PERCHE` IL LAVORO DEGLI ITALIANI E` MALE VALORIZZATO
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PERCHE` IL LAVORO DEGLI ITALIANI E` MALE VALORIZZATO
PERCHE’ IL LAVORO DEGLI ITALIANI E’ MALE VALORIZZATO Intervista a cura di Alessandro De Angelis, il Riformista, 10 aprile 2008 Professor Ichino, si può dire che i lavoratori italiani sono i perdenti tra i lavoratori europei negli ultimi dieci anni? Essi hanno visto il loro reddito eroso, più degli altri. Hanno il regime fiscale e contributivo più oneroso. Sì, il loro lavoro è, mediamente, male valorizzato nelle strutture produttive italiane: questo è il motivo principale per cui le nostre retribuzioni sono mediamente inferiori, dal 20 al 50 per cento, rispetto a quelle francesi, tedesche, o inglesi. Poi, c’è il “cuneo” fiscale e contributivo troppo alto. E anche un livello di informazione e partecipazione più basso che negli altri Paesi. Le cause? Per quel che riguarda il livello delle retribuzioni lorde, la più importante è la chiusura del nostro sistema economico agli investimenti stranieri. Ci priviamo di questa grande fonte di domanda “buona” di lavoro aggiuntiva, oltre che di innovazione. Le buone imprese straniere, poi, stimolano l’innovazione anche nelle imprese italiane. Di chi sono le responsabilità? In primo luogo, un nostro provincialismo duro a morire. L’idea della difesa dell’“italianità” delle nostre imprese è una vera sciocchezza. Negli ultimi anni la abbiamo praticata sistematicamente: contro l’olandese Abn Amro che voleva acquistare Antonveneta, contro la spagnola Abertis per la società Autostrade, contro l’americana AT&T per Telecom, e ora contro Air France-KLM per Alitalia. Poi? Per il resto, dividerei le responsabilità a metà tra difetti generali del nostro Paese (nel funzionamento delle amministrazioni pubbliche, nelle infrastrutture, nel radicamento della cultura delle regole), che i nostri Governi non hanno ancora saputo affrontare efficacemente, e i difetti gravissimi del nostro sistema di relazioni sindacali. Il caso Alitalia è emblematico. E qui sono i sindacati a portare le maggiori responsabilità. In che senso è emblematico? Di un sindacato poco sindacato e molto intrecciato con la politica? Anche in questo senso. Abbiamo avuto fin qui un sistema di relazioni sindacali troppo dipendente dalla politica, sempre in attesa dell’imbeccata da parte del Governo di turno, oltre che di soldi pubblici. Del resto, abbiamo avuto pure una politica troppo soggetta al veto dei sindacati: sia quella del centro-sinistra, sia quella del centro-destra. Ma non è solo questo il punto. Dica il resto. Il caso Alitalia è molto rappresentativo anche di un sistema di relazioni industriali lento, caotico e fondamentalmente miope: incapace di selezionare adeguatamente l’agente contrattuale e di consentire gli aggiustamenti indispensabili delle strutture produttive agli shock economici e tecnologici. Quando, come è accaduto per Alitalia, questa incapacità paralizza le decisioni del management aziendale, questo indebolisce gravemente le imprese, fino a farle fallire. Le contestazioni dei lavoratori di Alitalia sono il segno di un disagio diffuso. Che ne pensa? Vedo alcune importanti analogie con la vicenda della marcia dei 40mila a Torino nell’ottobre 1980. Forse, come allora, stiamo assistendo a una svolta importante, non soltanto per Alitalia. Quale svolta? Fin qui il sindacato ha puntato ad aumentare al massimo la “copertura assicurativa” riducendo al minimo il rischio per i lavoratori regolari, senza però curarsi del “premio assicurativo” che ne derivava per loro. Spieghi meglio. Nel caso Alitalia l’equilibrio si è rotto: i lavoratori incominciano a preferire il rischio del nuovo piano industriale, perché si accorgono che l’alternativa è la paralisi e il fallimento. Ma lo stesso discorso, in qualche misura, vale in riferimento all’intero sistema Italia C’è un nesso tra questo suo discorso e la “questione salariale”? Sì. Oggi subiamo la parte cattiva della globalizzazione, la concorrenza dei Paesi poveri nella fascia bassa del mercato del lavoro; ma – come nel caso Alitalia - non sappiamo coglierne la parte buona: la possibilità di attirare in Italia il meglio dell’imprenditoria mondiale, quella che sa far fruttare di più il nostro lavoro. Su questo punto vorrei rinviare i lettori del Riformista a un mio saggio: “Che cosa impedisce ai lavoratori di scegliersi l’imprenditore migliore”, che può essere scaricato dalla sezione “Argomenti” del mio sito web. Sulla questione salariale dove sbagliano i sindacati? Sbagliano soprattutto nel centralizzare troppo la contrattazione e nell’imporre il modello di organizzazione del lavoro e di struttura delle retribuzioni sancito dal contratto collettivo nazionale come modello inderogabile: questo frena l’innovazione e costituisce un ostacolo rilevante all’ingresso di imprese straniere. E la concertazione? È ancora un sistema efficace o è sinonimo di non scelte? Una concertazione ben funzionante presuppone che tra Governo e rappresentanti delle parti sociali ci sia un minimo di visione comune degli obiettivi da raggiungere e dei vincoli da rispettare. Se questa visione comune c’è, la concertazione può costituire una marcia in più per l’intero Paese, può consentire di fare cose altrimenti impossibili. Come è accaduto nella vicenda di Maastricht. E se non c’è? Se non c’è, il vincolo dell’accordo con i sindacati può divenire paralizzante. E inaccettabile, perché i sindacati rappresentano soltanto un segmento della forza-lavoro. Negli ultimi anni la buona concertazione c’è stata o l’ultima grande stagione è stato il ’93? C’è stata troppo poco, perché la visione comune circa obiettivi e vincoli c’è stata solo a corrente alternata. Le faccio una domanda utilizzando il titolo di un suo libro che è tornato da poco in libreria in edizione economica: “a che cosa serve il sindacato”? Se vuole svolgere una funzione utile, anzi indispensabile, il sindacato deve imparare a operare come intelligenza collettiva dei lavoratori, che consente loro di valutare l’innovazione possibile, il nuovo piano industriale, l’imprenditore che se ne fa portatore; se la valutazione è positiva, il sindacato deve saper guidare i lavoratori nella scommessa comune con quell’imprenditore. È possibile una evoluzione di questo genere nel sindacato italiano? Sì, a due condizioni. Primo: che nelle confederazioni maggiori prevalgano i dirigenti sindacali più aperti all’innovazione e capaci di valutare; ci sono, ma oggi sono un po’ relegati nell’angolo. Secondo: che il sistema di relazioni industriali lasci più spazio alla contrattazione aziendale. Perché l’innovazione si presenta sempre al livello aziendale, molto prima che al livello nazionale.