Nascita e caratteri della Scienza Moderna

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Nascita e caratteri della Scienza Moderna
Nascita ed impostazione della Scienza Moderna
I
Nel periodo storico che va dalla seconda metà del Cinquecento alla prima metà del Seicento, accade
qualcosa di fondamentale per lo sviluppo successivo della civiltà europea: giunge cioè a
maturazione un processo di rifondazione del sapere scientifico (avviato già a partire dal 1200, ma
delineato soprattutto nella cultura umanistico-rinascimentale) che vede una radicale riformulazione
dei rapporti fra ricerca scientifica e tradizione filosofica.
Per meglio comprendere la novità della nuova impostazione, possiamo cercare di
evidenziarne alcuni punti fondamentali:
A)
L’oggetto della ricerca è un insieme di leggi completamente riferite al solo mondo fisico: la
scienza opera così una separazione di certi aspetti del reale dalla totalità di esso, dall’essere della
tradizione filosofica, che comprendeva anche la realtà metafisica (in tale tradizione, una conoscenza
che voglia limitarsi alla parte è destinata a rimanere un’astrazione, e addirittura un’illusione,
giacché ogni parte mostra il proprio vero volto solo nella luce del Tutto).
Si tenga presente che già nel pensiero di Machiavelli le considerazioni relative alla pratica
politica venivano separate da quelle di tipo morale, religioso, sentimentale ecc.; per cui Machiavelli
si può considerare come un grande anticipatore del nuovo metodo scientifico. Si vedano, in
proposito, anche i contributi forniti da Telesio, con il suo progetto di studiare la natura iuxta
propria principia (cioè secondo principi interni alla natura stessa), o ancor prima da Ockham (che
sosteneva l’estraneità reciproca tra la sfera scientifica e quella religiosa).
Le leggi così cercate sono comunque ancora concepite come uniformi nelle varie parti dello
spazio e costanti nel tempo (v. la tesi già espressa da Cusano sull’omogeneità dell’universo).
Questo assunto “ottimistico” della nuova cultura scientifica, collegato alla perdurante idea di un
ordine immutabile del mondo (che si suppone stabilito dal suo Creatore), verrà messo in discussione
per la prima volta da Hume, intorno alla metà del Settecento1.
B)
Le leggi di cui sopra sono di tipo meccanico, e dunque sono esprimibili in termini
geometrico-matematici. Di conseguenza esse sono del tutto conoscibili da parte della ragione
umana; per cui l’uomo si pone di fronte alla natura con un nuovo atteggiamento di fiducia nei propri
mezzi. Questo atteggiamento è già presente nella cultura umanistico-rinascimentale in genere, ed in
particolare nelle ricerche di Leonardo da Vinci, anche se queste ultime non raggiungono la
sistematicità che caratterizzerà il metodo di Galileo.
Ma dunque, per conoscere la natura e prevederne il divenire, la scienza opera una seconda
separazione della parte dal tutto, riferendosi ai soli aspetti quantitativi (cioè appunto a quelli
misurabili matematicamente) della realtà materiale, e considerando come secondari e trascurabili
quelli qualitativi. Si pensa quindi (da parte di Galileo, di Cartesio, di Locke…) di poter individuare
una base oggettiva della realtà fisica, necessariamente condivisa da tutti i soggetti – a differenza di
certi aspetti (come colori, odori, sentimenti) che possono invece variare da individuo a individuo.
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Si tenga dunque presente, anche in relazione a quanto si dirà in seguito (v. Sez. II e III), che
l’atteggiamento anti-metafisico della scienza moderna non comporta, all’inizio, l’abbandono del concetto di
verità in senso forte, e cioè del sapere scientifico come epistéme.
Le leggi scoperte secondo questo criterio definiscono rapporti di tipo soltanto causale tra i
fenomeni naturali. Escludendo infatti ogni riferimento metafisico, la nuova scienza fisica riduce le
quattro “cause” aristoteliche a quella efficiente (ed anche a quella materiale, ma liberata da ogni
riferimento all’invisibile e difficilmente definibile “materia prima”), eliminando dal suo campo
qualunque spiegazione di tipo finalistico.
Nella costruzione di questa interpretazione geometrica e meccanicistica del mondo è
determinante la conoscenza dei modelli matematici già presenti nel pensiero greco (v. pitagorismo,
geometria di Euclide ecc.), cui va aggiunta la riscoperta dell’atomismo di Democrito da parte della
cultura rinascimentale. Il determinismo che caratterizzava la dottrina democritea viene assunto
comunque solo come criterio normativo dei fenomeni fisici (cioè di quella parte di realtà che
s’intende indagare), mentre perde ogni valenza metafisica (cioè di proprietà degli enti in generale).
C)
La scoperta e l’elaborazione delle leggi naturali si fonda essenzialmente sull’esperienza
sensibile, da cui il carattere empirico e sperimentale delle nuove dottrine fisiche: solo l’esperienza
fornisce il punto di partenza per formulare teorie, e costituisce, successivamente, il solo criterio
della loro validità; la verità di una teoria, in altri termini, è legata sempre alla sua verifica pratica.
Anche questo punto, come i due precedenti, rivela l’atteggiamento antimetafisico della
nuova impostazione scientifica, che si rifiuta di fondare la conoscenza della natura su qualcosa che
non sia riconducibile ad esperienze particolari, secondo le indicazioni del nominalismo scolastico,
di cui sempre Ockham è uno dei maggiori esponenti. Contributi decisivi a questa impostazione
sono forniti anche dalla mentalità umanistica nel suo complesso, con la messa in discussione di ogni
sapere tradizionale, basato solo su speculazioni teoriche, in favore di un esame diretto, personale,
della realtà che circonda l’uomo.
D) Il nuovo sapere scientifico aspira ad avere carattere pubblico: la scienza dev’essere cioè un
patrimonio comune a tutti gli uomini, una cultura intersoggettiva e cumulativa, che si sviluppi e si
arricchisca attraverso contributi successivi ed i cui frutti restino a disposizione dell’intera comunità
umana. E’ in questa ottica che ad esempio Galileo, nel 1610, scrive il Sidereus nuncius, in cui
rende pubblici i risultati delle proprie ricerche astronomiche, indicando con precisione i metodi e gli
strumenti di osservazione impiegati, in modo che le proprie esperienze siano ripetibili da chiunque.
L’importanza attribuita all’esperienza sensibile si traduce così nell’esigenza che qualsiasi
assunto teorico sia sottoposto al controllo diretto di ciascun uomo2; una posizione del genere è
collegabile anche alle prime anticipazioni del pensiero liberale o democratico, presenti nelle
dottrine giusnaturalistiche, in Machiavelli etc.
E)
La scienza, pur presentandosi come un sapere “oggettivo” e “neutrale”, possiede anche e
soprattutto applicazione pratica: conoscere il mondo è la premessa per poterlo modificare a
vantaggio dell’umanità. Si può dire che giunga così a compimento la concezione rinascimentale che
faceva dell’uomo il protagonista ed il centro della realtà naturale: già lo sviluppo della magia e
dell’alchimia fra Quattrocento e Cinquecento aveva anticipato questo atteggiamento, cioè questo
progetto di potenza sui fenomeni fisici. F. Bacone è probabilmente il più consapevole sostenitore
delle nuove prospettive aperte all’uomo dalla fisica moderna, e si può considerare un po’ il profeta
della civiltà tecnologica, destinata a nascere dai suoi sviluppi.
Dal 1600 in poi tende a costituirsi, in effetti, un sodalizio tra tecnici e scienziati, fra ricerca
teorica ed applicazioni pratiche; sodalizio che progredirà ininterrottamente fino ai nostri giorni.
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In termini rigorosi, l’unica percezione diretta, immediata, della realtà, è data nella mia esperienza, e non in
una dimensione collettiva. Questa esigenza (epistemica) sarà perseguita dal neopositivismo (v. Circolo di
Vienna) ancora agli inizi del ‘900, ma verrà in seguito abbandonata proprio in nome del riconoscimento
pubblico del sapere scientifico. Come l’antica cultura mitica (v. più avanti) la scienza affida il proprio prestigio
più alla quantità (al supposto consenso della moltitudine) che alla qualità intrinseca di un certo messaggio.
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II
L'ultimo punto esaminato ci porta ad affrontare un problema che riguarda proprio il rapporto
scienza / tecnica: se da un lato si può affermare che il nuovo pensiero scientifico sta alla base di uno
sviluppo tecnico senza precedenti nella storia umana, dall'altro si può anche ritenere che sia proprio
il nuovo atteggiamento pratico dell'uomo verso la natura (vedi l’ascesa della borghesia e lo sviluppo
della mentalità imprenditoriale, l’espansione del commercio, la politica dei grandi stati moderni) a
favorire il progresso della ricerca teorica: è possibile, cioè, considerare proprio la realtà economica,
politica, sociale, del Cinquecento come la base della nascita della scienza moderna.
A questo proposito si potrebbe anche notare come il mondo antico (vedi ad es. la civiltà
ellenistica), che pure possedeva cognizioni di matematica, fisica, biologia, non inferiori a quelle
della cultura rinascimentale, non abbia prodotto una rivoluzione tecnologica com’è accaduto
nell’Europa moderna, e si potrebbe anche attribuire tale mancato sviluppo ai diversi rapporti
produttivi e alla diversa struttura dei ceti sociali presenti nel mondo classico.
Comunque sia, i due momenti (pratico e teorico) qualunque dei due si voglia considerare
come chiave dell'altro, appaiono indissolubilmente legati, e solo la loro complementarità ed
influenza reciproca possono rendere conto dello sviluppo storico dell'Europa dal 1600 in poi.
Un’altra questione di fondamentale importanza è rappresentata dall’evolversi del rapporto
tra scienza e filosofia: per secoli qualunque forma di conoscenza della natura, qualunque tipo di
attività tecnica, erano state considerate come diramazioni di un unico sapere - quello filosofico - che
stava al loro fondamento e ne garantiva la validità. Nella cultura medioevale, in particolare, il
pensiero cristiano (ossia l’unica forma di filosofia esistente nel mondo europeo) si costituiva come
lo sfondo costante ed insuperabile di ogni tipo di conoscenza e di attività umana.
Alla sua nascita, il pensiero scientifico moderno non intende affatto tagliare i suoi legami
con il sapere filosofico – per sostituire ad esso un sapere di tipo meno ambizioso – ma vuole
soltanto affrancarsi da una particolare tradizione filosofica (in specie quella di stampo aristotelico),
che appare sempre più come un ostacolo per la ricerca.
Questo rifiuto dell’aristotelismo è il motivo principale dello scontro tra i fautori delle nuove
teorie fisiche ed astronomiche e l’autorità ecclesiastica, la quale, per adesso, considera inseparabile
dalla dottrina cristiana la filosofia dell’aristotelico Tommaso. Ma si deve notare come questo
scontro avvenga proprio perché la scienza (vedi il processo a Galileo) intende ancora far valere
come conoscenza assoluta (“epistemica”) le proprie conclusioni, e quindi pensa di poter convincere
la chiesa a rivedere, senza indugi e titubanze, la sua interpretazione delle Scritture.
I nuovi scienziati considerano, infatti, le proprie ricerche come contributi ad un generale
rinnovamento del sapere (Instauratio Magna lo definisce Bacone), e quest’ultimo è visto ancora,
filosoficamente, come conoscenza assoluta, non smentibile, del reale, come indubitabile verità.
Dal canto suo, anche il pensiero filosofico del Seicento opera, a partire da Cartesio, una
radicale critica della metafisica tradizionale e cerca di rifondarsi come epistéme, recuperando al
proprio interno tutto ciò che di nuovo la scienza moderna sta costruendo: molti filosofi sono
insieme scienziati. Sarebbe perciò riduttivo sostenere che la filosofia moderna cerca semplicemente
di far proprio, quasi assimilandolo dall’esterno, il nuovo metodo scientifico: si tratta invece di
capire che, dal punto di vista della filosofia, i nuovi modelli messi a punto dalla scienza vanno
considerati come aspetti particolari di un unico sapere assoluto che tutti li fonda.
Il metodo scientifico va dunque, semmai, generalizzato; ma soprattutto ne va precisata
rigorosamente la struttura, chiarendo perché la nuova scienza costituisca una sapere davvero
incontrovertibile (epistemico) ed universale: tale problematica restava infatti estranea alla
riflessione dei primi scienziati, che si proponevano quasi esclusivamente di indagare le proprietà del
mondo fisico, dando per scontata l’infallibilità del loro metodo.
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III
F)
Ma eccoci ad un punto decisivo, a quello che costituisce anzi l’aspetto più specifico e
profondo del sapere tecnico-scientifico (che tuttavia verrà in piena luce solo in un secondo tempo, e
cioè a partire circa dalla seconda metà del Settecento, e poi in modo sempre più netto, nella seconda
metà dell'Ottocento e nel corso del XX Secolo): si tratta della consapevolezza del carattere ipotetico
e mai definitivo delle teorie sul mondo fisico e dell’indagine scientifica in generale. Questo
atteggiamento non comporta più soltanto la critica ad una particolare tradizione filosofica, ma si
rivolge contro l’impostazione stessa della filosofia, cioè contro ogni pretesa, da parte della ragione
umana, di conoscere in modo assoluto la realtà, o anche solo una parte di essa. La scienza
abbandonerà così la sua matrice epistemica, e si legherà definitivamente allo sviluppo pratico delle
sue produzioni; la filosofia finirà per essere concepita, a questo punto, solo come epistemologia 3,
cioè come indagine critica sullo statuto della scienza e sui rapporti tra le varie scienze.
L’abbandono dell’originaria prospettiva filosofica, da parte della scienza e della tecnica (ed
ormai da parte della cultura contemporanea nel suo insieme) si può considerare come un grande
ritorno all’ottica del mito, cioè a quel tipo di sapere che, prima della nascita della filosofia, guida
per millenni le società umane. Anche se questo riferimento alla cultura pre-filosofica può sembrare
fuori luogo, la scienza e la tecnica hanno in effetti la stessa struttura di fondo del mito: come
quest’ultimo esse basano la propria validità su di un’autorità esterna, su una serie di fatti che
conferiscono credibilità, aggiungono forza a quanto espresso nelle loro tesi. Da Galilei e Bacone in
poi, il successo di qualsiasi teoria scientifica è infatti subordinato alla prova sperimentale, cioè ad
una verifica che non consiste più nell’interna coerenza o evidenza della costruzione teorica (come
accadeva per esempio nell’aristotelismo), ma lascia che sia l’accadere “oggettivo” delle cose a
pronunciare l’ultima parola sulla teoria stessa.
Ma tale accadere, dal punto di vista delle leggi formulate dalla scienza e non ancora
verificate, è un futuro, è qualcosa che ancora non esiste, e non può quindi essere osservabile e
neanche prevedibile in senso completo. L’accadimento futuro è, per il presente, ancora un niente; e
ciò che è ancora niente può essere previsto soltanto in maniera probabile, ipotetica, mai con assoluta
necessità. L’empirismo del XVIII secolo (vedi Hume) si accorgerà appunto del fatto che nessuna
serie di osservazioni, per quanto prolungata ed approfondita, può ipotecare totalmente il futuro; e
che quindi nessuna “legge” scientifica può essere più che un’ipotesi, una forma di fede.
La fiducia dei fondatori della fisica moderna (Galilei, Cartesio, Newton…) riguardo alla
prevedibilità dell’accadere futuro poggia, a ben vedere, solo sulla convinzione che l’ordine del
mondo sia garantito da un’eterna legge divina, che lo rende universale e stabile nel tempo. Ma si
tratta di un residuo metafisico, di un altro dogma da cui la scienza finirà per liberarsi.
L’abbandono di ogni pretesa di verità, sembra oggi ridurre, almeno per certi aspetti, i
contrasti tra la cultura scientifica e l’autorità della chiesa, che non vede più messa in discussione la
sua funzione di unica, infallibile guida spirituale, e che d'altra parte non può ormai non utilizzare i
potenti strumenti che la tecnica le mette a disposizione (a meno di rinunciare a gran parte della sua
influenza sulle masse). Perciò la chiesa si mostra oggi anche disponibile a rivedere certe sue
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interpretazioni tradizionali delle Scritture . Resta tuttavia da stabilire se la rivoluzione culturale e di
costume causata nel mondo attuale dalla scienza e dalla tecnica sia conciliabile con i valori e con i
modelli di vita proposti dalla dottrina cristiana.
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In questo termine figura bensì la parola greca epistéme, ma assunta ora in un significato riduttivo, come
accade appunto anche per lo stesso termine, di origine latina, scienza.
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Si può interpretare in tal senso, ad es., la recente riabilitazione di Galileo da parte di Giovanni Paolo II.
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Il filo conduttore della storia dell’Occidente è la volontà di potenza: l’aspirazione dello
spirito umano al dominio, il più ampio possibile, sulla realtà. Anche l’antica sapienza mitica, che
precede di millenni la cultura filosofica, vuole controllare la natura e persino gli dei: tale è il senso
dei sacrifici e dei riti magici. La parola magia è costruita sulla radice indoeuropea “magh”, che
esprime forza, grandezza (cfr. il greco megas, il latino magnus); e sempre su tale radice si
modellano la parola tedesca Macht (potenza), o il termine italiano macchina.
Ma il progetto di dominio formulato dalle antiche pratiche magiche ha ancora contorni non
definiti: la potenza cercata dal mito non ha ancora la radicalità del produrre e del distruggere che
assumerà nella prospettiva ontologica, non ha e non potrebbe avere i tratti della poíesis di Platone
(l’azione che fa passare le cose dal niente all’essere, e viceversa). Inoltre l’ambito in cui può
dispiegarsi la potenza pre-ontologica è limitato ad una regione del reale, non si estende ancora fino
al limite estremo, non raggiunge cioè la totalità degli enti.
L’ambito supremo in cui può agire la volontà di potenza è intravisto per la prima volta dal
pensiero filosofico, anche se inizialmente la potenza sull’intera sfera dell’essere è attribuita solo a
Dio, alla legge o alla mente suprema ed immutabile che governa le cose. Lo sviluppo del pensiero
ontologico è tuttavia destinato a individuare la necessità che la volontà di potenza si liberi di ogni
Immutabile, di ogni legge eterna che in qualche modo impedisca o limiti l’oscillare delle cose tra
l’essere ed il niente, che ne ipotechi il destino negando la loro assoluta libertà e disponibilità ad
essere prodotte e distrutte. Appare infine che ad incarnare la suprema volontà di potenza non può
essere alcun Dio o, in altri termini, appare la necessità della “morte di Dio”.
Se per certi versi la cultura tecnico-scientifica è un ritorno all’antica prospettiva del mito,
rispetto a quest’ultima la dominazione della tecnica ha tuttavia una radicalità inaudita. Essa, infatti:
1) non ha confini nel tempo e nello spazio, ma ha per teatro la stessa totalità del reale; 2) appare
irrevocabile, dato che il processo di distruzione degli immutabili si configura – all’interno del
pensiero filosofico, ed ormai dell’intera cultura occidentale – come un esito inevitabile: l’uomo
appare da sempre destinato all’illimitata potenza sulle cose. Anche se tale destinazione “necessaria”
comporta poi – contraddittoriamente – la rinuncia ad ogni necessità e ad ogni verità assolute.
Ma, si è appena detto, il dominio della scienza e della tecnica (in cui il futuro dell’uomo
sembra consegnato definitivamente al mito) appare irrevocabile nella prospettiva della cultura
occidentale: solo se tale prospettiva si rivelasse come l’unica possibile (o magari semplicemente
come quella capace di trionfare su ogni altra prospettiva concorrente) il discorso sulla destinazione
della civiltà umana sarebbe chiuso.
Per riaprire il discorso occorrerà dunque – posto che sia consentito – portarsi in una
prospettiva diversa, capace di mettere in discussione e di oltrepassare con verità l’infondata potenza
del mito (di quello antico, come di quello scientifico-tecnologico). Di una prospettiva del genere
non è compito di queste pagine tracciare il profilo, neanche per accenni: limitiamoci ad osservare
che, proprio perché nessun mito può, per sua natura, rivendicare validità definitiva, tale diversa
prospettiva potrebbe esistere.
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