Lo scontro tra fratelli: Esaù e Giacobbe nella Coscienza

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Lo scontro tra fratelli: Esaù e Giacobbe nella Coscienza
Antonini Gabriele
Lo scontro tra fratelli: Esaù e Giacobbe
nella Coscienza di Zeno.
Tra i numerosi contributi di critica sveviana che hanno cercato di indagare le fonti di cui si
sarebbe servito Svevo nella stesura della Coscienza di Zeno, uno statuto certamente particolare
spetta al saggio di Gabriella Moretti apparso sulla “Rivista di letteratura italiana” circa quindici anni
fa (1995), nel quale l’autrice segnala una serie di elementi che mettono in stretta relazione alcuni
episodi narrati da Zeno nelle sue memorie scritte come “preludio alla psico-analisi” (Svevo 2004a,
625) alle vicende bibliche del patriarca Giacobbe. Riportiamo schematicamente di seguito il
catalogo dei punti di contatto tra i due racconti segnalati dalla Moretti:
1) Zeno, come Giacobbe, è un sognatore;
2) le vicende che legano Zeno al suocero, Giovanni Malfenti, sono assimilabili ai rapporti
che intercorrono nella Genesi tra Giacobbe e Labano: “Prima ancora di conoscere le figlie, poi, il
personaggio Zeno incontra il futuro suocero Malfenti, l’uomo attivo, il commerciante astuto cui si
accompagna per tentare di imparare i segreti del commercio e del gioco della Borsa. Come
Giacobbe va a lavorare presso il suo parente, così Zeno si accompagna a Malfenti [...] che non si
perita di imbrogliare o tentare di imbrogliare l’ingenuo Zeno, che però, per caso o per benedizione
(proprio come il biblico Giacobbe), riesce poi ad avere degli inaspettati successi commerciali”
(Moretti 1995, 148);
3) come Giacobbe prende moglie lontano dalle sue terre natali, così Zeno, per via
dell’iniziale del suo nome, al momento dell’ingresso nella casa delle figlie “che avevano tutte
l’iniziale in a” dichiara di sentirsi come se stesse “per prendere moglie lontano dal [suo] paese”
(Svevo 2004a, 692-693);
4) la coppia di sorelle della Coscienza di Zeno Augusta-Ada ricorda quella biblica LiaRachele: sia Augusta che Lia infatti soffrono di un disturbo agli occhi e non sono oggetto delle mire
matrimoniali dei personaggi maschili che invece si innamorano delle loro sorelle Ada e Rachele;
5) “Come Giacobbe sposò Lia per uno scambio di persona, credendola, nel buio della
cerimonia nuziale, la sorella Rachele, così Zeno Cosini [...] fa una dichiarazione d’amore ad
Augusta, credendola Ada, durante il buio di una seduta spiritica” (Moretti 1995, 150);
6) la lotta ingaggiata da Zeno con Guido per il possesso di Ada ricorda, almeno nelle
conseguenze subite dal protagonista, lo scontro di Giacobbe con l’angelo: “Così come Giacobbe
lottò con l’angelo [...] e ne riportò una lesione all’anca e al nervo sciatico, così Zeno durante la
rivalità con Guido [...] comincia a soffrire di un dolore d’origine nervosa a un’anca, e verrà curato
appunto al nervo sciatico” (Moretti 1995, 152).
Le analogie segnalate dall’autrice tra il racconto di Zeno e le storie di Giacobbe appaiono
molto convincenti e, come lei stessa afferma, “troppe e troppo precise per dirsi casuali” (Moretti
1995, 154); in questo nostro scritto proveremo ad ampliare queste osservazioni e cercheremo di
indicare altri punti della Coscienza nei quali è possibile individuare una memoria dei capitoli della
Genesi dedicati alla narrazione delle vicende del patriarca bilico.
Per prima cosa, ci soffermiamo sul primo punto sottolineato dalla Moretti, la propensione,
comune sia a Zeno sia a Giacobbe, al sogno. Per fare questo prendiamo in considerazione la
seconda parte della quarta visione onirica presente nel romanzo, il cosiddetto sogno di Basedow:
Poi ci fu un intervallo di notte vuota. Indi, subito, Ada ed io ci trovavamo soli sulla più
erta scala che ci fosse nelle nostre tre case, quella che conduce alla soffitta della mia villa.
Ada era posta per alcuni scalini più in alto, ma rivolta a me ch’ero in atto di salire, mentre
lei sembrava volesse scendere. Io le abbracciavo le gambe e lei si piegava verso di me
non so se per debolezza o per essermi più vicina. Per un istante mi parve sfigurata dalla
sua malattia, ma poi, guardandola con affanno, riuscivo a rivederla come m’era apparsa
1
alla finestra, bella e sana. Mi diceva con la sua voce soda: “Precedimi, ti seguo subito!”
Io, pronto, mi volgevo per precederla correndo, ma non abbastanza presto per non
scorgere che la porta della mia soffitta veniva aperta pian pianino e ne sporgeva la testa
chiomata e bianca di Basedow con quella sua faccia fra timorosa e minacciosa (Svevo
2004a, 962).
Questo passo della Coscienza è uno dei più conosciuti e dibattuti dalla critica; secondo
Lavagetto questo sogno andrebbe letto come il centro di tutti i racconti onirici presenti nel romanzo,
come “quello a cui tutti gli altri sono collegati e attorno a cui ruotano, sia pure a distanze variabili”
(1975, 94). La critica ha già ravvisato al suo interno la presenza di diverse tracce letterarie; tra le
analisi più puntuali ricordiamo quella di Giovanni Palmieri secondo il quale
il modello letterario della prima parte del sogno è certamente l’incubo manzoniano di
Don Rodrigo: fra Cristoforo, in veste di terribile ammonitore, appare nel sogno del
reprobo come un vecchio con la barba bianca, e la gente che gli sta intorno porta vestiti
laceri che lasciano intravedere le macchie e i bubboni della peste1. Per la seconda parte
del sogno è necessario ricorrere invece a Freud […] secondo cui l’atto di salire e scendere
le scale è rappresentazione simbolica dell’atto sessuale (Palmieri 1994, 305)2.
Oltre ai giusti rilievi manzoniani e freudiani avanzati da Palmieri crediamo che possa aver
avuto un ruolo nella composizione di questo passo sveviano anche la celebre visione onirica di
Giacobbe a Betel:
Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo, dove
passò la notte, perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la pose come guanciale e
si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima
raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco il
Signore gli stava davanti e disse: “Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio
di Isacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza”. (Gen 28,
10-13).
In entrambi gli episodi onirici, quello di Zeno e quello di Giacobbe, possiamo rintracciare la
presenza di una simbologia comune, rivista, nel caso del romanzo, secondo i dettami della
psicoanalisi: innanzitutto la scala, che nella Coscienza, come giustamente sottolineato da Palmieri,
1
Riportiamo la prima parte della visione onirica: “Ecco il sogno: eravamo in tre, Augusta, Ada ed io che ci eravamo
affacciati a una finestra e precisamente alla più piccola che ci fosse stata nelle nostre tre abitazioni, cioè la mia, quella di
mia suocera e quella di Ada. Eravamo cioè alla finestra della cucina della casa di mia suocera che veramente si apre
sopra un piccolo cortile mentre nel sogno dava proprio sul Corso. Al piccolo davanzale c’era tanto poco spazio che Ada,
che stava in mezzo a noi tenendosi alle nostre braccia, aderiva proprio a me. Io la guardai e vidi che il suo occhio era
ridivenuto freddo e preciso e le linee della sua faccia purissime fino alla nuca ch’io vedevo coperta dei suoi riccioli
lievi, quei riccioli ch’io avevo visti tanto spesso quando Ada mi volgeva le spalle. Ad onta di tanta freddezza (tale mi
pareva la sua salute) essa rimaneva aderente a me come avevo creduto lo fosse quella sera del mio fidanzamento intorno
al tavolino parlante. Io, giocondamente, dissi ad Augusta (certo facendo uno sforzo per occuparmi anche di lei): ‘Vedi
com’è risanata? Ma dov’è Basedow?’. ‘Non vedi?’, domandò Augusta ch’era la sola fra di noi che arrivasse a guardare
sulla via. Con uno sforzo ci sporgemmo anche noi e scorgemmo una grande folla che s’avanzava minacciosa urlando.
‘Ma dov’è Basedow?’ domandai ancora una volta. Poi lo vidi. Era lui che s’avanzava inseguito da quella folla: un
vecchio pezzente coperto di un grande mantello stracciato, ma di broccato rigido, la grande testa coperta di una chioma
bianca disordinata, svolazzante all’aria, gli occhi sporgenti dall’orbita che guardavano ansiosi con uno sguardo ch’io
avevo notato in bestie inseguite, di paura e di minaccia. E la folla urlava: ‘Ammazzate l’untore!’” (Svevo 2004a, pp.
961-962).
2
Oltre a quelle segnalate da Palmieri, un’altra possibile fonte dell’episodio onirico è stata individuata da Carlo
Annoni che, dopo averne ravvisato gli echi manzoniani, ha messo in relazione questo sogno del romanzo sveviano con
il finale dell’Ernani di Verdi: “Svevo ricorda e riusa l’ordine secondo il quale il librettista di Verdi scandisce in tre
tempi le didascalie verso la climax finale dell’opera, la sua stretta luttuosa: a. Elvira (Ada) sale alla camera nuziale; b.
Ernani (Zeno) si avvia per raggiungere la donna; c. Silva (Cosini padre) appare in cima allo scalone” (1994, 73).
2
si riveste freudianamente anche di un ulteriore significato, quello dell’atto sessuale 3; simile nei due
sogni è anche l’apparizione improvvisa di una figura: nel caso del patriarca biblico si tratta di Dio,
mentre, nel romanzo, della rappresentazione onirica del morbus Basedowii che ha colpito Ada. A
suggerire una possibile parentela tra le due figure contribuiscono alcuni elementi: innanzitutto gli
abiti regali stracciati attribuiti a Basedow nella prima parte del sogno 4 che lo connotano come figura
di un sovrano decaduto, iconografia che per l’ateo Svevo lettore di Nietzsche può forse essere
ricondotta a quella di Dio; inoltre la testa “chiomata e bianca” di Basedow rimanda alla “bianca
chioma ricciuta” (Svevo 2004a, 667) del padre di Zeno5, figura (quella del procreatore), che, a sua
volta, potrebbe rimandare a quella del Creatore6.
Proviamo ora a integrare le osservazioni di Gabriella Moretti coinvolgendo nella nostra
analisi un altro personaggio che ricopre un ruolo fondamentale nei capitoli della Genesi dedicati a
Giacobbe: Esaù. Possiamo ipotizzare, infatti, che le figure bibliche dei fratelli-oppositori figli di
Isacco e Rebecca trovino qualche eco all’interno della Coscienza nella coppia di cognati-antagonisti
Zeno-Guido.
Cominciamo col dire che la possibilità di leggere la storia delle relazioni tra il Cosini e lo
Speier come la narrazione delle vicende di due fratelli è autorizzata dal romanzo stesso: innanzitutto
perché i due sono sposati a due sorelle e quindi, per legge, fratelli; si può poi ricordare che alcuni
studi hanno sottolineato i legami che intercorrono tra la figura del fratello naturale di Zeno come
compare nei sogni del capitolo Psico-analisi e quella del marito di Ada: ad esempio, Teresa De
Lauretis ha fatto notare che l’invidia provata da Zeno per il fratello che può godere della presenza
della madre mentre lui è costretto a recarsi a scuola (Svevo 2004a, 1051-1052) e la sua volontà
castratoria nei confronti del germano che si manifesta nell’atto di sottrargli il cucchiaio (Svevo
2004a, 1053), “trova[no] riscontro nell’impulso di Zeno di uccidere Guido per avere Ada tutta per
sé” (De Lauretis 1976, 106); è infine una battuta di Augusta rivolta a Zeno dopo la morte di Guido a
confermare questa parentela: “Tu sei stato un fratello per lui” (Svevo 2004a, 1032).
A partire da questa valutazione proviamo a considerare come la figura di Esaù, fratello di
Giacobbe, possa aver lasciato delle tracce in quella di Guido, “fratello” di Zeno. Nel racconto della
Genesi, Esaù, fin dalla sua prima apparizione, viene caratterizzato da alcuni particolari: “Uscì il
primo, rossiccio e tutto come un mantello di pelo, e fu chiamato Esaù” (Gen 25, 25). La descrizione
biblica pone quindi l’accento su due tratti distintivi: la folta peluria e il colore rosso. Rimandiamo
ad un successivo momento le riflessioni sul secondo particolare e ci concentriamo
momentaneamente sul primo; per farlo prendiamo in considerazione la descrizione che Zeno dà di
Guido al momento della sua prima comparsa nel romanzo:
Era un bellissimo giovine: le labbra naturalmente socchiuse lasciavano vedere una
bocca di denti bianchi e perfetti. L’occhio suo era vivace e espressivo e, quando s’era
scoperto il capo, avevo potuto vedere che i suoi capelli bruni e un po’ ricciuti, coprivano
tutto lo spazio che madre natura aveva loro destinato, mentre molta parte della mia testa
era stata invasa dalla fronte (Svevo 2004a, 735).
Possiamo individuare in queste poche righe una prima tessera testuale che accomuna la
coppia Zeno-Guido a quella biblica: così come Esaù è peloso mentre Giacobbe è glabro, a tal punto
3
“Scale, scale a pioli, scalinate e rispettivamente il fare le scale, tanto in salita quanto in discesa, sono
rappresentazioni simboliche dell’atto sessuale” (Freud 1971, 326).
4
“Era lui che s’avanzava nella folla: un vecchio pezzente coperto di un grande mantello stracciato, ma di broccato
rigido”, (Svevo 2004, 962). Cfr. nota 1.
5
A suggerire un’identificazione tra il sovrano decaduto Basedow e il padre contribuiscono anche gli insegnamenti di
Freud: “L’imperatore e l’imperatrice (re e regina) di solito rappresentano in realtà i genitori di chi sogna” (Freud 1971,
325).
6
“Sappiamo innanzitutto che Dio è un sostituto del padre, o più precisamente è un padre che è stato innalzato,
oppure, ancora, è una copia del padre, così come il padre è stato visto e vissuto nell’infanzia, dal singolo nella sua
infanzia personale, e dal genere umano, nella sua preistoria, come padre dell’orda primordiale” (Freud 1977, 539).
3
da doversi rivestire le mani e il collo con le pelli dei capretti al momento di presentarsi davanti a
Isacco per chiedere la benedizione al posto del fratello, allo stesso modo Guido presenta una folta e
riccia chioma mentre Zeno è quasi completamente privo di capelli.
Continuiamo a percorrere il racconto biblico; pochi versetti più avanti la Genesi ci riferisce
della crescita dei due fratelli: “I fanciulli crebbero ed Esaù divenne abile nella caccia, un uomo della
steppa, mentre Giacobbe era un uomo tranquillo, che dimorava sotto le tende” (Gen 25, 27). Ci pare
che questi particolari trovino riscontro nel capitolo del romanzo dedicato all’associazione
commerciale tra i due cognati:
Per vari giorni alla settimana, Guido non si faceva neppur vedere in ufficio perché
s’era appassionato alla caccia e alla pesca. Io, invece, dopo il mio ritorno, per qualche
tempo vi fui assiduo, occupatissimo nel mettere a giorno i libri (Svevo 2004a, 936-937).
Anche in questo luogo testuale è plausibile ipotizzare un riuso da parte di Svevo di alcuni
elementi prelevati dal racconto biblico: infatti sia Esaù che Guido sono dei cacciatori, a differenza
dei rispettivi “fratelli” che invece disprezzano tale pratica (all’invito rivoltogli da Guido di prendere
parte con lui a una battuta di caccia Zeno commenta: “Egli m’invitò a caccia e a pesca. Io aborro la
caccia e decisamente mi rifiutai di accompagnarvelo”, Svevo 2004, 937); inoltre, proprio come
Giacobbe rimane sotto le tende mentre Esaù esce per la caccia, allo stesso modo, quando Guido
decide di darsi all’arte venatoria, Zeno si rintana nel proprio ufficio, luogo che fino a quel momento
aveva sempre disertato per portare avanti la propria relazione con Carla.
Proseguiamo ora nella nostra lettura affiancata prendendo in considerazione un altro celebre
episodio della Genesi che vede protagonisti i due figli di Isacco: facciamo riferimento ai versetti in
cui Giacobbe, guidato dalla madre Rebecca, si traveste da Esaù e si presenta al cospetto del padre
per ottenere la benedizione al posto del fratello. Ci pare che questa scena sia riverberata nella
Coscienza in un passo tratto anche in questo caso dal settimo capitolo:
Parlammo insieme per molte ore, ma la proposta del Nilini di proseguire nel gioco
iniziato da Guido, arrivò in ultimo, poco prima del mezzodì e fu subito accettata da me.
L’accettai con una gioia tale come se così fossi riuscito di far rivivere il mio amico. Finì
che io comperai a nome del povero Guido una quantità di altre azioni dal nome bizzarro:
Rio Tinto, South French e così via (Svevo 2004a, 1033).
Ecco quindi anche nel romanzo una scena di sostituzione tra i due personaggi: così come
Giacobbe veste i panni di Esaù per ottenere la benedizione del padre, allo stesso modo Zeno assume
l’identità del defunto cognato e acquista azioni a nome suo al fine di recuperare il capitale perso
dalla ditta. Paragonabili nei due racconti ci paiono anche le modalità con cui si sviluppa la scena. In
entrambi i casi, infatti, possiamo rilevare la presenza di un aiutante che suggerisce ai protagonisti
l’idea della sostituzione e li assiste nello svolgimento del loro piano: nel caso biblico è Rebecca,
madre di Giacobbe e Esaù, ad architettare l’episodio e a predisporre tutto in modo che il
travestimento non venga scoperto (è lei a preparare la vivanda saporita da servire a Isacco, a
rivestire Giacobbe con le vesti del fratello e a ricoprire le sue mani e il suo collo con le pelli dei
capretti); nel caso del romanzo invece è Nilini a consigliare a Zeno l’idea dell’acquisto delle azioni
e a recarsi alla Borsa a svolgere tale pratica. Questo passo del romanzo ci offre anche l’occasione
per riprendere una questione che avevamo lasciata aperta in precedenza: si è detto che nel racconto
della Genesi fin dai primi versetti, oltre alla folta peluria, il narratore biblico evidenzia un altro
particolare legato ad Esaù: il colore rosso. Questo tratto peculiare è peraltro rimarcato nel celebre
episodio della vendita della primogenitura:
Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra di lenticchie; Esaù arrivò dalla
campagna ed era sfinito. Disse a Giacobbe: “Lasciami mangiare un po’ di questa minestra
rossa, perché io sono sfinito”. Per questo fu chiamato Edom (Gen 25, 29-30).
4
Ci pare possibile ipotizzare che anche questa caratteristica fisica abbia lasciato un ricordo,
seppur sapientemente celato, nella Coscienza; a nostro modo di vedere questa possibile eco va
individuata nel nome di uno dei due titoli finanziari acquistati da Zeno in vece di Guido: Rio Tinto.
“Il nome bizzarro” di queste azioni aveva già avuto l’onore di una precedente apparizione nel
romanzo: dobbiamo retrocedere all’episodio in cui, per far fronte alle difficoltà commerciali in cui
si era imbattuta la nuova casa commerciale dei due cognati, il marito di Ada decide di giocare in
Borsa. Zeno, che ne era completamente all’oscuro, viene informato di questa scelta di Guido da una
visita del Nilini, venuto a mettere al corrente il signor Speier dell’andamento di certe azioni di cui
gli aveva suggerito l’acquisto e che invece il cognato del protagonista aveva rifiutato:
Del resto era venuto solo per raccontare a Guido che certe azioni dallo strano nome di
Rio Tinto e di cui egli a Guido aveva consigliato l’acquisto il giorno prima – sì, proprio
ventiquattr’ore prima – erano quel giorno balzate in alto di circa il dieci per cento (Svevo
2004a, 999).
L’insistenza con cui il narratore sottolinea nelle due circostanze, la seconda7 delle quali
rimarcata dall’uso del corsivo, la particolarità del nome di queste azioni (che, si badi, sono in
entrambi i casi legate al personaggio di Guido, sebbene formalmente nella seconda occorrenza siano
acquistate da Zeno) lascia pensare che dietro a tale titolo azionario si celi un indizio che l’autore
vuole suggerire al lettore: ci pare probabile che questo messaggio camuffato vada cercato nel
significato in spagnolo di queste parole, fiume rosso, espressione che per il suo riferimento
cromatico potrebbe voler suggerire un collegamento tra la figura di Esaù e quella di Guido. A
conferma di questa ipotesi va detto che, per quanto al narratore Zeno questo nome potesse suonare
“strano” e “bizzarro”, lo stesso effetto non doveva avere alle orecchie di Guido che, ricordiamo,
aveva padre argentino e che quindi conosceva perfettamente lo spagnolo 8. Alcuni spunti che ci
spingono a muoverci verso questa interpretazione ci pare siano offerti anche dalle due circostanze in
cui Svevo nomina questo titolo azionario. Come si è detto in precedenza, nella sua prima
occorrenza nel romanzo il nome Rio Tinto entra in relazione con Guido in seguito a un affare
offertogli da Nilini; ci pare interessante notare che anche Esaù assume il nome di Edom (il rosso)
alla conclusione di un affare, la vendita della primogenitura. La seconda comparsa delle azioni in
questione avviene invece nel mezzo di quella che noi abbiamo definito una scena di sostituzione;
anche in questo caso la collocazione ci appare tutt’altro che casuale: se Giacobbe, fingendosi il
fratello, si era presentato al cospetto del padre come cacciatore (offrendogli dei capretti da
allevamento al posto della cacciagione richiesta da Isacco) e ricoperto di pelo, Zeno, simulandosi
Guido, acquista le azioni “dal nome bizzarro” che rimandano al colore rosso, facendo suo l’unica
marca peculiare di Esaù di cui non si era impossessato Giacobbe. Valicando i limiti della Coscienza
di Zeno, è poi possibile notare che questi particolari riferiti dal narratore biblico che caratterizzano i
due figli di Isacco tornano frequentissimamente nelle opere di Svevo e lungo tutto il corso della sua
produzione. Consideriamo ad esempio il primo racconto noto dell'autore triestino: Una lotta. I
protagonisti della breve narrazione sono il “celebre poeta” Arturo Marchetti e “l’altro altrettanto
celebre però quale lottatore, schermitore, cultore dello sport” (Svevo 2004b, 7) Ariodante Chigi che
si contendono l'amore della bella Rosina; molto interessanti alcuni tratti distintivi che caratterizzano
7
Facciamo riferimento all’ordine di questi episodi nel romanzo e non a quello da noi riproposto nelle nostre
osservazioni.
8
Facciamo infine notare che Svevo può aver ricavato direttamente dalla sua vita di commerciante questo nome: Rio
Tinto Company Limited, infatti, è una compagnia che nasce a Londra nel 1873 per sfruttare le risorse minerarie della
provincia spagnola dell'Huelva. Per una breve storia della compagnia si vada all’indirizzo internet:
http://www.riotinto.com/aboutus/history.asp. Il fatto che questa compagnia fosse realmente attiva ai tempi di Svevo non
pare un ostacolo a un’interpretazione che cerchi di leggere dietro tale nome un significato simbolico. La decisione del
triestino di soffermarsi su questo titolo azionario fra i molti da lui conosciuti rappresenta, al contrario, uno stimolo
ulteriore per indagare i motivi di tale scelta.
5
i due personaggi: di Arturo si sottolinea “la bellezza del suo volto, senza pelo, purtroppo” (Svevo
2004b, 7); di Ariodante invece si rimarca la perizia nell’arte venatoria: “ciarlava con molta scienza
di cani e cavalli” (Svevo 2004b, 9). Spostandoci nei testi dell'ultimo Svevo, tali caratteristiche
oppositive tra i personaggi rimangono costanti: in Una burla riuscita il protagonista Mario è
caratterizzato fisicamente da una “canizie che si estende a tutto il suo pelo” (Svevo 2004b, 220),
mentre dell’antagonista Gaia si dice che “a cinquant'anni i suoi capelli bianchi avevano un candore
che rifletteva la luce come se fosse stato metallico” (Svevo 2004b, 219); ancora più significativa la
descrizione dell’aiutante del Gaia nella sua burla, il finto rappresentante dell’editore Westermann:
nonostante sia calvo, anche questo personaggio può essere ascritto alla categoria dei pelosi per via
dell’abbigliamento con cui si presenta all’appuntamento concordato per trattare la vendita del
romanzo giovanile di Mario:
La sua pelliccia dal collare ricco, di pelo di foca, era la cosa più importante di tutto
l’individuo, e molto più importante della giacca e dei calzoni sdruciti che si
intravedevano. Non fu mai deposta, anzi riabbottonata subito dopo che s’era dovuta
schiudere per dar l’accesso ad una tasca interna. L’alto collare coronò sempre la faccina
fornita di una barbetta e di mustacchi radi e fulvi sotto ad una testa radicalmente calva. Ed
un’altra cosa Mario osservò: il tedesco si teneva tanto rigido nella pelliccia in cui era
sepolto, che ogni suo movimento appariva angoloso (Svevo 2004b, 230-231).
Quello del pelo non è l'unico particolare di Esaù attribuito al rappresentante di Westermann;
Svevo non dimentica infatti di fare un breve cenno anche al colore che contraddistingue il fratello di
Giacobbe:
La calvizie del tedesco, che gli era rivolta come una faccia muta, cieca e priva di naso,
era molto seria, perché le mancavano gli organi per ridere. Anzi – pelle rossa sporcata da
qualche pelo fulvo – era tragica (Svevo 2004b, 234).
Torniamo ora alla Coscienza per notare come le due scene di sostituzione che abbiamo
affiancato nel percorso della nostra lettura si possano prestare a ulteriori riflessioni: ci pare
interessante notare, infatti, che equiparabili, a nostro modo di vedere, sono anche gli esiti che
derivano da tali scambi d’identità. Il racconto biblico ci dice che Giacobbe riuscirà a ottenere la
benedizione del padre e a usurpare il posto del fratello (ricordiamo che Giacobbe vuol dire
“soppiantatore”, Gen 27, 36); Zeno invece procederà al recupero di tre quarti del passivo della ditta
e in virtù di questo successo economico sancirà definitivamente la sua superiorità rispetto a Guido.
Nel caso del romanzo, la “benedizione” che certifica la vittoria di Zeno viene enunciata
direttamente da Ada: “Così hai fatto in modo ch’egli è morto proprio per una cosa che non ne
valeva la pena!” (Svevo 2004a, 1042). E ancora poco dopo:
Guardavo ai tuoi rapporti con tua moglie e li invidiavo. Mi parevano migliori di quelli
ch’egli mi offriva. Ti sono grata di non essere intervenuto al funerale perché altrimenti
non avrei neppur oggi compreso nulla. Così invece vedo e intendo tutto. Anche che io
non l’amai: altrimenti come avrei potuto odiare persino il suo violino, l’espressione più
completa del suo grande animo? (Svevo 2004a, 1043).
Le parole di Ada sono inequivocabili: la vittoria di Zeno è indiscutibile, sia dal punto di
vista degli affari (“è morto proprio per una cosa che non ne valeva la pena!”) sia da quello degli
affetti (“Guardavo ai tuoi rapporti con tua moglie e li invidiavo”), fino a indurre la secondogenita di
casa Malfenti a negare ogni sentimento per il defunto marito e a cancellare per sempre quella prima
vittoria ottenuta da Guido ai danni del Cosini grazie alla sua abilità col violino 9. Tirando le fila del
9
Ci pare che il critico che più di ogni altro abbia sottolineato come, da quanto emerge dal romanzo, Zeno debba
essere considerato come la figura vincente all’interno della narrazione sia Giuseppe Langella: “Quest’altra opposizione
6
discorso possiamo quindi concludere che anche Zeno, come Giacobbe, riesce nell’impresa di
“soppiantare” dal suo posto il fratello-oppositore aggiudicandosi il titolo, come Ada aveva
affermato già prima della morte del marito, di “migliore uomo della [...] famiglia” (Svevo 2004a,
987).
Da quanto abbiamo detto finora ci pare che si possa concludere che le figure archetipiche
che sono state assunte da Svevo come modello nell’ideazione dei personaggi di Guido e Zeno siano
i fratelli figli di Isacco Esaù e Giacobbe. Se la nostra impressione è giusta crediamo che
l’individuazione di tale fonte imponga una revisione di parte degli studi di natura psicoanalitica che
hanno preso in considerazione le relazioni che intercorrono tra i due cognati del romanzo sveviano.
Gran parte della critica ha infatti letto i rapporti tra il Cosini e lo Speier alla luce del complesso
edipico da cui il primo sarebbe afflitto; in altre parole Guido non sarebbe altro che una delle tante
maschere dietro la quale si celerebbe la figura del padre. Ad esempio Franco Petroni interpreta così
gli avvenimenti che chiudono le memorie scritte da Zeno come preludio alla psicoanalisi:
Guido rovinato e ridotto al rango di paria in casa Malfenti; Ada che considera il marito
un bambino bisognoso di protezione; lui, Zeno, “miglior uomo della famiglia” [...]. Zeno
per un momento sembra aver vinto la sua battaglia con l’ombra del padre: la sostituzione
è avvenuta, il padre ormai è lui (1977, 278).
Ancor più orientato verso una lettura edipica il commento di Gioanola:
La rivalità [...] risprofonda nella clandestinità dell’inconscio e ritorna a pascersi delle
predilette fantasie sadico-distruttive, dirette contro i portatori simbolici della sessualità
adulta, Guido, il rivale per eccellenza, e Ada, la donna per lui. Tutto il lungo capitolo
Storia di un’associazione commerciale è il luogo di una sfida non più condotta sul piano
dei rapporti reali, che sono anzi intonati alla più dichiarata delle amicizie, ma su quello
dei fantasmi ostili [...]: l’imago paterna continua ad essere il vero oggetto immaginario di
questo libro del padre che è la Coscienza (1995, 308).
Se però, come abbiamo cercato di dimostrare in precedenza, la coppia Zeno-Guido riverbera
in controluce quella Giacobbe-Esaù allora ci pare più corretto parlare a proposito delle relazioni tra
i due cognati di un’ostilità non legata al complesso edipico ma di una più generica rivalità tra
fratelli in contesa tra loro per l’affetto genitoriale 10; in sostanza, quindi, a Guido spetta il ruolo del
germano mentre il ruolo del padre è, a nostro avviso, da attribuirsi ad Ada. Più volte la critica ha
sottolineato come la bella Malfenti possa nascondere uno dei tanti fantasmi paterni che terrorizzano
Zeno: ricordiamo ad esempio l’opinione di Giuditta Rosowsky, secondo la quale “Ada correspond
plutôt à un substitut du père, puisque, comme lui, elle apparaît sérieuse, sévère et absolument
dépourvue d’humour” (1970, 56); dello stesso giudizio è anche Elio Gioanola: “Ada è donna
paterna” (1995, 292). Tale interpretazione è supportata dalle stesse parole del romanzo:
Sembra dunque ch’io non abbia subito vista tutta la grazia e tutta la bellezza di Ada e
che mi sia invece incantato ad ammirare altre qualità ch’io le attribuii di serietà e anche di
energia, insomma, un po’ mitigate, le qualità che io amavo nel padre suo (Svevo 2004a,
698).
esemplare, con il cognato millantatore, completa il quadro trionfale dei successi di Zeno. […] Tutte queste circostanze
sono disseminate ad arte lungo il romanzo perché alla fine risalti l’abilità del protagonista, che s’impone non soltanto
sui ciarlatani come Guido, ma anche su gente del mestiere, ottimamente reputata, scostandosi dai loro insegnamenti”
(Langella 1992, 158-160).
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“Il bambino piccolo non ama necessariamente i suoi fratelli, spesso palesemente non li ama affatto. È indubbio
che egli odia in essi i propri concorrenti, ed è noto quanto spesso questo atteggiamento permanga ininterrottamente per
molti anni, fino al tempo della maturità e persino più in là ancora” (Freud 1976, 373). Le relazioni fraterne sono prese in
considerazione da Freud anche nell’Interpretazione dei sogni (Freud 1971, 233-237).
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È inoltre molto significativo il fatto che le parole scritte nel suo memoriale da Zeno al
momento di descrivere la partenza di Ada per l’Argentina – “Ecco che essa ci abbandonava e che
mai più avrei potuto provarle la mia innocenza” (Svevo 2004a, 683) – ricordino in maniera
inequivocabile quelle annotate alla morte del padre – “io non potevo più provargli la mia
innocenza!” (Svevo 2004a, 1047)11. Se c’è più di un elemento che può spingere il lettore a vedere in
Ada una figura paterna nei confronti di Zeno, crediamo che una simile riflessione possa essere
allargata anche al personaggio di Guido: il fatto che la bella Malfenti sia la vera detentrice del
potere paterno e che invece Guido si trovi in una posizione subalterna rispetto ad essa ci pare
confermato da alcune vicende del romanzo. Come primo elemento ricordiamo che, dopo il tracollo
economico della ditta Speier & C., Guido si rivolgerà alla moglie per risolvere le sue difficoltà. Le
titubanze di Ada di fronte alla possibilità di cedere parte del proprio patrimonio in favore del marito
lo spingeranno a mettere in scena due falsi suicidi, il secondo dei quali conclusosi in tragedia. Il
potere economico è uno degli attributi che più contraddistinguono la figura paterna 12; lo stato di
superiorità che Ada dimostra in questo settore la dipingono inequivocabilmente come imago patris
anche nei confronti del marito. L’atteggiamento paternalistico della primogenita Malfenti in
relazione al suo sposo è poi chiaramente espresso da questa battuta che la donna rivolge a Zeno: “È
un ragazzo e bisogna trattarlo come tale” (Svevo 2004, 1022). Non va infine dimenticato che c’è più
di un elemento nel romanzo che spinge a vedere come figure strettamente correlate Ada e il padre di
Guido: per prima cosa si ricorderà il fatto che il vecchio Speier e la nuora godono di uno status di
superiorità economica nei confronti del figlio/marito in quanto, l’uno fin dal principio, l’altra, come
si è detto poco fa, solo in seguito al primo falso suicidio, sono i finanziatori della Speier & C.; ci
pare molto significativa anche la decisione di Ada di recarsi in Argentina presso la casa del suocero
dopo la morte del marito, come a suggellare una stretta fratellanza tra le due figure; potrebbe infine
non essere casuale la forte comunanza onomastica che unisce i due personaggi: come il padre di
Zeno, infatti, anche quello di Guido può vantare un soprannome, il “signor Cada” (Svevo 2004,
841), espressione che al suo interno ingloba il nome della bella protagonista del romanzo
(ricordiamo inoltre che il nome di battesimo del signor Speier è Francesco, dato forse non del tutto
privo di significato nella nostra interpretazione dei personaggi di Zeno e Guido come fratelli, dal
momento che Francesco era il nome del padre dello stesso Ettore Schmitz). In base a queste
considerazioni e risalendo alle fonti bibliche da cui siamo partiti crediamo non sia troppo azzardato
accostare la figura di Ada, donna-paterna, a quella di Isacco, padre a tutti gli effetti; tale
accostamento ci pare ancora meno azzardato se si considera il loro atteggiamento nei confronti di
quelli che nella nostra lettura parallela sono i loro figli: infatti, come Isacco ha una predilezione per
Esaù ma finisce per benedire Giacobbe, allo stesso modo Ada inizialmente riserva tutto il proprio
affetto per Guido ma, in ultima istanza, proclamerà la superiorità di Zeno 13. È poi interessante
11
Cfr. Saccone 1973, pp. 83-84.
Ricordiamo a questo proposito anche le parole di Camerino: “Il mondo dei padri è quello stesso dei padroni, dei
borghesi, degli assimilati, dei giudici, degli accusatori, dei funzionari, dei parassiti; degli amministratori di morale, di
religione, di virtù domestica” (Camerino 1996, 23). In base a questa riflessione ci pare evidente che all’interno del
nucleo familiare fondato da Ada e da Guido il ruolo del padre va affidato alla donna: è lei a incarnare, dal punto di vista
sia economico sia “morale”, la legge borghese; Guido invece, oltre a rappresentare con i suoi fallimenti e i suoi
tradimenti il trasgressore di questo codice, appare nel romanzo come l’uomo (il figlio) oppresso dalla legge della moglie
(il padre). Celebri sono le manifestazioni di insofferenza dello Speier nei confronti della famiglia nel capitolo Storia di
un’associazione commerciale: “Quando Guido voleva farmi ridere, camminava su e giù per l’ufficio battendosi il tempo
con le parole: – Una moglie... due bambini... due balie!” (Svevo 2004a, 953). Noti anche i tentativi di Guido di tenersi
alla larga da questo mondo; proponiamo ad esempio questo dialogo tra Ada e Zeno: “Mi stese con grande affetto la
mano:– Già lo so, – mi disse – tu approfitti di ogni istante per venir a riveder tua moglie e la tua bambina. [...]
Interpretai le parole che m’aveva indirizzate quale un rimprovero rivolto a Guido, e bonariamente risposi che Guido,
quale proprietario della ditta, aveva maggiori responsabilità delle mie che lo legavano all’ufficio. Mi guardò indagatrice
per assicurarsi ch’io parlavo sul serio. – Ma pure – disse – mi sembra che potrebbe trovare un po’ di tempo per sua
moglie e i suoi figli” (Svevo 2004a, 955).
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Ricordiamo che nella Bibbia si dice che “Isacco prediligeva Esaù, perché la cacciagione era di suo gusto” (Gen
25, 28). In questo senso non priva di significato può essere questa nota di apprezzamento di Ada nei confronti nel
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12
notare che Ada è anche il nome che nella Bibbia viene attribuito a una delle mogli di Esaù (“Esaù
prese le mogli tra le figlie dei Cananei: Ada, figlia di Elon, l’Hittita [...]”, Gen 36, 2); se, come
abbiamo cercato di dimostrare, nella composizione della Coscienza di Zeno Svevo aveva realmente
presenti questi episodi biblici, la comunanza onomastica tra una delle mogli di Esaù e quella di
Guido non può considerarsi casuale.
In sintesi, ci pare con queste nostre osservazioni di aver riconosciuto qualche nuovo
elemento che ci può spingere a porre la Bibbia, e in particolare il libro della Genesi, come fonte
della Coscienza di Zeno; facciamo infine notare che tale riuso da parte di Svevo di tessere
veterotestamentarie non sembra affatto fine a sé stesso, ma è uno degli indizi che l’autore offre al
lettore per giungere alla giusta interpretazione dei rapporti tra lo Speier e il Cosini: per quanto Zeno
nelle memorie che scrive per il Dottor S. si sforzi di ribadire la sua innocenza e le sue buone
intenzioni nei confronti di Guido – “Accanto a lui io mi feci molto inerte. Cercai di metterlo sulla
retta via e forse non ci riuscii per troppa inerzia. Del resto, quando due si trovano insieme, non
spetta loro di decidere chi dei due deve essere Don Quijote e chi Sancio Panza. Egli faceva l’affare
ed io da buon Sancio lo seguivo lento lento nei miei libri dopo di averlo esaminato e criticato come
dovevo” (Svevo 2004a, 918) –, il profondo del suo racconto e le fonti che l’autore Svevo sceglie per
lui fanno emergere chiaramente l’autentica natura della relazione tra i due cognati: un legame che
non deve essere letto (nella maniera che vorrebbe Zeno) come la cronaca dei rapporti tra un padrone
e il suo fedele servitore ma, piuttosto (nel modo che ci suggerisce Svevo), come il resoconto della
lotta tra due oppositori in contesa per la supremazia dell’uno sull’altro.
Gabriele Antonini
Università Cattolica del Sacro Cuore
[email protected]
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marito: “Con una volubilità che mi stupì raccontò dei cibi prelibati che si mangiavano alla loro tavola in seguito alla
caccia e alla pesca di Guido” (Svevo 2004a, 956).
9
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