
Nel 1934 gli italiani in Svizzera non costituivano ancora, come oggi,
un decimo circa della popolazione locale, ma erano già abbastanza
numerosi. Di conseguenza il lavoro amministrativo e legale dei consolati (passaporti, procure, successioni ecc). era intenso. Molti italiani
avevano una buona posizione, in qualche caso brillante, soprattutto
nel commercio e in quello della frutta in particolare. Altri, per lo più
muratori, soffrivano della crisi economica generale di quel tempo ed
erano disoccupati. Ogni mattina ne venivano molti a chiedere un sussidio (un untestizio, come i più dicevano, storpiando la parola tedesca
Unterstützung). Spettava al vice console affrontare quel triste pellegrinaggio, tenendosi faticosamente in equilibrio fra le molte miserie che
gli si rivelavano e il pochissimo denaro di cui disponeva. Gli organi
assistenziali svizzeri, a dire il vero, erano generosi e aiutavano gli operai
dolce ebbrezza
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stranieri quasi al pari dei nazionali. Sennonché una norma generale prescriveva che uno straniero, temporaneamente residente in Svizzera, che
fosse continuativamente a carico dell’assistenza pubblica, dovesse essere espulso. Ciò metteva in difficoltà i disoccupati di recente immigrazione, che erano provvisti non del permesso di residenza permanente
o Niederlassung, bensì di quello provvisorio o Aufenthaltsbewilligung.
Infatti costoro, accettando troppo frequentemente l’assistenza locale,
rischiavano l’espulsione. Ecco dunque aggiungersi al pellegrinaggio degli aspiranti all’untestizio quello dei candidati alla niderlassa. Ed ecco,
di conseguenza, tutta una serie di passi presso la Fremdenpolizei 3 per
evitare l’espulsione di Tizio o per ottenere la concessione del permesso
permanente a Caio.
Ovviamente queste attività e altre consimili, che assorbivano quasi
per intero le ore lavorative dei funzionari consolari di tutto il mondo,
non avevano nulla di fascista. Altre, di fascista avevano soltanto l’etichetta. Fra queste va ricordata la beneficenza, fatta con sovvenzioni
private. A Zurigo, come in molte altre sedi, le possibilità del consolato nel campo assistenziale non avrebbero consentito di fronteggiare
tutti i casi pietosi. Ne seguiva la necessità di utilizzare la generosità
dei connazionali benestanti e di formare, grazie ad essa, qualche fondo
più ingente. Queste risorse, sia perché legalmente non si prestavano ad
essere amministrate da un ufficio pubblico, sia perché al regime fascista
ripugnava che qualcosa di buono si facesse senza che gliene venisse un
merito, erano affidate al fascio locale, che quindi diventava una specie
di elemosiniere del consolato.
In qualche caso eccezionale e soprattutto in alcune sedi particolarmente importanti, il segretario del fascio era appositamente inviato da
Roma e, allora, i suoi rapporti col console erano talvolta tesi, perché egli
aveva le tendenza a considerare il console come un’espressione dello
Stato prefascista, che disgraziatamente il regime non era ancora riuscito
a mettere al passo, ma che doveva comunque ritenersi, di fatto, subordinato al rappresentante del Partito. A causa di questi conflitti qualche
testa di console cadde (soltanto metaforicamente, per fortuna!) ma nel
complesso il personale consolare ebbe abbastanza successo nel difendere le proprie prerogative, e allo stesso tempo lo stato di diritto.
Nella maggior parte dei casi, però, il segretario del fascio era scelto
localmente fra i connazionali che godevano di un certo prestigio personale a causa della posizione meritatamente conquistata con la loro
attività privata oppure che aspiravano ingenuamente a conquistarlo
attraverso l’esercizio di una carica semiufficiale. Costoro assumevano
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Polizia degli stranieri.
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l’incarico senza velleità rivoluzionarie e lo esercitavano senza faziosità.
Se c’era, come di fatto c’era, un trattamento discriminatorio in base
all’atteggiamento politico dei connazionali, esso era applicato soltanto
ai pochissimi che facevano aperta professione di antifascismo.
A lungo si è creduto, e in parte si crede tuttora, che i consolati avessero una funzione di sorveglianza, se non addirittura di persecuzione,
nei riguardi degli antifascisti. In realtà la polizia politica italiana agiva in
modo del tutto autonomo e senza che i consolati fossero minimamente
a conoscenza della sua attività, che, del resto, era intensa soltanto in pochi centri, come Parigi, dove i fuoriusciti erano numerosi e svolgevano
contro il regime un’intensa attività propagandistica. Era, invece, pressoché nulla altrove, perché l’antifascismo usciva a stento dall’ambito di
una più o meno aspra maldicenza. Anche a Zurigo, la sola collaborazione che il consolato era chiamato a dare alla polizia italiana in questo
settore consisteva nel cercare di seguire gli eventuali cambiamenti di residenza di coloro che il Ministero dell’Interno aveva schedato come antifascisti, in base a informazioni che esso aveva raccolte. Un formulario
a stampa di quel Ministero invitava il consolato generale ad accertare
«se il nominato in oggetto risiedeva tuttora al noto recapito e, nell’affermativa, se e quale attività politica aveva svolto negli ultimi tempi».
Il consolato generale, non disponendo di nessun servizio d’informazione proprio, non poteva fare altro che rivolgersi, attraverso qualche
intermediario, alla polizia svizzera. Questa dava abbastanza facilmente
informazioni sul recapito delle persone indicate, ma si asteneva scrupolosamente dal pronunciarsi sulla loro attività politica. Il Ministero
dell’Interno sarebbe stato, quindi, molto mal servito se fossero stati in
causa individui veramente pericolosi. Viceversa si sapeva benissimo che
si trattava di bottegai e di operai, la cui sola colpa consisteva nel dir
male di Mussolini o nel tenere appeso al muro un ritratto di Matteotti.
Un solo antifascista militante risiedeva a Zurigo. Si chiamava Fernando Schiavetti. Dopo la guerra, ebbe una certa notorietà come esponente dell’antifascismo più intransigente.
Io non ho mai creduto nel fascismo, se non, forse, all’età di quindici o
sedici anni. Non me ne vanto, perché, non avendo mai svolto attività antifascista, il merito che potrebbe derivarne alla mia intelligenza può contemporaneamente essermi sottratto in fatto d’intraprendenza. Ricordo
che, quand’ero studente universitario, un amico sinceramente fascista,
alla fine di una discussione con me e con altri due o tre compagni, rimase
molto scosso dalle nostre argomentazioni, ma in pari tempo sbottò in
questa frase: «Se la pensassi come voi, ordirei complotti ed organizzerei
attentati». Gli risposi che ero convinto che non sarebbe servito a nulla
e che quello era tempus tacendi. Tuttavia mi ero reso conto che il suo
atteggiamento, quantunque meno razionale, aveva più fascino del mio.
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Ammiravo Croce, i cui libri leggevo così avidamente che ne ho ancora impressi nella memoria brani interi, parola per parola. Avevo studiato attentamente il marxismo (mi ero laureato in storia delle dottrine
politiche, sotto la guida di Gaetano Mosca, con una tesi su Carlo Marx)
e apprezzavo l’influenza vivificatrice che il socialismo aveva avuto nella
società europea fra la fine del XIX e il principio del XX secolo, cosicché, pur ritenendo superata quella dottrina, stimavo fosse stata un
fattore di progresso. Avevo studiato anche le teorie corporative, con le
quali, quando frequentavo l’Università, il fascismo tentava di dare una
base scientifica alla sua politica. Ma le avevo subito giudicate del tutto
inconsistenti.
Era naturale che con questa formazione intellettuale fossi molto curioso di conoscere personalmente qualche antifascista attivo. Le autorità svizzere esigevano che tutti gli stranieri avessero un passaporto valido. Perciò, salvo rare eccezioni, anche gli antifascisti venivano almeno
una volta all’anno al consolato per rinnovare il loro. Il giorno in cui
seppi che Schiavetti era lì a quello scopo, ordinai che fosse introdotto
nel mio ufficio. Adesso mi rendo conto che si trattava di una curiosità
quasi infantile, ma credo che, come molte curiosità infantili, meritasse
d’essere soddisfatta. Non ricordo i particolari del colloquio, ma me ne è
rimasto impresso l’essenziale. Avevo creduto che la principale difficoltà
per me sarebbe stata quella di discutere col mio interlocutore senza
fare una difesa del fascismo, che, con le mie idee, non avrei saputo sostenere. Mi accorsi subito, però, che il suo indirizzo mentale mi offriva
ampia materia per polemizzare senza dover difendere il fascismo. In
sostanza vidi in ciò che mi disse una conferma di ciò che sospettavo e
cioè che l’antifascismo militante aveva del fascismo un concetto completamente errato. Lo giudicava, infatti, come un’autotrasformazione
volontaria dello Stato liberale, a difesa degli interessi conservatori con
esso connaturati. In base a ciò auspicava la caduta del fascismo come
un’operazione preliminare alla distruzione dello Stato liberale e alla realizzazione di schemi politici utopistici.
Allora intravedevo soltanto confusamente quanto d’ingenuo e soprattutto di pericoloso contenesse questa concezione. Col tempo, però,
sarebbe diventato evidente che le ideologie ottocentesche, ispiratrici
delle correnti politiche di sinistra, erano egualmente inette ad alimentare un’azione capace di far cadere il fascismo e a suggerire una politica
realistica dopo che il fascismo fosse caduto. L’esperienza doveva dimostrare che quel rivoluzionarismo anacronistico e velleitario sarebbe potuto diventare soltanto il battistrada del comunismo trionfante
oppure il corrucciato spettatore di un progresso ispirato da tutt’altre
idee e ottenuto con tutt’altri mezzi. Purtroppo il largo credito goduto
da quella concezione del fascismo, che era sostanzialmente conforme
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ai dogmi marxisti, doveva avere conseguenze gravissime, alimentando
fra l’altro l’ostinata fiducia di Roosevelt in una sostanziale identità tra
gli obiettivi americani e quelli sovietici in tema di assetto postbellico
dell’Europa e del mondo.
Quarant’anni fa non potevo prevedete nulla di tutto ciò. Tuttavia ero
troppo imbevuto di filosofia crociana, di storicismo e di scienza politica appresa da Gaetano Mosca per condividere l’atteggiamento degli
antifascisti come lo Schiavetti. Perciò il colloquio con costui manifestò
un completo disaccordo e deve avergli lasciato l’impressione di essersi
trovato di fronte a un convinto rappresentante del regime fascista. A
me, invece, non soltanto tolse la voglia di cercare altri contatti con gli
antifascisti, ma anche insegnò che soffrire per amore della libertà non
equivale sempre a operare affinché essa trionfi.
INDICE GENERALE
Prefazione di Francesco Perfetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
p.
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“Qualcuno agli Esteri” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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PRIME ESPERIENZE (1933-1938)
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
Il concorso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Iniziazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dolce ebbrezza. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Agenti segreti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La mia città preferita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Olimpo femminile nazista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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»
»
»
»
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37
41
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69
75
81
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PALCO DI PROSCENIO (1938-1943)
I. Lo stanzone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
II. Fra storia e aneddotica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
III. Ancora fra storia e aneddotica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
IV. Vado un momento in Australia… . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
V. …e torno subito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
VI. L’altro polo dell’Asse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
VII. Bis in idem . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
VIII. Una questione di costume . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
IX. Incontri con Mussolini. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
INTERMEZZO SPAGNOLO (1943-1944)
I. Udienza reale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
II. Spagna quasi neutrale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
III. Problemi di coscienza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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indice generale
IV. Renversement des alliances. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
V. Importanza delle virgole . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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NELL’ITALIA PROVVISORIA (1944-1948)
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
Escursioni nel giornalismo e nella politica . . . . . . . . . . . .
Missione speciale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
II “biglietto di ritorno” dell’Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La “carriera” sotto accusa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La “carriera” si riassesta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sforza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Indice dei nomi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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