2001_Ratti_Il Sole

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18-03-2001
IL SOLE 24 ORE
DOMENICA
CORRISPONDENZE
LETTERA DA LONDRA - Vanno a ruba i manuali di cucina e si moltiplicano i locali firmati da celebri designer
Foody revolution con gusto
Negli ambienti progettati con cura maniacale vengono serviti piatti raffinati, che combinano ingredienti da tutto
il mondo
Carlo F. Ratti
Alessandro Schiesaro
di Carlo F. Ratti
e Alessandro
Schiesaro
Secondo una classifica del <Guardian>, il saggio più venduto in Inghilterra negli ultimi dodici mesi è un
manuale di cucina: Il ritorno del cuoco nudo. Seguono, a poca distanza, altri quattro titoli sullo stesso
argomento: Cucinare con Delia 1, Il cuoco nudo, Cucinare con Delia 2 e la chiacchierata summa gastronomica
di Nigella Lawson, figlia di un austero ministro delle finanze dell'era Thatcher: Come diventare una dea
domestica.
Mentre questi volumi appariscenti e dal titolo stravagante fanno furore nelle librerie, i giornali inglesi traboccano
di ricette (fino a quattro pagine a testa nelle edizioni del week-end), la Bbc si occupa di gastronomia in prima
serata e il Carlton Food Network, canale televisivo diffuso via cavo, trasmette lezioni di arte culinaria
ventiquattro ore su ventiquattro. Tutto questo in un Paese che non è mai stato particolarmente rinomato per le
sue pietanze. Che cos'è capitato a quell'Inghilterra che, come scriveva Luigi Barzini jr., <primeggia in quasi tutti
i campi, con le eccezioni della filosofia astratta, la musica, la cucina e l'arte di fare all'amore>? Che cos'è
successo a quel popolo in passato temuto e rispettato poiché, si diceva, se riesce a sopravvivere a quello che
mangia può sopravvivere a qualunque altra cosa?
Sir Terence Conran, patron di numerosi ristoranti e protagonista indiscusso della scena gastronomica
londinese, non ha dubbi: si tratta di una vera e propria rivoluzione. Le origini sono remote e risalgono al
secondo dopoguerra. Anni di povertà, in cui vigeva il razionamento del cibo e in cui mancavano gli ingredienti
essenziali per la buona cucina (l'olio d'oliva, ricorda, bisognava comprarlo in farmacia, per curare il mal
d'orecchi). Allora apparvero i primi libri di Elizabeth David: gustosi reportage dall'Europa del Mediterraneo,
soprattutto dalla Francia e dall'Italia, ricchi di ricette ma anche di descrizioni analitiche di aromi e sapori lontani.
In un Paese nel quale, come recita il proverbio, si coltivavano soltanto tre tipi di verdure - due delle quali della
famiglia del cavolo - questi testi presero il posto delle fiabe, o dei giornali di viaggi esotici e mirabolanti. Il loro
impatto fu travolgente.
Prima che le cose cambiassero, tuttavia, dovevano passare molti anni. La cosiddetta "foody revolution" è un
fenomeno recente e risale a non più di dieci anni fa. Alla sua origine, sempre secondo Conran, vi sono cause
diverse: la maggior disponibilità di prodotti alimentari freschi e di qualità, importati a Londra da ogni parte del
mondo, una rinata curiosità gastronomica e la ricerca di nuove occasioni di incontro e socializzazione, da
contrapporre a una vita lavorativa sempre più monotona e trascorsa in isolamento davanti al computer: <Gli
schermi, quello lavorativo e quello televisivo, dominano la nostra esistenza: il ristorante e il caffè come luoghi
di aggregazione stanno diventando sempre più indispensabili>. Inoltre non bisogna dimenticare l'ultima
recessione economica (il crollo degli affitti ha reso finanziariamente possibile l'apertura di molti locali) e un
diffuso edonismo. Così, a poco a poco, Londra ha importato i fasti della New York "da bere" anni Ottanta e ha
visto nascere a decine ristoranti caratterizzati da cibo ricercato, o décor sorprendente e ostentato, o tutt'e due.
Oggi i giovani brokers di Wall Street sono ammaliati da succhi vegetali e healthy eating analcolico, mentre i
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loro colleghi londinesi tengono alto il mercato mondiale della rucola e dei pomodorini secchi, le "firme" del
revival gastronomico yuppie.
Italiani, di nascita o elezione, restano i principali guru della nuova stagione gastronomica londinese, da Ruth
Rogers a Oliver Peyton, da Antonio Carluccio allo stesso Terence Conran (che ha tra i suoi vanti di gioventù
quello di aver importato in Inghilterra la seconda macchina per il caffè espresso, comprata usata a Torino).
Diffondono il verbo della cucina mediterranea che garantisce vita lunga e felice, anche se a prezzi che in realtà
possono favorire l'ulcera, o in porzioni che fanno rimpiangere la nouvelle cuisine perfino in versione hard. Non
solo Italia, però. Le specialità francesi, uscite ormai dai grandi templi della ristorazione e dagli oscuri bistros di
quartiere, si possono gustare in una serie nutrita di ristoranti a specializzazione regionale. Esistono ristoranti
afgani e svedesi, tedeschi e argentini. Al contrario di New York, non si tratta sempre del naturale prodotto di
comunità etniche. Per certi versi, anzi, è quasi il contrario: il trionfo di un certo eclettismo anglocentrico e postimperiale.
Una volta Harrods celebrava i fasti dell'impero raccogliendone da ogni parte i prodotti tipici, comodamente
disponibili nel cuore di Knightsbridge. Bastava una visita per rendersi conto, tra sete e malacca, dell'estensione
del Raj. Con l'aiuto di una guida (ne esiste un numero sorprendente) è possibile fare oggi un simile viaggio tra i
ristoranti di cinque continenti, e convincersi (e, se si vuole, consolarsi) di una nuova centralità di Londra caput
mundi. Soccorre non poco, in questa trasformazione della metropoli da proverbiale esilio punitivo per il palato
a centro di sperimentazione ed eccellenza, la debolezza (i meno generosi direbbero l'inesistenza, ma a torto)
di una forte tradizione culinaria locale. La fusion tra aromi asiatici e sapori sudamericani ha senso a San
Francisco e a Sidney, ma convince poi anche a Londra, ben più che a Roma. Per questo, a Londra, è più facile
sperimentare e mescolare, soprattutto se all'effetto finale contribuisce un investimento non minore nel décor e
nella presentazione.
Proprio l'importanza accordata alla presentazione del cibo è uno dei tratti distintitivi della rivoluzione
gastronomica inglese. Non si tratta soltanto della disposizione delle pietanze sul piatto, che pur rappresenta
secondo alcuni critici una forma primordiale di esperienza estetica. Oggi l'attenzione si concentra soprattutto
sulla progettazione dei locali: in un'irraggiungibile tensione verso <l'opera d'arte totale>, le grandi firme del
design contemporaneo curano ogni dettaglio dei nuovi ristoranti della capitale, dall'arredamento ai bicchieri e
alle posate. Londra è forse l'unica città al mondo in cui siano state pubblicate due guide all'architettura di bar e
ristoranti (Eat London e Drink London, Ellipsis 1999 e 2000), incentrate sulla descrizione degli ambienti e non
sulla qualità del cibo. Sfogliandole ci si trova di fronte al minimalismo austero di David Chipperfield, come nel
popolare Wagamama di Soho o nel più esclusivo Circus, a esuberanti creazioni di Ron Arad (Belgo a Covent
Garden), o infine a quell'insolita sintesi di barocco e international style che forniscono le opere di Philippe
Starck, come nel celebre Spoon aperto di recente dal re della ristorazione francese Alain Ducasse.
Pur nella loro molteplicità linguistica, tutti questi locali presentano tratti comuni: una grande cura del
particolare, l'uso di materiali e tessiture raffinati e un certo gusto per gli accostamenti insoliti. I medesimi
elementi, come è stato fatto notare, che caratterizzano le nuove ricerche gastronomiche. D'altronde non è un
caso che gli stessi protagonisti della rivoluzione culinaria britannica provengano essi stessi dal mondo del
design: a partire da Terence Conran, fondatore a suo tempo della catena di arredamento Habitat e ancora oggi
impegnato in prima persona nella progettazione di interni, alla coppia Ruth e Richard Rogers: se lui, già
partner di Renzo Piano nell'avventura del Centre Pompidou di Parigi, è oggi il più influente architetto
dell'Inghilterra laburista, lei sta rivoluzionando la cucina inglese con i suoi libri e programmi televisivi. Sono
entrambi convinti del fatto che la buona tavola sia propedeutica all'attività creativa e hanno in progetto un libro
a quattro mani dal titolo provocatorio Sesso, cibo e architettura (le tre cose importanti della vita). Insieme
animano il celebre River Café, sulle sponde del Tamigi, un ampio locale dalle linee pure e moderatamente
high-tech che un insolente <New Yorker> ha definito (senza ironia, pare) <il miglior ristorante italiano
d'Europa>. Più che per la qualità del cibo viene ricordato di solito per lo squisito design - nonché per il conto
finale, che, dopo un'onesta bagna-caoda con due fettine di carne e un dessert, accompagnati da un sano
rosso piemontese o toscano, può raggiungere facilmente le trecentomila lire a testa.
Nonostante gli inevitabili costi, l'accoppiata britannica cibo-design continua oggi ad affermarsi con grande
successo. Da Londra il modello sta contagiando il vecchio e il nuovo continente: Conran ha aperto da poco
due ristoranti a Parigi e New York, e promette una rapida espansione anche in Italia. A Roma annuncia
addirittura l'invasione, pardon, la trasformazione, di un luogo <a grandissima rilevanza storico-architettonica>,
che per ora non vuole rivelare.
Resta da chiedersi se questo fervore creativo è un bene o un male. Solo i nostalgici più impervi possono
lamentare il bel tempo andato, ma un pensiero non ingeneroso va comunque rivolto ai pochi bastioni, esclusivi
e non, della vecchia cucina inglese, che fra pies, anguille e merluzzo affumicato (in brodo con uova e verdure)
conserva un'indubbia dignità, forse troppo ruvida, comunque affascinante. Per provarla, oggi, nella sua
versione autentica, si fa più fatica che a trovare la zuppa di pinna di pescecane o un cru particolare di olio
d'oliva della Lucchesia. Quanto alla specialità, questa sì, davvero londinese, del cibo chic presentato su design
d'autore, anche gli esperti indigeni incominciano ad esprimere qualche dubbio. Matthew Fort, giornalista del
<Guardian>, tornato felice da una trattoria torinese senza pretese, ne ammirava poche settimane fa <il comfort
serio> contrapposto al <perpetuo razzle-dazzle> di Londra. E subito dopo il più acuto e ascoltato dei suoi
colleghi, A. A. Gill, lanciava un appello, anzi un monito, a nome della categoria: basta ristoranti in cui il
comunicato stampa è più lungo del menu, e il menu ha più aggettivi del comunicato stampa; di ambienti che
pretendono di essere spiritosi e originali; di cene in cui ci si preoccupa delle divise dei camerieri più che del
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cibo sul piatto. E concludeva: non mettete il carro davanti ai buoi, perché in fondo quel che conta è mangiare il
bue, non ammirare il carro. Appunto.
Foto:
A sinistra, sgabelli del River Cafe (Richard Rogers Partnership, 1997); sopra, Mezzo (Terence
Conran, 1995); a destra, Belgo Noord (Anand Zenz 1992 / Ron Arad Associates 1994) e il
Wagamama di David Chipperfield (1996)
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