RECENSIONI
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RECENSIONI
RE C ENS I ONI E milio R. P apa , Storia di due manifesti. Il fascismo e la cultura italiana - con un saggio di Francesco Flora - Feltri nelli Editore, Milano, 1958, pagg. 167 L . 400. Il piano del libro è delineato nella bre vissima prefazione in cui l’autore affer ma di non avere alcuna pretesa di rac cogliere in queste pagine la storia della cultura italiana nel periodo fascista, ma di aver solo voluto offrire al pubblico i più significativi documenti del modo co me la cultura italiana ha reagito alla ri voluzione fascista. 11 libro ha prevalentemente carattere di raccolta di documenti: comincia, in fatti, con un noto articolo del Flora sul la « Dignità dello scrittore » pubblicato per la prima volta sul « Corriere della Sera » del 26 agosto 1943 e ripubblicato nel volumetto « Ritratto di un venten nio » edito nel 1944 — e finisce con te stimonianze e scritti di firmatari del « Contromanifesto » crociano, pubblicato sul « Mondo » il i° maggio 1925, nonché con articoli intorno ad esso, pubblicati su giornali dell’ epoca. Chiude un capito lo intorno al significato e valore del 0 Contromanifesto ». Il libro, senza avere alcuna pretesa di originale analisi interpretativa di un mo mento della storia d’Italia, ha, soprat tutto, il pregio di raccogliere e di colle gare insieme documenti non facilmente reperibili e che, passati al necessario va glio critico, possono diventare materia preziosa proprio per quella storia della cultura italiana sotto il fascismo, che l’autore non intende qui fare. A lui dob biamo, fra l’altro, il merito di aver ri chiamato alla nostra memoria certi aspetti grotteschi del fascismo, che, più che altre testimonianze ormai entrate nella retorica di certe rievocazioni, dan no di quello un’ idea più esatta, rispetto ad alcuni suoi motivi inconfondibili, e non fra i meno importanti. Certe pagine che potrebbero offrire materia più o me no piacevole di facezie scherzose per i giovani di oggi che non hanno conosciu to quei tempi, danno persino a noi, che pur li abbiamo vissuti, uno stupore nuo vo. Oggi si ride e ci si diverte nel leg gere il « Manifesto dell’Ardito-Futurista » dello scrittore fascista Mario Carli, qui in parte citato a pag. 5 1, e nessuno, eccetto pochi che non hanno ancora sa puto dimenticare, immagina che vi sia stato un tempo in cui quel manifesto ha significato un aspetto, e non dei più tra scurabili, dell’ essenza stessa del fasci smo: dal Manifesto del Carli alle follie tragicomiche di uno Starace, il passo non sarà lungo. Purtroppo, e non sappiamo ancora se questo sia un bene, gli Ita liani hanno dimenticato con una sorpren dente abilità, che, del resto, è conside rata una delle loro virtù, l’Italia di Sta race. Il titolo fissa l’argomento centrale del libro, gli antefatti e le conseguenze del « Manifesto degli intellettuali fascisti » redatto dal Gentile, e del « Contromani festo » redatto dal Croce, ambedue pub blicati nel 1925: l ’ uno, uscito dalla pen na di colui che si ritenne fino all’ultimo il rappresentante legittimo della cultura italiana, interprete ossequiente del nuo vo verbo politico che cercava a poste riori una radice nel pensiero filosofico per creare a sè, con procedimento in verso, una base dottrinale, che poteva illudersi di conquistare solo attraverso il vile ossequio di troppi uomini di cultu ra: l’altro, la voce dignitosa di un pen siero e di una coscienza, che si manten nero fedeli nei lunghi anni della ditta tura. Una storia minore riguarda coloro che l’autore riferisce qui come i firmatari del l’uno e dell’altro manifesto; una storia che, fatta per ciascuno di loro, si potreb be ricondurre ad alcuni denominatori co muni; da quel contrasto così vivo di lu ci e di ombre, trarrebbe certamente for za ed efficacia la pittura del costume ita liano nei vent’anni del fascismo. Se credessimo davvero che la storia sia maestra della vita, potremmo sperare che da quel quadro venga agli italiani di oggi anche un ammaestramento per il futuro; basterebbe che essi consideras sero quanto breve sia il passo tra certe posizioni mentali ed il loro concretarsi nella pratica, e sapessero seriamente va lutare, ad esempio, la terribile gravità di certe affermazioni come questa che scegliamo a caso fra le molte citate in questo volumetto: « La stampa più li bera del mondo intero è la stampa ita liana... Il giornalismo italiano è libero Recensioni perchè serve soltanto una causa e un Regime ». (Paolo Orano, Educazione N a zionale, 1940). B ianca C eva M arie G ranet et H enri M ich el , « Com bat », histoire d ’ un mouvement de résistance de juillet 1940 à juillet 1943, Presses Universitaires de France, Pa ris, 1947, pp. 330. Questo libro, indubbiamente importan te, uscito nella Collana « Esprit de la Résistance », è la prima opera organica, criticamente costruita, su un movimento della resistenza francese. Non è opera di memorialisti, nè di protagonisti cen trali del movimento, ma è il frutto sa piente di un esemplare metodo di ricer ca, che l’ esperienza e la struttura di un istituto, quale il « Comité d ’histoire de la deuxième guerre mondiale » di Pari gi, hanno reso possibile. E ’ sufficiente ricordare come, oltre l ’esperimento degli archivi e dei fondi contemporanei di Pa rigi, almeno 138 testimoni furono inter rogati, tra coloro che appartennero a Combat o che ebbero rapporti con quel movimento. Si potrebbe parlare di un lavoro in équipe, ove il contributo di ognuno non è stato riportato per se stes so, ma rifuso in una rielaborazione criti camente comparata: in ciò sta la novità del costrutto. Fondatore ed animatore di Combat è il capitano Henri Frenay, ufficiale di Sta to Maggiore, evaso dalla prigionia tede sca. Uomo di sentimenti altamente pa triottici, quanto genericamente democra tici, animatore nato, egli ebbe il senso dell’organizzazione quanto spirito di av ventura e fantasia coraggiosa. L ’ impo stazione della sua azione cospirativa è un po’ schematica e risente della forma zione da scuola di guerra; ma lo spirito è agile e l’azione si adatta mirabilmen te alle circostanze, forse più di quanto a un militante politico, carico del baga glio ideologico (che manca al Frenay), sarebbe riuscito di fare. Inizialmente Frenay partecipa alla bu rocrazia di V ichy, ove ha un incarico al secondo bureau dello Stato Maggiore, che gli consente di intrattenere proficui contatti con personaggi dell’Esercito del l’armistizio, in particolare con i servizi del secondo e de] quinto bureau. Ma la fiducia di operare utilmente nel governo fti del Maresciallo dura poco, ed il 28 gen naio 1941 egli si dimette ed entra del tutto nella vita clandestina. La sua concezione delTartnée secrète è già matura nell’ agosto 1940: egli inten de il suo movimento alla maniera di un esercito, diviso in tre settori: R.O .P. (reclutamento, organizzazione, propagan da), informazioni, lotta armata. 11 Mou vement de Libération Nationale, tale è il nome che gli ha dato, ha presto una sua « filiazione » in Zona Nord, diret ta da Robert Guédon, vecchio compagno d’ armi di Frenay, ma costituita su basi autonome, per necessità di sicurezza e di rapidità di decisioni. Non per nulla le modalità di azione vanno differenziandosi nelle due zone: in quella Nord, occupata dai tedeschi, prevale la lotta armata, mentre in quella Sud, ove la vera occupazione è ancora assente e sussiste una forza militare, do po tutto francese, che offre legittime speranze di ricupero, l’azione prevalen te è quella politica di persuasione e di penetrazione, e il programma militare è proiettato nell’avvenire, verso l’ ipoteti co giorno dell’insurrezione generale. E ’ in Zona Nord, dove la repressione — con buona pace dei miliciens filo-na zisti di V ichy — è più implacabile e crudele. Il movimento comincia ad es servi attaccato nell’ ottobre 1941 con i primi arresti, ed è praticamente distrut to da quelli più vasti del febbraio 1942, in seguito ai quali 17 uomini e 6 donne saranno condannati a morte, ed i primi uccisi con l’ ascia, nel gennaio 1944, a Colonia. Oltre a quello di Frenay, in Zona Sud opera il movimento Liberté, ricco di ele menti intellettuali (in larga parte demo cratico-cristiani) giuristi, giornalisti, teo rici, uomini più di penna che di azione, ma anche giovani ardenti (studenti, ope rai, ferrovieri), organizzati in gruppi franchi da Jacques Renouvin. Con que sto secondo movimento, diretto dal de mocratico François de Menthon, profes sore alla facoltà di diritto di Nancy, e con l’altro movimento detto Vérité, di tendenze largamente cattoliche di sini stra, si fuse nel novembre ’41 l’orga nizzazione di Frenay, generando tutti in sieme Combat, dal nome del solo gior nale che i tre gruppi decisero di pub blicare. La fisonomia umana e politica del nuo vo raggruppamento risultò ancor più va ria. Già Claude Bourdet, discepolo di J. 82 Recensioni Maritain e di E . Mounier, nella prima vera del 1941 aveva constatato che at torno a Frenay stavano uomini di tutte le tendenze politiche: dai socialisti, ai monarchici, ai radicali massoni, ai demo cratico cristiani. Claude Bourdet, instal latosi a Lyon, diverrà il collaboratore più vicino di Frenay, il quale rimarrà il vero capo morale del movimento, anche se nominalmente investito della sola dire zione degli affari militari, mentre quelli politici e civili saranno affidati a Bour det e quelli esteri al « destro » Bénouville, elemento proveniente dall’Action Française e qui utilizzato quale agente diplomatico presso il Consolato ameri cano in Svizzera. N el comitato direttivo entrerà pure, nel febbraio ’42, il demo cratico popolare Georges Bidault, nomi nato professore al liceo di Lyon. E varia è pure la composizione socia le del movimento, come illustra un qua dro statistico nel corso del libro, secon do cui su 500 militanti « responsabili » 116 furono i liberi professionisti, 72 i docenti universitari, 68 gli studenti, 63 gli operai e gli artigiani, 52 gli ufficiali di carriera, 50 gli industriali e commercian ti, 34 i postelegrafonici, 18 i ferrovieri, 7 gli ecclesiastici, cattolici o protestanti, ecc. Movimento di ceti medi può dunque dirsi Combat, con netta prevalenza del le professioni liberali e intellettuali. Esso fu un tipico fenomeno della migliore co scienza media francese (neppur troppo vasta in realtà, all’inizio dell’occupazio ne) che reagì alla catastrofe del '40 con la condanna di quella che le appariva essere la ragione stessa della crisi e cioè la degenerazione della vita parlamentare sotto la terza repubblica; degenerazione che non avrebbe però dovuto andar con fusa col sistema stesso dei partiti, che invece quella condanna troppo generica mente involgeva. La negazione anche fisica dei vecchi partiti, salvo la riserva di ricostituirli de rivandoli in futuro dagli organismi resi stenziali (Combat si urtò con De Gaulle che volle invece, per sue evidenti ra gioni di manovra, rappresentati i vecchi partiti nej « Conseil National de la Ré sistance »); il voler far rifluire — o me glio provvisoriamente dissolvere — ogni energia politica individuata nel gran cal derone indifferenziato dell'amor patrio e della [otta nazionale superpartitica (o punitrice dei partiti), costituivano peri colose premesse per coloro che si pone vano come i fondatori del futuro regime. Ogni esperienza antica, ogni consuetu dine politica precedente furono conside rate cose superflue e inutili e ciò che sarebbe parso inammissibile in resisten ze di diversa formazione e preparazione, come quella italiana, costituì la natura stessa e il limite di quella francese non comunista. Tale verità non è stata, a parer nostro, sufficientemente penetrata nelle sue ragioni storiche e ambientali dagli A A . che, per quanto lodevolmente obiettivi, si sono accontentati di acco gliere come ovvie tali risultanze, non senza manifestare il loro stupore là dove i militanti politici, quali i comunisti, sa ranno sorpresi a dissimulare, nell’ azione comune, riserve politiche particolari. E ’ vero che la situazione della Fran cia del ’40 consentiva in realtà questa « disperazione » politica, questa chiusu ra, diremmo noi « qualunquista » verso i frammenti di un regime crollato; il che spiega anche come i non molti politici, disposti alla resistenza, dovessero bus sare a titolo personale alle porte dei vari movimenti, secondo criteri di pratica op portunità ed anche di funzionalità, ma non di scelta politica, favorendone l’a spetto multicolore ed escludendoli viep più da ogni possibilità di qualificazione politica. Ma è anche certo che il com portamento di Combat dal punto di vi sta di una politica della resistenza, non può non apparire, a osservatori estranei a quell’esperienza, estremamente disin volto e quasi irriflessivo, ancorché spie gabilissimo con Ja formazione e Ja fìsonomia dei suoi dirigenti. Ecco taluni esempi. Combat giunge tardi a De Gaulle. N ell’ottobre 19 4 1, al la vigilia della fusione, il clandestino V é rité scrive che la sola Francia non ha rappresentanza legale a Londra, negan do con ciò ogni valore giuridico al go verno De Gaulle, al quale il movimento non avrà ancora inviato alla fine dell’ an no alcun agente di collegamento. Gli sguardi sono invece ancora volti all’one sto soldato Pétain, che si distingue per dirittura dal suo entourage corrotto. Il clandestino Vérité il 23 agosto 1941 plaude a V ichy per talune misure di po litica interna, quale l’abolizione dei vec chi partiti, la repressione della masso neria e per le « eccellenti riforme an nunciate ». Per parte sua Combat non si leva contro le misure limitatrici delle libertà, non protesta contro gli arresti arbitrari dei comunisti. T ali prese di Recensioni posizione non rispondono tanto all’opi nione dei compilatori dei periodici — spiegano gli A A . — quanto alla necessita, agli occhi del pubblico infatuato, di « ménager Pétain ». Osservano ancora gli A A . come a mantenersi intransigen ti fossero allora soltanto socialisti e co munisti. Il cambiamento radicale delle posizioni avverrà per Combat con il ritorno di Lavai al potere (giugno 1942). Solo al lora il « venerato capo dello Stato » si tramuterà nel « sinistro vecchio di V i chy ». N el febbraio ’ 42 dopo che gli arresti in Zona Sud si intensificano, Frenay, ac cettando una proposta di V ichy, s' in contra in assenza di Darlan con Pucheu, il ministro dell’interno. Frenay in due colloqui discute un suo progetto di tre gua: egli desisterà dall’attaccare con la stampa Pétain e i suoi ministri se V i chy desisterà dal perseguitare i resisten ti. Si sparge Ja voce che un accordo è stato raggiunto e scoppia tosto uno scan dalo clamoroso presso altri movimenti. In particolare ciò accade presso l ’ altro grande movimento della Zona Sud, Libération, a più larga base popolare e il cui capo, E . D ’Astier de la Vigérie, è un sincero uomo di sinistra. Gli A A . ri tengono sproporzionato il turbamento nelle file dei resistenti per un fatto di così lieve momento e lo attribuiscono al l’estrema loro suscettibilità. Più tardi è ancora Frenay, che mosso dal sacro zelo della riunificazione di tut te le forze francesi disponibili, non si esime dall’incontrare G. Valois, colui che amava presentarsi come uno dei pa dri spirituali del fascismo, e neppure dal prender contatto con la Cagoule, alme no con quella parte di essa che si di chiarava antitedesca e antinazista. La buona fede nella buona causa è eviden te: tuttavia il comportamento di Frenay appare ancora una volta strettamente di pendente da un ambiente e da una men talità particolari. Ed infine il programma confusamente giacobino e anticapitalistico di Combat, sino alla progettazione di future nazio nalizzazioni delle industrie chiave, poco si accorda con talune sue premesse di stampo, almeno psicologicamente, con servatore e con il rigetto pregiudiziale di quelle alleanze politiche, che sole avrebbero potuto realmente sostenere i rinnovamenti progettati. Non è senza si gnificato che scarsa sia stata la collabo 83 razione di Combat — il -più grande dei movimenti di Zona Sud — con i sinda cati operai, con cui più facilmente strin ge rapporti Libération. E ’ quest’ ultimo movimento che ancora nel 1942, nono stante i buoni uffici di Jules Moch, ri fiuta di unirsi a Combat, che aveva re putazione — riconoscono gli A A . — per il suo reclutamento e la sua concezione militare della resistenza, di essere « axé à droite ». Tutto sta infatti qui a indicare l ’entu siastica improvvisazione, l’esperienza troppo recente ed il permanente equivo co nazionalistico, sempre pronto a sol levare gli animi per poi lasciarli ricadere delusi, quando i sogni progettati non trovano la via politica adeguata alla rea lizzazione. Dopo tanta proclamazione di formule socialistiche, pare infatti inge nuo voler far marciare insieme uomini dell’Actjon Française e del Front Popu laire o che Frenay concludendo l ’appel lo a tutti gli uomini di buona volontà, il 25 dicembre 1942, scriva: « Mainte nant il n’y a plus de droite ni de gau che, il y a la France ». Ci siamo qui soffermati su un tema che ci pareva di dover sottolineare, ma innumerevoli sono gli argomenti impor tanti nell’opera di Michel e Granet, che meriterebbero più di un accenno. Con cordiamo, per citarne uno, con la illu minata diagnosi circa la condotta degli Alleati verso la resistenza, contraria (co me pure vedemmo essere in Italia) alla costituzione di un vero esercito di po polo, e la penetrante indagine sul di verso atteggiamento, nelle varie epoche, tenuto da inglesi e americani. Diligentissimo è Io studio più partico larmente tecnico delle strutture del mo vimento, dall'esame dei servizi (informa zioni, propaganda, assistenza, finanze, relazioni estere) a quello dei vari rami di attività: gruppi franchi, armée se crète, azione operaia, maquis. A propo sito di quest’ ultimo abbiamo notato la franca e antiretorica considerazione — forse anche perchè il fenomeno in Fran cia è più marginale che altrove — che a costituirlo abbiano sostanzialmente con tribuito i tedeschi con il loro servizio del lavoro obbligatorio (S.T.O.); questo ge nerò un ceto di refrattari che fu poi com pito della resistenza, con l’aiuto della necessità, di trasformare in combattenti. Per concludere non abbiamo che da auspicare che il risultato esemplare di questo volume susciti, sulla linea meto Recensioni &4 dologica qui felicemente provata, studi altrettanto validi sugli altri movimenti di resistenza in Francia e in Europa. G. V accarino C. R. S. H a r r i s , Allied Military Adm i nistration of Italy, 1943-45, History of the II World W ar, U . K . Military Series edited by J. R. M. Butler, London, H . M. Stationery Office, 1957, PP- X V I - 480. Questo volume affronta un tema di eccezionale importanza e delicatezza e quindi è destinato a suscitare dibattiti del massimo interesse storico. N e abbia mo visto un saggio, nella recensione fat tane da Lynn M. Case dell'Università della Pennsylvania sul Journal of M odem History (XXXI, pp. 67-68): oltre a rim proverare all’A . l’omissione di precisi rinvii a piè di pagina alle fonti documen tarie, il Case lo ha accusato infatti di tendenziosità nella considerazione dell’aipporto rispettivo di britannici ed ame ricani all’opera dell’A . M. G ., mettendo in luce tutti i meriti degli uni e tutte le deficienze degli altri. E forse noi italiani potremmo aggiungere qualche altra riser va da parte nostra, sull’impostazione stessa dell’opera. L ’ A . insiste sul suo proposito di scrivere una storia esclusi vamente militare anziché politica. Ma la verità storica è che la guerra in Italia fu assai più che una partita militare tra generali anglo-americani e tedeschi: fu una guerra civile internazionale tra fa scismo ed anti-fascismo, di cui pertanto non si può fare sul serio la storia, senza partire inevitabilmente da una imposta zione politica. D ’ altra parte, per valutare storicamente l ’opera di un governo, sia pure militare, bisogna pur tenere conto adeguato delle reazioni da esso suscitate nei governati. Ed in questo senso non siamo troppo certi che l’A . si sia docu mentato in maniera esauriente, come pure gli sarebbe stato abbastanza facile. Confessiamo di aver provato un certo senso di disagio, nel vederlo prendere sul serio gli scritti di un Tamaro, come par ticolarmente rappresentativi dell’opinione italiana. Con un uso più ampio e più criticamente avveduto di fonti italiane, l’A . avrebbe potuto controllare utilmente an che la validità di talune sue asserzioni particolari. Egli mostra un entusiasmo, sul quale non vorremmo gettare una doccia fredda, per la efficienza degli uf ficiali della Polizia Metropolitana immessi nell’A .M .G . o per i servigi resi dai Ca rabinieri nel mantere l ’ordine alle spalle degli eserciti combattenti in Italia, ed in linea di massima possiamo dargli una certa ragione. Però ci sembra alquanto ingenuo credere che davvero alcune de cine di funzionari inglesi, più o meno ignari di cose italiane, ed alcune migliaia di carabinieri, più o meno male in ar nese, siano stati capaci da soli di assi curare tanta tranquillità, quanta gli allea ti godettero, in complesso, dietro al loro fronte italiano, benché la popolazione ci vile si dibattesse nella fame e nelle con dizioni più drammatiche : e confessiamo che ci sembra un’ingenuità più degna di un funzionario coloniale che non di uno storico. Se quella popolazione, ridotta alla fame e alla disperazione, non fosse stata convinta della bontà politica della causa per la quale si combatteva allora contro il nazismo, e non fosse stata ali mentata in questa convinzione da un’o pera insistente e capillare da parte dei partiti antifascisti, ci sarebbe voluto ben altro che carabinieri o funzionari di Scotland Yard per tenerla ferma! 1 tu multi verificatisi là dove l’antifascismo era più debole che altrove, cioè in Sici lia, bastano a provarlo ampiamente. Ci permettiamo anzi di assicurare l’A . che non mancarono casi in cui i partiti fun zionarono in certo modo da schermo tra l’A .M .G . e la popolazione civile, atte nuando gli effetti del contegno di qual che ufficiale non esattamente sovrabbon dante di tatto o di intelligenza. Lo stesso problema sollevato dal Ca se, forse, troverebbe elementi utili alla sua soluzione, attraverso un’indagine più approfondita dei rapporti tra A .M .G . e popolazione civile, specie se venissero finalmente sollevate certe cortine pudi che, che anche il nostro A . preferisce tener tuttavia abbassate. Supposto che siano giustificate le critiche dell’ A . all elemento americano, sarebbe tempo di dire con chiarezza cose c ’è di vero o di falso in tutto quello che si è detto, e magari stampato, a proposito di rap porti, che sarebbero intercorsi tra la ma lavita siciliana e taluni ambienti america ni: sarebbe tempo di investigare corag giosamente le ragioni vere, cioè le ra gioni politiche, del ricordo non sempre felice, lasciato da un Poletti e da uno Stone. Supposto invece il caso contrario, Recensioni varrebbe la pena di chiarire meglio i motivi dell’ assai maggiore comprensione dimostrata, da taluni ambienti americani almeno, verso la Resistenza italiana. Nè sarebbe poco interessante spiegare in che modo si produssero fatti sconcertanti, come la creazione a tamburo battente di professori universitari (e addirittu ra di un’intera facoltà d i... « antropolo gia »!) in Sicilia. Dire la verità e tutta la verità non ha mai fatto male a nessuno: nè agli italiani nè agli inglesi o ameri cani. Ma una voita elevati questi interro gativi e fatte queste riserve, occorre di re onestamente che il volume dello H ar ris costituisce un’opera di grande impor tanza storica. Non crediamo di esagera re, dicendo che la sua lettura sarà in dispensabile, da ora innanzi, per chiun que voglia avere un’idea esatta di ciò che accadde nel nostro paese nel 1943-45. Essa fornisce una massa di fatti vera mente imponente della massima impor tanza : ne offre un’ esposizione lucida e sostanzialmente attendibile, sorretta non di rado da un pregevole senso critico, sia pure con qualche silenzio, come quel li cui sopra accennavamo. Essa fornisce, oltre tutto, una guida per orientarsi nel laberinto delle varie organizzazioni al leate operanti in Italia, nel cui groviglio l ’italiano può facilmente sperdersi. Per il lettore italiano, in particolare, è una lettura preziosa per comprendere molti aspetti della politica alleata verso l’ Italia, che altrimenti resterebbero mi steriosi o quasi, nonché per valutare obiettivamente le difficoltà incontrate dall’A .M .G . od i criteri adottati per supe rarle. Eccezionale poi è l’interesse, con il quale si leggono i capitoli relativi ai rapporti intercorsi fra l'A .M .G . da una parte ed i francesi o gli iugoslavi dal l’ altra, nelle regioni di confine dell’ Italia. Specie per quanto riguarda i tentativi francesi di mettere piede di qua dalle A l pi, anzi, c ’è qui un'autentica miniera di dati poco meno che ignoti alla maggio ranza degli italiani. N è vogliamo tacere che la lettura di questo libro gioverà molto agli italiani per farsi un concetto più obiettivo dell ’A .M .G ., ponendone in giusto risalto le non poche benemerenze e gli innegabili successi, riportati in circostanze sovente di paurosa difficoltà, accanto agli errori non sempre evitabili. A proposito dei quali errori, del resto, gioverebbe a noi italiani domandarci se un’ amministrazio 85 ne militare, com’ era inevitabile che esi stesse dietro il fronte, avrebbe potuto fare molto di più e molto meglio, in quei frangenti terribili, qualora fosse stata composta di ufficiali del nostro esercito, anziché di anglo-americani. In conclusione, dunque, il giudizio da portare su quest’opera è complessiva mente positivo. Si potrà e si dovrà an dare oltre il punto raggiunto nelle sue indagini dall’A .. In questo campo, anzi, auspichiamo che si possa stabilire presto una feconda collaborazione fra studiosi americani, inglesi ed italiani. Ma non si potrà nè dovrà davvero ignorare l’im portanza del contributo che Io Harris ha recato alla nostra storia recente. G iorgio S p in i S il v e s t r i , Dalla redenzione al fascismo. Trieste 1918-1922, Pref. di Carlo Schiffrer, Udine, Del Bianco, 1959 - pagg. 158. C la u d io Diciamo subito che pienamente con senzienti ci trova l’inserimento in una collana di saggi e documenti, come quella di cui si è fatta benemerita promotrice la Deputazione di Trieste per la storia del movimento di Liberazione, del volu metto del Silvestri, che mira a ricostruire le vicende della lotta politica triestina tra il 1918 e il 1922, ossia il processo di svi luppo del fascismo nella città giuliana. Ciò, cosi per motivi di ordine generale, in quanto riteniamo che una messa a fuoco precisa della Resistenza sul piano storiografico presupponga sempre lo stu dio del fascismo e dell’antifascismo che ne sono stati i precedenti storici imme diati, come, a maggior ragione, per i motivi specifici suggeriti dall’esperienza peculiare del fascismo nella regione giu ba, in cui l’esistenza di determinate con dizioni obiettive relativamente permanen ti, e quindi il ritorno a distanza di de cenni degli stessi temi di lotta politica, sottolineano ulteriormente il legame in scindibile tra fascismo e Resistenza. In altri termini, lo studio della Resi stenza giuliana comporta inevitabilmente l’ analisi di tutta la precedente esperien za della regione nell’ambito delle strut ture statali italiane che coincide quasi in teramente con la dominazione fascista, tanto più se è vero, come ribadisce e dimostra appunto il Silvestri, che a Trie- 86 Recensioni ste il fascismo si era impadronito delle principali leve di comando ancor prima della marcia su Roma, che diede sem plicemente la sanzione formale ad un processo di sgretolamento dell’ autorità dello Stato e di collusione tra autorità governative e fascismo già consolidato e concluso nei fatti. Nella generale caren za di studi particolari sulle origini del fascismo, il volumetto del Silvestri reca quindi un utile contributo di carattere locale al miglior approfondimento della crisi del primo dopoguerra, anche se evidentemente la situazione di Trieste, con i suoi tratti peculiari, rischia di of frire un quadro deformante ove non si tengano presenti le condizioni particolari della città giuliana e i limiti dei suoi problemi nell’ambito più generale della scena politica italiana dell’epoca. Spiace soltanto che, forse anche per i limiti in trinseci imposti dal carattere di divulga zione storica della collana, lo studio del Silvestri più che offrire una ricostruzio ne puntuale degli eventi (si vedano per esempio quanti spunti, episodi e citazio ni andrebbero ripresi, documentati an che cronologicamente e sviluppati) ne presenti soltanto una trama che, per quanto fitta, non si può considerare tut tavia ancora esauriente. Ma pur con que sti limiti, esso ha comunque il grande merito di aprire, nella linea delle prime intelligenti notazioni di Elio Apih sul l’ avvento del fascismo a Trieste (nel vol. Italia del Risorgimento e mondo danubiano-balcanico, Udine, 1958, pp. 157186), una traccia sicura per lo studio ap profondito così delle insufficienze del l’amministrazione italiana nella Venezia Giulia dal novembre del 19 18 all’ avven to del fascismo, della quale non esiste ancora una analisi consistente, come del le origini del fascismo triestino. Quest’ultimo, come sottolinea anche il prof. Schiffrer nella sua prefazione, af fonda le sue radici nella crisi del vecchio irredentismo e delle tradizionali forze po litiche locali, incapaci, una volta venuti meno con l'unione all’Italia i motivi del l’agitazione nazionale, di sopravvivere politicamente alla nuova situazione, della quale il Silvestri mette bene in luce la complessa problematica e le molteplici componenti: lo scontro tra la nuova realtà nazionale e la situazione econo mica (la classe mercantile e industriale triestina essendo strettamente legata alla politica protezionistica austriaca sulla qua le si erano fondate le fortune della città), sul quale, smentendo U mito nazionali sta che la prosperità di Trieste dipen desse dalla sua posizione naturale lad dove essa era legata a una più comples sa situazione politica generale e al suo inserimento in un certo ambito economi co, avevano richiamato l’attenzione, già prima della guerra, i più avveduti critici dell’ irredentismo, con alla testa il V i vante, a torto considerato anche da una parte della pubblicistica democratica nel l’ambito della storiografia austrofila; l ’an titesi tra il nazionalismo antislavo e i fau tori democratici del principio nazionale; la singolare fisionomia del socialismo trie stino, travolto da ultimo da una crisi po litica ed ideologica non meno devastatri ce di quella che travagliò le forze bor ghesi; e infine la presenza degli Slavi, con i loro problemi e le loro rivendica zioni. A Trieste il fascismo, che sfruttò am piamente anche la risonanza sentimentale del combattentismo alla quale doveva es sere particolarmente sensibile la città giu liana, veniva a riempire appunto il vuo to aperto dalla dissoluzione delle forze dirigenti tradizionali e dalla assoluta ca renza della politica governativa, che, ispirata in un primo momento a propo siti di moderazione nei rapporti con gli Slavi (« libertà nella legalità »), finì da ultimo facilmente preda delle posizioni più estremiste, realizzando la più sfac ciata connivenza con lo squadrismo fa scista, l’ unico in grado, a detta dello stesso commissario di governo Mosconi, di combattere il « veleno » bolscevico. In questa prospettiva il Silvestri svilup pa la sua ricerca, seguendo soprattutto quelli che sono i due filoni principali e più immediati sui quali si innesta nella crisi del dopoguerra lo sviluppo del fa scismo: ossia da una parte la compo nente combattentistico-nazionalistica e non di rado francamente imperialistica (Ruggero Fauro aveva pur insegnato qualcosa!), che trae alimento dalla esal tante spedizione dannunziana a Fiume, e dall’ altra quella classista che si traduce nella collusione tra fascismo e gran capi tale. Se è relativamente facile scorgere la germinazione e gli sviluppi del filone na zionalistico, a proposito del quale il Sil vestri indaga con cura i rapporti tra fa scismo e dannunzianesimo e il successi vo assorbimento di quest’ultimo da parte del primo, più in ombra rimane la parte relativa alla connivenza tra fascisti e ca pitalisti, nonostante gli esempi probanti qui citati e l ’ineccepibile conclusione sul Recensioni la convergenza nel fascismo della picco la borghesia patriottarda e dei grossi in teressi conservatori e capitalistici citta dini, che, come scrive felicemente l’A ., videro nel fascismo la copertura nazio nale alla « realtà dei loro gretti interes si » e nello squadrismo l’ agognato stru mento per realizzare la repressione antioperaia e schiacciare il movimento pro letario. L ’ aiuto prestato dalle violenze fasciste al padronato durante lo sciopero dei cantieri di Monfakone del novembre del 1921 e il bilancio spaventoso delle distruzioni operate dai fascisti ai danni delle istituzioni proletarie e di quelle sla ve —- distruzione della Camera del lavo ro, del Lavoratore, di circoli socialisti, di organizzazioni e imprese slave, violen ze antidemocratiche in genere — sono un linguaggio inequivocabile e incontro vertibile della coincidenza di interessi tra fascismo e circoli capitalistici. A i fini tut tavia di stabilire anche la misura dell’ef fettiva convergenza tra i due gruppi, os sia della loro non occasionale alleanza, non dovrebbe essere impossibile attinge re a nuove fonti documentarie, onde ac certare per esempio le fonti di finanzia mento dei fascisti locali e altri elementi, politici e di fatto, sull’aiuto concreto re cato ai fascisti dai ceti capitalistici. Si tratta, a nostro avviso, di un capi tolo che varrebbe la pena di esplorare sino in fondo, così come bisognerebbe verificare con maggior rigore gli spunti interessanti, già segnalati dall’Apih e ri presi ora dal Silvestri, sul carattere an ticipatore in senso corporativo del pro gramma del fascismo triestino rispetto al corporativismo fascista su scala naziona le. Non meno interessanti delle pagine dedicate allo sviluppo del movimento fa scista sono quelle nelle quali, parallelamente, l’A . segue la crisi dei partiti tra dizionali, culminata nelle elezioni politi che del maggio 19 2 1, che segnano il trionfo definitivo degli estremisti di de stra. In conclusione, il volumetto del Silve stri apre la via ad una più esauriente e complessiva ricostruzione delle origini del fascismo nella città di Trieste, che se non fu proprio la matrice del fascismo italiano, ad esso tuttavia recò, per la particolare temperie della polemica poli tica locale, un contributo di prim'ordine, nella ricchezza della sua tematica nazio nalistica e nella prassi della violenza or ganizzata e sistematica contro le organiz zazioni democratiche e proletarie. E nzo C o llo tti 87 R aimondo L uragh i , Il movimento ope raio torinese durante la Resistenza, Ed. Einaudi, Torino, 1958, pagg. 372. Che la Resistenza sia ormai uscita dal la fase agiografica e della memorialistica spicciola e abbia varcato le soglie della maggiore età storiografica, è un fatto positivo e innegabile, testimoniato da vari saggi apparsi in questi ultimi anni, che della Resistenza stessa si sono pro posti la interpretazione, oppure ne han no illustrato criticamente aspetti ed epi sodi vari. Ancora non è spenta l’ eco del saggio di Secchia e Moscatelli, che sopravviene quello di Raimondo Luraghi; il pregio principale di questo saggio consiste prin cipalmente nel lavoro di ricostruzione condotta con paziente abilità « istrutto ria » dal suo autore, il quale ha saputo trascendere l ’accostamento comparativo di innumerevoli frammenti di informa zione, e offrire una visione organica in una esposizione spedita e scevra da pe santezze erudite, degli avvenimenti in dagati. Per rendersi conto del lavoro immane che il Luraghi ha dovuto af frontare, bisogna dare uno sguardo alle annotazioni: quivi sono minutamente in dicate le fonti documentali, quivi tro viamo la menzione specifica della impo nente mole testimoniale che l’ A . ha pa zientemente costruita. Un lavoro prepa ratorio accuratissimo dunque; e un lavo ro di critica selettiva e comparativa di estrema delicatezza e difficoltà. Del resto, chi ha vissuto da vicino, sia pure non in qualità di protagonista, quelle giornate e quei mesi, si può ren dere conto che nessuno, in cosiffatti mo menti, pensava o poteva pensare alla storia che si sarebbe scritta. Se c’erano documenti da distruggere, si distrugge vano, perchè la vita dei compagni di lotta e delle organizzazioni valeva certo di più dei documenti. Sono così rimasti frammenti ed echi, tracce, impronte, la cui interpretazione e la cui reciproca connessione richiama, oltre che la perizia dello storico, anche }a sagacia e il fiuto dell’indagatore. Com’è noto, il campo era già stato, ma soltanto parzialmente, dissodato mercè l’opera memorialistica del Massola e quel la saggistica del Vaccarino. Il Luraghi invece non si è limitato all’episodio, ma ha affrontato la più ampia prospettiva dell’intero periodo resistenziale, in cui agì e si inserì quale forza determinante 88 Recensioni il movimento operaio torinese. Egli ha scandagliato con ogni cura ogni possibile fonte: e v ’ha ragione di ritenere che assai difficilmente altre ne possano esse re reperite, che abbiano la idoneità di modificare anche nei particolari l’ accer tamento svolto in questo saggio. La Resistenza in Torino, oltre a essere stata una delle più efficienti, delle più organizzate e delle più provate (sotto tale aspetto potrebbesi senz’altro parlare di Resistenza piemontese, di cui al postutto quella del capoluogo è parte integrante e inscindibile, differenziandosi unicamente per essere stata la sede degli organi di rettivi) presenta un più intenso e signi ficativo interesse per la partecipazione diretta, di primo piano, in qualità di protagonista, della classe operaia indu striale. La tradizione operaia torinese non poteva non inserirsi quale forza de terminante nella lotta di liberazione, se costituiva — come in effetti costituì e costituisce tuttora — l’élite del proleta riato italiano, quale era stato diagnosti cato nelle ormai classiche opere di Gram sci e Gobetti. E infatti, come documenta il Luraghi, la massa operaia torinese en trò nella lotta di liberazione con un en tusiasmo, uno spirito combattivo, un senso di disciplina, quali era lecito at tendersi appunto dalla élite gramsciana e gobettiana. Ma purtroppo — e questo pure documenta il Luraghi — ebbe a ri petersi, sia pure in forma notevolmente attenuata, quella inadeguatezza dei diri genti che per l’addietro (1919-1920) era stata causa unica della disfatta da parte di un proletariato che, animato da un autentico e maturo spirito rivoluziona rio, era riuscito con (a occupazione delle fabbriche (autunno 1920) a dare una mi sura delle proprie capacità e del proprio potenziale di energia, superiore a ogni più legittima aspettativa. Ma nel 1943 è presente un fattore che, sotto un certo punto di vista, si può di re nuovo. A prescindere infatti dalla du ra lezione e dalle amare esperienze del passato, che non possono non aver fatto meditare sui metodi, sulle responsabilità e sulle direttive da assumere in una temperie insurrezionale, nel 1943 è pre sente un Partito comunista — con tutti i suoi pregi e con tutte le sue insuffi cienze, rilevate le une e gli altri dal Luraghi — dotato di una consistenza nu merica, di una efficienza organizzativa, di un potenziale di attacco e di difesa, del tutto ignoti al piccolo partito di Antonio Gramsci. Indubbiamente il Partito comu nista assunse subito — e non poteva non assumere — la funzione di forza-guida nella lotta: esso era d ’altronde, fra le forze coalizzate, quella che offriva mag gior garanzia di serietà, di decisione, di sicurezza nelle vedute e nei movimenti. E ’ ben vero che a molti operai, pur ade renti alla ideologia comunista, non gar bava il dogmatismo tipico di questo Par tito, e che già faceva sentire il proprio peso in quegli inizi di stagione democra tica del nostro Paese. Di qui il sorgere di una corrente comunista autonoma, « Stel la Rossa », di cui il Luraghi rievoca assai opportunamente, con abbondanza di par ticolari, la genesi, le vicende e la indole politica fino al momento della riunifica zione nel seno del Partito. Si è detto: assai opportunamente, perchè di tale movimento poco si conosceva e si ricor d ava: ed è merito appunto dell’A . aver lo ritratto dall’ombra e averlo ricollocato nel quadro degli eventi di cui fu parte cipe niente affatto secondario, secondo le proporzioni che storicamente gli spettano. Fu infatti « Stella Rossa » un movimento di notevole consistenza, che assunse un atteggiamento critico verso il P .C ., nella cui impostazione organizzativa lamenta va la tendenza a imporre decisioni dal l’ alto e al cubo dei capi. Di fronte al P.C. inoltre assunse un atteggiamento « integralista », nel senso che la lotta doveva essere sferrata non soltanto con tro i nazifascisti, ma benanche contro il capitalismo borghese, che del fascismo e del nazismo era stato la naturale matri ce. Il Luraghi definisce « ingenua » que sta posizione: e indubbiamente tale de ve essere considerata in riferimento a una lotta che postulava una unione di forze nazionali necessariamente eteroge nee; ma non si può negare che queste parole del foglio clandestino « Stella Ros sa » fossero dotate di spirito profetico : « Se il movimento proletario seguisse « la via intrapresa dal Centrismo non ot« terrebbe che uno Stato ” legalmente ” « borghese, ristabilito — somma ironia! « — da comunisti, con un esercito ” po« litico ” comandato dai generali di Ba« doglio tipo Messe, con i carabinieri, « con una polizia avente compiti e fun ic zioni anticomuniste, con una parziale « ” nazionalizzazione ” diretta dagli stes ti si capitalisti, con la proprietà agraria « nelle stesse mani di prim a... » (p. 209). Questa corrente, insieme al P.C. — da cui d ’ altronde accettava sostanzialmente Recensioni le direttive — e al Partito d’Azione, fu rono le forze più efficienti della lotta di liberazione in seno al movimento ope raio. Minore efficienza presentavano in vece — a motivo della scarsa coesione or ganizzativa e di una mentalità alquanto anacronistica — il Partito socialista e la Democrazia cristiana. Il primo, con la cattura di Filippo Acciarini e di Alfonso Ogliaro, che ne furono gli elementi più dinamici e intelligenti, subì una perdita irreparabile, rimanendo in mano a uomi ni esitanti e non adeguatamente prepa rati alla lotta cospirativa. E ’ naturalmente impossibile in questa sede tracciare anche per sommi capi un cenno su tutti i temi della complessa vi cenda in cui si estrinsecò il movimento operaio considerato dal Luraghi. Taluni di essi peraltro meritano di essere men zionati, in quanto contribuiscono a pre cisare su un piano documentale posizioni e responsabilità di portata generale. A tacere dei Tedeschi e dei loro metodi, di cui TA. rievoca vivacemente fasti e nefasti, è interessante sottolineare l'at teggiamento del capitalismo industriale e della cosiddetta Repubblica sociale, su cui il Luraghi si è lungamente intratte nuto, e di cui giustamente -s’è fatto ca rico di illustrare gli aspetti anche secon dari. Il capitale industriale in buona sostan za si barcamenò in un abile doppio giuo co fra Tedeschi e partigiani: nel resi stere alle legittime e urgenti richieste di aumenti salariali, faceva indubbiamente i propri interessi, mostrando di soggia cere agli ordini degli occupanti e, verso costoro, di essere ostile alle masse ope raie; nel cedere di fronte alle agitazioni, mostrava di venire incontro alle esi genze dei lavoratori e, verso gli occu panti, di non averne potuto fare a meno. Essi, commenta l’A . « non puntavano nè « sul Reich hitleriano, nè sulla Resisten« za: per essi il porro unum era la sal« vezza degli interessi del capitale pri ce vato. Non diciamo che si trattasse di « un obiettivo ignobile: affatto; e rico« nosciamo volontieri che nel consegui« mento di tale obiettivo qualcuno di « essi diede prova di notevolissime qua le lità di sangue freddo, tempestività, dutee tilità. Da un lato si trattava di addor« mentare il rancore dei fascisti e la dif« fìdenza dei Tedeschi, ad evitare che essi « deportassero in blocco i dirigenti della ee Fiat e ponessero alla testa del grande « complesso qualche loro scherano; e sin 89 <1 qui gli obiettivi dei dirigenti del corn ee plesso Fiat avrebbero potuto benissimo ee coincidere con quelli della Resistenza, « non essendovi alcun contrasto fra essi « e gli interessi generali della collettività ee nazionale; ma i massimi dirigenti della « Fiat sembravano altresì voler evitare in « modo assoluto di confondere la loro aee zione con quella della Resistenza; essi ee volevano raggiungere i loro obiettivi 11 tenendo a bada la Resistenza, onde eee virare o ridurre al minimo lo scotto che « gli interessi del capitale privato avreb« bero dovuto pagare domani al rinnova ci mento strutturale dell’ Italia: e qui, lo ie gicamente, i loro obiettivi divergevano ee radicalmente dagli interessi generali et della maggioranza lavoratrice del popoet lo » (pagg. 289-90). I fascisti. Era già fatto notorio che l’ u nica funzione delja cosiddetta repubblica di Salò non sia stata altra da quella di essere una longa manus del Comando te desco di occupazione: e più precisamen te la mano del sicario, del delatore, del servo sciocco a tutto fare; e anzi su questa realtà lo scrivente ebbe ripetutamente (anche dalle colonne di questa Rassegna) a fondare l’affermazione di in dole giuridico-costituzionale, che non esistettero mai nè uno Stato nè un Go verno della sedicente Repubblica sociale italiana. Alle già numerose testimonian ze in argomento, si aggiunge ora la pe rentoria documentazione del Luraghi, che getta luce su episodi di carattere decisivo. Già dal novembre 1943 i fascisti die dero prove insigni di impotenza e di inutilità. Il 22 novembre gli operai to rinesi erano entrati in sciopero. Tale Rabecchi, esponente della Unione sindaca le fascista, che invano giorni innanzi aveva fatto promesse mirabolanti, si die de d ’attorno, e riuscì a ottenere dal Capo della provincia un parziale accoglimento delle richieste operaie. A questa notizia, apparsa sui giornali a titoli di scatola, gli operai risposero nel pomeriggio con la estensione dello sciopero, che la mattina appresso divenne generale. Senonchè, a seguito di trattative poco opportunamen te intercorse fra la Commissione operaia e il Comando tedesco, veniva diramato un comunicato nel quale i Tedeschi scon fessavano l ’iniziativa fascista e promette vano una soluzione concordata. Il Rabecchi tornò alla carica e si sentì rispondere dagli operai che l’unico rappresentante da loro riconosciuto era Giovanni Roveda! Ma la serie delle umiliazioni non era go Recensioni ancora terminata: il 24 la Direzione Fiat comunicava che avrebbe trattato unicamente com le Commissioni interne (quel le elette dopo il 25 luglio), e di non vo lere altri intermediari, cioè i fascisti. Lo stesso giorno il colonnello tedesco von Klaus, in una concione tenuta agli ope rai della Mirafìori, precisò, tra blandizie e minacce, che la sistemazione dei rap porti salariali sarebbe venuta entro il mese dal Comando generale tedesco di Milano, sottolineando che quella conte nuta nel comunicato fascista doveva con siderarsi nulla (pagg, 151-153). 1 fascisti erano dunque dei poveri intrusi, respin ti da tutti, nemici e amici. Se questo succedeva nel novembre 1943, è facile immaginare che cosa sareb be successo nel febbraio 1945, quando la fantomatica repubblica volle consumare l’ultima grottesca sua illusione: Ja socia lizzazione. Alle elezioni tenutesi nella prima decade di marzo, su 32.676 eletto ri, si ebbero 31.450 astenuti, 547 schede bianche, 274 schede nulle e 405 schede valide! Ai fascisti non rimase che sfoga re i] loro livore col massacro della fami glia Arduino (pagg. 268-270). Ma tutto ciò di cui si è detto finora non è se non lo sfondo, il clima, la « tem perie » storica in cui si collocano gli eventi, ai quali il Luraghi ha dedicato il più e il meglio delle sue fatiche. Si è ri tenuto peraltro di doverne dare il dovuto rilievo, giacché l’A . ne ha sviluppato i singoli temi con la accuratezza e la dili genza che si dèdica non ad argomenti marginali, ma ad argomenti fondamen tali, dimostrando con ciò di aver fatto ottimo governo della materia considerata, giacche quei temi, oltre ad avere un va lore generale, che trascende l ’àmbito cir coscritto della città o della regione, co stituiscono le premesse, le concomitanti e le concorrenti delle vicende rievocate con più vicina prospettiva : quelle cioè concernenti le agitazioni degli operai to rinesi. Di queste non è possibile tracciare nep pure uno schizzo riassuntivo senza de pauperarne il significato vitale e denso di passione rivoluzionaria, che soltanto la sequenza dei dati particolari può rendere in tutta la sua portata. Il Luraghi rievo ca le vicende degli scioperi, seguendone gli sviluppi giorno per giorno, ora per ora, mantenendo un distacco cronistico, che si manifesta il modo più felice per esprimerne Ja intensa drammaticità sen za neppure sfiorare la retorica. E non si vorrebbe qui fare della retorica con l’ u sare quelle parole grosse che il Luraghi ha evitato: ma certo si è che se l’ azione degli operai torinesi non fu un'epopea, fu qualcosa di assai vicino e di assai si mile. Essi, assai più dei loro dirigenti — taluni dei quali pur raggiunsero l ’eroi smo e il martirio -— furono i veri prota gonisti della lotta: essi, col loro entu siasmo, col loro fervore, con la ferma consapevolezza dei fini da raggiungere e dei sacrifizi da affrontare; essi, con la in tuizione schiettamente rivoluzionaria del la realtà della situazione, assai più pron ta e viva di quella dei loro capitani, ta lora esitanti e in dissenso fra loro, scris sero una delle più gloriose pagine della storia torinese. Si è già avuto occasione di osservare altrove che con la Resistenza si è avuta per la prima volta in Italia l’apparizione delle masse come protagoniste dirette del la storia nazionale. Con questo suo sag gio il Luraghi ha offerto e fornito una prova solare e inconfutabile di tale real tà. Nel vasto ordito su cui corre la trama delle vicende rievocate, appare una mi riade di nomi; ma invano si cercherebbe fra essi, che pure annoverano figure umane di altissima statura, quella del con dottiero e del demiurgo. Non mancaro no — e non potevano mancare — le at tività direttive — C .L .N ., Comitati di agitazione ecc. — ma anche queste si concretarono in organismi collettivi, che della massa furono espressioni genuine e dirette, e nelle quali l’individuo singolo, col suo intelletto e la sua volontà, con le sue iniziative e i suoi olocausti, fu sol tanto la componente di una realtà più vasta e complessa, che dobbiamo consi derare, come l’ha considerata il Luraghi, quale entità autonoma, di cui gli intel letti, le volontà, le iniziative e gli olo causti sono elementi costitutivi, concor renti e necessari, non già nella loro som ma numerica, ma nella loro funzione in tegrativa e concreativa. Questa entità autonoma, questa nuova realtà ha un suo nome e un suo volto inconfondibile: si chiama Resistenza. A ntonino R epaci C e s a r e R o s s i , Trentatre vicende musso- limane, Ed. Ceschina, Milano, pp. 645 - L . 1600. 1958, Se vogliamo esprimere un giudizio sin tetico su questo grosso volume — ij ter Recensioni zo di Cesare Rossi, di cui Ceschina ha voluto curare (il termine è alquanto be nevolo, considerata la presenza di una notevole quantità di « refusi » che distur bano la lettura) la pubblicazione — po tremmo definirlo piacevole e, nei suoi li miti, interessante. E tale si rivela, in fatti, ad onta della mole piuttosto con siderevole, per le cose che l ’autore narra e per il modo agile e spigliato con cui esse sono narrate, proprio dello stile gior nalistico che il Rossi mostra chiaramente di prediligere. Da questi pochi cenni è facile com prendere come i) volume in questione, privo di pretese strettamente scientifiche, rientri invece a buon diritto nell’ampio solco della memorialistica, cui reca senza dubbio un valido contributo documen tario, commisurabile alla figura di Cesa re Rossi, per almeno un quinquennio in timo collaboratore di Mussolini. E ’ noto come poi il Rossi, autore del famoso me moriale in cui si addossava al governo fa scista la responsabilità del delitto Mat teotti, abbia scontato questa rivelazione con lunghi anni di dura prigionia nelle carceri regie. Della vicenda, però, il volume non può certo dirsi conseguenza nel senso di la sciare trasparire un sentimento di ven detta, del resto abbastanza comprensi bile in chi ebbe a soffrire le persecuzio.ni del regime, che anzi, dalla lettura del libro, non si può fare a meno di rile vare la simpatia che in fondo l ’ autore ha conservato per Mussolini, il cui fascino evidentemente non era un mito (e ben lo sanno del resto anche parecchi di co loro che lo conobbero attivo militante socialista) se resiste ancor oggi tenace mente all’ ingiuria del tempo e ai ranco ri personali. Tuttavia la benevolenza che egli, no nostante tutto, continua a provare nei confronti di Mussolini (a un certo mo mento arriva al punto di definirlo « uo mo di eccezionali doti che non hanno nella storia italiana termini di compara zione »!) non fa quasi mai velo al Rossi nel delineare il ritratto del defunto Du ce, felicemente inquadrato attraverso la narrazione dei fatti che costituirono la sua turbinosa e proteiforme vicenda ter rena. Si tratta, naturalmente, dato il ca rattere stesso del libro, di un ritratto composito dove il gustoso (e sovente piccante) pettegolezzo cronistico si me scola alla indagine psicologica, sia pure sommaria, e alla ponderata valutazione 91 storica. Particolarmente interessante, sot to questo profilo, appare il capitolo de dicato agli attentati al dittatore, dove la scrupolosa disamina dei fatti porta alla conclusione che Mussolini aveva puntato « sulla carta ” attentato ” come la più psicologicamente adatta a raggiungere gli scopi politici che aveva fissato », attuan do insomma una vera e propria « politi ca dell’attentato » che « risulterà la più sapiente e la più vittoriosa del regime ». N e risulta in tal modo un libro, come già prima affermato, di indubbio inte resse, che riesce, forse meglio di altri, a lumeggiare i molteplici contraddittori aspetti della sconcertante personalità mussoliniana attraverso l’indagine, ancorché qua e là superficiale, dei gravi difetti e degli innegabili pregi, saldati gli uni e gli altri attraverso un sottile filo che è poi quello che spiega la straordinaria for tuna dell’uomo, legata purtròppo alle di savventure del paese che ebbe a subirne la dittatura. G iorgio G u a l e r z i A . W e i s s b e r g , La storia di Joel Brand, Feltrinelli Edit., Milano, 1958 - L . 1300. Questo libro ha destato grande scalpo re in Inghilterra e altrove: in Inghil terra, perchè vi vengono sollevati preci si quesiti sulla condotta tenuta nei con fronti degli ebrei dalla Gran Bretagna du rante la guerra e vi si prendono in esa me gravi questioni — quale l’uccisione di Lord Moyne — che riguardano da vi cino il comportamento assunto dai diri genti britannici: e in Israele, a causa del processo intentato dal dirigente del M A PAI (1) Rudolf Kastner contro un cer to Griinwald che l ’aveva pubblicamen te descritto come collaborazionista in Ungheria, dove entrambi risiedevano du rante la guerra, e come corresponsabile della morte di centinaia di migliaia di ebrei ungheresi. IJ processo KastnerGriinwald finì con l’assoluzione del Griin wald stesso che era stato denunciato dal Kastner all’autorità israeliana quale ca lunniatore. Il Kastner è stato tragicamen te ucciso a revolverate da due estremisti di destra qualche anno fa, mentre scen deva dalla sua automobile in una strada di Tel-A viv. (1) Il più forte partito governativo. 92 Recensioni Adesso, con questo volume, ci troviamo di fronte al diario di Brand, cioè di uno dei massimi dirigenti dell’ebraismo ungherese che è stato protagonista e te stimone di una serie di disperati (o paz zeschi?) tentativi di salvare la comunità israelita ungherese, tentativi falliti non solo per la indiscussa ferocia nazista, ma forse anche perchè i dirigenti ebrei non seppero sfruttare le incertezze che divi devano il campo nazista, e forse perchè gli alleati, e in particolare gli inglesi, si rifiutarono con una certa leggerezza di aiutare mezzo milione di persone sulla soglia della morte. Evidentemente il dia rio di Brand è incompleto come tutti i memoriali, però, come pochissimi altri memoriali, strappa un velo da certe scot tanti questioni finora tenute nascoste ac curatamente e intorno alle quali molte persone ritenute rispettabili si sono af fannate a mantenere un silenzio quanto mai significativo. Per conto mio ritengo che proprio per chè l ’affare è oscuro ed il Brand non dirada tutte le oscurità, occorra dedicar si all’ investigazione del fatto con il mas simo zelo, con coraggio ed onestà, e cer tamente se ne verrà a sapere di più che lasciando tranquillamente stagnare ogni cosa. 11 Brand solleva in particolare questi tre problemi: 1) Furono gli Alleati, con alla testa gli inglesi, responsabili di aver lasciato ca dere delle proposte commerciali (!) naziste (10.000 camion per 1.000.000 di ebrei) che avrebbero permesso di sottrarre allo sterminio l’ebraismo ungherese? 2) Furono i dirigenti mondiali del sio nismo all'altezza del momento, compre sero l ’urgenza con cui andava trattata la cosa o invece si comportarono in modo irresponsabile? 3) Furono i capi dell’ ebraismo unghe rese veramente dediti alla causa del sal vataggio dei loro correligionari, pur in mezzo a errori e difficoltà enormi, oppu re nelle trattative prolungate che ebbero con i nazisti, caddero, almeno alcuni, nel collaborazionismo, nel tradimento, orga nizzando esclusivamente la loro salvezza personale e quella dei loro amici? Una attenta lettura del libro ci dà am pi motivi per porre questi quesiti; la nar razione stessa dei fatti giustifica, anzi, impone il sorgere dei dubbi (ad esempio vi si descrive il caso dell’unico treno ca rico di ebrei ungheresi che i nazisti non diressero verso Auschwitz e i crematori, ma fecero arrivare in salvo in Svizzera, mentre più crudeli infuriavano le perse cuzioni). Il libro di Brand descrive fatti veri, anche se tanto lontani dalla nostra esistenza quotidiana da parere incredibili. Esso espone in piena luce uno degli epi sodi più mostruosi della guerra, che ci getta nell'abisso della tragedia, ma che dimostra pure come i nazisti tanto pote rono perchè i loro oppositori erano trop po spesso deboli, con idee confuse, in capaci di valutare le vicende in cui era no coinvolti. E ’ veramente triste che una tale testimonianza sia stata messa da par te dal pubblico, è oltremodo ingiusto che essa sia caduta nel dimenticatoio. Occorre reagire a questa cappa del si lenzio: mezzo milione di ebrei unghere si massacrati chiede ancora giustizia. G u ido V a l a b r e g a