RECENSIONI

Transcript

RECENSIONI
RE C ENS I ONI
E milio R. P apa , Storia di due manifesti.
Il fascismo e la cultura italiana - con
un saggio di Francesco Flora - Feltri­
nelli Editore, Milano, 1958, pagg. 167 L . 400.
Il piano del libro è delineato nella bre­
vissima prefazione in cui l’autore affer­
ma di non avere alcuna pretesa di rac­
cogliere in queste pagine la storia della
cultura italiana nel periodo fascista, ma
di aver solo voluto offrire al pubblico i
più significativi documenti del modo co­
me la cultura italiana ha reagito alla ri­
voluzione fascista.
11 libro ha prevalentemente carattere
di raccolta di documenti: comincia, in­
fatti, con un noto articolo del Flora sul­
la « Dignità dello scrittore » pubblicato
per la prima volta sul « Corriere della
Sera » del 26 agosto 1943 e ripubblicato
nel volumetto « Ritratto di un venten­
nio » edito nel 1944 — e finisce con te­
stimonianze e scritti di firmatari del
« Contromanifesto » crociano, pubblicato
sul « Mondo » il i° maggio 1925, nonché
con articoli intorno ad esso, pubblicati
su giornali dell’ epoca. Chiude un capito­
lo intorno al significato e valore del
0 Contromanifesto ».
Il libro, senza avere alcuna pretesa di
originale analisi interpretativa di un mo­
mento della storia d’Italia, ha, soprat­
tutto, il pregio di raccogliere e di colle­
gare insieme documenti non facilmente
reperibili e che, passati al necessario va­
glio critico, possono diventare materia
preziosa proprio per quella storia della
cultura italiana sotto il fascismo, che
l’autore non intende qui fare. A lui dob­
biamo, fra l’altro, il merito di aver ri­
chiamato alla nostra memoria certi aspetti grotteschi del fascismo, che, più
che altre testimonianze ormai entrate
nella retorica di certe rievocazioni, dan­
no di quello un’ idea più esatta, rispetto
ad alcuni suoi motivi inconfondibili, e
non fra i meno importanti. Certe pagine
che potrebbero offrire materia più o me­
no piacevole di facezie scherzose per i
giovani di oggi che non hanno conosciu­
to quei tempi, danno persino a noi, che
pur li abbiamo vissuti, uno stupore nuo­
vo. Oggi si ride e ci si diverte nel leg­
gere il « Manifesto dell’Ardito-Futurista » dello scrittore fascista Mario Carli,
qui in parte citato a pag. 5 1, e nessuno,
eccetto pochi che non hanno ancora sa­
puto dimenticare, immagina che vi sia
stato un tempo in cui quel manifesto ha
significato un aspetto, e non dei più tra­
scurabili, dell’ essenza stessa del fasci­
smo: dal Manifesto del Carli alle follie
tragicomiche di uno Starace, il passo non
sarà lungo. Purtroppo, e non sappiamo
ancora se questo sia un bene, gli Ita­
liani hanno dimenticato con una sorpren­
dente abilità, che, del resto, è conside­
rata una delle loro virtù, l’Italia di Sta­
race.
Il titolo fissa l’argomento centrale del
libro, gli antefatti e le conseguenze del
« Manifesto degli intellettuali fascisti »
redatto dal Gentile, e del « Contromani­
festo » redatto dal Croce, ambedue pub­
blicati nel 1925: l ’ uno, uscito dalla pen­
na di colui che si ritenne fino all’ultimo
il rappresentante legittimo della cultura
italiana, interprete ossequiente del nuo­
vo verbo politico che cercava a poste­
riori una radice nel pensiero filosofico
per creare a sè, con procedimento in­
verso, una base dottrinale, che poteva
illudersi di conquistare solo attraverso il
vile ossequio di troppi uomini di cultu­
ra: l’altro, la voce dignitosa di un pen­
siero e di una coscienza, che si manten­
nero fedeli nei lunghi anni della ditta­
tura.
Una storia minore riguarda coloro che
l’autore riferisce qui come i firmatari del­
l’uno e dell’altro manifesto; una storia
che, fatta per ciascuno di loro, si potreb­
be ricondurre ad alcuni denominatori co­
muni; da quel contrasto così vivo di lu­
ci e di ombre, trarrebbe certamente for­
za ed efficacia la pittura del costume ita­
liano nei vent’anni del fascismo.
Se credessimo davvero che la storia
sia maestra della vita, potremmo sperare
che da quel quadro venga agli italiani di
oggi anche un ammaestramento per il
futuro; basterebbe che essi consideras­
sero quanto breve sia il passo tra certe
posizioni mentali ed il loro concretarsi
nella pratica, e sapessero seriamente va­
lutare, ad esempio, la terribile gravità
di certe affermazioni come questa che
scegliamo a caso fra le molte citate in
questo volumetto: « La stampa più li­
bera del mondo intero è la stampa ita­
liana... Il giornalismo italiano è libero
Recensioni
perchè serve soltanto una causa e un
Regime ». (Paolo Orano, Educazione N a­
zionale, 1940).
B ianca C eva
M arie G ranet et H enri M ich el , « Com­
bat », histoire d ’ un mouvement de
résistance de juillet 1940 à juillet 1943,
Presses Universitaires de France, Pa­
ris, 1947, pp. 330.
Questo libro, indubbiamente importan­
te, uscito nella Collana « Esprit de la
Résistance », è la prima opera organica,
criticamente costruita, su un movimento
della resistenza francese. Non è opera
di memorialisti, nè di protagonisti cen­
trali del movimento, ma è il frutto sa­
piente di un esemplare metodo di ricer­
ca, che l’ esperienza e la struttura di un
istituto, quale il « Comité d ’histoire de
la deuxième guerre mondiale » di Pari­
gi, hanno reso possibile. E ’ sufficiente
ricordare come, oltre l ’esperimento degli
archivi e dei fondi contemporanei di Pa­
rigi, almeno 138 testimoni furono inter­
rogati, tra coloro che appartennero a
Combat o che ebbero rapporti con quel
movimento. Si potrebbe parlare di un
lavoro in équipe, ove il contributo di
ognuno non è stato riportato per se stes­
so, ma rifuso in una rielaborazione criti­
camente comparata: in ciò sta la novità
del costrutto.
Fondatore ed animatore di Combat è
il capitano Henri Frenay, ufficiale di Sta­
to Maggiore, evaso dalla prigionia tede­
sca. Uomo di sentimenti altamente pa­
triottici, quanto genericamente democra­
tici, animatore nato, egli ebbe il senso
dell’organizzazione quanto spirito di av­
ventura e fantasia coraggiosa. L ’ impo­
stazione della sua azione cospirativa è
un po’ schematica e risente della forma­
zione da scuola di guerra; ma lo spirito
è agile e l’azione si adatta mirabilmen­
te alle circostanze, forse più di quanto
a un militante politico, carico del baga­
glio ideologico (che manca al Frenay),
sarebbe riuscito di fare.
Inizialmente Frenay partecipa alla bu­
rocrazia di V ichy, ove ha un incarico al
secondo bureau dello Stato Maggiore,
che gli consente di intrattenere proficui
contatti con personaggi dell’Esercito del­
l’armistizio, in particolare con i servizi
del secondo e de] quinto bureau. Ma la
fiducia di operare utilmente nel governo
fti
del Maresciallo dura poco, ed il 28 gen­
naio 1941 egli si dimette ed entra del
tutto nella vita clandestina.
La sua concezione delTartnée secrète è
già matura nell’ agosto 1940: egli inten­
de il suo movimento alla maniera di
un esercito, diviso in tre settori: R.O .P.
(reclutamento, organizzazione, propagan­
da), informazioni, lotta armata. 11 Mou­
vement de Libération Nationale, tale è
il nome che gli ha dato, ha presto una
sua « filiazione » in Zona Nord, diret­
ta da Robert Guédon, vecchio compagno
d’ armi di Frenay, ma costituita su basi
autonome, per necessità di sicurezza e
di rapidità di decisioni.
Non per nulla le modalità di azione
vanno differenziandosi nelle due zone:
in quella Nord, occupata dai tedeschi,
prevale la lotta armata, mentre in quella
Sud, ove la vera occupazione è ancora
assente e sussiste una forza militare, do­
po tutto francese, che offre legittime
speranze di ricupero, l’azione prevalen­
te è quella politica di persuasione e di
penetrazione, e il programma militare è
proiettato nell’avvenire, verso l’ ipoteti­
co giorno dell’insurrezione generale.
E ’ in Zona Nord, dove la repressione
— con buona pace dei miliciens filo-na­
zisti di V ichy — è più implacabile e
crudele. Il movimento comincia ad es­
servi attaccato nell’ ottobre 1941 con i
primi arresti, ed è praticamente distrut­
to da quelli più vasti del febbraio 1942,
in seguito ai quali 17 uomini e 6 donne
saranno condannati a morte, ed i primi
uccisi con l’ ascia, nel gennaio 1944, a
Colonia.
Oltre a quello di Frenay, in Zona Sud
opera il movimento Liberté, ricco di ele­
menti intellettuali (in larga parte demo­
cratico-cristiani) giuristi, giornalisti, teo­
rici, uomini più di penna che di azione,
ma anche giovani ardenti (studenti, ope­
rai, ferrovieri), organizzati in gruppi
franchi da Jacques Renouvin. Con que­
sto secondo movimento, diretto dal de­
mocratico François de Menthon, profes­
sore alla facoltà di diritto di Nancy, e
con l’altro movimento detto Vérité, di
tendenze largamente cattoliche di sini­
stra, si fuse nel novembre ’41 l’orga­
nizzazione di Frenay, generando tutti in­
sieme Combat, dal nome del solo gior­
nale che i tre gruppi decisero di pub­
blicare.
La fisonomia umana e politica del nuo­
vo raggruppamento risultò ancor più va­
ria. Già Claude Bourdet, discepolo di J.
82
Recensioni
Maritain e di E . Mounier, nella prima­
vera del 1941 aveva constatato che at­
torno a Frenay stavano uomini di tutte
le tendenze politiche: dai socialisti, ai
monarchici, ai radicali massoni, ai demo­
cratico cristiani. Claude Bourdet, instal­
latosi a Lyon, diverrà il collaboratore più
vicino di Frenay, il quale rimarrà il vero
capo morale del movimento, anche se
nominalmente investito della sola dire­
zione degli affari militari, mentre quelli
politici e civili saranno affidati a Bour­
det e quelli esteri al « destro » Bénouville, elemento proveniente dall’Action
Française e qui utilizzato quale agente
diplomatico presso il Consolato ameri­
cano in Svizzera. N el comitato direttivo
entrerà pure, nel febbraio ’42, il demo­
cratico popolare Georges Bidault, nomi­
nato professore al liceo di Lyon.
E varia è pure la composizione socia­
le del movimento, come illustra un qua­
dro statistico nel corso del libro, secon­
do cui su 500 militanti « responsabili »
116 furono i liberi professionisti, 72 i
docenti universitari, 68 gli studenti, 63
gli operai e gli artigiani, 52 gli ufficiali di
carriera, 50 gli industriali e commercian­
ti, 34 i postelegrafonici, 18 i ferrovieri,
7 gli ecclesiastici, cattolici o protestanti,
ecc.
Movimento di ceti medi può dunque
dirsi Combat, con netta prevalenza del­
le professioni liberali e intellettuali. Esso
fu un tipico fenomeno della migliore co­
scienza media francese (neppur troppo
vasta in realtà, all’inizio dell’occupazio­
ne) che reagì alla catastrofe del '40 con
la condanna di quella che le appariva
essere la ragione stessa della crisi e cioè
la degenerazione della vita parlamentare
sotto la terza repubblica; degenerazione
che non avrebbe però dovuto andar con­
fusa col sistema stesso dei partiti, che
invece quella condanna troppo generica­
mente involgeva.
La negazione anche fisica dei vecchi
partiti, salvo la riserva di ricostituirli de­
rivandoli in futuro dagli organismi resi­
stenziali (Combat si urtò con De Gaulle
che volle invece, per sue evidenti ra­
gioni di manovra, rappresentati i vecchi
partiti nej « Conseil National de la Ré­
sistance »); il voler far rifluire — o me­
glio provvisoriamente dissolvere — ogni
energia politica individuata nel gran cal­
derone indifferenziato dell'amor patrio e
della [otta nazionale superpartitica (o
punitrice dei partiti), costituivano peri­
colose premesse per coloro che si pone­
vano come i fondatori del futuro regime.
Ogni esperienza antica, ogni consuetu­
dine politica precedente furono conside­
rate cose superflue e inutili e ciò che
sarebbe parso inammissibile in resisten­
ze di diversa formazione e preparazione,
come quella italiana, costituì la natura
stessa e il limite di quella francese non
comunista. Tale verità non è stata, a
parer nostro, sufficientemente penetrata
nelle sue ragioni storiche e ambientali
dagli A A . che, per quanto lodevolmente
obiettivi, si sono accontentati di acco­
gliere come ovvie tali risultanze, non
senza manifestare il loro stupore là dove
i militanti politici, quali i comunisti, sa­
ranno sorpresi a dissimulare, nell’ azione
comune, riserve politiche particolari.
E ’ vero che la situazione della Fran­
cia del ’40 consentiva in realtà questa
« disperazione » politica, questa chiusu­
ra, diremmo noi « qualunquista » verso
i frammenti di un regime crollato; il che
spiega anche come i non molti politici,
disposti alla resistenza, dovessero bus­
sare a titolo personale alle porte dei vari
movimenti, secondo criteri di pratica op­
portunità ed anche di funzionalità, ma
non di scelta politica, favorendone l’a­
spetto multicolore ed escludendoli viep­
più da ogni possibilità di qualificazione
politica. Ma è anche certo che il com­
portamento di Combat dal punto di vi­
sta di una politica della resistenza, non
può non apparire, a osservatori estranei
a quell’esperienza, estremamente disin­
volto e quasi irriflessivo, ancorché spie­
gabilissimo con Ja formazione e Ja fìsonomia dei suoi dirigenti.
Ecco taluni esempi. Combat giunge
tardi a De Gaulle. N ell’ottobre 19 4 1, al­
la vigilia della fusione, il clandestino V é­
rité scrive che la sola Francia non ha
rappresentanza legale a Londra, negan­
do con ciò ogni valore giuridico al go­
verno De Gaulle, al quale il movimento
non avrà ancora inviato alla fine dell’ an­
no alcun agente di collegamento. Gli
sguardi sono invece ancora volti all’one­
sto soldato Pétain, che si distingue per
dirittura dal suo entourage corrotto.
Il clandestino Vérité il 23 agosto 1941
plaude a V ichy per talune misure di po­
litica interna, quale l’abolizione dei vec­
chi partiti, la repressione della masso­
neria e per le « eccellenti riforme an­
nunciate ». Per parte sua Combat non
si leva contro le misure limitatrici delle
libertà, non protesta contro gli arresti
arbitrari dei comunisti. T ali prese di
Recensioni
posizione non rispondono tanto all’opi­
nione dei compilatori dei periodici —
spiegano gli A A . — quanto alla necessita, agli occhi del pubblico infatuato, di
« ménager Pétain ». Osservano ancora
gli A A . come a mantenersi intransigen­
ti fossero allora soltanto socialisti e co­
munisti.
Il cambiamento radicale delle posizioni
avverrà per Combat con il ritorno di
Lavai al potere (giugno 1942). Solo al­
lora il « venerato capo dello Stato » si
tramuterà nel « sinistro vecchio di V i­
chy ».
N el febbraio ’ 42 dopo che gli arresti
in Zona Sud si intensificano, Frenay, ac­
cettando una proposta di V ichy, s' in­
contra in assenza di Darlan con Pucheu,
il ministro dell’interno. Frenay in due
colloqui discute un suo progetto di tre­
gua: egli desisterà dall’attaccare con la
stampa Pétain e i suoi ministri se V i­
chy desisterà dal perseguitare i resisten­
ti. Si sparge Ja voce che un accordo è
stato raggiunto e scoppia tosto uno scan­
dalo clamoroso presso altri movimenti.
In particolare ciò accade presso l ’ altro
grande movimento della Zona Sud, Libération, a più larga base popolare e il
cui capo, E . D ’Astier de la Vigérie, è
un sincero uomo di sinistra. Gli A A . ri­
tengono sproporzionato il turbamento
nelle file dei resistenti per un fatto di
così lieve momento e lo attribuiscono al­
l’estrema loro suscettibilità.
Più tardi è ancora Frenay, che mosso
dal sacro zelo della riunificazione di tut­
te le forze francesi disponibili, non si
esime dall’incontrare G. Valois, colui
che amava presentarsi come uno dei pa­
dri spirituali del fascismo, e neppure dal
prender contatto con la Cagoule, alme­
no con quella parte di essa che si di­
chiarava antitedesca e antinazista. La
buona fede nella buona causa è eviden­
te: tuttavia il comportamento di Frenay
appare ancora una volta strettamente di­
pendente da un ambiente e da una men­
talità particolari.
Ed infine il programma confusamente
giacobino e anticapitalistico di Combat,
sino alla progettazione di future nazio­
nalizzazioni delle industrie chiave, poco
si accorda con talune sue premesse di
stampo, almeno psicologicamente, con­
servatore e con il rigetto pregiudiziale
di quelle alleanze politiche, che sole avrebbero potuto realmente sostenere i
rinnovamenti progettati. Non è senza si­
gnificato che scarsa sia stata la collabo­
83
razione di Combat — il -più grande dei
movimenti di Zona Sud — con i sinda­
cati operai, con cui più facilmente strin­
ge rapporti Libération. E ’ quest’ ultimo
movimento che ancora nel 1942, nono­
stante i buoni uffici di Jules Moch, ri­
fiuta di unirsi a Combat, che aveva re­
putazione — riconoscono gli A A . — per
il suo reclutamento e la sua concezione
militare della resistenza, di essere « axé
à droite ».
Tutto sta infatti qui a indicare l ’entu­
siastica
improvvisazione,
l’esperienza
troppo recente ed il permanente equivo­
co nazionalistico, sempre pronto a sol­
levare gli animi per poi lasciarli ricadere
delusi, quando i sogni progettati non
trovano la via politica adeguata alla rea­
lizzazione. Dopo tanta proclamazione di
formule socialistiche, pare infatti inge­
nuo voler far marciare insieme uomini
dell’Actjon Française e del Front Popu­
laire o che Frenay concludendo l ’appel­
lo a tutti gli uomini di buona volontà,
il 25 dicembre 1942, scriva: « Mainte­
nant il n’y a plus de droite ni de gau­
che, il y a la France ».
Ci siamo qui soffermati su un tema
che ci pareva di dover sottolineare, ma
innumerevoli sono gli argomenti impor­
tanti nell’opera di Michel e Granet, che
meriterebbero più di un accenno. Con­
cordiamo, per citarne uno, con la illu­
minata diagnosi circa la condotta degli
Alleati verso la resistenza, contraria (co­
me pure vedemmo essere in Italia) alla
costituzione di un vero esercito di po­
polo, e la penetrante indagine sul di­
verso atteggiamento, nelle varie epoche,
tenuto da inglesi e americani.
Diligentissimo è Io studio più partico­
larmente tecnico delle strutture del mo­
vimento, dall'esame dei servizi (informa­
zioni, propaganda, assistenza, finanze,
relazioni estere) a quello dei vari rami
di attività: gruppi franchi, armée se­
crète, azione operaia, maquis. A propo­
sito di quest’ ultimo abbiamo notato la
franca e antiretorica considerazione —
forse anche perchè il fenomeno in Fran­
cia è più marginale che altrove — che
a costituirlo abbiano sostanzialmente con­
tribuito i tedeschi con il loro servizio del
lavoro obbligatorio (S.T.O.); questo ge­
nerò un ceto di refrattari che fu poi com­
pito della resistenza, con l’aiuto della
necessità, di trasformare in combattenti.
Per concludere non abbiamo che da
auspicare che il risultato esemplare di
questo volume susciti, sulla linea meto­
Recensioni
&4
dologica qui felicemente provata, studi
altrettanto validi sugli altri movimenti
di resistenza in Francia e in Europa.
G. V
accarino
C. R. S. H a r r i s , Allied Military Adm i­
nistration of Italy, 1943-45, History
of the II World W ar, U . K . Military
Series edited by J. R. M. Butler,
London, H . M. Stationery Office,
1957, PP- X V I - 480.
Questo volume affronta un tema di
eccezionale importanza e delicatezza e
quindi è destinato a suscitare dibattiti
del massimo interesse storico. N e abbia­
mo visto un saggio, nella recensione fat­
tane da Lynn M. Case dell'Università
della Pennsylvania sul Journal of M odem
History (XXXI, pp. 67-68): oltre a rim­
proverare all’A . l’omissione di precisi
rinvii a piè di pagina alle fonti documen­
tarie, il Case lo ha accusato infatti di
tendenziosità nella considerazione dell’aipporto rispettivo di britannici ed ame­
ricani all’opera dell’A . M. G ., mettendo
in luce tutti i meriti degli uni e tutte le
deficienze degli altri. E forse noi italiani
potremmo aggiungere qualche altra riser­
va da parte nostra, sull’impostazione
stessa dell’opera. L ’ A . insiste sul suo
proposito di scrivere una storia esclusi­
vamente militare anziché politica. Ma la
verità storica è che la guerra in Italia
fu assai più che una partita militare tra
generali anglo-americani e tedeschi: fu
una guerra civile internazionale tra fa­
scismo ed anti-fascismo, di cui pertanto
non si può fare sul serio la storia, senza
partire inevitabilmente da una imposta­
zione politica. D ’ altra parte, per valutare
storicamente l ’opera di un governo, sia
pure militare, bisogna pur tenere conto
adeguato delle reazioni da esso suscitate
nei governati. Ed in questo senso non
siamo troppo certi che l’A . si sia docu­
mentato in maniera esauriente, come
pure gli sarebbe stato abbastanza facile.
Confessiamo di aver provato un certo
senso di disagio, nel vederlo prendere sul
serio gli scritti di un Tamaro, come par­
ticolarmente rappresentativi dell’opinione
italiana.
Con un uso più ampio e più criticamente avveduto di fonti italiane, l’A . avrebbe potuto controllare utilmente an­
che la validità di talune sue asserzioni
particolari. Egli mostra un entusiasmo,
sul quale non vorremmo gettare una
doccia fredda, per la efficienza degli uf­
ficiali della Polizia Metropolitana immessi
nell’A .M .G . o per i servigi resi dai Ca­
rabinieri nel mantere l ’ordine alle spalle
degli eserciti combattenti in Italia, ed in
linea di massima possiamo dargli una
certa ragione. Però ci sembra alquanto
ingenuo credere che davvero alcune de­
cine di funzionari inglesi, più o meno
ignari di cose italiane, ed alcune migliaia
di carabinieri, più o meno male in ar­
nese, siano stati capaci da soli di assi­
curare tanta tranquillità, quanta gli allea­
ti godettero, in complesso, dietro al loro
fronte italiano, benché la popolazione ci­
vile si dibattesse nella fame e nelle con­
dizioni più drammatiche : e confessiamo
che ci sembra un’ingenuità più degna di
un funzionario coloniale che non di uno
storico. Se quella popolazione, ridotta
alla fame e alla disperazione, non fosse
stata convinta della bontà politica della
causa per la quale si combatteva allora
contro il nazismo, e non fosse stata ali­
mentata in questa convinzione da un’o­
pera insistente e capillare da parte dei
partiti antifascisti, ci sarebbe voluto ben
altro che carabinieri o funzionari di
Scotland Yard per tenerla ferma! 1 tu­
multi verificatisi là dove l’antifascismo
era più debole che altrove, cioè in Sici­
lia, bastano a provarlo ampiamente. Ci
permettiamo anzi di assicurare l’A . che
non mancarono casi in cui i partiti fun­
zionarono in certo modo da schermo tra
l’A .M .G . e la popolazione civile, atte­
nuando gli effetti del contegno di qual­
che ufficiale non esattamente sovrabbon­
dante di tatto o di intelligenza.
Lo stesso problema sollevato dal Ca­
se, forse, troverebbe elementi utili alla
sua soluzione, attraverso un’indagine più
approfondita dei rapporti tra A .M .G . e
popolazione civile, specie se venissero
finalmente sollevate certe cortine pudi­
che, che anche il nostro A . preferisce
tener tuttavia abbassate. Supposto che
siano giustificate le critiche dell’ A . all elemento americano, sarebbe tempo di
dire con chiarezza cose c ’è di vero o di
falso in tutto quello che si è detto, e
magari stampato, a proposito di rap­
porti, che sarebbero intercorsi tra la ma­
lavita siciliana e taluni ambienti america­
ni: sarebbe tempo di investigare corag­
giosamente le ragioni vere, cioè le ra­
gioni politiche, del ricordo non sempre
felice, lasciato da un Poletti e da uno
Stone. Supposto invece il caso contrario,
Recensioni
varrebbe la pena di chiarire meglio i
motivi dell’ assai maggiore comprensione
dimostrata, da taluni ambienti americani
almeno, verso la Resistenza italiana. Nè
sarebbe poco interessante spiegare in
che modo si produssero fatti sconcertanti, come la creazione a tamburo battente di professori universitari (e addirittu­
ra di un’intera facoltà d i... « antropolo­
gia »!) in Sicilia. Dire la verità e tutta la
verità non ha mai fatto male a nessuno:
nè agli italiani nè agli inglesi o ameri­
cani.
Ma una voita elevati questi interro­
gativi e fatte queste riserve, occorre di­
re onestamente che il volume dello H ar­
ris costituisce un’opera di grande impor­
tanza storica. Non crediamo di esagera­
re, dicendo che la sua lettura sarà in­
dispensabile, da ora innanzi, per chiun­
que voglia avere un’idea esatta di ciò
che accadde nel nostro paese nel 1943-45.
Essa fornisce una massa di fatti vera­
mente imponente della massima impor­
tanza : ne offre un’ esposizione lucida e
sostanzialmente attendibile, sorretta non
di rado da un pregevole senso critico,
sia pure con qualche silenzio, come quel­
li cui sopra accennavamo. Essa fornisce,
oltre tutto, una guida per orientarsi nel
laberinto delle varie organizzazioni al­
leate operanti in Italia, nel cui groviglio
l ’italiano può facilmente sperdersi.
Per il lettore italiano, in particolare, è
una lettura preziosa per comprendere
molti aspetti della politica alleata verso
l’ Italia, che altrimenti resterebbero mi­
steriosi o quasi, nonché per valutare obiettivamente le difficoltà incontrate dall’A .M .G . od i criteri adottati per supe­
rarle. Eccezionale poi è l’interesse, con
il quale si leggono i capitoli relativi ai
rapporti intercorsi fra l'A .M .G . da una
parte ed i francesi o gli iugoslavi dal­
l’ altra, nelle regioni di confine dell’ Italia.
Specie per quanto riguarda i tentativi
francesi di mettere piede di qua dalle A l­
pi, anzi, c ’è qui un'autentica miniera di
dati poco meno che ignoti alla maggio­
ranza degli italiani.
N è vogliamo tacere che la lettura di
questo libro gioverà molto agli italiani
per farsi un concetto più obiettivo dell ’A .M .G ., ponendone in giusto risalto le
non poche benemerenze e gli innegabili
successi, riportati in circostanze sovente
di paurosa difficoltà, accanto agli errori
non sempre evitabili. A proposito dei
quali errori, del resto, gioverebbe a noi
italiani domandarci se un’ amministrazio­
85
ne militare, com’ era inevitabile che esi­
stesse dietro il fronte, avrebbe potuto
fare molto di più e molto meglio, in quei
frangenti terribili, qualora fosse stata
composta di ufficiali del nostro esercito,
anziché di anglo-americani.
In conclusione, dunque, il giudizio da
portare su quest’opera è complessiva­
mente positivo. Si potrà e si dovrà an­
dare oltre il punto raggiunto nelle sue
indagini dall’A .. In questo campo, anzi,
auspichiamo che si possa stabilire presto
una feconda collaborazione fra studiosi
americani, inglesi ed italiani. Ma non si
potrà nè dovrà davvero ignorare l’im­
portanza del contributo che Io Harris ha
recato alla nostra storia recente.
G iorgio S p in i
S il v e s t r i , Dalla redenzione al
fascismo. Trieste 1918-1922, Pref. di
Carlo Schiffrer, Udine, Del Bianco,
1959 - pagg. 158.
C la u d io
Diciamo subito che pienamente con­
senzienti ci trova l’inserimento in una
collana di saggi e documenti, come quella
di cui si è fatta benemerita promotrice
la Deputazione di Trieste per la storia
del movimento di Liberazione, del volu­
metto del Silvestri, che mira a ricostruire
le vicende della lotta politica triestina tra
il 1918 e il 1922, ossia il processo di svi­
luppo del fascismo nella città giuliana.
Ciò, cosi per motivi di ordine generale,
in quanto riteniamo che una messa a
fuoco precisa della Resistenza sul piano
storiografico presupponga sempre lo stu­
dio del fascismo e dell’antifascismo che
ne sono stati i precedenti storici imme­
diati, come, a maggior ragione, per i
motivi specifici suggeriti dall’esperienza
peculiare del fascismo nella regione giu­
ba, in cui l’esistenza di determinate con­
dizioni obiettive relativamente permanen­
ti, e quindi il ritorno a distanza di de­
cenni degli stessi temi di lotta politica,
sottolineano ulteriormente il legame in­
scindibile tra fascismo e Resistenza.
In altri termini, lo studio della Resi­
stenza giuliana comporta inevitabilmente
l’ analisi di tutta la precedente esperien­
za della regione nell’ambito delle strut­
ture statali italiane che coincide quasi in­
teramente con la dominazione fascista,
tanto più se è vero, come ribadisce e
dimostra appunto il Silvestri, che a Trie-
86
Recensioni
ste il fascismo si era impadronito delle
principali leve di comando ancor prima
della marcia su Roma, che diede sem­
plicemente la sanzione formale ad un
processo di sgretolamento dell’ autorità
dello Stato e di collusione tra autorità
governative e fascismo già consolidato e
concluso nei fatti. Nella generale caren­
za di studi particolari sulle origini del
fascismo, il volumetto del Silvestri reca
quindi un utile contributo di carattere
locale al miglior approfondimento della
crisi del primo dopoguerra, anche se evidentemente la situazione di Trieste,
con i suoi tratti peculiari, rischia di of­
frire un quadro deformante ove non si
tengano presenti le condizioni particolari
della città giuliana e i limiti dei suoi
problemi nell’ambito più generale della
scena politica italiana dell’epoca. Spiace
soltanto che, forse anche per i limiti in­
trinseci imposti dal carattere di divulga­
zione storica della collana, lo studio del
Silvestri più che offrire una ricostruzio­
ne puntuale degli eventi (si vedano per
esempio quanti spunti, episodi e citazio­
ni andrebbero ripresi, documentati an­
che cronologicamente e sviluppati) ne
presenti soltanto una trama che, per
quanto fitta, non si può considerare tut­
tavia ancora esauriente. Ma pur con que­
sti limiti, esso ha comunque il grande
merito di aprire, nella linea delle prime
intelligenti notazioni di Elio Apih sul­
l’ avvento del fascismo a Trieste (nel vol.
Italia del Risorgimento e mondo danubiano-balcanico, Udine, 1958, pp. 157186), una traccia sicura per lo studio ap­
profondito così delle insufficienze del­
l’amministrazione italiana nella Venezia
Giulia dal novembre del 19 18 all’ avven­
to del fascismo, della quale non esiste
ancora una analisi consistente, come del­
le origini del fascismo triestino.
Quest’ultimo, come sottolinea anche il
prof. Schiffrer nella sua prefazione, af­
fonda le sue radici nella crisi del vecchio
irredentismo e delle tradizionali forze po­
litiche locali, incapaci, una volta venuti
meno con l'unione all’Italia i motivi del­
l’agitazione nazionale, di sopravvivere
politicamente alla nuova situazione, della
quale il Silvestri mette bene in luce la
complessa problematica e le molteplici
componenti: lo scontro tra la nuova
realtà nazionale e la situazione econo­
mica (la classe mercantile e industriale
triestina essendo strettamente legata alla
politica protezionistica austriaca sulla qua­
le si erano fondate le fortune della città),
sul quale, smentendo U mito nazionali­
sta che la prosperità di Trieste dipen­
desse dalla sua posizione naturale lad­
dove essa era legata a una più comples­
sa situazione politica generale e al suo
inserimento in un certo ambito economi­
co, avevano richiamato l’attenzione, già
prima della guerra, i più avveduti critici
dell’ irredentismo, con alla testa il V i­
vante, a torto considerato anche da una
parte della pubblicistica democratica nel­
l’ambito della storiografia austrofila; l ’an­
titesi tra il nazionalismo antislavo e i fau­
tori democratici del principio nazionale;
la singolare fisionomia del socialismo trie­
stino, travolto da ultimo da una crisi po­
litica ed ideologica non meno devastatri­
ce di quella che travagliò le forze bor­
ghesi; e infine la presenza degli Slavi,
con i loro problemi e le loro rivendica­
zioni.
A Trieste il fascismo, che sfruttò am­
piamente anche la risonanza sentimentale
del combattentismo alla quale doveva es­
sere particolarmente sensibile la città giu­
liana, veniva a riempire appunto il vuo­
to aperto dalla dissoluzione delle forze
dirigenti tradizionali e dalla assoluta ca­
renza della politica governativa, che, ispirata in un primo momento a propo­
siti di moderazione nei rapporti con gli
Slavi (« libertà nella legalità »), finì da
ultimo facilmente preda delle posizioni
più estremiste, realizzando la più sfac­
ciata connivenza con lo squadrismo fa­
scista, l’ unico in grado, a detta dello
stesso commissario di governo Mosconi,
di combattere il « veleno » bolscevico.
In questa prospettiva il Silvestri svilup­
pa la sua ricerca, seguendo soprattutto
quelli che sono i due filoni principali e
più immediati sui quali si innesta nella
crisi del dopoguerra lo sviluppo del fa­
scismo: ossia da una parte la compo­
nente
combattentistico-nazionalistica
e
non di rado francamente imperialistica
(Ruggero Fauro aveva pur insegnato
qualcosa!), che trae alimento dalla esal­
tante spedizione dannunziana a Fiume, e
dall’ altra quella classista che si traduce
nella collusione tra fascismo e gran capi­
tale.
Se è relativamente facile scorgere la
germinazione e gli sviluppi del filone na­
zionalistico, a proposito del quale il Sil­
vestri indaga con cura i rapporti tra fa­
scismo e dannunzianesimo e il successi­
vo assorbimento di quest’ultimo da parte
del primo, più in ombra rimane la parte
relativa alla connivenza tra fascisti e ca­
pitalisti, nonostante gli esempi probanti
qui citati e l ’ineccepibile conclusione sul­
Recensioni
la convergenza nel fascismo della picco­
la borghesia patriottarda e dei grossi in­
teressi conservatori e capitalistici citta­
dini, che, come scrive felicemente l’A .,
videro nel fascismo la copertura nazio­
nale alla « realtà dei loro gretti interes­
si » e nello squadrismo l’ agognato stru­
mento per realizzare la repressione antioperaia e schiacciare il movimento pro­
letario. L ’ aiuto prestato dalle violenze
fasciste al padronato durante lo sciopero
dei cantieri di Monfakone del novembre
del 1921 e il bilancio spaventoso delle
distruzioni operate dai fascisti ai danni
delle istituzioni proletarie e di quelle sla­
ve —- distruzione della Camera del lavo­
ro, del Lavoratore, di circoli socialisti, di
organizzazioni e imprese slave, violen­
ze antidemocratiche in genere — sono
un linguaggio inequivocabile e incontro­
vertibile della coincidenza di interessi tra
fascismo e circoli capitalistici. A i fini tut­
tavia di stabilire anche la misura dell’ef­
fettiva convergenza tra i due gruppi, os­
sia della loro non occasionale alleanza,
non dovrebbe essere impossibile attinge­
re a nuove fonti documentarie, onde ac­
certare per esempio le fonti di finanzia­
mento dei fascisti locali e altri elementi,
politici e di fatto, sull’aiuto concreto re­
cato ai fascisti dai ceti capitalistici.
Si tratta, a nostro avviso, di un capi­
tolo che varrebbe la pena di esplorare
sino in fondo, così come bisognerebbe
verificare con maggior rigore gli spunti
interessanti, già segnalati dall’Apih e ri­
presi ora dal Silvestri, sul carattere an­
ticipatore in senso corporativo del pro­
gramma del fascismo triestino rispetto al
corporativismo fascista su scala naziona­
le. Non meno interessanti delle pagine
dedicate allo sviluppo del movimento fa­
scista sono quelle nelle quali, parallelamente, l’A . segue la crisi dei partiti tra­
dizionali, culminata nelle elezioni politi­
che del maggio 19 2 1, che segnano il
trionfo definitivo degli estremisti di de­
stra.
In conclusione, il volumetto del Silve­
stri apre la via ad una più esauriente e
complessiva ricostruzione delle origini
del fascismo nella città di Trieste, che se
non fu proprio la matrice del fascismo
italiano, ad esso tuttavia recò, per la
particolare temperie della polemica poli­
tica locale, un contributo di prim'ordine,
nella ricchezza della sua tematica nazio­
nalistica e nella prassi della violenza or­
ganizzata e sistematica contro le organiz­
zazioni democratiche e proletarie.
E nzo C o llo tti
87
R aimondo L uragh i , Il movimento ope­
raio torinese durante la Resistenza,
Ed. Einaudi, Torino, 1958, pagg. 372.
Che la Resistenza sia ormai uscita dal­
la fase agiografica e della memorialistica
spicciola e abbia varcato le soglie della
maggiore età storiografica, è un fatto
positivo e innegabile, testimoniato da
vari saggi apparsi in questi ultimi anni,
che della Resistenza stessa si sono pro­
posti la interpretazione, oppure ne han­
no illustrato criticamente aspetti ed epi­
sodi vari.
Ancora non è spenta l’ eco del saggio
di Secchia e Moscatelli, che sopravviene
quello di Raimondo Luraghi; il pregio
principale di questo saggio consiste prin­
cipalmente nel lavoro di ricostruzione
condotta con paziente abilità « istrutto­
ria » dal suo autore, il quale ha saputo
trascendere l ’accostamento comparativo
di innumerevoli frammenti di informa­
zione, e offrire una visione organica in
una esposizione spedita e scevra da pe­
santezze erudite, degli avvenimenti in­
dagati. Per rendersi conto del lavoro
immane che il Luraghi ha dovuto af­
frontare, bisogna dare uno sguardo alle
annotazioni: quivi sono minutamente in­
dicate le fonti documentali, quivi tro­
viamo la menzione specifica della impo­
nente mole testimoniale che l’ A . ha pa­
zientemente costruita. Un lavoro prepa­
ratorio accuratissimo dunque; e un lavo­
ro di critica selettiva e comparativa di
estrema delicatezza e difficoltà.
Del resto, chi ha vissuto da vicino,
sia pure non in qualità di protagonista,
quelle giornate e quei mesi, si può ren­
dere conto che nessuno, in cosiffatti mo­
menti, pensava o poteva pensare alla
storia che si sarebbe scritta. Se c’erano
documenti da distruggere, si distrugge­
vano, perchè la vita dei compagni di
lotta e delle organizzazioni valeva certo
di più dei documenti. Sono così rimasti
frammenti ed echi, tracce, impronte, la
cui interpretazione e la cui reciproca
connessione richiama, oltre che la perizia
dello storico, anche }a sagacia e il fiuto
dell’indagatore.
Com’è noto, il campo era già stato, ma
soltanto parzialmente, dissodato mercè
l’opera memorialistica del Massola e quel­
la saggistica del Vaccarino. Il Luraghi
invece non si è limitato all’episodio, ma
ha affrontato la più ampia prospettiva
dell’intero periodo resistenziale, in cui
agì e si inserì quale forza determinante
88
Recensioni
il movimento operaio torinese. Egli ha
scandagliato con ogni cura ogni possibile
fonte: e v ’ha ragione di ritenere che
assai difficilmente altre ne possano esse­
re reperite, che abbiano la idoneità di
modificare anche nei particolari l’ accer­
tamento svolto in questo saggio.
La Resistenza in Torino, oltre a essere
stata una delle più efficienti, delle più
organizzate e delle più provate (sotto tale
aspetto potrebbesi senz’altro parlare di
Resistenza piemontese, di cui al postutto
quella del capoluogo è parte integrante e
inscindibile, differenziandosi unicamente
per essere stata la sede degli organi di­
rettivi) presenta un più intenso e signi­
ficativo interesse per la partecipazione
diretta, di primo piano, in qualità di
protagonista, della classe operaia indu­
striale. La tradizione operaia torinese
non poteva non inserirsi quale forza de­
terminante nella lotta di liberazione, se
costituiva — come in effetti costituì e
costituisce tuttora — l’élite del proleta­
riato italiano, quale era stato diagnosti­
cato nelle ormai classiche opere di Gram­
sci e Gobetti. E infatti, come documenta
il Luraghi, la massa operaia torinese en­
trò nella lotta di liberazione con un en­
tusiasmo, uno spirito combattivo, un
senso di disciplina, quali era lecito at­
tendersi appunto dalla élite gramsciana
e gobettiana. Ma purtroppo — e questo
pure documenta il Luraghi — ebbe a ri­
petersi, sia pure in forma notevolmente
attenuata, quella inadeguatezza dei diri­
genti che per l’addietro (1919-1920) era
stata causa unica della disfatta da parte
di un proletariato che, animato da un
autentico e maturo spirito rivoluziona­
rio, era riuscito con (a occupazione delle
fabbriche (autunno 1920) a dare una mi­
sura delle proprie capacità e del proprio
potenziale di energia, superiore a ogni
più legittima aspettativa.
Ma nel 1943 è presente un fattore che,
sotto un certo punto di vista, si può di­
re nuovo. A prescindere infatti dalla du­
ra lezione e dalle amare esperienze del
passato, che non possono non aver fatto
meditare sui metodi, sulle responsabilità
e sulle direttive da assumere in una
temperie insurrezionale, nel 1943 è pre­
sente un Partito comunista — con tutti
i suoi pregi e con tutte le sue insuffi­
cienze, rilevate le une e gli altri dal
Luraghi — dotato di una consistenza nu­
merica, di una efficienza organizzativa, di
un potenziale di attacco e di difesa, del
tutto ignoti al piccolo partito di Antonio
Gramsci. Indubbiamente il Partito comu­
nista assunse subito — e non poteva non
assumere — la funzione di forza-guida
nella lotta: esso era d ’altronde, fra le
forze coalizzate, quella che offriva mag­
gior garanzia di serietà, di decisione, di
sicurezza nelle vedute e nei movimenti.
E ’ ben vero che a molti operai, pur ade­
renti alla ideologia comunista, non gar­
bava il dogmatismo tipico di questo Par­
tito, e che già faceva sentire il proprio
peso in quegli inizi di stagione democra­
tica del nostro Paese. Di qui il sorgere di
una corrente comunista autonoma, « Stel­
la Rossa », di cui il Luraghi rievoca assai
opportunamente, con abbondanza di par­
ticolari, la genesi, le vicende e la indole
politica fino al momento della riunifica­
zione nel seno del Partito. Si è detto:
assai opportunamente, perchè di tale
movimento poco si conosceva e si ricor­
d ava: ed è merito appunto dell’A . aver­
lo ritratto dall’ombra e averlo ricollocato
nel quadro degli eventi di cui fu parte­
cipe niente affatto secondario, secondo le
proporzioni che storicamente gli spettano.
Fu infatti « Stella Rossa » un movimento
di notevole consistenza, che assunse un
atteggiamento critico verso il P .C ., nella
cui impostazione organizzativa lamenta­
va la tendenza a imporre decisioni dal­
l’ alto e al cubo dei capi. Di fronte al
P.C. inoltre assunse un atteggiamento
« integralista », nel senso che la lotta
doveva essere sferrata non soltanto con­
tro i nazifascisti, ma benanche contro il
capitalismo borghese, che del fascismo e
del nazismo era stato la naturale matri­
ce. Il Luraghi definisce « ingenua » que­
sta posizione: e indubbiamente tale de­
ve essere considerata in riferimento a
una lotta che postulava una unione di
forze nazionali necessariamente eteroge­
nee; ma non si può negare che queste
parole del foglio clandestino « Stella Ros­
sa » fossero dotate di spirito profetico :
« Se il movimento proletario seguisse
« la via intrapresa dal Centrismo non ot« terrebbe che uno Stato ” legalmente ”
« borghese, ristabilito — somma ironia!
« — da comunisti, con un esercito ” po« litico ” comandato dai generali di Ba« doglio tipo Messe, con i carabinieri,
« con una polizia avente compiti e fun­
ic zioni anticomuniste, con una parziale
« ” nazionalizzazione ” diretta dagli stes­
ti si capitalisti, con la proprietà agraria
« nelle stesse mani di prim a... » (p. 209).
Questa corrente, insieme al P.C. — da
cui d ’ altronde accettava sostanzialmente
Recensioni
le direttive — e al Partito d’Azione, fu­
rono le forze più efficienti della lotta di
liberazione in seno al movimento ope­
raio. Minore efficienza presentavano in­
vece — a motivo della scarsa coesione or­
ganizzativa e di una mentalità alquanto
anacronistica — il Partito socialista e la
Democrazia cristiana. Il primo, con la
cattura di Filippo Acciarini e di Alfonso
Ogliaro, che ne furono gli elementi più
dinamici e intelligenti, subì una perdita
irreparabile, rimanendo in mano a uomi­
ni esitanti e non adeguatamente prepa­
rati alla lotta cospirativa.
E ’ naturalmente impossibile in questa
sede tracciare anche per sommi capi un
cenno su tutti i temi della complessa vi­
cenda in cui si estrinsecò il movimento
operaio considerato dal Luraghi. Taluni
di essi peraltro meritano di essere men­
zionati, in quanto contribuiscono a pre­
cisare su un piano documentale posizioni
e responsabilità di portata generale. A
tacere dei Tedeschi e dei loro metodi,
di cui TA. rievoca vivacemente fasti e
nefasti, è interessante sottolineare l'at­
teggiamento del capitalismo industriale e
della cosiddetta Repubblica sociale, su
cui il Luraghi si è lungamente intratte­
nuto, e di cui giustamente -s’è fatto ca­
rico di illustrare gli aspetti anche secon­
dari.
Il capitale industriale in buona sostan­
za si barcamenò in un abile doppio giuo­
co fra Tedeschi e partigiani: nel resi­
stere alle legittime e urgenti richieste di
aumenti salariali, faceva indubbiamente
i propri interessi, mostrando di soggia­
cere agli ordini degli occupanti e, verso
costoro, di essere ostile alle masse ope­
raie; nel cedere di fronte alle agitazioni,
mostrava di venire incontro alle esi­
genze dei lavoratori e, verso gli occu­
panti, di non averne potuto fare a meno.
Essi, commenta l’A . « non puntavano nè
« sul Reich hitleriano, nè sulla Resisten« za: per essi il porro unum era la sal« vezza degli interessi del capitale pri­
ce vato. Non diciamo che si trattasse di
« un obiettivo ignobile: affatto; e rico« nosciamo volontieri che nel consegui« mento di tale obiettivo qualcuno di
« essi diede prova di notevolissime qua­
le lità di sangue freddo, tempestività, dutee tilità. Da un lato si trattava di addor« mentare il rancore dei fascisti e la dif« fìdenza dei Tedeschi, ad evitare che essi
« deportassero in blocco i dirigenti della
ee Fiat e ponessero alla testa del grande
« complesso qualche loro scherano; e sin
89
<1 qui gli obiettivi dei dirigenti del corn­
ee plesso Fiat avrebbero potuto benissimo
ee coincidere con quelli della Resistenza,
« non essendovi alcun contrasto fra essi
« e gli interessi generali della collettività
ee nazionale; ma i massimi dirigenti della
« Fiat sembravano altresì voler evitare in
« modo assoluto di confondere la loro aee zione con quella della Resistenza; essi
ee volevano raggiungere i loro obiettivi
11 tenendo a bada la Resistenza, onde eee virare o ridurre al minimo lo scotto che
« gli interessi del capitale privato avreb« bero dovuto pagare domani al rinnova­
ci mento strutturale dell’ Italia: e qui, lo­
ie gicamente, i loro obiettivi divergevano
ee radicalmente
dagli interessi generali
et della maggioranza lavoratrice del popoet lo » (pagg. 289-90).
I fascisti. Era già fatto notorio che l’ u­
nica funzione delja cosiddetta repubblica
di Salò non sia stata altra da quella di
essere una longa manus del Comando te­
desco di occupazione: e più precisamen­
te la mano del sicario, del delatore, del
servo sciocco a tutto fare; e anzi su
questa realtà lo scrivente ebbe ripetutamente (anche dalle colonne di questa
Rassegna) a fondare l’affermazione di in­
dole giuridico-costituzionale, che non esistettero mai nè uno Stato nè un Go­
verno della sedicente Repubblica sociale
italiana. Alle già numerose testimonian­
ze in argomento, si aggiunge ora la pe­
rentoria documentazione del Luraghi, che
getta luce su episodi di carattere decisivo.
Già dal novembre 1943 i fascisti die­
dero prove insigni di impotenza e di
inutilità. Il 22 novembre gli operai to­
rinesi erano entrati in sciopero. Tale Rabecchi, esponente della Unione sindaca­
le fascista, che invano giorni innanzi aveva fatto promesse mirabolanti, si die­
de d ’attorno, e riuscì a ottenere dal Capo
della provincia un parziale accoglimento
delle richieste operaie. A questa notizia,
apparsa sui giornali a titoli di scatola, gli
operai risposero nel pomeriggio con la
estensione dello sciopero, che la mattina
appresso divenne generale. Senonchè, a
seguito di trattative poco opportunamen­
te intercorse fra la Commissione operaia
e il Comando tedesco, veniva diramato
un comunicato nel quale i Tedeschi scon­
fessavano l ’iniziativa fascista e promette­
vano una soluzione concordata. Il Rabecchi tornò alla carica e si sentì rispondere
dagli operai che l’unico rappresentante
da loro riconosciuto era Giovanni Roveda! Ma la serie delle umiliazioni non era
go
Recensioni
ancora terminata: il 24 la Direzione Fiat
comunicava che avrebbe trattato unicamente com le Commissioni interne (quel­
le elette dopo il 25 luglio), e di non vo­
lere altri intermediari, cioè i fascisti. Lo
stesso giorno il colonnello tedesco von
Klaus, in una concione tenuta agli ope­
rai della Mirafìori, precisò, tra blandizie
e minacce, che la sistemazione dei rap­
porti salariali sarebbe venuta entro il
mese dal Comando generale tedesco di
Milano, sottolineando che quella conte­
nuta nel comunicato fascista doveva con­
siderarsi nulla (pagg, 151-153). 1 fascisti
erano dunque dei poveri intrusi, respin­
ti da tutti, nemici e amici.
Se questo succedeva nel novembre
1943, è facile immaginare che cosa sareb­
be successo nel febbraio 1945, quando la
fantomatica repubblica volle consumare
l’ultima grottesca sua illusione: Ja socia­
lizzazione. Alle elezioni tenutesi nella
prima decade di marzo, su 32.676 eletto­
ri, si ebbero 31.450 astenuti, 547 schede
bianche, 274 schede nulle e 405 schede
valide! Ai fascisti non rimase che sfoga­
re i] loro livore col massacro della fami­
glia Arduino (pagg. 268-270).
Ma tutto ciò di cui si è detto finora
non è se non lo sfondo, il clima, la « tem­
perie » storica in cui si collocano gli eventi, ai quali il Luraghi ha dedicato il
più e il meglio delle sue fatiche. Si è ri­
tenuto peraltro di doverne dare il dovuto
rilievo, giacché l’A . ne ha sviluppato i
singoli temi con la accuratezza e la dili­
genza che si dèdica non ad argomenti
marginali, ma ad argomenti fondamen­
tali, dimostrando con ciò di aver fatto
ottimo governo della materia considerata,
giacche quei temi, oltre ad avere un va­
lore generale, che trascende l ’àmbito cir­
coscritto della città o della regione, co­
stituiscono le premesse, le concomitanti
e le concorrenti delle vicende rievocate
con più vicina prospettiva : quelle cioè
concernenti le agitazioni degli operai to­
rinesi.
Di queste non è possibile tracciare nep­
pure uno schizzo riassuntivo senza de­
pauperarne il significato vitale e denso di
passione rivoluzionaria, che soltanto la
sequenza dei dati particolari può rendere
in tutta la sua portata. Il Luraghi rievo­
ca le vicende degli scioperi, seguendone
gli sviluppi giorno per giorno, ora per
ora, mantenendo un distacco cronistico,
che si manifesta il modo più felice per
esprimerne Ja intensa drammaticità sen­
za neppure sfiorare la retorica. E non si
vorrebbe qui fare della retorica con l’ u­
sare quelle parole grosse che il Luraghi
ha evitato: ma certo si è che se l’ azione
degli operai torinesi non fu un'epopea,
fu qualcosa di assai vicino e di assai si­
mile. Essi, assai più dei loro dirigenti
— taluni dei quali pur raggiunsero l ’eroi­
smo e il martirio -— furono i veri prota­
gonisti della lotta: essi, col loro entu­
siasmo, col loro fervore, con la ferma
consapevolezza dei fini da raggiungere e
dei sacrifizi da affrontare; essi, con la in­
tuizione schiettamente rivoluzionaria del­
la realtà della situazione, assai più pron­
ta e viva di quella dei loro capitani, ta­
lora esitanti e in dissenso fra loro, scris­
sero una delle più gloriose pagine della
storia torinese.
Si è già avuto occasione di osservare
altrove che con la Resistenza si è avuta
per la prima volta in Italia l’apparizione
delle masse come protagoniste dirette del­
la storia nazionale. Con questo suo sag­
gio il Luraghi ha offerto e fornito una
prova solare e inconfutabile di tale real­
tà. Nel vasto ordito su cui corre la trama
delle vicende rievocate, appare una mi­
riade di nomi; ma invano si cercherebbe
fra essi, che pure annoverano figure umane di altissima statura, quella del con­
dottiero e del demiurgo. Non mancaro­
no — e non potevano mancare — le at­
tività direttive — C .L .N ., Comitati di
agitazione ecc. — ma anche queste si
concretarono in organismi collettivi, che
della massa furono espressioni genuine e
dirette, e nelle quali l’individuo singolo,
col suo intelletto e la sua volontà, con le
sue iniziative e i suoi olocausti, fu sol­
tanto la componente di una realtà più
vasta e complessa, che dobbiamo consi­
derare, come l’ha considerata il Luraghi,
quale entità autonoma, di cui gli intel­
letti, le volontà, le iniziative e gli olo­
causti sono elementi costitutivi, concor­
renti e necessari, non già nella loro som­
ma numerica, ma nella loro funzione in­
tegrativa e concreativa. Questa entità
autonoma, questa nuova realtà ha un suo
nome e un suo volto inconfondibile: si
chiama Resistenza.
A ntonino
R epaci
C e s a r e R o s s i , Trentatre vicende musso-
limane, Ed. Ceschina, Milano,
pp. 645 - L . 1600.
1958,
Se vogliamo esprimere un giudizio sin­
tetico su questo grosso volume — ij ter­
Recensioni
zo di Cesare Rossi, di cui Ceschina ha
voluto curare (il termine è alquanto be­
nevolo, considerata la presenza di una
notevole quantità di « refusi » che distur­
bano la lettura) la pubblicazione — po­
tremmo definirlo piacevole e, nei suoi li­
miti, interessante. E tale si rivela, in­
fatti, ad onta della mole piuttosto con­
siderevole, per le cose che l ’autore narra
e per il modo agile e spigliato con cui
esse sono narrate, proprio dello stile gior­
nalistico che il Rossi mostra chiaramente
di prediligere.
Da questi pochi cenni è facile com­
prendere come i) volume in questione,
privo di pretese strettamente scientifiche,
rientri invece a buon diritto nell’ampio
solco della memorialistica, cui reca senza
dubbio un valido contributo documen­
tario, commisurabile alla figura di Cesa­
re Rossi, per almeno un quinquennio in­
timo collaboratore di Mussolini. E ’ noto
come poi il Rossi, autore del famoso me­
moriale in cui si addossava al governo fa­
scista la responsabilità del delitto Mat­
teotti, abbia scontato questa rivelazione
con lunghi anni di dura prigionia nelle
carceri regie.
Della vicenda, però, il volume non può
certo dirsi conseguenza nel senso di la­
sciare trasparire un sentimento di ven­
detta, del resto abbastanza comprensi­
bile in chi ebbe a soffrire le persecuzio.ni del regime, che anzi, dalla lettura del
libro, non si può fare a meno di rile­
vare la simpatia che in fondo l ’ autore ha
conservato per Mussolini, il cui fascino
evidentemente non era un mito (e ben
lo sanno del resto anche parecchi di co­
loro che lo conobbero attivo militante
socialista) se resiste ancor oggi tenace­
mente all’ ingiuria del tempo e ai ranco­
ri personali.
Tuttavia la benevolenza che egli, no­
nostante tutto, continua a provare nei
confronti di Mussolini (a un certo mo­
mento arriva al punto di definirlo « uo­
mo di eccezionali doti che non hanno
nella storia italiana termini di compara­
zione »!) non fa quasi mai velo al Rossi
nel delineare il ritratto del defunto Du­
ce, felicemente inquadrato attraverso la
narrazione dei fatti che costituirono la
sua turbinosa e proteiforme vicenda ter­
rena. Si tratta, naturalmente, dato il ca­
rattere stesso del libro, di un ritratto
composito dove il gustoso (e sovente
piccante) pettegolezzo cronistico si me­
scola alla indagine psicologica, sia pure
sommaria, e alla ponderata valutazione
91
storica. Particolarmente interessante, sot­
to questo profilo, appare il capitolo de­
dicato agli attentati al dittatore, dove la
scrupolosa disamina dei fatti porta alla
conclusione che Mussolini aveva puntato
« sulla carta ” attentato ” come la più
psicologicamente adatta a raggiungere gli
scopi politici che aveva fissato », attuan­
do insomma una vera e propria « politi­
ca dell’attentato » che « risulterà la più
sapiente e la più vittoriosa del regime ».
N e risulta in tal modo un libro, come
già prima affermato, di indubbio inte­
resse, che riesce, forse meglio di altri, a
lumeggiare i molteplici contraddittori aspetti della sconcertante personalità mussoliniana attraverso l’indagine, ancorché
qua e là superficiale, dei gravi difetti e
degli innegabili pregi, saldati gli uni e
gli altri attraverso un sottile filo che è
poi quello che spiega la straordinaria for­
tuna dell’uomo, legata purtròppo alle di­
savventure del paese che ebbe a subirne
la dittatura.
G iorgio G u a l e r z i
A . W e i s s b e r g , La storia di Joel Brand,
Feltrinelli Edit., Milano, 1958 - L . 1300.
Questo libro ha destato grande scalpo­
re in Inghilterra e altrove: in Inghil­
terra, perchè vi vengono sollevati preci­
si quesiti sulla condotta tenuta nei con­
fronti degli ebrei dalla Gran Bretagna du­
rante la guerra e vi si prendono in esa­
me gravi questioni — quale l’uccisione
di Lord Moyne — che riguardano da vi­
cino il comportamento assunto dai diri­
genti britannici: e in Israele, a causa del
processo intentato dal dirigente del M A
PAI (1) Rudolf Kastner contro un cer­
to Griinwald che l ’aveva pubblicamen­
te descritto come collaborazionista in
Ungheria, dove entrambi risiedevano du­
rante la guerra, e come corresponsabile
della morte di centinaia di migliaia di
ebrei ungheresi. IJ processo KastnerGriinwald finì con l’assoluzione del Griin­
wald stesso che era stato denunciato dal
Kastner all’autorità israeliana quale ca­
lunniatore. Il Kastner è stato tragicamen­
te ucciso a revolverate da due estremisti
di destra qualche anno fa, mentre scen­
deva dalla sua automobile in una strada
di Tel-A viv.
(1) Il più forte partito governativo.
92
Recensioni
Adesso, con questo volume, ci troviamo di fronte al diario di Brand, cioè di
uno dei massimi dirigenti dell’ebraismo
ungherese che è stato protagonista e te­
stimone di una serie di disperati (o paz­
zeschi?) tentativi di salvare la comunità
israelita ungherese, tentativi falliti non
solo per la indiscussa ferocia nazista, ma
forse anche perchè i dirigenti ebrei non
seppero sfruttare le incertezze che divi­
devano il campo nazista, e forse perchè
gli alleati, e in particolare gli inglesi, si
rifiutarono con una certa leggerezza di
aiutare mezzo milione di persone sulla
soglia della morte. Evidentemente il dia­
rio di Brand è incompleto come tutti i
memoriali, però, come pochissimi altri
memoriali, strappa un velo da certe scot­
tanti questioni finora tenute nascoste ac­
curatamente e intorno alle quali molte
persone ritenute rispettabili si sono af­
fannate a mantenere un silenzio quanto
mai significativo.
Per conto mio ritengo che proprio per­
chè l ’affare è oscuro ed il Brand non
dirada tutte le oscurità, occorra dedicar­
si all’ investigazione del fatto con il mas­
simo zelo, con coraggio ed onestà, e cer­
tamente se ne verrà a sapere di più che
lasciando tranquillamente stagnare ogni
cosa.
11 Brand solleva in particolare questi
tre problemi:
1) Furono gli Alleati, con alla testa gli
inglesi, responsabili di aver lasciato ca­
dere delle proposte commerciali (!) naziste (10.000 camion per 1.000.000 di ebrei)
che avrebbero permesso di sottrarre allo
sterminio l’ebraismo ungherese?
2) Furono i dirigenti mondiali del sio­
nismo all'altezza del momento, compre­
sero l ’urgenza con cui andava trattata la
cosa o invece si comportarono in modo
irresponsabile?
3)
Furono i capi dell’ ebraismo unghe­
rese veramente dediti alla causa del sal­
vataggio dei loro correligionari, pur in
mezzo a errori e difficoltà enormi, oppu­
re nelle trattative prolungate che ebbero
con i nazisti, caddero, almeno alcuni, nel
collaborazionismo, nel tradimento, orga­
nizzando esclusivamente la loro salvezza
personale e quella dei loro amici?
Una attenta lettura del libro ci dà am­
pi motivi per porre questi quesiti; la nar­
razione stessa dei fatti giustifica, anzi,
impone il sorgere dei dubbi (ad esempio
vi si descrive il caso dell’unico treno ca­
rico di ebrei ungheresi che i nazisti non
diressero verso Auschwitz e i crematori,
ma fecero arrivare in salvo in Svizzera,
mentre più crudeli infuriavano le perse­
cuzioni). Il libro di Brand descrive fatti
veri, anche se tanto lontani dalla nostra
esistenza quotidiana da parere incredibili.
Esso espone in piena luce uno degli epi­
sodi più mostruosi della guerra, che ci
getta nell'abisso della tragedia, ma che
dimostra pure come i nazisti tanto pote­
rono perchè i loro oppositori erano trop­
po spesso deboli, con idee confuse, in­
capaci di valutare le vicende in cui era­
no coinvolti. E ’ veramente triste che una
tale testimonianza sia stata messa da par­
te dal pubblico, è oltremodo ingiusto
che essa sia caduta nel dimenticatoio.
Occorre reagire a questa cappa del si­
lenzio: mezzo milione di ebrei unghere­
si massacrati chiede ancora giustizia.
G u ido V a l a b r e g a