La storia perduta del cristianesimo

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La storia perduta del cristianesimo
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Comunicato stampa
Come nasce e muore una religione.
Il cristianesimo non è «made in Europe»
Esce La storia perduta del cristianesimo (EMI)
il nuovo libro di Philip Jenkins
Bologna, 5 aprile 2016
«Le religioni muoiono. Nel corso della storia, alcune religioni svaniscono del tutto,
altre si riducono da grandi religioni mondiali a una manciata di seguaci. Il
manicheismo, una religione che un tempo attirava adepti dalla Francia alla Cina,
non esiste più in alcuna forma organizzata o funzionale; né esistono più le fedi
che, mezzo millennio fa, dominavano il Messico e l’America Centrale». Sarà questo
il futuro dei cristiani sotto la spinta dell’islamismo radicale dell’ISIS?
In passato, una simile sorte è toccata al cristianesimo, distrutto nelle regioni in cui un tempo
aveva prosperato e i cui fedeli occupavano posizioni chiave a livello politico, economico e
culturale. Dalla Siria, all’Iraq e all’India, l’annientamento del cristianesimo è stato
tale da non lasciare (quasi) alcuna traccia della sua presenza nei secoli. Ma perché le
religioni muoiono? Che cosa possiamo apprendere dalla caduta - e talvolta anche
dalla rinascita - delle religioni nel corso della storia?
Philip Jenkins, professore di storia alla Baylor University, nonché uno dei massimi esperti
al mondo di sociologia e demografia delle religioni, nel suo nuovo libro La storia perduta
del cristianesimo. Il millennio d’oro della Chiesa in Medio Oriente, Africa e Asia (VVX secolo). Com’è finita una civiltà (Editrice Missionaria Italiana, prefazione di
Giancarlo Bosetti), propone una lettura inedita e provocatoria della storia delle
prime Chiese cristiane d’Oriente, del loro rapporto con le altre fedi, in particolar modo
con l’islam, e della loro successiva rovina. Profondamente non-eurocentrico, l’approccio
dello studioso americano evidenzia come una religione che oggi consideriamo
naturalmente «occidentale» sia invece nata e si sia diffusa anzitutto in una
vastissima area che si estendeva dal Medio Oriente fino all’Asia e di cui oggi si sa
poco o nulla. In un appassionante excursus storico, l’Autore illustra la forza e la resilienza
di queste prime comunità cristiane - in primis quella nestoriana e siriaca - che
riuscirono ad auto-preservarsi anche durante secoli di dominazione islamica. Come
sottolinea Giancarlo Bosetti nella sua prefazione, «il libro di Jenkins ci costringe non
solo a rimuovere assiomi stereotipati, ma anche a effettuare lo “spostamento di
un centro” che assumevamo come irriflesso; ci spinge cioè a riesaminare certezze che
parevano indiscutibili, andando a illuminare aree della storia poco conosciute perché
appartenute a comunità sconfitte».
Si scopre così che già nel VII secoli missionari nestoriani avevano raggiunto l’India,
lasciando sia importanti tracce della loro fede nelle prime stesure dei sutra buddhisti, sia
nel simbolo combinato della croce e del loto che appare nelle croci di pietra nella regione
del Kerala, nel sud del subcontinente. Senza dimenticare che alcune delle pratiche
odierne dei musulmani, come la prostrazione durante la preghiera, derivano dall’antico
modo di pregare dei monaci siriaci. Un fervente e stimolante scambio di idee, avvenuto
in un clima di convivenza pacifica, che si interruppe solo con l’inizio di nuove
persecuzioni dei cristiani intorno all’anno 1300 da parte dei dominatori islamici.
Tuttavia, non furono soltanto cause esogene a contribuire alla scomparsa del cristianesimo
in queste regioni - cause politiche, come le persecuzioni e le conversioni forzate, cause
naturali, si pensi a carestie ed epidemie, o cause demografiche -; Jenkins infatti individua
anche varie cause endogene. Secondo la sua teoria, le religioni scompaiono nel momento
in cui si isolano troppo e diventano radicalmente settarie, in altre parole quando
perdono la loro «forza viva». Diventano quindi incapaci di inculturarsi in alcune
delle aree in cui si sono radicate. Applicare quindi logiche darwiniane di «adattamento»,
continua, non è compatibile con le reali ragioni storiche della loro distruzione. In realtà,
sottolinea Jenkins, «né la fede, né la pietà, né la sapienza, né l’antica tradizione sono servite
per mantenere in vita le chiese nella maggior parte delle loro terre d’origine».
Se si applicassero logiche di stile darwiniano, infatti, non si spiegherebbe la presenza delle
ampie comunità di criptocristiani sopravvissuti per secoli a persecuzioni ed epurazioni, come
nel Giappone nel XVII secolo o in Cina dopo la Rivoluzione Comunista del 1949. Oppure
l’esempio delle chiese maronita e caldea in Libano e in Iraq, oggi in grande pericolo
a causa della furia distruttiva dell’ISIS, le quali, legandosi alla Chiesa cattolica di Roma,
riuscirono a garantire la sopravvivenza delle loro comunità.
La storia perduta del cristianesimo non è solo studio di grande rilevanza ed attualità
storica, ma al contempo si offre come uno strumento utile per comprendere ed
affrontare il periodo di crisi che il cristianesimo sta attraversando nel mondo
occidentale odierno. Apprendere le lezioni della storia, e di questa storia in particolare,
significa comprendere che «per le chiese, come per le aziende, il fallimento spesso è
il risultato di una mancanza di diversificazione, di un collegamento troppo rigido delle
proprie fortune con un particolare insieme di circostanze, politiche o sociali». Ancor più
importante, «le chiese dovrebbero capire il concetto di transitorietà: il fatto che gli
accordi e le alleanze politiche sono raramente duraturi, per quanto possano sembrare
permanenti in un determinato momento». Infine, le chiese non dovrebbero mai raccogliere
i loro i loro membri all’interno di un singolo gruppo etnico, di una razza o di una sola classe
sociale, ma diversificarsi. Solo in questo modo, chiosa Jenkins, «a condizione che
continuino a esistere altrove, potrebbero benissimo tornare, un giorno, a
ricolonizzare il vecchio spazio. E spesso, nel contesto umano, le memorie di quel
precedente storico aiutano a plasmare il nuovo insediamento».
Un nuovo insediamento le cui ramificazioni arrivano fino ad un nuovo «Medio Oriente». In
altre parole, alle comunità cristiane in continua crescita in Cina e nei paesi del Golfo
Persico, aprendo nuovi spiragli per nuove commistioni e per un nuovo fermento culturale
che forse porterà allo studio di quella che Bosetti definisce una «pluralità delle religioni».
L’AUTORE
Philip Jenkins (1952), storico americano di origine gallese, è uno degli studiosi di questioni
religiose più apprezzati al mondo. Docente di Storia e di Scienze religiose alla Baylor
University (Texas) e professore emerito alla Penn State University (Pennsylvania), ha scritto
saggi tradotti in 16 lingue. Suoi interventi sono stati pubblicati da Wall Street Journal,
Boston Globe, Los Angeles Times. I suoi libri hanno vinto numerosi premi in Italia e
all’estero. In Italia sono disponibili La terza chiesa (Fazi), I nuovi volti del cristianesimo (Vita
e Pensiero) e, pubblicati da EMI, Il Dio dell’Europa. Il cristianesimo e l’islam in un continente
che cambia e Chiesa globale, la nuova mappa.
Pagine scelte da La storia perduta del cristianesimo
La fine del cristianesimo globale
«Chi si interessa alla storia del cristianesimo conosce la fondazione, la crescita e lo sviluppo
delle chiese, ma quanti hanno letto i racconti del declino o dell’estinzione di comunità e
istituzioni cristiane? Sembra che la maggior parte dei cristiani trovi inquietante la sola idea.
Eppure tali eventi si sono sicuramente verificati, e molto più spesso di quanto non si pensi.
Nel tardo Medioevo, defezioni di massa e persecuzioni in tutta l’Asia e il Medio Oriente
sradicarono alcune comunità cristiane che erano tra le maggiori del mondo di allora: chiese
che avevano un legame diretto, in termini di discendenza e di cultura, con il primo
movimento di Gesù in Siria e in Palestina. Nel XVII secolo il Giappone eliminò una presenza
cristiana che era sul punto di acquisire un reale potere all’interno del paese, e forse di
ottenere la conversione dell’intera nazione. Più volte, nel corso della sua storia, l’albero della
Chiesa è stato potato e tagliato, spesso selvaggiamente. Questi episodi di espulsione o
distruzione di massa hanno plasmato in profondità il carattere della fede cristiana.» (pp.
26-7)
«La riscoperta dei mondi cristiani perduti dell’Africa e dell’Asia pone domande che fanno
riflettere sulla natura della memoria storica. Come abbiamo fatto a dimenticare una storia
così importante? Per quanto riguarda la storia del cristianesimo, che di solito viene
strettamente associata alla formazione dell’ “Occidente”, molto di ciò che crediamo di sapere
è impreciso; mi riferisco ai luoghi e ai momenti in cui gli eventi sono accaduti e a come si
sono verificati i cambiamenti in ambito religioso. Inoltre, molti aspetti del cristianesimo che
oggi consideriamo tipicamente moderni rappresentavano, in realtà, la norma in un lontano
passato: la globalizzazione, l’incontro con altre fedi e i dilemmi della vita sotto regimi ostili.
Come è possibile che le nostre mappe mentali del passato si siano così radicalmente
distorte?» (p. 28)
Le religioni muoiono
«Le religioni muoiono, ma lasciano dietro di sé i loro fantasmi. Le persecuzioni religiose
spingono i credenti a rifugiarsi in zone più ospitali, creando in ciascuna di esse una diaspora
influente che diffonde idee e tendenze culturali. Questo schema, familiare nella storia
ebraica, si ritrova spesso anche in contesti cristiani. Più volte gli esuli di comunità distrutte
hanno dato vita a nuove società e chiese. Una religione che in una determinata area muore
– nel senso che non risulta avervi seguaci attivi – può avere molti credenti segreti o
clandestini. Come la distruzione delle chiese, anche il criptocristianesimo è un fenomeno
decisamente poco studiato. In teoria, i veri credenti nascosti dovrebbero sfuggire allo studio,
per non farsi scoprire; di conseguenza, le persone che si lasciano studiare sarebbero solo le
meno discrete. Tuttavia, si sente parlare spesso dei criptocristiani, e le loro storie sono
sorprendenti per gli occidentali, abituati a concepire il cristianesimo come una consolidata
fede ufficiale per interi stati.» (pp. 63-4)
«Il cristianesimo e l’islam hanno molte più cose in comune di quanto molti credenti rigorosi
di entrambe le fedi siano disposti ad ammettere. La rovina del cristianesimo mediorientale
e asiatico ha avuto conseguenze complesse anche su altre religioni.» (p. 66)
Lezioni per il futuro
«L’osservazione del declino e della rovina delle comunità cristiane offre molte lezioni alle
società occidentali moderne, anche se non nella direzione comunemente preferita
dall’estrema destra, vale a dire come un ultimo drammatico allarme contro la minaccia
islamica. Storicamente, tutte le principali religioni hanno prodotto molteplici casi di
intolleranza e persecuzioni, e il testo sacro dell’islam contiene molte meno chiamate alla
violenza spietata della Bibbia ebraica e cristiana: lo testimoniano la conquista del paese di
Canaan da parte di Giosuè, o le pulizie etniche associate a Esdra e Neemia. […] Prima di
tutto, le chiese di oggi dovrebbero scoprire che cosa hanno fatto alcune entità scomparse
per accelerare la propria fine. Per le chiese come per le aziende, il fallimento spesso è il
risultato di una mancanza di diversificazione, di un collegamento troppo rigido delle proprie
fortune con un particolare insieme di circostanze, politiche o sociali. Meglio di chiunque altro,
le chiese dovrebbero capire il concetto di transitorietà: il fatto che gli accordi e le alleanze
politiche sono raramente duraturi, per quanto possano sembrare permanenti in un
determinato momento.» (pp. 283-5)
Philip Jenkins, La storia perduta del cristianesimo. Il millennio d’oro della Chiesa
in Medio Oriente, Africa e Asia (V-XV secolo). Com’è finita una civiltà, prefazione
di Giancarlo Bosetti, Collana Lampi di storia, Editrice Missionaria Italiana, pp. 352,
euro 22,00
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In allegato, la copertina del libro
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