“Un inciampatore per natura”: lo shlèmiel sveviano
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“Un inciampatore per natura”: lo shlèmiel sveviano
Barbara Sturmar “Un inciampatore per natura”: lo shlèmiel sveviano “Quella dell’ebreo non è una posizione comoda.” Italo Svevo “Lo shlèmiel cade di schiena e si rompe il naso” (Ovadia 1998, 95). Un witz ebraico per definire una tra le più popolari maschere del folklore yiddish: un personaggio che con i suoi impacciati tentativi di adattamento e assimilazione ha fornito spunti per ogni forma di narrazione e rappresentazione degli ebrei della diaspora. Si tratta di un uomo che ha sul mondo uno sguardo precluso ai goyim - gentili -, una creatura filosofica sospesa fra il sein e il da-sein. La diffusa popolarità di questa figura deriva dal racconto di Adalbert von Chamisso, La meravigliosa storia di Peter Schlemihls, datata 1813, che fece coincidere il nome comune con il cognome del protagonista eponimo. Peter Schlemihls si rifà alla figura di Assuero, l’ebreo errante per antonomasia, poiché l’assenza dell’ombra equivarrebbe alla mancanza della patria 1. Indubbiamente si tratta di una maschera che fornisce una chiave d’interpretazione nell’analisi del carattere dei protagonisti della letteratura sveviana, che dovrebbero essere letti in stretta connessione con l’universo emozionale, ideologico, etico e con l’immaginario letterario dell’ebraismo est-europeo. Si tratta di un bagaglio culturale che si riallaccia alle origini e alla formazione culturale di Italo Svevo, il quale lo ha più o meno inconsapevolmente fatto emergere sotto forma di ubertoso sostrato di ebraitudine, nonostante lo scrittore si fosse ufficialmente discostato dalla fede “dei padri”2. Da “disertore del ghetto”, a intellettuale poliglotta cresciuto alle sottigliezze della scuola talmudica e successivamente laicizzato, Svevo “nel fondo tanto complesso del suo essere” (Svevo, 2004b, 736) ha vissuto la scomoda posizione dell’ebreo, rintracciabile anche nella confessione censurata di una delle stesure provvisorie della Prefazione di Senilità. Il letterato (2004a, 1347) ha ammesso che Emilio era ebreo e l’origine del suo carattere senile probabilmente si rifà alle peculiarità della sua “razza”. Brentani assomiglia a un povero ebreo senza neppure le consolazioni dell’ebraismo (Bermant 1971, p. 192), mentre Zeno, “per molto tempo” dopo la morte del Vecchio Silva, rimane nella religione dei padri, trovandovi conforto (Svevo 2004a, 684). Anche la sua passione per le combinazioni numeriche delle date, condivisa dallo stesso Svevo, sembra rifarsi alla pratica cabalistica della permutazione; inoltre la predilezione per la musica, che Zeno ed Ettore hanno nuovamente in comune, rappresenta – soprattutto con il violino – la stretta relazione degli ebrei con l’unica arte generosamente consentita dal loro credo (Ovadia 1998, 172). Si tratta di alcune tracce significative che confermato come il tema dell’ebraismo riaffiori nella stratificata coscienza dello scrittore. Anche in Svevo c’è quel fondo dell’antico ebreo perseguitato. Qualche volta papà ne ha parlato. Ma sempre sorridendo, com’era suo costume. Raccontava barzellette, prendeva in giro se stesso e gli altri (Svevo Fonda Savio 1978)3. L’atteggiamento dei disagiati shlèmiel sveviani - che parallelamente allo scrittore hanno interiorizzato l’ebraicità e sono vittime di un’ancestrale inquietudine (Ghidetti 1992, 35) - è disseminato di ulteriori indizi che, confermando la debolezza e l’insicurezza dei protagonisti delle 1 Wisse 1974, 182. Sull’umorismo e lo shlémiel vedere Bortolussi 2008, 19-50. A proposito dell’ebraismo di Svevo: Moloney 1998, 33-46 e bibliografia a nota 2 di p. 45; Cavaglion 2000, 6978; Schächter 2000 e 1995, 24-47; Senardi 2008, 188-198; Moretti 1995, 137-158; Serafini 2009, 186-176. 3 Citata da Cecchi (1978). 2 1 opere narrative, attirando l’attenzione sulla loro instabilità fisica, specchio di un equilibrio psichico claudicante. Arturo, il primo inetto sveviano di Una lotta ha “il passo malsicuro”, Giorgio - l’assassino di Via Belpoggio - ostenta “tentativi di disinvoltura” ma quando viene colpevolizzato si allontana dagli altri operai “barcollando” (Svevo 2004b, 16, 46). In Una Vita, romanzo che originariamente doveva intitolarsi Un inetto, quindi uno shlèmiel, ad Alfonso “tremano le gambe” e il signor Cellani “non sa stare sulle gambe”. In Senilità Margherita, che accompagna il Balli alla “Cena dei vitelli”, ha il passo malsicuro e Angiolina “con voce cattiva” la definisce “zoppa”(Svevo 2004a, 220, 384, 449). L’efficacia espressiva del passo è stata magistralmente sfruttata nel cinematografo dall’ebreo onorario Charlot, tanto che Crèmieux (1926, 154)4 - altro israelitico - trovava in lui e in Zeno “la stessa toccante ostinazione a vincere i piccoli ostacoli.” Charlie Chaplin, è stato più volte definito la quintessenza espressiva dello humour ebraico e con Charlot è divenuto la perfetta personificazione dello shlèmiel: disadattato indomito e vagabondo errante. Svevo avalla le tesi del critico francese nel Profilo autobiografico, sostenendo che similmente a Charlot “Zeno inciampa nelle cose”(Svevo 2004b, 812). Lo scrittore triestino rimarca che le movenze talora caricaturali di Zeno evidenziano il suo carattere “effimero e inconsistente”, ma anche la sostanza ingannevole della volontà degli uomini costretti a mentire a loro stessi per attenuare i dolori esistenziali. L’equilibrio fisico è lo specchio dell’equilibrio psichico e, come suggerisce lo scrittore di origine ebraica Giani Stuparich (1942, 30), nel passo si riflette il meccanismo di un carattere. Quindi il portamento di Zeno diviene metafora della sua instabilità, in antitesi con l’etimologia del nome che rimanda a Zeus e dovrebbe identificare un individuo che “ha talmente tanta fiducia nelle proprie capacità da procedere diritto per la sua strada a testa alta; un uomo regale, deciso, forte, che conquista la sua meta passo dopo passo con un atteggiamento di superiorità” (Ferreri 1999, 246). La selezione paradigmatica dei nomi dei personaggi, compresi gli pseudonimi, pare sia stata per Svevo un momento cruciale della sua creazione artistica, poiché essi semantizzano la sua interpretazione del mondo, significando per antitesi, analogia e allusione. Si tratta di scelte che risultano coerenti al senso globale del suo intero corpus letterario (Pop 2004, 125). In questo complicato gioco di riferimenti e interdipendenze (Bazlen, 1984, 238) l’insicurezza dell’incedere dei personaggi rimanda alla loro dis-organizzazione mentale e quando Zeno cammina non deve riflettere sul movimento dei piedi altrimenti zoppica 5. Troppi muscoli in movimento lo fanno pensare a una “macchina mostruosa con cinquantaquattro ordigni” che perde il suo “ordine”. L’andatura sgangherata di Cosini si manifesta anche a causa delle sue insicurezze sentimentali quando sostiene di aver “zoppicato da Ada ad Alberta per arrivare ad Augusta” (Svevo 2004a, 731, 786). Il giorno in cui Ada presenta Guido a Zeno, egli non solo zoppica, ma crede di farlo con disinvoltura, mentendo doppiamente e celando - forse - solo a se stesso l’evidenza della sua goffaggine. Guido invece è disinvolto, caratteristica che Zeno gli invidia “più di tutto” (ivi, 737738) e lo fa sentire ancora più maldestro. In questo frangente si inserisce perfettamente un altro witz ebraico che sintetizza la relazione di Zeno con l’incidentale morte di Guido. Lo shlemiel è uno che quando tira la corda a un uomo che sta annegando gli butta tutti e due i capi (Ovadia 1998, 95). 4 “Du Zeno Cosini de La coscienza di Zeno, […] on peut dire, pour faire bref, que c’est une sorte de Charlot bourgeois triestin. On lui voit la même inépuisable bonne volonté, la même aspiration vers la sagesse et vers l’héroïsme qu’à la “création” de Charlie Chaplin: il déploie lui aussi une ingéniosité, une démesuré à vaincre les moindres obstacles et avec la même touchante obstination, il échoue dans tout ce qu’il entreprend.” Crémieux 1926, 154. 5 In riferimento a ulteriori legami con la zoppia e l’universo sveviano si segnalano Carmine Di Biase (2012) con l’identificazione di Regina Dal Cin, la conciaossa veneta di Anzano, citata da Elio Schmitz (1997, 42) nel suo Diario; Cepach 2012, Gilman e Xun (2009, 375) che rimandano ai collegamenti tra la zoppia, il fumo e il mondo ebraico. 2 La zoppia più evidente nella narrativa sveviana è sicuramente di Emilio Merti, marito di Amelia nella Buonissima madre, che è costretto a indossare uno stivale con una suola di quindici centimetri per pareggiare la lunghezza delle gambe. Probabilmente ispirandosi al biblico Mefiboset (2 Samuele 4:4), Svevo scrive che Emilio racconta alla moglie di trovarsi in quelle condizioni a causa della balia, poiché da bambino lo aveva “lasciato cadere a terra”. Dalla coppia nasce un figlio “storpio”, che il romanziere sarcasticamente chiama Achille. Tutt’altro che “piè veloce” il bambino manifesta lo stesso problema del padre e la madre si adopera per lui in tutti i modi, ma il “mostriciattolo” è un ingrato, che “seccato forse da tante cure” cresce “cattivetto parecchio” (Svevo 2004b, 271, 274). Ancora più perfido è Enrico Gaia che si prende gioco di Mario Samigli. Come ricorda Paolo Puppa (1995, 34), il cognome fu usato anche da Svevo come secondo pseudonimo dopo Erode - e rappresenta un’enigmatica sciarada di Shlemiel. In questa novella lo scrittore viene diabolicamente truffato da un individuo che zoppica “come Mefistofele”, ma contrariamente a Peter Schlemilhl, il Samigli sveviano non cadrà nella trappola del “bestione” (Svevo 2004b, 263) e si vendicherà picchiandolo. Uno shlèmiel solo di nome ma non di fatto, analogamente a Enrico, che della potenza dell’etimologia del suo nome sembra conservare ben poco 6. Come suggerisce Brian Moloney (1998, 41-42), forse il primo shlèmiel per Svevo è l’uomo Ettore Schmitz, quale si descrive nelle lettere alla moglie, alcune delle quali paiono degli abbozzi della Coscienza. Passando davanti ad una baracca vidi che c’erano in vendita delle sigarette con la soprascritta: La Fusée. […] Ne accesi una poco dopo e mi fermai a guardare un’automobile che passava. In quella la mia sigaretta si mette a fumare da sola e mi scoppia in bocca con un crepitio abbastanza forte. Lasciai cadere la sigaretta dallo spavento ma non ero sicuro se fosse scoppiata essa o l’automobile. Il chauffeur, però, rideva più di me, ciò che provava che l’automobile non era danneggiata. Io non so ancora esattamente che cosa voglia dire fusée ma ad ogni modo è cosa da cui bisogna stare alla larga e non lo dimenticherò più. Adesso ho cinque sigarette che non so dove mettere perché ho paura che piglino fuoco in valigia (Svevo 1966, 253). Il ridere di sé dell’ebreo è salvifico, perché smaschera la stupidità di una società in cui egli vorrebbe “mimetizzarsi” e che si rivela violenta e ottusa ma si proclama normale e sana. In tale contesto il diritto all’autoderisione ebraica si conquista proprio attraverso l’incontro-scontro con i gentili, il divino, il dolore e la sofferenza (Ovadia 1998, 173). Situazioni e conflitti che nella narrativa sveviana si manifestano sotto forma di disagio e malattia. Nella mappa del corpo umano progressivamente tracciata da Svevo, si rimane sempre nello stesso ambito perché la fragilità dei personaggi si conclama, come nel caso del gottoso Giulio Samigli, con l’infermità alle gambe (che sia il fratello di Mario lo shlèmeil della novella?). La signora Anna di In Serenella ha le gambe ammalate (Svevo 2004b, 321); in Una vita Jassi e il vecchio Merlucci hanno la “medesima sventura, la debolezza alle gambe” (Svevo 2004a, 107). L’infermità del vecchio Lanucci e dell’anziano Malfenti si conclamano con la loro immobilità e le gambe fasciate con coperte pesanti, inoltre Giovanni soffrirà per “una certa gonfiezza ai piedi” (ivi, 330, 805, 827). Quando Zeno sogna Ada, sfigurata dal morbo di Basedow, le abbraccia le gambe malsicure (ivi, 962), simili alle “gambe sottili come fuscelli” di Amalia, che pare “un ragazzo malnutrito” (ivi, 574); suo fratello Emilio rimane “immobile sulle gambe paralitiche” (ivi 603) dopo l’ultimo battibecco con Angiolina. Non si dimentichi che la malattia del Buon vecchio si manifesta quando “le gambe non lo reggono più” (Svevo 2004b, 476) e pure l’equilibrio del vegliardo è effimero: ha le “gambe stanche” e il suo corpo “resta in piedi perché non sa da che parte cadere” (Svevo 2004a, 1228, 1212). La scomposizione del corpo e dei suoi movimenti attraverso l’attenzione e lo studio 6 Enrico, che dal germanico “haimi” e “rich” significa dominante nella sua patria, è un nome che Svevo utilizza nella commedia [La rigenerazione] confermandone, in questa occasione, il significato negli atteggiamenti del personaggio teatrale (Svevo 2004c, 617-767). 3 analitico del movimento degli arti inferiori, richiama la frammentazione anatomica del corpo femminile visto con gli occhi del desiderio feticistico 7. Svevo manifesta in questo caso un’attenzione ossessiva ai piedi femminili e l’ammirazione per le calzature eleganti affiora a più riprese anche nell’Epistolario, quando scrive alla moglie riferendosi a un paio di “stivalini gialli”, a degli “stivaletti di lacca” e a degli “stivaletti così belli” che lo fanno arrossire (Svevo 1966, 91, 201, 99). Nelle opere narrative riappare l’attrazione feticista per i piedi e le calzature delle donne che diventano oggetto di un sovrainvestimento sessualmente virtuoso da parte di numerosi personaggi sveviani. Nelle prime pagine di Una vita Alfonso è attratto da una sconosciuta che aveva “un piedino calzato in eleganti scarpette lucide” e calze nere inoltre osserva i “piedi piccoli sempre elegantemente calzati” di Lucia. Macario, parlando di seduzione, gli suggerisce “di agire” e “baciare […] un piede magari” (Svevo 2004a, 73, 190, 156). Anche il Buon vecchio è ammaliato dalle “calze di seta trasparenti e [le] scarpe laccate” della Bella fanciulla rigorosamente nere ed elegantissime (Svevo 2004b, 473, 475). Il Signor Aghios, tra la ressa di passeggeri sul treno individua le “gambe calzate in seta, i piedini piccolissimi in scarpine nere di lacca” di una sconosciuta e le osserva il piedino piccolo e “grazioso” (ivi, 473, 475). Nella Rigenerazione (Svevo 2004c, 632), la vanitosa Emma “s’adorna dalla testa ai […] piedini” e il Vegliardo ammira le “gambe lunghe […] coperte di sole calze di seta” di Renata (Svevo 2004a, 1105). Con Zeno questa morbosa attrazione si amplifica, il feticcio esercita tutta la sua malia: una donna non gli basta, ma le desidera tutte: nella sua immaginazione le spoglia, lasciando loro addosso soltanto “gli stivaletti” (ivi, 636) 8. Cosini ha “sempre vivo il desiderio dell’avventura” e durante la sera della seduta spiritica in casa Malfenti, spera che il suo piede tocchi “il piedino” di Ada “vestito di uno stivaletto laccato” (ivi, 745). Nella casa di salute del dottor Meuli, Zeno prova “una folle” gelosia per il dottore poiché lo scopre osservare “i piedi elegantemente calzati” della moglie, mentre egli può ammirare i piedi e gli “stivaletti di lusso” di Carmen. Il protagonista della Coscienza confessa che le donne gli piacciono a pezzi e di tutte ama i piedini ben calzati (ivi, 644, 921-922, 638), non a caso in uno degli ultimi incontri con il Dottor S., narra il sogno in cui immagina di possedere una donna in modo perverso: mangiandola a pezzettini, dalla testa ai piedi (ivi, 1055) 9. Da vari indizi e da questa interpretazione, il medico comprende che la causa della malattia del suo paziente è il Complesso di Edipo: altro nome che si rifà alla mitologia e significa piede gonfio (Schmidt 1989, 76)10 - patologia di cui si è visto soffrire anche Giovanni Malfenti -, infermità causata delle ferite alle caviglie inferte a Edipo dal padre Laio, nome che significa storpio o zoppo. Ma il Complesso di Edipo non è sufficiente a guarire Zeno, che s’inventa un altro sogno, in cui succhia il piede sinistro della medesima “donna della gabbia” (Svevo 2004 a, 1057). Similmente alle altre parti del corpo, anche i piedi sono investiti di una polarità positiva a destra e negativa a sinistra, allora Zeno pur confessando al dottore esattamente ciò che lui si aspetta di sentire, fa emergere la sua colpa e la sua debolezza feticista. Il sogno erotico pur inventato non si discosta dalla realtà e infatti poco dopo Zeno si sentirà finalmente guarito, tanto che durante la villeggiatura a Lucinico, sorriderà della sua malattia, compreso il feticismo dei “piedini” (ivi, 1066). L’autoritarismo della famiglia patriarcale ebraica incise profondamente sul pensiero freudiano tanto da considerarlo tra le cause del Complesso di Edipo e del disturbo feticistico, che Svevo attribuisce ai suoi personaggi e in parte riconosce a se stesso. Lo scrittore conferma, attraverso la manifestazione di questi disturbi psicanalitici, le cause e le conseguenze 7 In riferimento alle possibili fonti scientifiche di Svevo della nozione di feticismo, vedere le note de La Coscienza di Zeno (Svevo 2004 a, 1570, 1587) a cura di Fabio Vittorini. A proposito dell’attenzione feticista di Svevo al piede calzato vedere la nota di Una vita (Svevo 2004a, 1270), a cura di Nunzia Palmieri. 8 A proposito dell’attrazione feticista del piede e dello stivale vedere Freud (1974, 241). 9 In un altro sogno Zeno immagina di mangiare il collo a Carla (Svevo 2004a, 825). 10 Giocasta forò le caviglie del figlio Edipo con un ago gliele legò l’una all’altra con una cinghia, quindi abbandonò il neonato sul monte Citerone sperando che non si avverasse la profezia dell’oracolo di Delfi. 4 dell’allontanamento dalla “legge” dei padri; l’inettitudine diventa il pesante fardello di una storica eredità di emarginazione da dimenticare e celare (Ghidetti 1992, 32). S’immagina che Svevo abbia vissuto “nell’imo del proprio essere” una profonda crisi da assimilazione, perché la sua cultura ebraica doveva essere complessa se gli permise di offrire a Joyce informazioni e suggerimenti su caratteri psicosomatici e culturali semiti (Puppa 1995, 35-36), che lo aiutarono a concepire Leopold Bloom. Proprio questa interazione tra i due scrittori ha stimolato Dora Garcìa 11 - unica artista spagnola che nel 2011 ha rappresentato la Spagna nel padiglione della Biennale d’arte di Venezia – a inserire Svevo nella sua performance: L’inadeguato12, dove è stato fedelmente riprodotto parte dell’allestimento del Museo sveviano13. Lo scrittore triestino diviene oggetto delle riflessioni della Garcìa, che ha indagato sulla marginalità come posizione artistica. La specificità della cornice veneziana ha esaltato la figura dell’inetto - indagato dalla spagnola attraverso le considerazioni di Erwing Goffmann -, che a causa delle le sue movenze insolite è paragonato a “un gigante pericoloso e un distruttore di mondi” perché “qualunque movimento inadeguato eseguito con precisione può strappare il velo sottile della realtà immediata” (Goffman 1961, 81). Che sia il passo sbilenco dello shlèmiel sveviano quella presenza pervasiva dello spirito ebraico di cui bisogna interpretare le tracce disseminate tra le pagine dello scrittore? Sicuramente sarebbero necessari ulteriori approfondimenti, ma per ora riflettiamo su una rivelazione di Joseph Roth: il vero nome per un ebreo è il suo nome ebraico, come sostiene Ovadia (1999, 85) “quell’alito che salda indissolubilmente l’anima al corpo”; Svevo (1966, 639) - da assimilato! - pur ammettendo che la sua vita “pare un guazzabuglio”, si considera “vero Aron”. Un nome ebraico che deriva da Aronne e che significa portatore di martiri, cioè di testimoni: che per lo scrittore si tratti dei vessilliferi della sua coscienza ebraica? Forse una moltitudine di goffi e inadeguati shlèmiel, sbilenchi e sgangherati che accompagnano l’ebreo Schmitz (1966, 357), anzi il marrano, che si definì “più che mai errante”? Lo stesso Svevo 14 riconobbe che: “Quella dell’ebreo non è una posizione comoda”. Non nascondendo le opposizioni, ma favorendo una comunicazione dialettica tra le peculiarità contrastanti degli inadeguati sveviani, appare lecito chiedersi se si può essere vagabondi e zoppi, erranti e inciampatori? Biblicamente l’inciampo si configura come la tentazione, il peccato e porta a riflettere sull’allontanamento dalla retta via, dalle Tavole della Legge, dalla tormentata ricerca della Terra promessa e dalla propria identità. In effetti il “cammino” 15 è lungo ma anche Aronne, fratello di Mosè e primo sommo sacerdote del popolo ebraico, affaticato dall’età avanzata e dal cammino nel deserto sarà diventato claudicante e Giacobbe (Genesi 32: 23-33), patriarca di Israele, è segnato con la zoppia. La sua lotta è interpretata come l’eterno conflitto tra gli Israeliti e il Signore: l’incontro con Dio segna la vita, anche uscendone vincitori… figuriamoci perdenti come Svevo e i suoi shlèmiel. Bibliografia 11 Dora Garcia è nata in Spagna, a Valladolid, ma vive e lavora a Bruxelles; l’artista riflette sulle modalità e le convenzioni che governano la presentazione dell’arte, sulla questione del tempo – reale e immaginario – e sui confini tra rappresentazione e realtà. Il suo sito web è www.doragarcia.net 12 Per la performance veneziana della Garcia e stato creato il sito web: www.theinadequate.net 13 A questo proposito ho avuto un colloquio con l’artista e uno scambio di e-mail tra agosto e dicembre 2011. 14 I. Svevo citato in G. Debenedetti 1971, 93. 15 Deriva dal verbo ebraico halach, che significa “camminare”, anche il Midrash Halakhah, cioè l’interpretazione delle Scritture secondo la tradizione rabbinica adattata agli aspetti pratici della vita della comunità. 5 Bazlen R. 1984 Scritti, Milano Adelphi. Bortolussi G. 2008 L’umorismo disperante di Woody Allen nella figura dello Shlèmiel ebraico, Udine, Gaspari. Carlà M. - De Angelis L. (cur.) 1995 Ebraismo nella letteratura italiana del Novecento, Palermo, Palumbo. Cavaglion A. 2000 Italo Svevo, Milano, Bruno Mondadori. Cecchi O. 1978, 15 settembre, Un ironico distruttore di certezze, “Rinascita”. Crémieux B. 1926 Italo Svevo, «Le Navire d’Argent», II, 9. Bermant C. 1971 The Cousinhood: the Anglo-Jewish Gentry, London, Eyre and Spottiswoode. Camerino A. 2002 Italo Svevo e la crisi della Mitteleuropa, Napoli, Liguori. Cepach R. (cur.) 2012 (in corso di pubblicazione), Catalogo della mostra U.S. Ultima sigaretta. 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