Da Zeno a Prosdocimo. Anti-eroi modernisti e

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Da Zeno a Prosdocimo. Anti-eroi modernisti e
Giuseppe Bonifacino
Da Zeno a Prosdocimo. Anti-eroi modernisti e soggettività del tempo in Svevo e
Gadda.
Del nome di Svevo, tardivamente messo in luce in Italia dall’Omaggio resogli da Eugenio
Montale su “L’esame” (Montale 1925) qualche anno prima del numero speciale dedicatogli nel
1929 da “Solaria”1, si registra, come è noto, una sola, e del tutto marginale, occorrenza nell’opera
del già “solariano” Gadda: che nel ’43, in un “ritratto in prosa” dell’”uomo-mùsico” Montale,
appunto, lo citava cursoriamente, a proposito dei “vasti interessi di pensiero” del poeta, tra gli autori
sui quali egli aveva esercitato la sua “saggistica felice” (Gadda 1991, 844). Tuttavia si possono
rilevare, come è stato doviziosamente messo in luce dalle analisi di Stellardi (2006, 145-160; 2008
b), oblique ma significative analogie “moderniste” tra i due scrittori: dalla crisi “incurabile”2 della
soggettività autoriale – e del Personaggio che, tra “inettitudine” e “malattia”, tra patita o voluta
estraneità alla vita e sua duplicazione in scrittura, la tematizza e agisce per metafore narrative – alla
sua disgregazione, autoironica (in Zeno) o luttuosa (in Gonzalo); dalla irrinunziabile ricerca
dell’autentico (la “verità”), gaddianamente schermato e fagocitato dall’intrico delle “parvenze” o
svevianamente contaminato nelle finzioni della memoria e del sogno, alla questione, in entrambi
cardinale –lo evidenzia diffusamente Stellardi (2008 b)-, della temporalità, nelle sue intersezioni
con l’esperienza individuale e la mimesi della vita vera, e con la loro ardua o indecidibile
riconfigurazione semantica entro una parola letteraria segnata dall’esaurimento storico e dalla
caduta verticale del potere cognitivo-espressivo dell’Erlebniskunst (Luperini 2006, 7-21).
Ma nel romanzo modernista, come si sa, la dimensione temporale –in quanto categoria
strutturante della narrazione e, insieme, sua pervasiva istanza tematica- non è che il canone inverso
della verità, la stratigrafia dinamica costitutiva, nonché del suo movimento, del suo stesso statuto:
che, appunto, la re-istituisce quale mobile orizzonte di una inesausta ma inadempibile ricerca di
integrazione tra il nome e la cosa, tra l’anima e la forma. La “verità” modernista – per assumere
estensivamente quanto scriveva Guglielmi a proposito della sua declinazione nella “parola”
gaddiana -, è una “idea sospetta” che si risolve tutta “nel processo della sua ricerca” (Guglielmi
1986, 232): quella che Gadda chiama “euresi”, e lo Svevo di Zeno “coscienza”. Ovvero, è
un’istanza tanto irrinunciabile sul piano morale quanto instabile e precaria su quello
epistemologico, secondo l’acuta osservazione di Donnarumma (2006, 17). La tensione che la evoca
– che ne attiva la molteplice e intrascendibile metonimia - lavora a sommuovere il tempo narrativo,
a scomporne gli assetti consolidati e le non più fruttuose convenzioni, a irretirne lo sviluppo e a
curvarne e distorcere l’asse dinamico. Nei romanzi sveviani, segnatamente in Zeno, come in quelli a
residuale -ma falso- regime tardonaturalistico di Gadda3, la verità non dimora, come un valore
remoto e inconcusso, alla fine della narrazione, non risplende o si cela nell’approdo del “viaggio di
saggezza” sviluppato dal suo tempus fictum: non più altra dal tempo, non più depositaria e garante
del suo cursus semantico, essa, di fatto, coincide ormai col tempo, in ogni istante sincronica alla sua
diacronia, ma in nessun istante di essa sovrana.
Non per nulla, in ordine alla quaestio modernistica della “verità”, è stato osservato che sia lo
Svevo di Zeno che Gadda (con Pirandello, ovviamente) stanno “dalla stessa parte”, ma su piani di
percorso inversi, giacché Svevo e Pirandello “smenti[scono] l’esistenza della verità, ma scriv[ono]
1
Ma significativi interventi su Svevo (di Debenedetti, Linati, Stuparich, Rossi) apparvero allora anche su “Il
Convegno”, X, 1-2, gennaio-febbraio 1929.
2
Secondo l’accezione derridiana rielaborata nell’originale metafora critica che attraversa i densi capitoli di Pedriali
2006.
3
Fondamentali, in proposito, le analisi svolte da Donnarumma 2001.
come se compito della letteratura fosse pur sempre dichiararla”, laddove Gadda continua ad
asserirne l’esistenza quale “principio morale” o “dato positivistico”, “salvo porla in dubbio nel
corso della scrittura” (Donnarumma 2006, 17).
Ed è quello che Gadda fa anche col tempo. Ne simula il principio d’ordine, ne persegue –
ostenta di perseguirne4- lo schema, segnatamente nei due grandi romanzi incompiuti. Scrive come
se il tempo teleologico – il tempo della Causa (indeclinabile però al singolare), il “tempo di Cesare
e di Gregorio” (Gadda 1989, 195) – garantisse l’esperienza di un indefettibile acquisto cognitivo, e
ne custodisse il Valore. Ma è la scrittura – la sua deformazione nella costitutiva pluralità delle
cause, la sua polarizzazione “amletica” nelle infinite parvenze – a revocarlo in dubbio, a mostrarlo
lacerato, dissolto. Per tutti i personaggi di Gadda – per i suoi antieroi, come, in altra guisa, per
quelli sveviani - il mondo resta refrattario a una parola ultima, a una comprensione che ne liberi e
pronunzi il senso, e ne restituisca in forma adempiuta il valore. E la “malattia” che di volta in volta
ne logora la presuntiva e ormai destituita identità, la nevrotica “inettitudine”, diversamente
atteggiata, feconda o sterile, di Zeno o di Gonzalo (e dei minimali epigoni entro i quali, opaca e
rastremata, Gadda la svaria e la replica), vale a dare figura – una marca di distinzione prospettica,
una paradossale extralocalità, per così dire, dal loro universo fittivo - alla “diversità” (alla
costituzione intimamente antinomica, bìvoca) dei loro atti di cognizione o di reinvenzione
interpretativa dell’esperienza: dalle mendaci affabulazioni di cui si avvale la contraffatta e svagata
ironia mnestica di Zeno, che ammanta la verità esistenziale ascritta per statuto alla confessione
autobiografica con la tessitura affabulatoria di menzogne della parola e della mente da essa
indiscernibili, all’ossessione furente o malinconica che protende Gonzalo, grottesco testimone, o
tragico martire, di una strenua quête metafisica del Vero, all’invettiva contro le mendaci “parvenze”
che ne assediano la casa e l’anima.
Per lo schopenhaueriano5 Zeno la malattia è una “convinzione”6, e dunque rientra nel
dominio della sua volontà rappresentativa, e da tale angolazione egli ne agisce (ne tradisce),
contrastivamente al suo medico, la terapia prescrittagli e ne disloca e manipola i reperti e i rimedi. E
la “salute”, per questo, sarà per lui “come una schopenhaueriana rappresentazione” (Guglielmi
1986, 50), coonestata pragmaticamente dal successo commerciale (“fu il mio commercio che mi
guarì…”: Svevo 2004 a, 1082): o verrà ad attestare, se si vuole, il “gaio” e pur vano trionfo della
sua (invero, nietzscheana) soggettività infinitamente ermeneutica. La “salute” non sarà che l’altera
facies della “malattia”, il suo doppio metaforico e semantico, secondo il bifrontismo tematico messo
in luce da Camerino (2002, 93-118).
Per il gaddiano Gonzalo, invece, la sua malattia più profonda e più vera (“problema”
innanzitutto gnoseologico, e perturbante “favola”7) è “invisibile” agli altri, alla loro ossedente
“ambienza bugiarda”(Gadda 1991, 435): dal coro degli ottusi e prevenuti paesani del “borgo
selvaggio” che ne ospita ed effrange la invocata solitudine e ne intesse il malevolo mito deformante,
alla modesta scienza di un medico rustico e buonsensaio, investito, peraltro, di un inconsapevole
ufficio maieutico, di un socratismo affatto estraneo alla sua ottusità pacata e un po’ pettegola, e
insomma alla sua “salute” di ignaro psicopompo, preposto alla convenzionale terapia, o all’ausilio
4
Inversamente interpretano la questione, con riferimento peculiare al Pasticciaccio, Amigoni 1995, 27-45 e Bertoni
2001, 47-48.
5
Stasi 2009, 106. Sullo schopenhauerismo di Svevo è fondamentale Camerino 2002. Da vedere anche Curti 1992.
6
Come dichiara Zeno preliminarmente: “La malattia è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione” (Svevo
2004 a, 635).
7
“E c’era, per lui, il problema del male: la favola della malattia, la strana favola propalata dai conquistadores, cui fu
dato raccogliere le moribonde parole dello Incas. Secondo cui la morte arriva per nulla, circonfusa di silenzio, come una
tacita, ultima combinazione del pensiero” (Gadda 1988, 607).
pietoso e al rituale accompagnamento nel trapasso8, di anime (il Figlio, la Madre) di cui non gli è
dato intendere il cuore e gli affanni. Del resto, se il “buon dottore” (Gadda 1988, 604) dialoga col
suo catafratto eppur inerme paziente senza mai comprenderne il segreto rovello, né accedere
all'immedicata contraddizione, al torbido grumo di vissuto e pensiero, che lo abita (Gadda 1988,
618-659), resta proverbiale – quanto produttivo di acquisti narrativi e dislocazioni prospettiche - il
risentito antagonismo del medico di Zeno per il suo atipico paziente, della cui ambigua confessione
autobiografica, ben lungi dall’intravedervi le complesse ragioni che ne sottendono le proliferanti
tramature, egli ravvisa e denuncia la inestricabile commistione di verità e bugie, peraltro non
assolvendo al proprio dovere terapeutico e facendosi invece dominare da un accecato e subalterno
spirito di vendetta9, come per una ripresa ironicamente distorsiva del topico espediente romanzesco
del manoscritto ritrovato, parodicamente allusiva alla crisi della tradizionale sovranità autoriale che
nelle sue incomponibili anacronie10 la decostruzione romanzesca di Zeno capillarmente testimonia e
performa.
In Svevo, la contrapposizione frontale tra il medico e il suo antieroico malato, costituendo la
situazione genetica – il presupposto bachtinianamente dialogico - del destrutturato romanzo zeniano
della coscienza, ne procura la contaminazione metamorfica, le risemantizzanti diffrazioni del non
lineare strumento cognitivo – la memoria – adibito dalla nuova scienza psicoanalitica del dottor S.
all’analisi di un oggetto che sempre la eccede. In Gadda, la contiguità senza intersezioni o tangenze
sul cui asse si svolge il lungo e fondante dialogo della Cognizione tra Gonzalo e il dottore
(funzionale adattamento–abbassamento modernisticamente dissimulato e parodico del binomio
opposizionale che lega il cervantino cavaliere visionario al suo profano, “carnevalesco” scudiero)
mette capo alla prima decisiva climax tematica dell’opera, quella repentina enunciazione di un
“male” incorporeo che permane estraneo, nella sua verticalità metafisica, rafforzata dalla tournure
araldica dello stile, all’orizzonte senza squarci né bagliori di un’”arte medica” alla cui empirica
probità, immune da modernistici amletismi11, non è dato cogliere la dimensione noumenica - la
verità da Gonzalo dolorosamente perseguita - giacente al fondo dei fenomeni che quell’arte pietosa
e officinale è pur demandata a esplorare e “curare”.
Schematizzando molto, si potrebbe forse notare che nei due romanzi il rapporto tra i grandi
“malati” che ne sono protagonisti e il loro risentito o bonario terapeuta si muove su paradigmi
opposti e complementari: nel caso di Svevo su un asse metaforico, mentre in Gadda prevale una
procedura di tipo metonimico. Infatti, la struttura antagonistica del rapporto tra Zeno e il suo
maldestro o raggirato terapeuta promuove il (e si articola nel) dominio di un sistema metaforico, nel
quale tra “cura” e “malattia” vige una specularità contrastiva che ne produce la inversione
semantica e valoriale, giacché la stessa “malattia” di Zeno, come rileva Palumbo (2007, 153),
metaforizza una estrema protezione della “vita”, ovvero – come ha scritto Lavagetto (1975, 195)- “è
8
Tale, di fatto, la funzione assolta dal dottor Higueròa nel lirico stemperarsi del ‘notturno’del IX ‘tratto’, su cui si
arresta la Cognizione del dolore: “L’ausilio dell’arte medica, lenimento, pezzuole, dissimulò in parte l’orrore. Si udiva
il residuo di acqua e alcool dalle pezzuole strizzate ricadere gocciolando in una bacinella. E alle stecche delle persiane
già l’alba. […]” (Gadda 1988, 735).
9
“Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia”, scrive infatti il Dottor S., nella Prefazione alla Coscienza, così
motivando la sua decisione di pubblicare le memorie autobiografiche del suo paziente poi sottrattosi alla cura (Svevo
2004 a, 625).
10
Come è stato ribadito da F. Vittorini nel suo Commento al romanzo (2004, 1564), il “trattamento del tempo” nella
Coscienza di Zeno “comporta una continua e capillare alterazione della cronologia naturale mediante la creazione di
numerosissime ‘anacronie’, cioè asimmetrie tra l’ordine reale degli eventi della storia (fabula) e l’ordine secondo il
quale essi sono rappresentati nel racconto (intreccio)”.
11
Su matrici e figure del “tema amletico”, emblematico, nella sua durata, del rovello gnoseologico-morale che alimenta
la dismorfica inventio romanzesca gaddiana, e in particolare la Cognizione, riflettono Bertone 2004 e Stellardi 2008 a.
l’ultima forma di resistenza all’espropriazione” della soggettività “in un mondo senza scampo”. E la
temporalità che essa “finge” o traveste metaforizza il disordine irredento della esistenza colmandolo
di senso (Stellardi 2008 b, 9).
Invece, la divaricazione antinomica dei piani di percezione e di restituzione della malattia –
e della difformità “euristica” e morale, di cui essa è in Gonzalo proiezione mascherale e riflesso
tematico - che incardina il dottore e l’ultimo hidalgo di Lukones su rette parallele senza incontro
all’infinito si attaglia ad un sistema compositivo nel quale vige il primato dell’asse metonimico costitutivo, peraltro, della scrittura gaddiana tutta12. Difatti, a non voler qui richiamare, a modo di
esempio, per tale primazia del “modo” metonimico, la peculiare iteratività tematica e figurale di una
narrazione che procede in gran parte per accumuli variantistici, e intreccia le sue trame – come ha
diffusamente mostrato la Savettieri (2008) - per germinazioni oppositive e gemmazioni
metonimicamente binarie, valga solo il minimo rilievo che la stessa “invisibilità” che connota il
“male” di Gonzalo ne demarca una relazione di contiguità non solo tematica ma pure
narrativamente prolettica con l’irrappresentabile “verità" del noumeno, con la pensabilità di essa
solo via negationis, e con il “dolore”, che di quel male noumenico – del resistente ma
modernisticamente inappagabile “pathos della verità”13 che lo suscita - espone l’estetica
traslitterazione in figura, nell’approdo dell’itinerario della mente ad un simulacrale Erlebnis, alla
“verità” priva di essenza di una Forma, come per Pirandello, “campata sul vuoto”.
Si tratta, comunque, di modalità sostanzialmente omogenee, nelle loro pur eterogenee
ragioni struttive e procedurali, della disgregazione modernista della temporalità romanzesca: e, sarà
appena il caso di aggiungere, di revoca della ipoteca, che la attraversava e scandiva, di una verità
presupposta e disposta al suo dialettico disvelamento. Per la scrittura autoterapeutica di Zeno,
infatti, la verità di ogni fenomeno, come si evidenzia nell’ondivago andirivieni temporale dei
percorsi tracciati dai suoi (trasgressivi) esercizi di recupero memoriale del proprio sé, si rivela
meramente circostanziale e dialogica, rivenendo dalla problematica negoziazione - entro la
pluriversa soggettività narrante che ne detiene intrinsecamente la quête - del suo contenuto
esperienziale e semantico tra il momento dell’accadere e quello del ricordare. Ovvero, dal nesso
conflittuale tra l’attitudine mimetica della sua referenzialità e la sua modernistica autoconfutazione,
a tutto vantaggio della tensione ermeneutica che la pervade. La “verità” assume statuto
eminentemente temporale. Essa non ha, per l’antieroe della Coscienza, radici che nell’erranza
sconfinata e ironica della stessa parola che la istituisce, quale felix culpa della sua “malattia”:
“avevo la malattia della parola”, recita, infatti, una occasionale quanto sintomatica dichiarazione di
Zeno, “la parola doveva essere un avvenimento a sé per me e perciò non poteva essere imprigionata
da nessun altro avvenimento” (Svevo 2004 a, 700). Non poteva essere imprigionata dal tempo,
sibbene in sé stessa istituirlo: e appunto in questo – nella “convinzione” che ne fagocita la spinta
referenziale, nel suo pari antimimetico- trovare la sua “verità”. Quella di un soggetto che, lungi dal
ricomporla, produce la propria identità in quanto mera istanza narrativa, e inventa – si inventa in un mai intermesso presente, nel quale il passato composto e ordinato della memoria emendatrice
(“Il ricordo corregge. Tutto esso fa dolcemente fondere”: Svevo 2004 b, 760) è integrato e trasceso
dal tempo fluido dell’immaginazione, dal suo “reale invisibile”14: “Bisogna credere” – annotava
significativamente Svevo - “nella realtà della propria immaginazione” (Svevo 2004 b, 760)15.
12
Si vedano, in merito, gli studi decisivi di Roscioni (1969) e Manzotti (1996, 302-319).
13
Serrate riflessioni sulla declinazione modernista del pathos della verità e del mito della profondità nel problematico
“realismo” di Gadda svolge Donnarumma 2006, 16-25.
14
Per riprendere, qui, l’efficace ossimoro proposto da Baldi (2010) in ordine al rapporto tra interiorità e mimesi nella
narrativa modernista di Pirandello e Gadda.
15
Sul lavoro della memoria e dell’immaginazione nelle riflessioni diaristiche di Svevo si vedano le concentrate
notazioni di Vittorini 2004, 1542-1546.
Questo l’assunto che, come sappiamo, presiede alle dinamiche zeniane del ricordo non meno che a
quelle del sogno, le quali disegnano una filigrana contrappuntistica all’interno dell’ambiguo piano
autobiografico del romanzo16,come un controtempo che revoca in dubbio ogni convenzionale
pretesa identitaria del personaggio, e lo consegna al gioco illimitato di una narrazione radicalmente
“inattendibile” e dunque a una temporalità radicalmente interpretativa e negoziale. Per Zeno,
“inetto” che attraverso la letteratura converte in forza – nella vis destruens della parola e del “riso” la propria condizione, il senso fondativo del tempo e dell’esperienza, il centro semantico che ne
costituisce il principio ordinatore, la “verità”, “esiste da qualche parte, dietro le parole, e non può
essere affidata che all’interpretazione” (Lavagetto 2004, LXVIII). La “verità” per lui, in quanto
ipostasi valoriale, in quanto ipoteca conciliativa – come indicava Magris (1984, 207) - è, insomma,
“scollata dalla vita”, dal suo indistinto fluttuare, dal suo tempo sempre e solo istantaneo e perduto –
o trattenuto, nel suo scorrimento, dal testo senza ricordi né sogni del diario, che sembra infine
restituire il personaggio alla paradossale “salute” riveniente dal suo affrancarsi dal tempo
dell’essere per consegnarsi a quello, immune dall’imperio di conciliarvi destino e carattere, di una
soggettività in incessante divenire, ormai indifferente all’antico patto faustiano17, aperta o
nietzscheanamente arresa al ritmo insedabile di un tempo “malato” e irredento, malinconico o
“gaio” gioco ermeneutico, senza partitura né forma, senza scienza né “cura” che lo componga e
trascenda. Una soggettività, quella di Zeno, ovvero una “coscienza” che, accreditandosi ora di
autenticità tramite lo statuto diaristico della scrittura, non esita, nell’ultimo capitolo, in una pagina
datata “15 Maggio 1915” (in complementare sintonia con il rifiuto, incipitariamente dichiarato,
della inadeguata scienza del dottor S.: Svevo 2004 a, 1048), a testimoniare la propria straniata
ripulsa del fittizio ordine normativo offerto dal calendario alla inconcussa dinamica delle sue
pulsioni (il vizio del fumo) e a pronunziare una ironica denuncia della sua contraddittoria e
velleitaria grammaticalizzazione della vita nel suo trascorrere (“salvo il Luglio e Agosto e il
Dicembre e il Gennaio non vi sono altri mesi che si susseguano e facciano il paio in quanto a
quantità di giorni. Un vero disordine nel tempo!”: Svevo 2004 a, 1065). Non è un caso che appena
più avanti il diarista renda conferma della soggettività prospettica della sua percezione temporale,
inavvertitamente immettendo una allusione tematica al ritrovamento della “salute” di se stesso e del
tempo implicitamente inscritta, pur nella sua evidente improprietà, e attraverso una banale
equivocità semantica, in una soddisfatta osservazione della condizione atmosferica stagionale
(“Non v’era dubbio: il tempo stava risanando!”: Svevo 2004, 1066). Durante una breve pausa
festiva, infatti, nella solitudine di uno scenario idillico restituito in cadenze pacate, che, immuni da
ogni accensione lirica, valgono a non renderlo remoto, sibbene a mantenerlo contiguo alle cure
consuete della quotidianità, Zeno sembra trovare un momento di serena conciliazione con la
temporalità, cioè con la vita-malattia, con la “incurabile” contaminazione che la costituisce (“In
mezzo a quel verde rilevato tanto deliziosamente da quegli sprazzi di sole, seppi sorridere alla mia
vita ed anche alla mia malattia”: Svevo 2004 a, 1066) : e questo inizia ad accadere quando egli si
isola per starsene raccolto ed intento, quasi nell’attitudine dello scrittore (Saccone 1991, 71), e
come ritrovandosi radicato solo nella propria liberata contingenza creaturale, a guardare il vitale
trascorrere dell’acqua18, il suo tempo fatto spazio, il suo presente sempre altro, sempre altrove da sé:
16
“Zeno finisce per rendere ancora più evidente e clamorosa la funzione dei sogni raccontati nel romanzo: quella di
lasciare affiorare una sorta di contro-coscienza, un anti-romanzo che disgrega il romanzo fondato sulla rappresentazione
della ‘coscienza’, dando corpo a un’autobiografia immaginaria, possibile, ma diversa da quella progettata”: Vittorini
2004, 1619.
17
“La tensione faustiana è finita: l’individuo privato di una sua unità non può più desiderare, perché non c’è più un
individuo, un soggetto capace di passioni, ma soltanto un oscillante fascio di percezioni […]. L’intelligenza può solo
fingere, per sopravvivere, di non accorgersene, ma il riso della conoscenza prorompe forte e disincantato. Il vegliardo
ride del proprio scacco, come Nietzsche aveva riso di Faust”: Magris 1984, 207.
18
In merito, cfr. Palumbo 2007, 153-154.
Per raccogliermi meglio passai il pomeriggio del secondo giorno solitario alle rive dell’Isonzo.
Non c’è miglior raccoglimento che star a guardare un’acqua corrente. Si sta fermi e l’acqua corren-
te fornisce lo svago che occorre perché non è uguale a se stessa nel colore e nel disegno neppure
per un attimo.” (Svevo 2004 a, 1065)
Ma l’adesione all’impermanenza del tempo, la ricongiunzione della soggettività alla forma
infinitamente mutevole del presente (al suo costitutivo negarsi alla stabilità della forma), la sua
immersione senza dominio (senza astrazione funzionale a una organica totalità romanzesca) entro il
fluire della vita richiede, e insieme suscita, il farmaco ambiguo di una salvezza del tempo (e dal
tempo) che può essere custodita e agìta solo nella scrittura, nella sua vocazione a comporne,
interpretandolo senza fine, il perpetuo disordine. “Fuori della penna non c’è salvezza” (Svevo 2004
b, 733): fuori della scrittura, fuori dell’interminabile lavoro ermeneutico della sua finzione, c’è un
tempo che non può essere trattenuto né salvato, ma, appunto, solo infinitamente interpretato nel suo
sempre di nuovo passare, nel suo fulgente e cieco trascorrere. Ma al fondo di quell’inintermessa
trascorrenza, di quel tempo non ritrovato ma per sempre liberatoriamente perduto, di quella non
epifanica promesse de bonheur che sembra riscattare l’“inaffidabile” personaggio sveviano
(Bazzocchi 2009) e farlo vincente e sovrano, come per la eroica navigazione gaddiana delle
generazioni verso il lume inattingibile del loro agognato orizzonte, altro non vi è – nichilisticamente
traguardato come spettacolo apocalittico, nella pagina finale della Coscienza, o, per converso, come
immedicabile folgorazione, in Gadda, di ogni teologale virtù identitaria - che l’“incredibile
approdo” della morte. Su tale pensiero senza immagine, infatti, si chiude il celebre passo della
Cognizione demandato a mettere in scena - come una movenza riflessiva in cui il punto di vista del
personaggio rimeditante (il dottore) si contamina e diffrange in quello del narratore - il topos
gaddiano della “navigazione” sorretta da una finalità etica, già elaborato nel fondante saggio
solariano del ’27, I viaggi, la morte (Gadda 1991, 561-586), che ne rivendicava la primazia a fronte
della pur fascinosa deriva estetica del voyage baudelairiano e rimbaudiano, e qui però ripreso e
modernisticamente disvelato nella sua tragica vanità di paradigma di una ricerca di valore senza
riscontro nell’esperienza né luce di riscatto ideale:
Oh!, lungo il cammino delle generazioni, la luce!... che recede, recede…. opaca, dell’immutato
divenire. Ma nei giorni, nelle anime, quale elaborante speranza!.... e l’astratta fede, la pertinace
carità. (…) La luce, la luce recedeva…. E l’impresa chiamava avanti, avanti, i suoi quartati: a voler
raggiungere il fuggitivo occidente…. E dolorava il respiro delle generazioni, de semine in semen,
di arme in arme. Fino allo incredibile approdo. (Gadda 1988, 604).
Il tempo dell’antieroe modernista, quale che sia la sembianza assunta dalla sua inettitudine,
non risulta, dunque, suscettibile di alcuna conciliazione, o redimente catarsi 19. La luce della
“verità”, lungi dall’illustrarne la malattia e apprestarne la cura, ne “recede”, “opaca”, sempre
sopravanzata o inseguita dall’ombra del non-essere, dalla sua informe immanenza. Sommo gesto
etico, estremo acquisto conoscitivo sarà allora riconoscere in sé e accettare lo stigma di un destino
ostile e inappropriabile: quello per il quale, secondo l’acuto rilievo di Camerino (2002, 75),
“l’inettitudine alla vita predispone l’attitudine alla morte”.
Ed è singolarmente indicativo che sia il romanzo della Coscienza che quello della
Cognizione si arrestino –non finiscano- su uno scenario apocalittico: proteso a una antinomica
fantasmagoria del futuro, in Svevo, rivolto a un regressivo fondale idillico, in Gadda, comunque
attraversati entrambi da un riconoscibile retaggio leopardiano, quello del Cantico del gallo
silvestre20, che all’improvvisa epifania albare stagliantesi a sancire, dopo la notturna agonia della
Madre di Gonzalo, il trionfo della morte - ultima combinazione del pensiero che dilacera il nucleo
19
Come, a proposito della Coscienza, sottolinea Palumbo (2007, 152): “In posizione simmetrica nella struttura del
romanzo, il primo e l’ultimo intervento di Zeno servono a sottolineare l’impossibilità di ogni catarsi, e piuttosto
sanciscono l’irreversibilità di una storia che ha perduto ogni innocenza”.
20
Per tale tessera intertestuale in Svevo cfr. Stasi 2009, 109.
violato dell’Essere, approdo estremo dell’euresi alla figura che la compie e la nega - fornisce
addirittura, nella residuale sacralità di un quotidiano rituale, l’immagine allusiva – l’acustica
“polarità” - del gallo, araldo innocente e crudele di un tempo per sempre dissolto, e sempre di
nuovo tornante solo nel deserto fulgore della parvenza: “E alle stecche delle persiane già l’alba. Il
gallo la suscitò improvvisamente dai monti lontani, perentorio ed ignaro, come ogni volta. La
invitava ad accedere e a elencare i gelsi, nella solitudine della campagna apparita” (Gadda 1988,
755).
Certo, andrà ribadito che, diversamente da Gadda, il quale assegna la gestione del romanzo
a una ibrida e multanime voce narrante, Svevo demanda l’evocazione di una futura apocalisse
temporale alla soggettività del suo personaggio, alla interpretazione enfatica e paradossale, indotta
dalla guerra in corso che repentinamente lo ha sorpreso, attraverso cui Zeno stigmatizza le
innaturali, atroci protesi, di cui l’uomo contamina la “vita attuale”, le auto-proiezioni di sé in
mostruosa sineddoche (gli “ordigni”) e, più, alla sua ultimativa sanzione della costitutiva
incurabilità dell’esistenza dal suo male primario, il tempo, che ne illude di forma il naturale
svolgimento e insieme ne reca in sé la irrevocabile denegazione (Svevo 2004 a, 1084). Il
decostruttivo romanzo di una soggettività in permanente gioco, o conflitto, col tempo, e dunque,
nonché refrattaria, impossibilitata ad avvalersi dei suoi convenzionali paradigmi, non può che
terminare con la fine del tempo. “Alla fine del romanzo non il racconto del mondo cessa, ma il
mondo” (Guglielmi 1986, 52). A sanzionarne la morte è la stessa soggettività del narratore, la sua
“coscienza”: che, come il pirandelliano Moscarda, “non conclude”: non però arrendendosi al fluire
di un tempo senza ricordi o nomi, bensì volgendo lo sguardo al proprio destino (alla propria vita
senza più destino), ormai inconciliabile con una parola che raccontandolo lo restituisca alle forme
del tempo, al tempo in quanto forma. La vita dell’inetto non può “concludere”. In quanto
personaggio che assume in sé la scissione modernista tra conoscenza e coscienza, tra mondo e
mente, la sua sincronia col tempo è interdetta, spezzata (Palumbo 2007, 19). E segnatamente, nel
caso di Zeno, che inventa il proprio mondo affabulandone il tempo, la sua scrittura è “infinibile”
(Lavagetto 2004, XC): come lo è per Gadda, autore di personaggi immersi nella deriva
dell’”euresi”, in una navigazione senza cominciamento né fine, sul ponte di un rimbaudiano “bateau
ivre” (Gadda 1993, 628).
Nella sua permanente dissonanza col tempo esterno e nella sua apertura senza riparo al
proprio tempo interiore, alla soggettività che sempre ne trascende cognizioni e linguaggi, l“inetto”
ospita o protegge, tra le pieghe della sua maschera, la tipologia letteraria del “personaggio che
riflette”, dell’“eroe intellettuale” (Mazzoni 2011, 344): ovvero dell’anti-eroe, se si voglia così
designare il personaggio letterario non più capace di conciliare in sé l’azione e la riflessione, che
dilaga, et pour cause, nel XX secolo. Ma se questi “inetti separati dalla vita attiva e dediti alla
riflessione” (Mazzoni 2011, 345) accomunano, nelle loro diverse configurazioni, la prosa di Svevo
e quella di Gadda, e se lo stigma che più eminentemente li contrassegna è quello della distonia dal
tempo esterno, assai differenti risultano nei due scrittori le modulazioni della peculiare
soggettivazione della temporalità che quella distonia necessariamente comporta. Nella vicenda di
Zeno il tempo della tradizionale totalità romanzesca è di fatto azzerato, giacché ogni capitolo offre
una storia in sé compiuta, senza peraltro mai dismettere la marca della parzialità e del frammento. Il
tempo oggettivo è destituito dall’interno: fagocitato e trasceso dalla crasi affabulante della sua
memoria mendace, anzi ermeneutica, perché la mobile verità che essa persegue è interiore e non
mimetica. Svevo/Zeno rinuncia alla perenta “verità” del tempo, a vantaggio della rappresentazione
di esso. Il tempo perde la sua sostanzialità, la sua riserva essenzialistica, per mutarsi in oggetto, e
soggetto, ermeneutico.
In Gadda sembra vigere ancora l’ipoteca di un paradigma temporale ottocentesco, tra
Manzoni, Zola, Balzac, ma radicalmente estraneo ai suoi “inetti”, che, pure, si attentano ancora a
perseguirne o rimpiangerne la impredicabile “verità”: scoprendone, invece, il “dolore”, cioè la
irriducibile connessione antinomica tra il divenire e il non-essere, tra la conoscenza e la negazione:
di ogni valore e della stessa soggettività “euristica”. Del tempo permane lo schema, la figura lirica o
spettrale del suo eterno ciclo. La sua soggettivazione si disloca nel lavoro deformante dello stesso
proteico narratore, che delle cose e degli eventi ostenta il fieri perpetuo ma acostruttivo. La parola
non cattura, ma riceve dentro di sé il mondo, il suo divenire. Istituisce, nella crasi polifonica degli
stili e delle voci, e nella frantumazione digressiva della struttura romanzesca, una mimesi del tempo:
o meglio, la sua ostensione entro lo spazio iconico del proprio movimento, del proprio “spasmo”.
Nell’alternanza, e più spesso nella mescidazione di lirismo e satira, la parola gaddiana intesse una
sontuosa parodia della temporalità canonica, della sua antica riserva di verità e valore, della sua
Grande Forma ormai perduta. “Se essenziale alla parodia è la presupposizione dell’inattingibilità
del suo oggetto” (Agamben 2010), nel segno della parodia Svevo e Gadda tematizzano
l’irraggiungibilità, nel tempo, del Vero, la sua eccedenza di ogni linguaggio.
Questo il perno diegetico, riflesso di un trauma soggettivo quanto storico, attorno a cui
ruotano, nel loro “delirio d’immobilità”, i melanconici o atrabiliari “reduci” di Gadda, che - dal
saturnino e dostoevskijano Gonzalo al bizzoso capitano in congedo Gaddus, dal suo pacato e
impacciato omologo Delacroix al misantropico Prosdocimo al filosofico Ingravallo, teste della
vanità di ogni riparazione “euristica” del tempo di fronte al dominio del caso - ne compongono
l’autoritratto in maschera ludens o lugens, imprigionati nel loro grottesco martirio di antieroi espulsi
dal tempo-Valore, senza più destino di gloria né approdo di conoscenza, epigonali proiezioni, nella
loro impossibilità di accedere all’esperienza vitale e riacquisirne il senso, della tipologia dell’inetto
di cui Svevo aveva rovesciato la parabola nel metamorfismo identitario e temporale,
paradossalmente positivo, di Zeno. E se in Zeno il tempo “misto” e inventato della scrittura
istituisce un’”altra vita” (Stellardi 2008 b, 1), pervenendo alla disperata “salute” ossimorica (Stasi
2009, 109) di una prefigurazione apocalittica, nella cognizione tragica di Gonzalo e Ingravallo il
tempo, “parvenza” del “processo deformatore” (Gadda 1993, 1349), sua necessaria
rappresentazione, infine si lacera a mostrare il “male” che lo abita. In Svevo come in Gadda la
dimensione temporale – in quanto paradigma mimetico e semantico - si conferma figura decisiva
della soggettività modernista, che non vi attinge altra verità se non quella del suo movimento senza
causa né fine, sempre diverso e sempre uguale a se stesso. Nel sempreuguale del tempo, in ciò che
ne resta, sta la sua verità, la sua forma. Ma il sempreuguale del tempo non è che la morte: e la
parola che in sé lo “finge” cade nel vuoto dell’allegoria.
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