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introduzione
«Che anche qui m’abbia impedito quella mia certa assenza continua
ch’è il mio destino?»
Avendo individuato in questa sua particolare condizione – quella mia certa assenza continua – la cifra esistenziale di Italo Svevo, ma
anche dei personaggi dei suoi romanzi e racconti, abbiamo cercato di
comprenderla fino in fondo. Assenza di che cosa? Ci aiuta a rispondere
lo stesso autore che pochi passi dopo la precisa in questi termini «... se
non ci fosse quella mia continua assenza che m’induce a pensare all’Italia quando sono in Inghilterra e all’Inghilterra quando sono in Italia»1.
La sua assenza sembra essere determinata dalla impossibilità di vivere il presente; l’istante è così poco denso da essere inafferrabile e quindi
non fruibile. Egli afferma di non riuscire mai a vivere la realtà presente,
l’hic et nunc, ma di desiderare sempre di essere altrove. Cosa motiva
questa impossibilità? Di che cosa essa è segno? Può essere ridotta solo
a fattori psicologici, a disturbi indagabili e risolvibili dalla psicoanalisi?
Ora, il presente è il solo tempo (compreso lo sveviano tempo misto)
che ognuno può vivere, ma, se questo è impossibile, ne deriva che più
semplicemente, ma anche più radicalmente, l’uomo non può vivere,
perché non adeguatamente “collocato” nella vita, cioè inetto. Scrive Svevo: «L’indifferenza per la vita è l’essenza della mia vita intellettuale»2 e
ancora: «È un antico mio vizio che quando nella vita accadono delle
cose che possono significare un nuovo periodo, mi ripiego su me stesso
e vedo passarmi dinanzi tutta la vita e la sua grande nullità in sé e tutta
1
2
I. Svevo, Soggiorno londinese, in Opere, a cura di B. Maier, Milano, Dall’Oglio, 19621969, iii, p. 685.
Id., Diario per la fidanzata, 12.1.1896, in Id., Opere, cit., iii, pp. 772-773.
8 introduzione
la vanità di tutti gli sforzi fatti in trentotto anni di esistenza […]. È la
natura che mi fa essere così e tu non potrai mutarmi mai. […] Mi coglie
il desiderio come una soffocazione. È sempre un desiderio iroso»3.
Annota Sandro Maxia: «Oggi – scrive Musil – l’essenziale accade
nell’astratto e l’irrilevante accade nella realtà […]. È così che lo scrittore smarrisce la differenza tra possibilità astratte e possibilità concrete,
e comincia ad esaltare il mondo infinitamente ampio della possibilità
contro il mondo limitato e volgare della realtà […] assoluta astoricità
dell’esistenza come caratteristica ontologica dell’esistere umano […].
Corollario inevitabile di questa totale estraneità dell’uomo alla sua storia, di questo iato tra coscienza e azione sentito come data e immutabile
condizione umana, è la solitudine, anch’essa ontologica, dell’uomo tra
gli uomini […] nessun rapporto tra uomo e uomo è possibile, che non
sia puramente convenzionale ed estrinseco»4.
Questa sua condizione è originaria e dunque ontologica oppure è
prodotta e dunque storica, dunque psicologica? L’assenza dal presente,
dalla realtà è determinata da una più profonda assenza, quella del significato («Ricordo tutto, ma non intendo niente»5; e ancora: «Posso ritenermi un buon osservatore, ma un buon osservatore alquanto cieco»6)
senza il quale la vita non è affermabile e ci si sente vuoti: è quel vuoto
abissale che coglie Zeno ogni volta che la vita trascorre dal piano della
possibilità alla sua definitività: la morte del padre non è più una possibilità, ma una realtà definitiva e incontrovertibile, così come la partenza di Ada per l’Argentina. Il senso, il significato che afferma e rende
fruibile la realtà nel presente e che è un fatto di conoscenza, sfugge alle
idee e categorie astratte della frigida ragione illuminista o positivista e si
lascia penetrare solo da quella conoscenza amorosa che è affermazione di
un rapporto, edificazione di un legame, di una comunione dell’io con
la realtà, è in una parola “incontro” desiderato, atteso. Quando l’uomo
sta di fronte alla realtà e la interroga («Che fai tu, luna, in ciel […] ed io
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6
3
4
Id., Lettera alla moglie, 17.5.1898, in Id., Epistolario, i, pp. 90-91.
S. Maxia, Lettura di Svevo, Padova, Liviana, 1965, pp. 113 sgg.
I. Svevo, La coscienza di Zeno, a cura di G. Contini, Milano, Mondadori, 1985, p. 42.
Ivi, p. 84.
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che sono?»7), e se cerca la risposta a partire non da pregiudizi ideologici,
ma dalla sua esperienza viva, come può non approdare alla evidenza che
egli non è “solo”, ma è “rapporto”? Che la sua stessa origine è rapporto:
rapporto del padre con la madre, rapporto con suo padre e sua madre?
Egli nasce “rapporto”, cioè figlio. Questo è il dato originario e strutturale. Successivamente e intenzionalmente, per il gioco della libertà,
accade qualcosa che destabilizza la persona stessa in primo luogo, che
“dis-loca”, che “spaesa” rispetto alla realtà; solo successivamente interviene “l’assenza”, il vuoto, il nulla. Questo ci è sembrato il percorso
esistenziale di Svevo e dei suoi personaggi. Ma a ben vedere non solo
suo è tale percorso, come non solo sua è questa certa assenza continua.
È una intera cultura europea che ha destrutturato il suo essere “rapporto con” chi ci precede, con il passato, con la tradizione in forza di
una indipendenza che ha pagato con la solitudine, la noia, la nausea,
con «l’orrida vita vera» per salvarsi dalla quale occorre evadere, come
fa per esempio Svevo, attraverso la “scrittura”. È la rottura con il padre
personale, con il padre storico, il passato, con il padre culturale, la tradizione, con il padre religioso, Dio. Progressivo e traumatico mutamento: dalla coscienza dell’uomo intesa come rapporto col Destino degli
eroi classici, poi come rapporto con il Dio misterioso della tradizione
ebraica, infine col Dio rivelato della storia cristiana, alla coscienza vuota, indecifrabile, colpevole, manipolatrice di Zeno Cosini e dell’uomo
moderno. Questa rivolta contro ogni forma di dipendenza che si infiamma in quella contro il Padre e la dimensione religiosa della vita, è
terribilmente e suggestivamente proclamata da Nietzsche nel celebre
aforisma: «Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi
sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo
stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! [...]. Che
mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è
che si muove ora? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un
alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito
nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo?
7
G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in Poesie e prose, a cura di R.
Damiani e M.A. Rigoni con un saggio di C. Galimberti, 2 voll., Milano, Mondadori,
1987, i, pp. 84-88.
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Non seguita a venire notte, sempre più notte?”». Ora l’uomo deve occupare l’enorme spazio vuoto lasciato da questo omicidio: «“Dio è morto!
Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi,
gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente
il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli;
chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi
lavarci? Quali riti espiatori, quali giuochi sacri dovremo noi inventare?
Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa?”»8.
Anche Svevo ha abbracciato questo programma: «Oh la dolce cosa che
era la religione. Di casa sua e dal cuore di Amalia egli l’aveva scacciata
– era stata l’opera più importante della sua vita...»9, oppure «Ho paura
che non saprò dire a te quello che penso, perché tu hai l’abitudine di
ridere di tutto» (il padre a Zeno ne La coscienza10). Ne è conseguito un
vuoto “naturale” e insieme generante un misterioso, oscuro, perenne
senso di colpa: i personaggi di Svevo si sentono sempre oscuramente
“colpevoli” e questa colpevolezza è collocata in un punto della persona
così profondo da non essere raggiungibile e sanabile. In rivolta contro il
padre e condannati alla ricerca di un padre, secondo un «desiderio iroso»: un padre però che, nella loro «aspettativa, non paziente», assume i
tratti dell’impositore-oppositore, nei confronti del quale l’unica rivalsa
è la trasgressione; assume i tratti del Dio giudice, il Dio della Legge
ebraica, il Dio con quale il rapporto è misterioso fino all’enigmaticità
(«voglio confessarlo – che io a qualcuno giornalmente e ferventemente
raccomandai l’anima di mio padre»11); presenza del divieto, della punizione, che induce il rimorso, subordina.
Rimangono i desideri di purezza, innocenza, amore, rapporto con
la realtà, con il presente, ma insoddisfatti e laceranti, perché ignorano
la strada del loro compimento. I personaggi di Svevo, atti o inetti che
siano, non interrogano, non domandano, non hanno densità, sono dei
ragionatori accaniti che si perdono nei labirinti della mente, nella maF. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125, L’uomo folle, a cura di G. Colli, M. Montinari, Milano, Mondadori, 1995.
9
I. Svevo, Senilità, a cura di M. G. Stassi, Torino, Il capitello, 1995, p. 78.
10
Id., La coscienza di Zeno, in Opere, cit., p. 51.
11
Ivi, p. 68.
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nipolazione ossessiva della realtà, nel tentativo ansioso e sfiancante di
domarla, facendola corrispondere ai loro desideri, attraverso finzioni,
inganni, autoinganni, menzogne.
L’assenza di presente, l’assenza di una vera conoscenza, l’inevitabile
assenza di senso, assenza dunque di rapporto e in particolare l’assenza
del padre fanno per Svevo la malattia non solo degli inetti, ma della
vita intera. «A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale,
non sopporta cure […]. La vita è inquinata alle radici […] qualunque
sforzo di darci la salute è vano […]. Altro che psicoanalisi ci vorrebbe
[…]. Forse attraverso una catastrofe inaudita…». L’innocenza, la purezza, l’amore, la vita nuova saranno possibili solo con la distruzione della
terra intera.
A meno che non si possa affermare con Montale: «Un imprevisto è
la sola speranza»12 (anche se tutti ti dicono che è una stoltezza) o con
Pavese: «Una cosa grande è il pensiero che a noi nulla sia dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?»13.
Non un’arida analisi, ma un incontro sorprendente.
Gilberto Baroni
Presidente Diesse Firenze
E. Montale, Prima del viaggio, in Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1987, p. 390.
13
C. Pavese, Il mestiere di vivere, Torino, Il saggiatore, 1972, p. 119.
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