La valutazione del giudice e il licenziamento per giustificato motivo

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La valutazione del giudice e il licenziamento per giustificato motivo
La valutazione del giudice e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo
di Carla Ponterio
Consigliere sezione lavoro presso la Corte d'appello di Bologna
Commento a Cass., Sez. Lavoro, n. 23620/2015
• Cassazione sezione lavoro sentenza n. 23620/2015
1. Le norme elastiche.
Gli interventi legislativi che direttamente o indirettamente hanno modificato negli ultimi anni la
disciplina dettata dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori hanno lasciato intatte le previsioni
della legge n. 604 del 1966 quanto ai presupposti di legittimità del licenziamento. Sia la legge n. 92
del 2012 e sia il decreto legislativo n. 23 del 2015 hanno continuato ad utilizzare le categorie di
giusta causa e giustificato motivo. Anzi, sia la legge cd. Fornero nell’articolo 18, commi 5 e 7, e sia
il decreto legislativo n. 23 del 2015 nell’articolo 3, comma 1, hanno dato veste normativa alle sotto
categorie di “giustificato motivo soggettivo” e di “giustificato motivo oggettivo” che la
giurisprudenza aveva introdotto per riassumere le definizioni contenute nell’art. 3 della legge n. 604
del 1966, rispettivamente di “notevole inadempinamento degli obblighi contrattuali del prestatore di
lavoro” e di “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare
funzionamento di essa”.
Nonostante la diffidenza verso le norme elastiche e le clausole generali mostrata dal legislatore del
Collegato Lavoro1, per il timore che esse veicolassero un sindacato di merito sulle scelte
imprenditoriali, la legittimità del licenziamento è rimasta ancorata da quasi mezzo secolo ai
presupposti della giusta causa e del giustificato motivo. L’impatto dell’articolo 30 della legge n. 183
del 2010 sulla giurisprudenza è stato pressoché inesistente e difficilmente sarebbe stato possibile un
effetto diverso attesa l’illogicità dell’assunto che aveva spinto il legislatore ad intervenire con quella
disposizione. Difatti, le divergenze interpretative in tema di illegittimità del licenziamento non
hanno mai riguardato il divieto per il giudice di sindacare nel merito le scelte datoriali, nel senso di
valutarne l’opportunità o l’idoneità rispetto ai fini perseguiti, ma hanno avuto ad oggetto
unicamente il contenuto dei presupposti di legittimità del recesso, vale a dire la capacità delle
decisioni datoriali di integrare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Sicché la
previsione dell’articolo 30 della legge n. 183 del 2010 secondo cui, in presenza di clausole generali,
quali appunto la giusta causa o il giustificato motivo, il giudice debba limitarsi ad accertare il
presupposto di legittimità del recesso, vale a dire l’integrazione o meno della giusta causa o del
giustificato motivo, non aiuta a riempire di contenuti certi le clausole in esame e non incide sul
tanto temuto effetto di incertezza del diritto2.
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La scelta del legislatore del 2012 e del 2015 di lasciare intatti i presupposti di legittimità del
licenziamento era evidentemente inevitabile e, difatti, non ha avuto alcuna attuazione l’articolo 1,
comma 7 lettera c) della legge delega n. 183 del 2014 nella parte in cui prevedeva l’individuazione
di “specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato”, essendo compito assai arduo,
anche per il legislatore più determinato, quello di catalogare in modo rigido e duraturo categorie
concettuali intimamente legate all’evoluzione del contesto sociale ed economico.
Alle norme elastiche e alle clausole generali difatti ricorre il legislatore per rimettere al giudice
“un’attività di integrazione giuridica della norma”, una scelta assiologica che “deve… conformarsi,
oltre che ai principi dell’ordinamento…anche ad una serie di standards valutativi esistenti nella
realtà sociale che assieme ai predetti principi compongono il diritto vivente, ed in materia di
rapporti di lavoro, la c.d. civiltà del lavoro”3.
Le specificazioni del parametro normativo rimesse all’interpretazione giurisprudenziale devono
avvenire mediante la valorizzazione “sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di
principi che la stessa disposizione tacitamente richiama” ed hanno natura giuridica, con la
conseguenza che la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di
legge4. Il controllo in tal modo eseguito dalla Corte di Cassazione, nell’esercizio della sua funzione
nomofilattica, conduce, mediante puntualizzazioni di carattere generale ed astratto, alla formazione
del diritto vivente.
2. Due orientamenti giurisprudenziali.
Nella giurisprudenza di legittimità sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo si sono da
tempo formati due orientamenti, che testimoniano la complessità del contesto storico sociale.
Un orientamento, che ha origini più lontane, individua quali requisiti del giustificato motivo
oggettivo di licenziamento la ricorrenza di situazioni sfavorevoli non contingenti, influenti in modo
decisivo sulla normale attività produttiva, che impongano scelte in termini di riassetto organizzativo
dell’azienda per una più economica gestione della stessa e, tra queste, la necessità di sopprimere
determinati posti di lavoro5.
Tali pronunce descrivono la concatenazione tra i singoli fattori, cioè le situazioni sfavorevoli, le
scelte aziendali di riassetto organizzativo e la soppressione del posto di lavoro, in termini
esclusivamente di necessità, ponendo come logicamente alternative e quindi da collocare su piani
differenti ed anzi incompatibili le ragioni di carattere produttivo organizzativo e il mero incremento
di profitti6.
Secondo un diverso orientamento, le ragioni inerenti all’attività produttiva possono derivare, oltre
che da esigenze di mercato, anche da riorganizzazioni e ristrutturazioni decise dall’imprenditore
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nell’esercizio della sua libera iniziativa economica, quali ne siano le finalità e quindi comprese
quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti. Queste forme di riassetto
organizzativo devono essere nella loro oggettività tali da determinare il venir meno della posizione
lavorativa e ciò si verifica quando la prestazione divenga inutilizzabile a causa della diversa
organizzazione che viene attuata e non in forza di un atto arbitrario del datore di lavoro7.
In tal caso la concatenazione si pone tra due soli fattori, da un lato la decisione di riorganizzazione o
ristrutturazione aziendale e dall’altro l’effetto di soppressione del posto di lavoro. Manca qualsiasi
riferimento alla necessità di un intervento riorganizzativo e quindi a situazioni sfavorevoli non
contingenti che impongano una riorganizzazione; quest’ultima può essere genericamente dettata da
esigenze di mercato ed avere qualsiasi finalità, di riduzione dei costi o di incremento dei profitti.
L’unico argine previsto è che la soppressione del posto consegua in modo oggettivo all’intervento
riorganizzativo adottato e non sia atto arbitrario di parte datoriale, ragion per cui è richiesto che
risultino la effettività e la non pretestuosità del riassetto medesimo8.
Secondo il primo orientamento, il licenziamento di un lavoratore rappresenta l’estrema ratio ed è
quindi legittimo solo ove sia inevitabile, cioè ove la modifica organizzativa con effetti di
ridimensionamento del personale sia imposta da un andamento negativo non transeunte che
potrebbe mettere a rischio la stessa funzione sociale dell’impresa.
Il secondo filone attribuisce potere determinante alle insindacabili scelte aziendali ritenute idonee a
legittimare ogni licenziamento oggettivamente ed effettivamente conseguente a tali scelte.
In entrambi i casi il licenziamento è la conseguenza di una scelta riorganizzativa aziendale ma
secondo il primo orientamento questa scelta è necessitata, sicché i presupposti di essa vanno a
comporre le ragioni di cui all’art. 3 della legge n. 604/66 e sono attratti nella valutazione del
giudice, laddove, per il secondo orientamento, la scelta imprenditoriale rappresenta il punto di
partenza, autonomo ed autosufficiente ai fini delle ragioni di cui al citato art. 3.
Non vi è dubbio che in un caso e nell’altro la scelta imprenditoriale sia insindacabile nei suoi profili
di congruità ed opportunità, non potendo il giudice interloquire sui criteri di gestione dell’impresa
espressione della libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 della Costituzione. Ciò
significa che non spetta al giudice alcuna valutazione sulla bontà della modifica organizzativa
adottata o sulla idoneità della stessa rispetto alle finalità perseguite, di far fronte a situazioni
sfavorevoli non contingenti o di far decollare i profitti.
La confusione, su cui prolifera da tempo il sospetto di una invasione di campo della giurisprudenza
in ambiti riservati esclusivamente all’esercizio del potere imprenditoriale, si insinua nello spazio,
indubbiamente ristretto, in cui si colloca, secondo il primo dei due orientamenti, l’indagine sulla
sussistenza e dimensione di situazioni sfavorevoli non contingenti tali da imporre un riassetto
organizzativo, poi definito autonomamente e insindacabilmente dal datore di lavoro. Procedendo
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con un esempio, secondo il primo orientamento sarebbe consentito al giudice di valutare la
sussistenza e l’entità della crisi aziendale quale necessaria situazione sfavorevole non contingente e
l’efficacia determinativa causale della stessa rispetto al riassetto organizzativo comportante la
soppressione di uno o più posti di lavoro; nel secondo caso, di fronte ad una riorganizzazione
aziendale con soppressione di posti di lavoro, il giudice dovrebbe fermarsi al controllo di effettività,
prendere semplicemente atto della volontà datoriale tradottasi in quella scelta organizzativa,
ravvisando in essa le ragioni di cui all’articolo 3 della legge n. 604.
3. La sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, n. 23620 del 2015.
La sentenza che si commenta concerne un duplice licenziamento intimato da una società, operante
nel settore della sanità privata e convenzionata col S.S.N., alla propria dipendente con mansioni di
tecnico di laboratorio. La Corte d’Appello di Napoli aveva confermato l’illegittimità del primo
licenziamento dichiarata dal tribunale per “mancanza di prova della crisi aziendale” e sul rilievo che
“nel corso degli anni le prestazioni sanitarie rese dalla società non erano variate per qualità e
quantità”. Il difetto di prova sull’esistenza di una crisi aziendale assorbiva, secondo la Corte
d’Appello, “la questione della legittimità dell’attribuzione ad altro personale, con la qualifica di
biologo invece che di tecnico di laboratorio, delle stesse mansioni già espletate dalla (lavoratrice)”.
Identica motivazione era adottata dal giudice di primo e di secondo grado quanto all’illegittimità del
secondo licenziamento intimato.
La Suprema Corte nel cassare le sentenze impugnate ha sostenuto come “il contratto di lavoro possa
essere sciolto a causa di un’onerosità non prevista, alla stregua delle conoscenze di settore, nel
momento della sua conclusione (art. 1467 cod. civ.) e tale sopravvenienza ben può consistere in una
valutazione dell’imprenditore che, in base all’andamento economico dell’impresa rilevato dopo la
conclusione del contratto, ravvisi la possibilità di sostituire un personale meno qualificato con
dipendenti maggiormente dotati di conoscenze ed esperienze e quindi di attitudini produttive”. Ha
escluso che l’esercizio di tale potere fosse sindacabile dal giudice, richiamando l’art. 30 della legge
n. 183 del 2010. Ha censurato la valutazione della Corte d’Appello che, di fronte all’assenza di
prova del calo produttivo, aveva ritenuto superflua la verifica sulla redistribuzione delle mansioni
tra il personale già in forza o neo-assunto.
Dalla lettura della sentenza, che non fa cenno alle motivazioni contenute nelle lettere di
licenziamento, sembra che lo stato di crisi aziendale fosse stato posto espressamente a base della
decisione di recesso. Alcuni riferimenti al contenuto delle sentenze d’appello, in particolare alla
mancanza di prova di uno “stato di crisi aziendale” e del “calo produttivo”, perché anzi “nel corso
degli anni le prestazioni sanitarie rese dalla società non erano variate per qualità e quantità”,
depongono in tal senso. Se così fosse stato, non si comprende come mai la Suprema Corte abbia
censurato le decisioni dei giudici di appello che, a fronte del difetto di prova della crisi aziendale,
avevano giudicato superflua la verifica sulla effettiva redistribuzione delle mansioni.
Considerato che il secondo licenziamento era stato intimato sotto il vigore della legge n. 92 del
2012, il difetto di prova della crisi aziendale, necessariamente attratta nel “fatto” e tale da
comportare la “manifesta insussistenza” dello stesso 9, avrebbe dovuto condurre de plano ad una
conferma della illegittimità del licenziamento e precludere ogni successiva indagine e valutazione.
Al contrario, la Corte sembra aver ritenuto che, nonostante il difetto di prova dello stato di crisi,
quale segmento del “fatto” posto a base del recesso, potesse assumere rilievo decisivo l’effettiva
redistribuzione, tra i dipendenti rimasti in servizio, delle mansioni prima assegnate alla lavoratrice,
in tal modo invertendo l’ordine logico tra le ragioni del licenziamento e la effettiva attuazione del
riassetto organizzativo.
La pronuncia in esame si colloca, apertamente e senza grande sforzo motivazionale, nel solco del
secondo orientamento sopra descritto e valuta come esaustiva ragione economica di licenziamento
qualsiasi decisione riorganizzativa adottata dall’imprenditore “in base all’andamento economico
dell’impresa”, a prescindere dal segno positivo o negativo di esso e dal fine perseguito, “di
arricchimento o di non impoverimento”, dovendosi il controllo giudiziale arrestare alla verifica
della “reale operazione di riorganizzazione del personale e di redistribuzione della mansioni”.
Singolare è la statuizione della Suprema Corte sulla possibilità di uno scioglimento del contratto di
lavoro “a causa di una onerosità non prevista, alla stregua delle conoscenze di settore, nel momento
della sua conclusione”. Posto che pacificamente l’istituto della risoluzione per eccessiva onerosità è
incompatibile con la disciplina speciale inderogabile dettata in tema di cessazione del rapporto di
lavoro, deve ritenersi che, col richiamo all’art. 1467 cod. civ., il giudice di legittimità abbia inteso
attrarre nel giustificato motivo oggettivo di recesso le valutazioni imprenditoriali di eccessiva
onerosità sopravvenuta della prestazione che, in relazione alla fattispecie concreta esaminata, hanno
avuto ad oggetto la minore produttività del personale in forza meno qualificato rispetto a personale
da assumere con qualifica più elevata. Ciò significa, seguendo il ragionamento della Suprema Corte,
che le “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare
funzionamento di essa” possono essere integrate da scelte organizzative insindacabili di parte
datoriale adottate a fronte della valutazione di eccessiva onerosità della prestazione sopravvenuta
all’assunzione del dipendente. In tal modo, non solo si estenderebbe di fatto al rapporto di lavoro
una regolamentazione dettata dal codice civile per la risoluzione dei rapporti tra privati, in contrasto
con la normativa inderogabile in tema di licenziamento, ma ciò avverrebbe senza neanche le
limitazioni poste dal codice civile alla facoltà di risoluzione per eccessiva onerosità che, ai sensi
dell’articolo 1467, deve essere causata dal “verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili”
e non può trovare applicazione laddove la “sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del
contratto”. Insomma, si riserverebbe al lavoratore non un trattamento più garantito rispetto ai
rapporti tra privati ma addirittura deteriore, poiché, se si applicasse direttamente la previsione
codicistica con le limitazioni sopra trascritte, dovrebbe escludersi la possibilità di una risoluzione
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per eccessiva onerosità della prestazione posto che nello svolgimento di un rapporto di lavoro le
esigenze di riorganizzazione aziendale rientrano, di regola, nell’alea comune del contratto e non
sono legate ad avvenimenti straordinari ed imprevedibili.
Seguendo l’opzione interpretativa adottata nella sentenza in esame si rischierebbe di legittimare
licenziamenti conseguenti a forme di riassetto organizzativo dettato da una eccessiva onerosità della
prestazione collegata, ad esempio, all’aumento di anzianità del dipendente oppure a forme
contrattuali meno convenienti.
E’ vero che le modifiche legislative degli ultimi anni hanno determinato una progressiva riduzione
delle tutele nel rapporto di lavoro ed una assimilazione della relativa disciplina, ancora formalmente
inderogabile, a quella generale dei contratti. Tuttavia, un’opzione interpretativa come quella
adottata nella sentenza n. 23620/15, che sembra consentire la risoluzione unilaterale del rapporto di
lavoro in virtù di una insindacabile valutazione datoriale sulla onerosità sopravvenuta della
prestazione e grazie all’innesto di quest’ultimo istituto nelle maglie della disciplina inderogabile,
produrrebbe un effetto di irrimediabile irrazionalità nel sistema.
La sentenza n. 26320/15, al pari dell’orientamento a cui la stessa si ispira, riflette un’impostazione
che è costruita sulla seguente premessa: l’assimilazione e la confusione tra le scelte imprenditoriali
e le ragioni poste a base del licenziamento. Da questo punto di vista è significativo che la pronuncia
in commento non utilizzi mai il termine “ragioni” a proposito del motivo oggettivo di
licenziamento, benché proprio sulle “ragioni” sia costruita la definizione di giustificato motivo
nell’articolo 3 più volte citato, ma faccia riferimento alla “valutazione dell’imprenditore”, al fatto
che questi “ravvisi la possibilità di sostituire personale meno qualificato con dipendenti
maggiormente dotati… di attitudini produttive”, all’ “esercizio di… potere…insindacabile nel
merito”. Alla Corte d’appello il giudice di legittimità rimprovera, nella pronuncia in esame, di
avere, una volta “rilevata l’assenza di prova del calo produttivo”, “erroneamente ritenuto superflua
la verifica dell’attribuzione all’altra dipendente, biologa, delle mansioni prima affidate alla
dipendente licenziata”. Il che significa che, pur in difetto di prova di una causa necessitante della
riorganizzazione, cioè il calo produttivo, sarebbe stata sufficiente ai fini della legittimità del recesso
la prova della effettiva redistribuzione delle mansioni rilevando, a fronte della insindacabilità delle
scelte datoriali, unicamente il riscontro dell’attuazione concreta delle stesse quale garanzia, la sola
concessa al lavoratore, di non arbitrarietà del recesso.
4. Ragioni e scelte.
L’orientamento giurisprudenziale fatto proprio dalla sentenza in commento, attento a non turbare la
libertà di iniziativa economica, sembra ridurre la nozione di giustificato motivo oggettivo di
licenziamento all’effetto pratico di realizzazione concreta di scelte organizzative datoriali
insindacabili.
Che questo sia il significato da attribuire all’articolo 3 della legge n. 604 del 1966 è difficile
sostenere, pure in un’epoca in cui la portata delle clausole generali di giusta causa e di giustificato
motivo si è sostanzialmente dissolta di fronte a reiterate leggi10 che hanno accuratamente separato il
piano della illegittimità del licenziamento e il piano delle conseguenze sanzionatorie.
Una serie di considerazioni impongono di contenere le tendenze interpretative che rischiano di
scolorire ogni differenza tra un licenziamento che il legislatore esige sorretto da un giustificato
motivo ed un licenziamento che assomiglia sempre più ad un recesso ad nutum, in quanto effetto di
scelte organizzative datoriali autosufficienti ed insindacabili.
Dal punto di vista letterale deve rilevarsi come l’articolo 3 della legge n. 604 preveda che il
licenziamento per giustificato motivo “è determinato” dalle ragioni specificamente elencate. Il
verbo “determinare” implica l’esistenza di una causa esterna e necessitante del recesso, esplicitata
dal legislatore del 1966 attraverso le “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del
lavoro e al regolare funzionamento di essa”. L’uso del termine “ragioni” poi evoca non una scelta o
una preferenza bensì una necessità razionale, suscettibile di autonoma individuazione, di controllo e
verifica. Il licenziamento giustificato non è semplicemente quello conseguente a scelte datoriali
insindacabili di riorganizzazione, quali esse siano e qualsiasi finalità perseguano, ma quello reso
necessario da esigenze organizzative che si impongono al datore stesso e che siano verificabili
secondo criteri, non solo di effettività, ma di razionalità e serietà.
Dal punto di vista della costruzione della fattispecie, deve rilevarsi come la causa
petendi nell’impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia costruita come
inesistenza dei fatti giustificativi del potere datoriale11, il che implica una separazione logica tra i
presupposti giustificativi del potere ed i contenuti dell’esercizio di quest’ultimo attraverso le scelte
di riorganizzazione.
La Suprema Corte, in altre più caute pronunce, ha tracciato un confine netto tra le scelte
imprenditoriali di riorganizzazione a valle e le ragioni del riassetto organizzativo a monte. Ad
esempio, in una fattispecie in cui era stato addotto, quale giustificato motivo oggettivo di recesso,
che “la funzione di capo area estero, svolta dal ricorrente, sarebbe stata assunta direttamente
dall’Amministratore delegato”, il giudice di legittimità ha ritenuto non assolto l’onere facente capo
a parte datoriale di provare le “ragioni poste a fondamento del dedotto riassetto organizzativo
dell’azienda e della effettività del relativo processo”. In particolare, nella sentenza è spiegato come
la dedotta distribuzione delle mansioni “costituisce la conclusione del processo di riassetto
organizzativo ma non la ragione dello stesso” 12. Ciò significa che il giustificato motivo oggettivo
non può coincidere e non può esaurirsi nella scelta riorganizzativa insindacabilmente adottata da
parte datoriale, e concretamente realizzata, perché quest’ultima necessita di presupposti
giustificativi a monte che vanno a comporre le “ragioni” in cui si misura il punto di equilibrio tra il
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principio di stabilità del posto di lavoro e la libertà di iniziativa economica facente capo
all’imprenditore. Nel lontano 1991 la Corte di Cassazione13 avvertiva come “nel nostro
ordinamento, per la legge n. 604/66 che, nei limiti da essa fissati, sancisce il principio della stabilità
del rapporto di lavoro privato a tempo indeterminato, il datore di lavoro non può procedere come e
quando vuole ai riassetti organizzativi in azienda. Occorre che questi riassetti integrino il
giustificato motivo obiettivo di cui all'art. 3 della legge n. 604/66, perché i conseguenti
licenziamenti dei lavoratori siano legittimi… non basta, in merito, un generico programma di
riduzione dei costi: la tutela di quella stabilità potrebbe praticamente vanificarsi, perché la legge
vuole, per il superamento della regola della stabilità stessa, "ragioni" che "giustifichino" il
licenziamento, e cioè cause che col loro peso si impongano sull'esigenza della stabilità e, come tali,
siano serie e non convenientemente eludibili”.
Vi è un ulteriore profilo che merita di essere analizzato e concerne la compatibilità della tesi accolta
nella sentenza n. 23620/15 con l’istituto del repechage, strenuamente ribadito dalla Suprema Corte
ed anzi recentemente rinvigorito ed ampliato, fino a comprendere l’obbligo posto a carico del datore
di prospettare al lavoratore la possibilità di un impiego non solo in mansioni equivalenti ma anche
in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, e sganciato dagli oneri di allegazione
a carico del lavoratore medesimo14. Se a giustificare il licenziamento per motivo oggettivo bastasse
la scelta datoriale di riorganizzazione con soppressione dello specifico posto o reparto, non vi
sarebbe spazio per l’obbligo di repechage, dovendosi logicamente considerare parte implicita
dell’insindacabile scelta organizzativa aziendale la mancata copertura dei posti disponibili,
compatibili con la professionalità del dipendente estromesso e relativi a mansioni equivalenti o
inferiori. L’obbligo di repechage, “criterio di integrazione giuridica delle ragioni inerenti all’attività
produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa” 15, comporta
l’assenza, in capo al datore di lavoro, del potere di licenziare, nonostante la soppressione del posto
occupato dal dipendente, ove esistano in azienda mansioni in cui quest’ultimo possa essere
utilmente impiegato. La conseguenza logica di tale premessa è che la legittimità della decisione di
recesso non può dipendere unicamente dalla effettività della scelta riorganizzativa aziendale ma
presuppone una necessità non altrimenti evitabile, tale da imporsi seriamente sulla tutela di stabilità
del posto di lavoro.
Non vi è dubbio che la linea di confine tra il controllo sulle ragioni quali presupposti giustificativi
del licenziamento per motivo oggettivo e il sindacato di merito sulle scelte datoriali sia assai sottile
ma tale difficoltà si presenta ogni qualvolta si debba ricercare un punto di equilibrio tra differenti
istanze di rango costituzionale, nel caso in esame, tra il diritto alla tutela in ogni caso di
licenziamento ingiustificato16 e la libertà di iniziativa economica privata. Questo, tuttavia, è proprio
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il compito che il legislatore ha inteso affidare al giudice con l’utilizzazione delle norme elastiche e
delle clausole generali, lasciate intatte dai legislatori del 2012 e del 2015.
5. La civiltà del lavoro.
Forse è ancora auspicabile un intervento delle Sezioni Unite che individui, tra i due orientamenti,
quello più consono ai principi generali dell’ordinamento e alla civiltà del lavoro.
Nel nuovo regime tracciato prima dalla legge n. 92 del 2012 e poi dal decreto legislativo n. 23 del
2015, la scelta assiologica che le clausole generali storicamente affidavano al giudice è diventata
mero esercizio teorico, privo di qualsiasi impatto sull’assetto reale dei rapporti di lavoro. Oggi le
unilaterali e insindacabili scelte datoriali in tema di riorganizzazione aziendale producono sempre e
comunque l’effetto prefissato di estinzione del rapporto di lavoro, salvo il caso (per i lavoratori
assunti prima del 7 marzo 2015) del c.d. “torto marcio”, espressione che traduce abilmente la
“manifesta insussistenza del fatto” di cui al comma 7 dell’art. 18 come modificato dalla legge cd.
Fornero, e salve, anche in base al d.lgs. n. 23 del 2015, le ipotesi di licenziamento discriminatorio o
nullo, con oneri di prova addossati ai lavoratori e alle lavoratrici. Il difetto di prova, di cui è ancora
onerato parte datoriale, del giustificato motivo oggettivo conduce, secondo la riforma del 2015 alla
declaratoria di illegittimità del licenziamento ed alla condanna al pagamento di un indennizzo, di
entità predeterminata ed irrisoria, in cui si esaurisce, per effetto di un sovvertimento legislativo della
parte debole del rapporto, la tutela del posto di lavoro.
Ci sono molti validi argomenti a sostengo dell’orientamento giurisprudenziale più rigoroso sui
presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo ma vi è un nuovo
ostacolo: l’inciviltà del lavoro è intanto diventata legge.
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L’art. 30 della legge n. 183 del 210 ha stabilito che in tutti i casi in cui le disposizioni di legge nelle
materie lavoristiche contengano clausole generali, il controllo giudiziale sia limitato
esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del
presupposto di legittimità e non possa essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche,
organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente.
A. Piccinini, C. Ponterio, La Controriforma del lavoro, Questione Giustizia 2010 n. 3. Cfr. Cass.,
12242/2015 che, a proposito dell’art. 30 della legge n. 183 del 2010 ha precisato: “Tale
disposizione, espressamente richiamando i principi generali dell'ordinamento, ribadisce infatti che
devono operare anche quelli costituzionali posti a tutela del lavoro, nonché l'esigenza di stabilità
che la disciplina limitativa dei licenziamenti (in specie, quella operante all'epoca del licenziamento
in questione) perseguiva, sicché non ha eliminato la necessità che le valutazioni "tecniche,
organizzative e produttive" insindacabili nel merito siano pur sempre quelle che traggono le
premesse dall'organizzazione produttiva e dalla situazione obiettiva nella quale esse si inseriscono,
sulla quale ripercuotono necessariamente i loro effetti. In tema di licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, resta quindi insindacabile nell'an e nel quomodo la scelta effettuata
dall'imprenditore per intervenire in relazione alle esigenze obiettive che si presentino nell'impresa,
solo potendosene vagliare il rapporto di causa-effetto con le ripercussioni sui rapporti di lavoro, ma
il fondamento giustificativo cui esse assolvono deve essere comunque oggettivamente verificabile”.
Cass., n. 434/1999.
Cass. n. 17073/2011; Cass., n. 25144/2010; Cass., n. 18247/2009; Cass., n. 7838/2005; Cass., n.
10058/05.
Cass., n. 12242/2015; n. 5173/2015; n. 2874/2012; n. 21282/2006; n. 7750/2003; n. 12270/2003; n.
14093/2001; n. 3030/1999; n. 11646/1998; n. 8057/1998.
Cass., n. 12514/2004 ove è specificato che “il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex
art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, è determinato non da un generico ridimensionamento
dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del
reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale
a un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non
contingenti; il lavoratore ha quindi diritto a che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere)
dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale a iniziative collegate ad effettive
ragioni di carattere produttivo-organizzativo e non ad un mero incremento dei profitti…”; cfr. nello
stesso senso, Cass., n. 2824/1990; n. 4164/1991; n. 21282/2006; n. 19616/2011).
Cass., n. 13516/2016; n. 10662/2007; n. 21121/2004; n. 9310/2001.
Cass., n. 21121/2004; n. 13021/2001.
Ai sensi dell’art. 18, comma 7, della legge n. 300/1970 come modificato dalla legge n. 92 del 2012.
Il riferimento è alla legge n. 92 del 2012 e al decreto legislativo n. 23 del 2015.
Cass., n. 5592/2016; n. 4460/2015.
Cass., n. 15157/2011. Nello stesso senso cfr. Cass., n. 12242/2015, secondo cui “L'operazione di
riassetto costituisce infatti la conclusione del processo organizzativo, ma non la ragione dello
stesso, che, per imporsi sull'esigenza di stabilità, dev'essere seria, oggettiva e non convenientemente
eludibile”; Cass. n. 7474/2012; Cass. n. 15157/2011.
Cass., n. 4164/1991.
Cass., n. 5592/2016; n. 4509/2016.
Cass., n. 5592/2016.
Cfr. anche art. 30 Carta di Nizza; art. 24 Carta Sociale Europea.
20 settembre 2016