riassunto cap. XXX

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riassunto cap. XXX
I promessi sposi – Capitolo XXX
Nel castello dell’innnominato
Don Abbondio, Perpetua e Agnese sono in marcia verso il castello. Le due donne appaiono rassicurate sulla
bontà della decisione presa («ringraziamo il cielo. Vada la roba; ma almeno siamo in salvo»); non così don
Abbondio, le cui lamentele accompagnano tutto il viaggio. All’entrata della valle, la vista di un corpo di
guardia accresce la sua agitazione e ad Agnese che ricorda le sofferenze patite da Lucia indirizza un
rimbrotto stizzoso: «Volete stare zitta? donna senza giudizio!». Istruisce poi le due donne sul contegno da
tenere con quel «gran signore»: «Credete voi che ai santi si possa dire, senza riguardo, tutto ciò che passa
per la mente?».
Vedendo l’innominato scender verso di loro, don Abbondio si affretta a inchinarsi; poi presenta Perpetua e
Agnese: «“E questa [...] è una donna a cui vossignoria ha già fatto del bene: la madre di quella... di quella..”
“Di Lucia”, disse Agnese». L’innominato accoglie gli ospiti con commozione e assicura di essere pronto a
«ricevere» tanto i lanzichenecchi quanto i «cappelletti» veneziani («Tra due fuochi» brontola fra sé don
Abbondio); poi, entrati nel castello, assegna le stanze. Il terzetto si divide: Agnese e Perpetua nel quartiere
destinato alle donne, don Abbondio in quello degli uomini, in una delle camere riservate agli ecclesiastici.
I fuggitivi restano al castello «ventitré o ventiquattro giorni», «in mezzo a un movimento continuo».
L’innominato va quotidianamente coi suoi uomini a perlustrare i dintorni: «Ed era cosa singolare vedere una
schiera d’uomini armati da capo a piedi e schierati come una truppa condotti da un uomo senz’armi».
Impedisce che lanzichenecchi sbandati portino a termine il saccheggio di un paese, ed è applaudito e
benedetto dalla popolazione. Nel castello, ecclesiastici e uomini autorevoli sono incaricati della
sorveglianza, perché non accadano disordini. Ma «era tutta gente scappata, e quindi inclinata in generale alla
quiete», col pensiero alla casa, alla roba, ad amici e parenti rimasti nel pericolo. La gente pranza nelle osterie
rizzate in fretta in fondo alla valle; a chi non vuole o non può spendere, vengono distribuiti al castello pane,
minestra e vino. Don Abbondio se ne sta solo e appartato: «ma non s’annoiava però; la paura gli teneva
compagnia». L’«unica sua passeggiata» è «d’uscire sulla spianata» e scrutare i dirupi che circondano il
castello, in cerca di qualche sentiero praticabile per fuggire in caso di pericolo. A tavola parla pochissimo;
continuamente arrivano notizie del «terribile passaggio» delle truppe e di nuove, quotidiane sciagure.
Finalmente tutti i reggimenti passano, l’uno dopo l’altro, il ponte di Lecco e si allontanano: «e tutto il paese,
a destra a sinistra, si trovò libero».
Ritorno al paese
A poco a poco la gente lascia il castello; anche don Abbondio, Perpetua e Agnese prendono la via del
ritorno. Sono tra gli ultimi ad andarsene, data la paura di don Abbondio di trovare ancora in giro
Lanzichenecchi: «quando si trattava d’assicurar, la pelle, era sempre don Abbondio che la vinceva».
L’innominato dona ad Agnese un corredo di biancheria e «un gruppetto di scudi per riparare al guasto» che
troverà in casa. Durante il viaggio di ritorno, i tre fanno una breve sosta in casa del sarto, dove sentono
raccontare «la solita storia di ruberie» e di saccheggi. Dopo un altro po’ di strada, si offre ai loro occhi uno
spettacolo desolante: le vigne sono spogliate «come dalla grandine e dalla bufera»; nei villaggi rottami,
sporcizia e «zaffate di puzzo»; al passar della carrozza mani tese a chieder l’elemosina.
Al paese trovano quello che s’aspettavano. Agnese si dà subito da fare a rassettare la casa, poi, grazie all’oro
dell’innominato, può far riparare da un falegname e da un fabbro i guasti più grossi. Don Abbondio e
Perpetua entrano in casa «senza aiuto di chiavi; ogni passo che fanno nell’andito, senton crescere un tanfo,
un veleno, una peste, che li respinge indietro». La devastazione non ha risparmiato nulla: i muri sono
sconciamente imbrattati di caricature di preti. «Ah, porci!», «Ah baroni!», esclamano Perpetua e don
Abbondio; ma la sorpresa più amara è nell’orto, dove trovano la buca sotto il fico aperta e vuota. Don
Abbondio se la prende con Perpetua; i battibecchi si prolungano nei giorni successivi, quando la serva viene
a sapere che anche qualche «birbone» del paese ha fatto man bassa in casa del padrone. Ma il curato non
vuole scontrarsi con nessuno e Perpetua è sarcastica: la gente si comporterebbe diversamente «se non avesse
che fare con un buon uomo». Questi, per conto suo, continua ad essere terrorizzato all’idea di veder capitare
dei soldati alla spicciolata.
A questo punto, il narratore interrompe il racconto delle «apprensioni private» dei personaggi: ben più gravi
disastri incombono sulle popolazioni del Milanese.