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^Z) XcR_) U` _V] eVc) k` ^Z]) ]V_) _Z` Coordinamento comasco per la Pace 2 Coordinamento comasco per la Pace Migrando nel terzo millennio Orrori e speranze di un secolo breve Un bilancio del XX secolo, nella prospettiva dei Diritti Umanie della Pace, ad un passo dal terzo millennio Cantù, 18 – 21 novembre 1999 Atti del Convegno ecoinformazioni ecoinformazioni 3 Migrando nel terzo millennio Orrori e speranze di un secolo breve a cura di Antonia Barone Supplemento al numero 186 di ecoinformazioni settimanale della provincia di Como viale Masia 34, 22100 Como tel. 031.571813 fax 031.573320 [email protected] www.ecoinformazioni.rcl.it Direzione Antonia Barone, Gianpaolo Rosso Hanno collaborato Jes Bianchi, Luciana Carnevale, Eleonora Costa, Ludovico Lanza, Elena Lupi, Luca Marchiò, Mauro Oricchio, Tamara Ronchetti, Simone Sacerdoti, Davide Sportelli, Stefano Vaccaro, Samantha Panzeri, Laura Verga Grafica e impaginazione Graaf Natura e comunicazione Registrazione tribunale di Como n. 15/95 del 19.07.95 4 Presentazione L’umanità sta per entrare nel terzo millennio. È una grande migrazione nel tempo. Da un’epoca di catastrofi ed orrori ma anche di ideali e speranze, verso un’epoca ancora tutta da costruire. La fine del secolo, la fine del millennio, come ogni momento in cui si chiude una parentesi e se ne apre un’altra, è il tempo dei bilanci: consuntivi ma anche bilanci preventivi. L’umanità che cammina verso il nuovo millennio non può esimersi dall’ingrato compito di chi è chiamato a tirare le somme. Uno sguardo retrospettivo sui cento anni che lasciamo alle spalle non può lasciarci soddisfatti. Il XX secolo sarà ricordato dai posteri come il secolo dei campi di concentramento, quelli nazisti come quelli stalinisti e della bomba atomica, quella americana sul Giappone come quella dei molti esperimenti di molti altri paesi un po’ ovunque nel mondo. Un secolo di grandi rivoluzioni, più o meno fallite, e di grandi crimini contro l’umanità: i desaparecidos in America Latina, i genocidi dell’Asia Orientale, le guerre fratricide dell’Africa Nera. Un secolo in cui la Madre Terra è stata ferita come mai prima, quasi mortalmente, da una follia “sviluppista” senza precedenti. Un secolo che non solo non ha saputo risolvere i grandi problemi sociali del mondo, ma nel quale addirittura i poveri sono diventati ancora più poveri ed il numero di bambini vittime dello sterminio per fame è andato orrendamente crescendo. Un secolo in cui i riferimenti spirituali e valoriali dell’umanità si sono fatti più tenui, fino quasi a scomparire, lasciando un vuoto profondo nelle coscienze di uomini e donne, in ogni parte del mondo Un secolo in cui miseria e violenza non risparmiano più un angolo della Terra, neppure in quei paesi che avevano sperato di poterle relegare nei ricordi del passato. Eppure il ‘900 è stato anche un secolo di grandi conquiste sociali: il processo di democratizzazione ha coinvolto quasi tutti i paesi del mondo; l’umanità 5 ha riconosciuto per la prima volta nella sua storia, un insieme di valori fondamentali che rappresentano il cuore della fratellanza universale ed ha saputo tradurla in un documento di portata epocale qual è la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani; regioni del mondo che sono state per secoli terreno di battaglia hanno saputo scoprire ragioni e metodi di convivenza pacifica; la medicina ha debellato malattie che in passato mietevano vittime a migliaia; la produzione alimentare globale ha raggiunto livelli mai raggiunti prima. Ma allora che bilancio possiamo trarre da questo “secolo breve”? E che speranze possiamo coltivare per il secolo che ci attende? Sono queste le domande che abbiamo deciso di rivolgere agli invitati al nostro secondo convegno annuale. Persone impegnate nell’ambito del volontariato; poeti di diversi paesi; esponenti di religioni e culture diverse e spesso lontane; testimoni degli orrori e degli splendori del secolo trascorso; uomini e donne che escono da un’epoca per entrare in una nuova era, arricchiti dal loro bagaglio di esperienze, conoscenze, sogni, ideali. Siamo convinti che questa multicolore ed incredibile umanità, in cammino verso il futuro, abbia davanti a se ogni possibile strada. Potrà imboccare la strada che porta verso la distruzione o quella che porta verso la Pace. Tutto dipenderà da noi e dalla capacità, che sapremo dimostrare, di dialogare e convivere fra diversi, unendo le molte differenze (che ora, purtroppo sembrano spesso dividerci) in una multicolore e fraterna unità, capace di riunire e valorizzare senza omologare e distruggere. Per il Coordinamento comasco per la Pace il direttore Claudio Bizzozero 6 giovedi 18 novembre Apertura ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Felipe Toussaint Loera vicario generale della diocesi di San Cristobal de Las Casas (Chiapas) Nella selva si possono ascoltare tanti suoni, ma negli ultimi anni i bambini hanno iniziato ad ascoltare anche i rumori dei soldati, degli elicotteri, degli aeroplani, degli strumenti di guerra. Nel Chiapas in questi giorni la presenza militare è pesante: ci sono 257 punti di controllo militare in 63 municipi, 161 di questi sono parte dell’esercito messicano, 57 della polizia statale, 24 dell’Istituto nazionale per l’immigrazione, 13 della polizia giudiziaria statale e federale, 2 dei corpi speciali di sicurezza. Nell’ultimo anno sono state uccise 313 persone: il 69 per cento erano leader politici, nel 70 per cento dei casi erano indiani. È in atto una vera e propria guerra di sterminio selettivo dei leader politici e sociali del Chiapas. Sono tante le cose che si possono o si devono dire, sono poche le cose che noi sappiamo e che possiamo dire in poco tempo. La vita degli indiani è stata narrata nel passato da numerosi autori, uno di questi è uno scrittore inglese che si chiama Bruno Traven e ha scritto diverse novelle sul Chiapas dell’inizio del secolo. Parlava della sofferenza che vivevano gli indiani nel Chiapas quando vigeva una legge per la quale coloro che avevano un debito potevano essere venduti dai padroni come una mercanzia. Erano poi portati nella selva Lacandona, nel sud del Chiapas, al confine con il Guatemala, per tagliare alberi dal legno fino come la caoba o il cedro e lì morivano di fatica dopo breve tempo. Rosario Castellanos descrive la vita degli indiani alla metà del secolo in 7 una società dove comandavano i meticci e i bianchi e dove notevoli erano i problemi di ordine razziale. Gli indiani hanno sofferto la schiavitù per secoli – spiega Rosario Castellanos – sono stati annichiliti nei sentimenti della dignità personale, sono stati umiliati e l’umiliazione li ha avvolti come un abito, sono stati feriti nella profondità della loro vita fino ad arrivare a disprezzare se stessi. Era una realtà senza giustizia: i meticci e i bianchi potevano fare ciò che volevano con gli indiani. Se un indiano camminava sul marciapiede nella città i bianchi potevano farlo scendere. Se il padrone non era soddisfatto del lavoro svolto poteva frustare gli indiani. Ci sarebbero tante storie da raccontare, ma la realtà è che gli indiani vivevano in una situazione di prostrazione. Negli ultimi anni, a partire dal 1994, gli indiani del Chiapas hanno iniziato a riacquistare la loro dignità di esseri umani. Io ricordo una ragazza che era solita camminare per la strada coprendosi con un manto e quando parlava con il suo padrone o con il prete chinava la testa e non poteva guardare negli occhi i bianchi e neppure i meticci. Questa ragazza ha imparato a leggere e, dopo un anno, forte di una nuova consapevolezza guardava tutti negli occhi con una nuova dignità. Ci sono tante storie che testimoniano una nuova situazione nel presente per tutti gli indiani non solo del Chiapas, ma dell’intera America latina. C’è, per esempio, la storia di una ragazza che era nata e aveva sempre vissuto in un piccolo villaggio e non si era mai allontanata per conoscere nuovi posti: la sua comunità era completamente circondata dalle montagne. Un giorno, ricordando la sua infanzia, raccontò che quando era bambina pensava che se avesse scalato la montagna avrebbe potuto toccare il cielo. E a quindici anni chiese a suo fratello di accompagnarla perché voleva arrivare a toccare il cielo. Cominciò a camminare per un’ora, due ore, a salire la montagna e quando arrivò in cima vide che c’erano tante montagne più alte. La sua vita mutò e questa è una situazione simbolica di quello che sta succedendo oggi agli indiani: stanno cambiando perché vedono che il mondo è più grande. Io ricordo la comunità di Sabanilla dove ho iniziato il mio lavoro di prete nella selva del nord: un giorno, ai tempi della guerra in Iraq nel 1990, dopo aver mangiato nella campagna, stavo discutendo con un gruppo di catechisti, loro non capivano niente, non sapevano dove fosse l’Iraq, poi abbiamo visto passare nel cielo un aereo che lasciava la scia e un indiano 8 mi disse che pensava che quell’aereo andasse Iraq per la guerra. Io gli chiesi il motivo di questa sua convinzione e lui mi rispose che aveva sentito alla radio che c’era la guerra e ci stavano andando aerei di diversi paesi del mondo. Io gli chiesi: «Tu sai dove è l’Iraq?». Mi replicò: «Credo che sia un po’ più avanti di Tuxla». Tuxla è la capitale dello Stato, era tutto il mondo che lui conosceva. Il cambio che sta avvenendo nel Chiapas ha diverse cause. Credo che gli indiani abbiano preso coscienza della loro dignità, abbiano capito che c’è la possibilità di vivere in condizioni diverse e per questo hanno cominciato a cercare la loro libertà dapprima utilizzando i mezzi che hanno trovato nel sistema politico del Messico. Poi, dopo la presa di coscienza avvenuta con l’impegno nella organizzazione popolare degli indiani, un gruppo ha scelto la via della guerra per trovare la libertà. Oggi stiamo vivendo in Chiapas una guerra terribile, una situazione tremenda. La società messicana, o comunque gran parte della società civile, si è resa conto che la causa della lotta degli indiani per avere giustizia e dignità è giusta ed è iniziato nel Chiapas un periodo di dialogo per trovare una via d’uscita al conflitto. Al presente, però, non solo il dialogo si è fermato, ma il governo ha accresciuto al sua azione per riprendere il controllo sugli indiani. Per esempio, lo scorso mese di agosto è scoppiata una grande rivolta tra la popolazione del Chiapas perché l’esercito ha cominciato a costruire una strada affermando che era una strada per gli indiani, per i poveri, ma in realtà serviva per arrivare ai territori degli zapatisti. La società civile si è schierata a favore di questo gruppo e ha incominciato a rifiutare l’esercito, si è arrivati a una situazione così difficile che è stato reale il pericolo di cominciare di nuovo la guerra. Anche in altre parti del Chiapas agiscono dei gruppi paramilitari come nel caso del Chenalhò, una zona montuosa dove si sono raccolti dodicimila sfollati che vivono in una comunità sostenuta dagli aiuti umanitari che riescono ad arrivare. Il governo ha deciso che gli sfollati potevano tornare alla loro comunità, ma loro ritenevano che non fosse possibile perché c’erano i paramilitari che avevano ucciso la loro gente in precedenti massacri. Il governo non ha voluto ascoltare la loro voce, poi una settimana fa nove famiglie sono uscite da una delle comunità del Cenalo per la paura perché i gruppi paramilitari hanno cominciato a chiedere loro del denaro promettendo che in cambio sarebbero stati lasciati in pace. Queste famiglie si rifiutavano di pagare ed hanno cominciato a 9 subire minacce da parte del gruppo paramilitare. Sono quindi venuti con noi alla diocesi, al Centro per i diritti umani San Bartolomeo de Las Casas e qui è stato detto loro di rivolgersi al giudice, quindi al governo, per fare la loro denuncia ed avere la protezione della Polizia. Loro hanno seguito tutte le procedure necessarie, poi sono tornati alla loro comunità e il Pubblico Ministero ha scritto la loro dichiarazione, ha fatto una fotocopia e l’ha inviata all’autorità del luogo. Nella comunità è stata letta questa denuncia e sono cominciate un’altra volta le minacce, le famiglie sono dovute uscire dalla comunità per la paura e l’autorità del luogo ha dichiarato alla radio che un gruppo di persone se ne era andato e questo dimostrava che c’è libertà di transito nel nostro stato. La situazione è così precipitata che non c’è possibilità di giungere a una soluzione prossima. Il consigliere del governo federale ha affermato che ciò che è importante nel Chiapas non è la pace, ma il controllo della situazione per questo si dà protezione ai paramilitari, si fa una diffusa propaganda a favore del governo, si continua a sostenere che non ci sono conflitti, che i popoli stanno ritornando alla vita istituzionale del paese e si rifiutano gli stranieri che vanno in Chiapas per portare aiuto o essere solidali con la gente. Io potrei parlare per ore di questa situazione, della povertà del mondo, del Chiapas, credo che voi sappiate come i due terzi della popolazione mondiale viva in miseria e la metà di questi in una sottomiseria, come il denaro e al ricchezza del pianeta siano distribuiti in modo diseguale. Questa è la realtà della nostra popolazione, è la situazione che i popoli indiani hanno voluto e ricercato la loro libertà, però attualmente non c’è una via di uscita da questi problemi, dal momento in cui hanno cominciato a chiedere la libertà e la partecipazione alla vita sociale sono iniziate le difficoltà. Il tema che io vi voglio proporre è quindi quello della solidarietà internazionale nel mondo globale. La solidarietà internazionale in questo mondo è un pericolo per i governi del terzo mondo e anche per il neoliberismo. Nel Chiapas è un pericolo essere solidali con i poveri. Negli ultimi tre anni sono stati più di trecento gli stranieri espulsi per le loro simpatie, la loro solidarietà con gli indiani. Quella che noi chiediamo non è una solidarietà materiale anche se qualche volta la solidarietà è dare denaro alle altre persone in difficoltà, ma il 10 governo non accetta aiuti neppure in situazioni di emergenza. In Messico, per esempio, nel mese di ottobre ci sono state inondazioni in diversi punti del paese, mille messicani hanno perso tutto e quando i gruppi di opposizione hanno cominciato a chiedere aiuto al mondo il governo si è opposto, ha detto che non c’era necessità di quell’aiuto, tanta gente ha protestato, ma il governo ha detto che sarebbero stati accettati solo i contributi in denaro che sarebbero poi stati distribuiti da canali governativi. C’è un villaggio che si chiama Papantla sulla montagna del Veracruz e il sindaco di questo luogo ha chiesto aiuto al governo perché la metà della sua popolazione era senza casa, ma il governo non lo ha ascoltato perché questo sindaco fa parte dell’opposizione, allora lui ha lanciato un appello via Internet per chiedere un aiuto internazionale, ma ha ricevuto un rimprovero da parte del governatore del luogo. La solidarietà che va crescendo sempre di più in questo mondo globale è una necessità per la sopravvivenza dell’umanità. Non si tratta soltanto di dare, è aiutare i poveri ad essere liberi in un mondo che vuole trasformare tutta la vita sociale in una mercanzia, in un commercio. In questa realtà globale che alimenta il consumismo e l’individualismo dobbiamo creare una nuova cultura. E il consumismo e l’individualismo non sono solo prerogative del primo mondo, ma si stanno diffondendo in tutto il pianeta terzo mondo compreso. Questa è la vera globalizzazione che tende a distruggere i governi del mondo, dei nostri paesi per trasformarli in manager locali del mercato internazionale. I conflitti locali vengono quindi controllati soltanto in funzione del mercato. La povertà nel nostro mondo è in crescita, non è diminuita negli ultimi dieci anni, è cresciuta dal 42 sino al 48 per cento. La sottomiseria è legata alla differenza razziale, etnica e di sesso e questo tipo di razzismo sta provocando violenti conflitti sociali in tutto il mondo. Si parla di più di 90 conflitti sociali armati nell’ultimo decennio nel mondo. E tra questi solo tre si sono verificati tra stati, la maggioranza ha radici nella politica e nell’economia, nella gran parte dei casi nel terzo mondo, ma ci sono anche situazioni di rivolta nel primo mondo come è avvenuto negli Stati Uniti, in California. La violenza e l’insicurezza sono in crescita e per questa ragione aumentano anche i meccanismi di sicurezza, cresce la differenza tra i poveri e i ricchi, ci sono meno ricchi e più poveri, si fa strada anche l’idea della superiorità razziale, un vero pericolo. 11 Ci sono disuguaglianze economiche, ci sono le differenze etniche, di sesso, razziali e il neoliberismo non sta aiutando a risolvere questa situazione, ma sta rendendo più profonda la divisione tra le varie parti del mondo mettendo in pericolo tutta l’umanità. Porto un esempio: in Chiapas vive un’aquila così grande che si chiama arpia della selva, ma è in pericolo di estinzione così come il giaguaro e alcune varietà di scimmie. I biologi sono preoccupati per questa situazione perché ritengono che se questi animali spariscono l’ecosistema può avere una crisi, precipitare nel caos, non solo in Chiapas, ma in tutto il mondo perché il Chiapas è una delle aree del mondo con la maggiore ricchezza di biodiversità. Sono sicuro che la diversità è una ricchezza per il nostro mondo, se questa ricchezza scomparisse l’umanità sarebbe in pericolo. Il neoliberismo vuol rendere tutti uguali, imporre un pensiero unico consumista ed individualista e in questo modo si avvia la distruzione dell’umanità: se noi vogliamo che il nostro mondo viva ancora per molti anni dobbiamo far crescere la solidarietà internazionale fra la società civile. Questa è la via attraverso la quale possiamo costruire un’alternativa che però deve essere globale: se il mercato si fa globale, se l’ideologia consumista ed individualista si fa globale deve realizzarsi anche la globalizzazione dei diritti umani, della solidarietà, della carità, dell’amore, della vita comune. Questo sarà possibile solo se si inizierà a pensare nei luoghi dei poveri, perché i poveri sono la maggioranza nel mondo: non è una questione ideologica, ma è una questione pratica. Se crediamo di cambiare la realtà nel mondo pensando nel luogo dei ricchi perché qui ci sono denaro e potere ci sbagliamo perché i poveri sono in maggioranza nel mondo. È tra i poveri che esiste il problema. Gli indiani del Chiapas stanno vivendo questa situazione e hanno lanciato il loro grido al mondo: se vogliamo davvero che i poveri vivano e le diversità delle culture nel mondo sopravvivano dobbiamo impegnarci per realizzare una globalizzazione dell’umanità. E questo è anche il mio pensiero. 12 venerdì 19 novembre Gli orrori del XX secolo. L’orrore dei lager nazisti ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Liliana Segre deportata dai nazisti a Auschwitz Poche sere fa, a Milano, in una serata per la presentazione del film di Peter Kassovitz Jakob Il bugiardo, Moni Ovadia ha fatto una breve introduzione e, di seguito, è intervenuta una signora polacca, come me reduce di Auschwitz, una vecchia signora che non aveva mai parlato in pubblico. Con grande garbo e nello stesso tempo con difficoltà anche nel trovare le parole perché polacca, diceva: «Io non ho mai parlato, né in pubblico né in famiglia, perché sono indicibili le cose che noi abbiamo da raccontare e trovo che sia impossibile trasmetterle a chi questo orrore non l’ha provato». Io da nove anni vado a parlare nelle scuole, nei circoli, nelle università, dove mi invitano e mentre sentivo le affermazioni di questa signora pensavo: «È vero, è indicibile raccontare e sperare di far capire quello che noi abbiamo da raccontare perché sono delle esperienze talmente particolari e incredibili e fuori da ogni canone di vita sofferta, di vita passata, che è veramente molto molto difficile per voi capire e per noi esprimerci». Pur tuttavia io ho sentito impellente il bisogno di cominciare a trasmettere questa memoria da quando ho compiuto 60 anni e mi sono trovata di colpo alle soglie della vecchiaia con la sensazione profonda di non aver fatto il mio dovere verso tutti quelli che non hanno potuto tornare a raccontare. La mia era una famiglia di quattro persone: eravamo io, mio papà, non avevo la mamma, i nonni paterni, due vecchi dolcissimi! Ed ecco che 13 tutti e quattro sopportammo le leggi razziali uniti, con un amore infinito l’uno per l’altro, anche se il mondo intorno a noi cercava di ignorare quello che stava accadendo. Era più facile essere indifferenti, non schierarsi, essere dalla parte del vincitore e, in fondo, il problema degli ebrei non li riguardava. In effetti, quando io chiedo ai ragazzi quanti erano e quanti sono gli ebrei in Italia, cittadini italiani di religione ebraica, loro mi rispondono dei numeri incredibili, un milione e mezzo, mezzo milione, due milioni: sembra una quantità enorme invece erano trentacinquemila al tempo delle leggi razziali e, più o meno, sono altrettanti anche oggi. Quindi la minoranza assoluta di trentacinquemila persone nel 1938 veniva colpita in un modo così assoluto e così pesante da un mondo di milioni di persone. Tutti i nostri parenti e amici, tutte le persone che conoscevamo nelle nostre stesse condizioni avevano un loro modo di affrontare l’umiliazione e l’oppressione: chi lungimirante veniva a salutarci e partiva per l’America, chi cercava di omologarsi, nascondendosi, facendo finta di niente finché poteva e chi decideva di andare avanti per la sua strada a testa alta. Quando scoppiò la guerra noi sfollammo in un paese poco lontano da qui che si chiama Inverigo. Lì io non potevo più andare a scuola perché non c’erano scuole private, ma un’unica scuola pubblica di fortuna in guerra e perciò stavo sempre a casa. Ero diventata una specialista di radio Londra che ascoltavo con i nostri vicini, i padroni di casa che ci avevano affittato una modesta casa senza capire il pericolo in cui si erano messi anche loro ospitando degli ebrei. A Inverigo ci fu la mia ultima casa, l’ultimo luogo in cui io ebbi una famiglia, una tavola intorno alla quale incontrarsi, un momento di affetto estremo nella coscienza che tutto stava cambiando. Nell’estate del 1943, quando i nazisti divennero padroni di tutta l’Italia del nord, alle umilianti e severe leggi razziali fasciste vennero sostituite le leggi razziali di Norimberga che avevano un unico scopo, la soluzione finale. Nessuno aveva capito allora che cosa s’intendesse per soluzione finale perché era troppo incredibile pensare che veramente in queste due parole ci fosse la condanna a morte per milioni di ebrei in tutta l’Europa occupata dai nazisti. Di colpo quelli dei trentacinquemila che non erano fuggiti o non avevano trovato un nascondiglio sicuro come dei topi braccati cercavano un rifugio per la notte mettendo anche in pericolo gravissimo gli eventuali ospitanti. Anche alla nostra famiglia, la mia famiglia di borghesi piccoli 14 piccoli capitò la tragedia immane della fuga: dovevamo scappare, non potevamo stare più nella nostra casa. Accadde tutto all’improvviso, mio padre mi disse: «Fai una valigia, raccogli quello che ti senti di portare via perché tu devi essere la prima ad andartene». Io ero una ragazzina di tredici anni, raccolsi qualche oggetto assolutamente inutile, ma che mi era straordinariamente caro e fui nascosta in un primo periodo da sola in casa di amici eroici che a costo della loro vita avevano accettato di accogliere questa ragazzina ebrea con i documenti falsi. Con grande fatica avevo dovuto imparare, anzi in realtà non avevo mai imparato, delle nuove generalità e fui nascosta amorosamente in casa di certi amici di Castellanza che mi fecero passare per loro nipote. Avevo lasciato la mia casa, i miei nonni, non sapevo che non li avrei mai più rivisti. Quando mio papà con gran pericolo mi veniva a trovare speravo di andar via da lì, di scappare in Svizzera (sapevo che eravamo poco lontani dal confine) e lo pregavo pazzamente di fuggire. Mio papà riuscì con grande fatica ad avere un permesso dalla questura di Como per i miei nonni che, essendo vecchi e malati, ricevettero un vergognoso documento che attestava che «Olga e Giuseppe Segre sono impossibilitati a nuocere al grande Reich tedesco» e potevano stare a Inverigo sotto la custodia dei padroni di casa. A quel tempo non avevamo ancora capito quello che stava succedendo, credemmo a quel permesso e organizzammo una fuga in Svizzera. I miei nonni, invece, in quelle condizioni (mio nonno malato terminale del morbo di Parkinson) furono deportati nel maggio del 1944. Ad Auschwitz furono gasati e bruciati nei forni crematori nel giorno del loro arrivo per la sola colpa di essere nati ebrei. Noi a quel tempo non sapevamo di questi orrori e, sicuri che i nonni fossero tranquilli a casa loro, fuggimmo in Svizzera. Fu un’esperienza strana, mi vedevo quasi sdoppiata. Ero io che sulle montagne dietro a Varese, con la mano nella mano di mio papà, trascinavo quella valigetta così stranamente piena di oggetti inutili mentre i contrabbandieri che ci accompagnavano al confine alla ricerca di un buco nella rete ci spronavano gridandoci di correre, all’alba di un mattino gelido di dicembre del ’43. Eppure mi vedevo come se non fossi io, come se fossi stata una comparsa di un film. Ero io che correvo sulla montagna, ma non mi sembrava possibile di essere la stessa ragazzina che fino a pochi giorni prima era in casa sua con suo papà. 15 Quando finalmente arrivammo in cima alla cresta ci fecero passare da quel buco nella rete e buttarono giù le nostre valigie dalla cava di sassi che c’era dall’altra parte. Ci dissero: «Correte giù, prima che arrivino le sentinelle che vi sparano». Insieme a due vecchi cugini che erano passati con noi scendemmo con grande fatica attraverso quella cava e arrivammo sul fondo. Incredibilmente ce l’avevamo fatta, noi così imbranati, così incapaci, così poco sportivi eravamo arrivati in Svizzera. Ci abbracciavamo, eravamo felici, ci stringevamo piangendo, sembrava impossibile che proprio noi fossimo riusciti a passare dall’altra parte. Ma una sentinella gelida ci vide e senza una parola ci accompagnò al posto di polizia del paese più vicino che si chiama Arzo, al di là di quel confine che avevamo fortunosamente passato. Portati al posto di polizia noi entrammo tutti sicuri che quello sarebbe stato un primo momento di controllo dei documenti. Sulla montagna avevamo buttato via i documenti falsi perché lì dovevamo dimostrare di essere degli ebrei bisognosi di aiuto. Ma quell’ufficiale di polizia svizzera ci guardò con disprezzo, non volle sentire ragioni e disse: «Ebrei in Italia? Non correte nessun rischio voi ebrei in Italia, la Svizzera è piccola, noi non vi teniamo per nessun motivo». E ci fece riaccompagnare al confine, le guardie svizzere armate ci obbligavano a tornare indietro là, da dove eravamo scesi con quella fatica spaventosa. Era una disfatta, una disperazione, qualcosa che non avremmo mai immaginato. Era quasi sera in quella giornata eterna, stanchi morti, bagnati dalla pioggia e gelati su quella montagna, vidi qualcosa che mi sembrava un passaggio, un cancello che pareva socchiuso. Corsi avanti, lo toccai e suonò tutta la suoneria del confine, un campanello terribile che rimbombava nella vallata deserta, invernale. Vennero dei finanzieri italiani, ci guardarono e dissero: «Se volete rientrare non possiamo che arrestarvi, se volete potete rimanere lì». Da una parte c’erano le guardie svizzere, dall’altra quelle italiane. Speravamo nella pietà di qualcuno. Mio padre e i due cugini decisero di rientrare e la sera stessa fummo arrestati. Il giorno successivo fummo portati a Varese in macchina con le SS. Ammanettarono mio padre come un delinquente comune, con la sola colpa di essere nato e io guardavo quelle mani con le manette, non avevo il coraggio di guardare in faccia mio padre e non riuscivo a capire perché ci stesse accadendo tutto ciò. Arrivati a Varese, a tredici anni feci il mio ingresso da sola nel carcere femminile. Mi fecero una fotografia, mi rilevarono le impronte digitali, 16 mi ricordo come camminavo in quel corridoio dietro a quella secondina truce con le chiavi alla cintura che mi buttò dentro a una cella con altre donne ebree che, come me, erano state arrestate al confine. Rimasi per qualche giorno al carcere di Varese e poi da sola nel carcere femminile di Como. E poi improvvisamente ci portarono a San Vittore a Milano dove invece le famiglie erano riunite. Il carcere ha una pianta simile a una stella e uno dei raggi era adibito solo agli ebrei. Quando entrammo, io e mio papà, mi sembrò una cosa fantastica perché ero in prigione, ma ero con lui, non ero più da sola. E quando ci dettero una cella fu come avere una cameretta, una cameretta squallida, spoglia, con le inferriate, ma io e lui di nuovo insieme. Mi sembrava che tutti i problemi sarebbero stati risolti perché eravamo insieme. Non avrei mai pensato che in un solo momento la Gestapo avrebbe portato via tutti gli uomini dal raggio per interrogarli e che io sarei rimasta sola tra quei muri aspettando che tornasse mio papà. Sapevo che picchiavano, che torturavano e io lo aspettavo da sola. C’erano solo le scritte graffiate sui muri da quelli che erano passati prima di noi, mi facevano compagnia, erano parole terribili, erano addii, erano maledizioni, erano benedizioni, erano firme, erano delle frasi che non lasciavano molta speranza. Io l’aspettavo un’ora, due, tre, poi lui tornava più sciupato che mai, con le occhiaie profonde, con la barba lunga, mi abbracciava, ci abbracciavamo in silenzio, non voleva raccontare niente, io non volevo sapere, mi bastava che lui fosse lì, vivo. In quei quaranta giorni a San Vittore le voci si incrociavano. «Ci porteranno tutti in Germania, ci ammazzeranno tutti». «Non è pensabile, ci ammazzerebbero qui perché dovrebbero portarci in Germania per ammazzarci là?». «Sì, deportano tutti in un campo di lavoro». «Ma ci sono bambini anche neonati, ci sono vecchi intrasportabili, tutti ci portano via?». Erano voci, speranze e disperazioni che si intrecciavano. Una signora che poi non fece ritorno dal lager, organizzò una scuoletta di tedesco per i bambini di tutte le età. Io mi ricordo una cella in cui otto-dieci-dodici ragazzini andavamo a imparare qualche parola in tedesco, ma così poco convinti… Era quasi una scherzo macabro, era un gioco di cui nessuno sentiva la portata, in cui sembrava di voler ricostruire una realtà che fuori da quel carcere esisteva per gli bambini della nostra età. Ma loro non avevano la colpa di essere nati. Alla fine del mese di gennaio, un pomeriggio entrò nel raggio un tedesco 17 con un foglio e chiamò con un implacabile appello 650 nomi. Eravamo quasi tutti: i non chiamati furono pochissimi ed erano quasi tutti o figli o coniugi di matrimoni misti. Noi e tutti gli altri fummo chiamati e ci preparammo alla partenza verso il nulla senza sapere niente di quello che ci sarebbe successo. Il giorno dopo ci fecero uscire in una fila lunghissima e attraversammo il raggio dei detenuti comuni che in quel momento avevano l’ora d’aria e al nostro passaggio si affacciavano ai ballatoi. Saranno stati ladri e assassini, erano delinquenti comuni, ma fecero per noi qualcosa di straordinariamente umano, ci diedero un viatico meraviglioso di benedizione, d’incoraggiamento: c’era chi ci buttava quello che aveva, un pezzo di pane, un arancio, un paio di guanti. Quelli furono gli ultimi uomini che vedemmo, in seguito per un anno e mezzo incontrammo solo mostri. Io non dimentico mai di raccontare ai ragazzi del signor B. Il B. era un detenuto che non ho quasi visto in faccia allora e che non ho mai più rincontrato nella mia vita, ma lui mi buttò un pacchettino di biscotti che mi colpì sulla testa e quando io alzai gli occhi per vedere chi me lo aveva lanciato lui mi gridò in dialetto milanese: «Ve tusa me ciami B., ricordati di me, vedrai che ce la farai, benedizione a te». Con questo incoraggiamento io uscii da San Vittore tra i calci e i pugni dei mostri. Fummo caricati su camion, portati alla stazione Centrale e lì, nei sotterranei dov’erano stati preparati dei carri bestiame, fummo fatti salire e in un attimo ci trovammo sprangati al buio dentro questi vagoni. Il viaggio verso il nulla durò una settimana. Un’umanità dolente e colpevole di essere nata era ammucchiata al buio in questi vagoni in cui c’era solo un po’ di paglia e un secchio per i nostri bisogni. Quando il treno si mosse, la gente si allacciava a quelle grate strettissime cercando di guardare fuori quale fosse il percorso e, dopo una piccola illusione perché il treno scese fino a Modena probabilmente a caricare al campo di Fossoli altri deportati, si puntò verso il nord. Quando passammo il confine fu un momento spaventoso. Non c’era più speranza. Quando i ferrovieri italiani furono sostituiti da quelli tedeschi e austriaci fu un coro di pianti, di disperazioni, piangevano tutti dentro il mio vagone. Io stavo seduta per terra vicino a mio papà. Cerco di raccontare questo viaggio verso la morte perché la maggior parte di noi morì all’arrivo. Cerco di raccontare questo viaggio anche se è stato un momento terribile della mia vita. Mi ricordo questa prima fase di pianti che arrivavano al cielo che rima- 18 neva sordo. Poi la seconda fase di preghiera perché gli uomini ebrei più religiosi si misero nel centro del vagone e nonostante la situazione lodavano il signore. Ma la terza parte è quella che io mi ricordo di più: gli ultimi due giorni di silenzio assoluto. Io ho in grande onore il silenzio perché il rumore fa sì che le nostre menti siano troppo spesso obnubilate. Oggi non c’è quasi mai silenzio, si ha paura del silenzio, invece il silenzio è tanto importante per stare un momento soli con noi stessi perché solo dentro di noi possiamo trovare la forza per sopportare o per godere o per vivere, per essere felici o infelici. Quello era un silenzio pesante, di gente che non aveva più niente da dire, ma che cercava di comunicare solo con gli occhi in quel momento essenziale della nostra vita. Poi all’arrivo ad Auschwitz fu il rumore osceno e assordante dei nostri assassini. I vagoni furono aperti con violenza estrema e fummo scaricati con anche peggior violenza: chi con le gambe anchilosate, chi non si poteva muovere, gli occhi non riuscivano a vedere la luce accecante della neve. Il primo impatto con Auschwitz era la neve, la neve grigia, un paesaggio grigio. L’inferno per me è grigio perché quello è l’inferno che io ho vissuto. Era terribile quella spianata immensa coperta di neve e piena di gente: noi appena arrivati e le guardie… Cominciarono i fischi, i latrati dei cani lupo ben addestrati contro di noi. Uomini prigionieri vestiti a righe erano obbligati a scaricare le nostre valigie, a metterci in fila e a dividere per sempre le famiglie, gli uomini da una parte le donne dall’altra. Io, a tredici anni, figlia unica, ragazzina qualsiasi, lasciai per sempre la mano di mio padre. Lo vidi per l’ultima volta lì su quella spianata. Non sapevo in quel momento che non lo avrei mai più rivisto perché altrimenti non sarei stata capace di fargli quei piccoli ciao con la mano e quei sorrisi che riuscii a fargli anche da lontano. Ho quasi settant’anni, sono madre di tre meravigliosi figli, sono nonna di due graziosissimi nipoti, ma sono figlia soprattutto della Shoà, sono figlia di mio padre e sono rimasta per sempre figlia sua da quel giorno, 6 febbraio 1944, quando per la colpa di essere nati siamo stati separati per sempre. Oggi nel ricordo mio di allora mi succede da qualche tempo una cosa terribile: quando io racconto queste cose provo una pena infinita per quella bambina di allora che ha l’età dei miei nipoti di oggi e per quel mio padre che era più giovane di mio figlio Alberto che si chiama come 19 lui. Quando io ho avuto la gioia di diventare mamma l’ho chiamato Alberto come lui perché lui, il primo Alberto, non è mai morto, è sempre vivo nella mia mente e nel mio cuore. Dando questo nome al mio bambino mi sembrava che potesse vivere un’altra volta. Quel giorno, dopo averlo lasciato, sono stata incolonnata insieme a trenta ragazze. I nostri aguzzini, ben organizzati nella loro mentalità teutonica, avevano già deciso che sarebbero entrate vive 31 donne e 60/65 uomini. Tutti gli altri furono mandati immediatamente al gas, ma noi questo non lo sapevamo. In fila, sbalordite, disorientate, strappate alla famiglia, quelle 31 ragazze furono avviate sulla strada verso il campo di Birkenau, un enorme lager di sessantamila donne. Eravamo delle schiave e come tali trattate anche perché ci fu tatuato il numero sul braccio. Dopo così tanti anni io porto con grande onore quel numero perché è una vergogna spaventosa per chi ce l’ha fatto, mentre è un onore per noi che siamo riusciti per caso ad essere vivi, ma anche a scegliere la vita e a riuscire a mantenere intatte le nostre. È una vita che noi scegliemmo se si pensa che sarebbe stato facilissimo suicidarsi perché il triplo filo spinato che girava intorno a tutto il campo era fortemente elettrificato e sarebbe bastato toccarlo per morire. Ma la scelta del suicidio tra i prigionieri dei lager fu scarsissima. Ci sono stati dei reduci, soprattutto tra gli intellettuali come nel caso di Primo Levi o di Bettelhein che si è suicidato pochi anni fa a 85 anni, che non hanno retto ai ricordi, non hanno sopportato queste memorie atroci, ma allora la scelta di vita era quasi totale. Si sperava, si sperava pazzamente di non essere visti, di non essere notati di diventare trasparenti, di farcela nonostante la fame, nonostante il freddo, nonostante le botte, nonostante il lavoro da schiavi. Si sperava, si sperava pazzamente di andare avanti giorno dopo giorno. Dopo il primo periodo in cui piangevo disperata avevo iniziato a ricordare. Ognuna di noi cercava di ricordare come era fatta la propria casa, come erano fatti i nostri genitori e volevamo descriverlo agli altri. Mi ricordo che descrivevo sempre una tappezzeria giallina con degli animaletti stampati che avevo in una camera nella mia casa di Milano. lo volevo descrivere la tappezzeria giallina, all’altra non importava niente: aveva la sua tappezzeria da raccontare. Poi capimmo che non potevamo e non dovevamo e non volevamo essere le vittime dei ricordi, che se volevamo vivere dovevamo costruire un muro tra noi e i ricordi, dovevamo 20 diventare dure, dovevamo diventare delle ragazze schiave che cercavano di sopravvivere soltanto. Io fui assegnata insieme ad altre settecento ragazze ad una fabbrica di munizioni che produceva per la guerra. Tutti i giorni uscivamo dal campo dopo avere aspettato l’appello per ore nel gelo e c’era l’orchestrina di donne violiniste obbligate a suonare motivetti allegri mentre i comandi uscivano sia per il lavoro, sia per il gas. Uscite dal campo, percorrevamo circa tre chilometri da Birkenau ad Auschwitz città mentre le nostre aguzzine, SS donne ci incitavano a camminare a passo di marcia, scheletri ballonzolanti sopra gli zoccoli, cantando inni tedeschi. Era tutto grottesco e assurdo. Lungo la strada a volte incontravamo dei ragazzi della Hitler Jugend, in divisa con la croce uncinata sul braccio, nostri coetanei, bei ragazzi con le biciclette. Ci guardavano con disgusto, ci sputavano addosso e ci dicevano delle parolacce che furono le prime parole tedesche che io imparai perfettamente. Mi sembrava impossibile che arrivassero a tanto dopo che già ci avevano tolto tutto quello che avevamo compresa la nostra identità. Quando arrivavamo alla fabbrica cominciava la giornata di lavoro. Era una fortuna immensa poter lavorare al coperto perché quelle di noi a cui furono assegnati compiti all’aperto non riuscirono a sopravvivere in quei climi e con la pancia vuota. Io sono sicura di avercela fatta perché lavorai per quasi un anno al coperto. La vita del lager era quanto di più bestiale ci potesse essere. Non avevamo orologio, non avevamo calendario, non avevamo orario naturalmente, non sapevamo mai che giorno fosse, che ora fosse e che mese fosse. Ci regolavamo ascoltando le nuove arrivate che ci raccontavano: «è aprile, è maggio, è giugno» in varie lingue. Era una vera babele di lingue. C’erano ragazze cecoslovacche, francesi, polacche, greche, belghe, olandesi, ungheresi e regnava un’assoluta incomunicabilità non dovuta ai differenti linguaggi perché a questo si sarebbe potuto trovare rimedio, ma alla assoluta solitudine del lager, alla mancanza di fraternità, allo scarso desiderio di comunicare per paura di affezionarsi a qualcuno: era una scelta per sopravvivere. Dormivamo in schifosi letti a castello dove la più frequente compagnia era quella degli insetti più disgustosi: cimici, scarafaggi, pidocchi che albergavano in tutti gli anfratti dei nostri vestiti e che temevamo molto all’inizio fino a quando capimmo che avevano così poco da mangiare su di noi che non avevamo da preoccuparci. Andavamo a letto vestite per- 21 ché altrimenti le nostre compagne ci avrebbero rubato i vestiti ed eravamo talmente strette l’una contro l’altra che se una si voltava ci dovevamo voltare tutte. Questa promiscuità assoluta e spaventosa causava continuamente liti e dispute. C’erano le baracche dei gabinetti che avevano trenta buchi di cui ci dovevamo servire in contemporanea in trenta, ma se entrava una prigioniera che non fosse triangolo giallo, cioè ebrea, ma con qualunque altro triangolo, cioè quello dei delinquenti comuni, delle prostitute, degli omosessuali, dei politici questa poteva strappare una di noi da quel buco per utilizzarlo lei. Non avevamo cucchiaio e dovevamo spartirci la zuppa ributtante che ci veniva data a mezzogiorno sorbendola come le bestie. Siccome io ero stupida, non avevo capito che al proprio turno bisognava dare una gran sorsata perché non sarebbe arrivato un secondo giro. Alla sera, tornando al campo, lo sfondo era il crematorio; vedevamo il fumo o la fiamma e capivamo cosa stava succedendo. Non lo guardavamo. Io cercavo di non guardare niente di quello che succedeva intorno a me, mi volevo difendere, volevo vivere e non guardavo la fiamma, non guardavo i mucchi di cadaveri fuori dal crematorio pronti per essere bruciati, non guardavo le mie compagne in punizione inginocchiate con una pietra tenuta alta dalle braccia scheletrite. Io non volevo guardare e andavo avanti, prima nella doccia da dove scendeva un filo di acqua gelata o bollente mentre con una mano tenevo i vestiti che non potevo lasciare da nessuna parte per non farmeli rubare, poi mi rivestivo senza asciugarmi perché non avevo l’asciugamano, uscivo nel gelo dell’inverno e tornavo nella baracca. Lì ci davano un pezzo di pane nero con un cucchiaino di margarina e uno di marmellata e due volte alla settimana una cosa che desideravano tantissimo e che era una fetta di salsiccia: non ci chiedevamo di che cosa fosse fatta, la mangiavamo con grande gusto anche quando alcune compagne suggerirono che poteva essere fatta… sì, poteva essere fatta, ma la mangiavamo lo stesso. Poi veniva la notte. Ed era spaventosa la notte nel lager. Io mi mettevo le dita nelle orecchie e gli zoccoli sotto la testa, non volevo sapere, non volevo sentire perché fuori si sentivano i richiami disperati delle famiglie che andavano al gas e si cercavano l’una con l’altra mentre venivano sollecitati da latrati e fischi. Dormivamo lo stesso, morte di fatica ed eravamo ancora vive la mattina dopo. 22 Tre volte passai la selezione in quell’anno in cui fui al campo di Birkenau ad Auschwitz e non era la selezione della stazione in cui noi trentuno ragazze scelte per la vita in quel momento non sapevamo che le altre erano state scelte per la morte. Si trattava di selezioni annunciate durante le quali le kapò ci chiudevano nelle baracche sbarrandole e poi a gruppi ci portavano nelle sale delle docce dove, nude, senza alcun riparo, sfilavamo una per una davanti ad un drappello di SS che ci guardava, scrutava, davanti, dietro, in bocca per vedere se avevamo ancora i denti e poi senza una parola faceva un cenno ed eravamo ancora vive, facevamo un passo avanti e, per quel giorno, non eravamo morte. Un giorno sentii che dietro me avevano fermato Jeannine, una ragazza francese di ventitrè anni a cui la macchina tranciatrice dove lavoravamo insieme aveva tagliato due dita di una mano. Lei aveva messo uno straccio per coprire la ferita, ma nuda davanti a quel tribunale di vita o di morte non ci si poteva nascondere. Quando capii che l’avevano bloccata, io ero appena passata e non mi voltai. Fui così spaventosamente vigliacca che non mi voltai a salutare Jeannine e a dirle come il B.: «Il Signore ti benedica, ti voglio bene, fatti coraggio…». Non ne potevo più di distacchi, non avevo più la forza di soffrire, sapevo che Jeannine era buona, dolce, bionda, aveva 23 anni e che la sua colpa era di essere nata, ma io ero viva, feci un passo avanti e fui così orrendamente vigliacca da non voltarmi a salutarla. Trascorse un anno di questa vita e alla fine di gennaio del 1944 stavano arrivando i russi quando i nostri aguzzini decisero di far saltare il campo di Auschwitz con la dinamite per non far scoprire resti così inequivocabili di un assassinio di massa. Ma non ci riuscirono perché i russi arrivarono prima, ne fecero saltare una parte, ma restò in piedi abbastanza perché Auschwitz diventasse quel museo dell’orrore che anche oggi continua a portare la sua testimonianza anche se il tempo, implacabile, sta rovinando quei resti e io che non ci sono mai tornata perché non ho il coraggio di tornarci, so dai racconti di chi ci va che ormai ci sono solo delle tracce di quello che veramente è stato. Noi prigionieri ancora vivi dopo un anno di campo fummo avviati per le strade di Germania in quella che fu giustamente chiamata “la marcia della morte”. Eravamo degli scheletri che camminavano lungo le strade tedesche con le sentinelle a fianco, con i cani: le sentinelle venivano cambiate ogni 23 tanti chilometri e noi camminavamo. Io non mi voltavo a guardare chi cadeva, non posavo lo sguardo sui bordi insanguinati della strada, molti furono i morti senza tomba, abbandonati lì su quella terra nemica perché chi non ce la faceva a camminare veniva finito con una fucilata alla testa dalle guardie della scorta. Io comandavo alle mie gambe: «Cammina, cammina, cammina…», io, che ero uno scheletro, andavo avanti con la forza della disperazione soprattutto di notte perché le nostre guardie non volevano mostrarci ai civili asserragliati nelle loro case. La nostra gioia, la nostra felicità di schiave era quella di buttarci negli immondezzai delle città e dei paesi che attraversavamo e lì un torsolo di cavolo veniva disputato come un gran tesoro o un osso già spolpato da un cane, una carota marcia, le bucce di patate sporche, qualunque cosa pur di riempire lo stomaco. Sapevamo già che dopo qualche ora vomito e diarrea sarebbero stati lì ad aspettarci al varco, ma non ci importava, il nostro stomaco aveva bisogno e le nostre gambe dovevano camminare avanti, avanti, avanti… Non so per quanti giorni abbiamo camminato, quante notti perché abbiamo un percorso enorme (l’ho ricostruito poi sulla carta geografica) e mi sembra incredibile che in quelle condizioni siamo arrivate al lager femminile di Ravensbruch dove sono morte numerose italiane prigioniere politiche. Non era un campo di sterminio perché non c’era la camera a gas, ma era un lager ugualmente terribile per le condizioni inumane di vita che venivano imposte. Poi nella primavera del ’45 fui ancora nello Jugend lager, che era un sottocampo di Ravensbruch. Ormai ero un ectoplasma, come le mie compagne di tutto quello che era stato. Non più donne, non più di nessun sesso, già da mesi; da un anno e più non avevamo più mestruazioni, avevamo dei buchi là dove avevamo avuto il seno e le ossa avevano bucato le anche per la magrezza e per la durezza del legno di quei giacigli immondi. Eravamo nell’ultimo campo, a Malchow, nel nord della Germania, lì non si lavorava ed era ancora peggio, le giornate erano eterne in un’inedia assoluta e totale. Poche di noi riuscivano a stare in piedi spossate da una profonda debolezza. Le mie gambe mi reggevano ancora e in certe ore in cui era permesso uscivamo dietro la baracca per prendere un po’ d’aria, vedevamo i bordi del campo che non era molto grande, al di là c’erano i prati. Era iniziata la primavera illuminata da un piccolo, tiepido, timido sole e al di là dei reticolati elettrificati vedevamo passare dei ragazzi. Dopo qualche giorno che vedevamo queste figure indistinte, grigiastre, 24 stracciate, orribili, quei ragazzi cominciarono a chiamarci e ci parlavano in francese urlando da una ventina di metri: «Chi siete?». E noi, in coro, rispondevamo con il pochissimo fiato che ci restava in gola: «Siamo delle ragazze ebree italiane». Loro erano stupiti, non potevano capire, ci credevano delle vecchie ammalate e cadenti. Io mi ricordo che non potevo accavallare le gambe, non ne avevo la forza e avevo quattordici anni, li avevo compiuti in campo. Questi ragazzi furono uno straordinario incontro per noi perché erano dei prigionieri di guerra francesi che lavoravano nelle case, nelle fattorie tedesche e quindi sentivano la radio, leggevano i giornali e ci davano finalmente, dopo un anno e mezzo di silenzio assoluto intorno a noi, delle notizie strepitose a cui non potevamo credere: i nostri aguzzini stavano perdendo la guerra. Era una gioia così forte, quasi impossibile da sopportare perché noi avevamo sopportato la morte, la malattia, la solitudine, il freddo, la nostalgia, la fame, avevamo sopportato tutto, ma non eravamo preparate alla gioia. Il cuore non reggeva, quel cuore che aveva retto alle selezioni, che aveva sostenuto il terrore di quel momento in cui il tedesco diceva: «Sì, puoi passare, sei ancora viva», non poteva reggere a quel momento in cui ci sentivamo dire che da lì a pochi giorni sarebbero stati liberi tutti. Stavano arrivando gli americani da una parte e i russi dall’altra. «Sono a trenta chilometri». «Sono a venti chilometri». Ogni giorno le notizie si rincorrevano e noi rientravamo nelle baracche a riferirle a quelle che non si potevano più alzare. Dicevamo: «Non morite, tenete duro, mancano pochi giorni. È vero! Non ve lo diciamo per consolarvi, è vero!». Ogni giorno di quei pochi che mancarono fu un giorno esaltante perché vedemmo i nostri persecutori fuggire, li vedemmo andar via trasportando documenti, scrivanie, caricavano tutte le loro masserizie e uscivano dal campo. Ci chiedevamo che cosa sarebbe stato di noi, che cosa ci sarebbe successo. Non avevamo la forza di evacuare, di rimetterci sulla strada, erano passati quattro mesi dalla marcia della morte, non eravamo più quelle di gennaio, eravamo quelle di fine aprile, ogni giorno voleva dire essere più magre e più stanche. Ma quando, come avevamo sognato, si aprirono i cancelli di quel campo e fummo ancora incolonnate, quasi tutte scesero da quei giacigli, anche quelle che stavano per morire. Tutte ci trascinammo fuori, fuori, fuori. E c’erano gli alberi con le foglie e noi le strappavamo e le mettevamo in 25 bocca. La clorofilla entrava nel nostro stomaco, noi eravamo come dei ruminanti e facevamo una fatica incredibile anche a masticare, i denti ci dondolavano in bocca per la piorrea, e la avitaminosi. E fu su quella strada tedesca che accadde una cosa fantastica, di cui io fui testimone insieme alle altre: era la storia che cambiava. Noi eravamo lì, eravamo state prigioniere, schiave, eravamo ancora vive, avevamo resistito alla “soluzione finale”, potevamo raccontare. Eravamo lì e vedemmo che i civili tedeschi uscivano dalle case, fuggivano, si mescolavano a noi, caricavano sui carri i loro averi e fuggivano. Le nostre guardie, che fino ad un attimo prima avevano terrorizzato noi, ragazze schiave, miserabili, deboli e che avevano battuto gli eserciti sui fronti di tutta Europa, si spogliavano delle loro divise, si mettevano in borghese, buttavano le armi per terra, scioglievano i cani, quei cani che erano abituati a seguire le loro gambe e che erano diventati il simbolo delle SS, un corpo di volontari che avevano scelto di arruolarsi per quel servizio. Ai cani veniva ordinato di allontanarsi e noi li vedevamo andare nella campagna e poi tornare indietro, non sapevano cosa fare, erano sbandati. Noi guardavamo esterrefatti questi avvenimenti incredibili che stavano succedendo. Le SS si mettevano in borghese, rientravano alle loro case, tornavano ad essere postino, impiegato, maestro, contadino e avrebbero detto poi negli anni successivi: «Campo? Lager? Sterminio qui? No!, qui no! Forse ci sarà stato, ma non qui». Tornavano a casa da padri affettuosi, a baciare i loro bambini e avevano ucciso un milione e mezzo di bambini ebrei, anche neonati, colpevoli solo di essere nati. Fuggivano, se ne andavano. Mi ricordo che mi passò vicino il comandante di quell’ultimo campo, io non so il suo nome, non l’ho mai saputo, ero una ragazzina, non sapevo mai i nomi di nessuno e delle località. Avevo vissuto quest’esperienza in un modo assolutamente pesante, degradante, disperato, senza sapere i nomi di nessuno e neanche dove fossi. Ma lo riconoscevo vicino a me quest’uomo alto, elegante, implacabile, crudele verso le prigioniere inermi. Si era messo in borghese e aveva una valigetta che aveva buttato per terra, proprio ai miei piedi, con la sua pistola. Io ebbi un impulso pazzesco, fortissimo, incredibile, di chinarmi con le mie poche forze rimaste, di prendere la pistola e di sparargli. Avevo vissuto un anno e mezzo di violenza e avevo dentro di me un odio così profondo verso questi aguzzini che mi avevano tolto tutto che prendere la pistola e togliergli la vita mi sembrava il vero e giusto atto finale. 26 Fu un attimo, ma lo ricordo sempre con estrema gratitudine: in quel momento capii la diversità abissale che divideva me, ragazza schiava e il mio assassino potente, io non ero come lui. Io non avrei mai potuto uccidere nessuno per nessun motivo, queste erano l’etica e la morale che mi avevano trasmesso i miei padri secondo le quali non si toglie mai la vita ad un altro essere, dovevo decidere e io sceglievo la vita anche in quel momento. Dovevo scegliere tra l’odio, che è simbolo di morte e la vita: io scelsi la vita e da quel momento sono stata libera. Oggi sono ancora vivi in Italia novantuno degli 8600 deportati razziali nei lager. Di questi novantuno sono estremamente pochi quelli che dopo tanti anni hanno ancora il coraggio, la salute e la forza di parlare di questo argomento per cui le occasioni di incontrarci dureranno soltanto per pochi anni ancora. Io sono una delle più giovani ed ho quasi 70 anni, i più anziani ormai non ne hanno più la forza. Per questo è molto importante che chi ha ascoltato la mia testimonianza diventi a sua volta testimone, chi mi ha ascoltato ha ricevuto un dono perché ha sentito dalla viva voce di chi c’era quello che è successo senza la mediazione di critici, giornalisti, scrittori né tantomeno revisionisti o negazionisti. Io c’ero e chi ascolta un testimone diventa a sua volta un testimone: io spero che anche voi lo diventiate. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Roberto Camerani partigiano, deportato dai nazisti a Mauthausen Ho detto all’inizio [nell’intervento introduttivo, non riportato in questi atti per un guasto che ne ha impedito la registrazione e di cui ci scusiamo] che i due grandi pericoli che serpeggiano e che sovrastano l’umanità sono la stupidità e il fanatismo. Questi sono i difetti. Noi in questo momento viviamo sulla terra in sette miliardi e siamo tutti diversi e proprio perché siamo tutti diversi c’è chi nasce bene e chi nasce male, chi nasce forte e chi debole, chi sano e chi malato, chi è dotato di grande volontà e chi è privo di volontà. Queste differenze creano conflittualità. La storia dell’umanità è un conflitto perenne. Cosa fare? Non c’è molto 27 da fare, bisogna usare l’intelligenza, io continuo ad insistere su questa parola, su questo vocabolo: intelligenza. L’uomo, a differenza di tutti gli animali, è stato fatto intelligente ed è stato attrezzato opportunamente per gestire la propria libertà. Quindi è l’intelligenza che dobbiamo usare per capire che dobbiamo convivere, questo è fondamentale. Se non comprendiamo questo semplice concetto giungiamo all’accelerazione della conflittualità: tutto è legato alla nostra capacita di sopportazione perché l’intelligenza è fatta di valori positivi e la non intelligenza è la stupidità che fa scadere gli uomini nei conflitti e nelle guerre. E allora che cosa è la vita? La vita è lotta continua. Non ingannate i giovani facendo credere loro che la vita sia un piacere, che la vita sia una discoteca aperta dalla mattina alla sera. La vita è una strada con tanti attraversamenti e dietro a questi ci sono degli angoli e dietro a questi potrebbe esserci la sorpresa spiacevole, dolorosa, l’evento che fa venire le lacrime agli occhi. L’immagine delle lacrime mi ha richiamato alla mente delle parole che ricordo sempre con piacere, anche se io non sono un credente classico, sono un dubbioso, che sono state pronunciate in un momento particolarmente intenso da Papa Giovanni XXIII affacciato alla sua finestra: «Tornate alle vostre case, fate una carezza ai vostri bambini e dite che questa è la carezza del Papa». Ma aveva anche detto: «A casa troverete anche molte lacrime da asciugare» e questo è molto importante perché di lacrime da asciugare nel mondo ce ne sono moltissime. Tutto questo è colpa della mancanza d’intelligenza perciò adoperiamoci per vivere meglio usando l’intelligenza. Questa è una raccomandazione che io faccio a tutti i ragazzi perché per sopravvivere io ho dovuto usare l’intelligenza: in un luogo cosi disperato come un campo di sterminio non c’era altra possibilità che usare l’intelligenza. Potrei raccontarvi un’infinità di aneddoti a questo proposito, ma il tempo è breve quindi concludo qui il mio intervento e sono sicuro che avete capito il mio messaggio. 28 Le religioni per la Pace e la Giustizia all’alba del terzo millennio ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Traian Valdman arciprete ortodosso La mia vuole essere una testimonianza spontanea su un tema sul quale si discute da molto tempo perché da sempre nel mondo c’è bisogno di pace e giustizia ed è giusto riflettere per portare il nostro contributo affinché esse si realizzino. Il tema “Religione per la pace e la giustizia all’alba del terzo millennio” ci pone di fronte ad alcuni concetti che vorrei presentare molto semplicemente. Le religioni sono quelle realtà di fede che si propongono di unire l’uomo e Dio, di aiutare l’uomo a realizzare questa unione con Dio. Ma l’uomo di fede vive nel mondo e perciò fa suoi i problemi del mondo tra i quali ci sono anche la pace e la giustizia. La pace di solito viene tradotta come shalom, come mancanza di guerra, armonia, comunione, atmosfera in cui si realizza la piena koinonia tra gli uomini e tra Dio. La giustizia ha il suo senso primario veterotestamentario, è prima di tutto il compimento dei comandamenti di Dio, dunque il compimento della sua volontà e solo in questo modo ci mettiamo nella condizione di realizzarci in quanto uomini autentici interlocutori di Dio. “Religioni per la pace e la giustizia” significa quindi verificare in che modo ognuna delle nostre religioni si pone di fronte al problema, cosa propone per la soluzione delle conseguenze provocate dalla mancanza di pace e di giustizia. Ma la giustizia ha acquisito nel nostro mondo anche l’aspetto ambivalente 29 di giustizia e ingiustizia, comportamento giusto e comportamento ingiusto che porta poi alla uguaglianza e alla disuguaglianza. Spesse volte tra i sostenitori della pace e i sostenitori della giustizia c’è una certa tensione; ci sono quelli che fanno la guerra perché non c’è la giustizia e ci sono quelli che vogliono la giustizia prima della pace. Come porsi di fronte a questi problemi all’alba del terzo millennio? L’alba è l’apertura, è il mattino, è l’inizio di una nuova giornata, ovvero l’apparizione delle prime luci di quella giornata. E noi ci poniamo di fronte a questo problema che è veramente esistenziale non in senso filosofico quanto piuttosto nel senso dell’esistenza umana, dell’essere umano in questo periodo storico. Non vogliamo essere millenaristi, lo facciamo perché ci troviamo di fronte a una specie di data convenzionale, di spartiacque e spartimillennio. Come chiudiamo il secondo millennio? Dal punto di vista religioso lo chiudiamo in grande tensione. Almeno per noi cristiani il secondo millennio iniziò nel 1054 come millennio della grande separazione tra Oriente e Occidente. Nel 1517 si verificò una altrettanto profonda e lacerante divisione nell’Occidente tra il mondo di sensibilità latina cattolica e quello di sensibilità anglosassone protestante. L’ultimo secolo di questo secondo millennio ha poi scoperto l’ecumenismo, ha favorito, per grazia di Dio e per ispirazione dello Spirito Santo, la tensione vero l’unità. Dopo la creazione del Consiglio Ecumenico delle Chiese Ortodosse e Protestanti con sede a Ginevra nel 1948, è iniziato un movimento ecumenico al quale hanno preso parte tutte le chiese e con il concilio Vaticano II la chiesa cattolica romana si è inserita molto bene e in modo più attivo e spesse volte più efficace rispetto alle altre dato le strutture di cui dispone. Nello stesso tempo, però, stiamo vivendo una specie di tensione tra la tendenza e il cammino verso l’unione e la paura di perdere la propria identità. La situazione religiosa di questo fine secolo e fine millennio può quindi essere definita da questo oscillare tra l’unità e la paura di vederla realizzata. Se prima eravamo abituati a vivere la nostra identità in modo chiuso oggi questa nostra identità è chiamata a vivere accanto ad altre identità e, nella misura in cui non si è capaci di gestire ciò che ecumenicamente chiamiamo l’unità nella diversità, scoppiano le frizioni e persino le guerre a sfondo più o meno velatamente religioso. A questo si aggiunge l’ingiustizia alla quale ci ha portato il mondo moderno: ci sono paesi molto ricchi e paesi molto poveri, paesi molto forti militarmente e paesi debolissimi. Dal punto di vista ortodosso, però, la pace e la giustizia sono elementi che 30 prima di tutto riguardano il rapporto dell’uomo con Dio dal momento che il mondo ortodosso parte sempre da Dio per andare verso l’uomo. Tutte le nostre guerre, tutte le ingiustizie tra di noi sono espressione di una nostra guerra con Dio, di una nostra non osservanza dei comandamenti di Dio. Credo che questa sia la lettura che potrebbe aiutarci a capire la necessità di accordare la dovuta importanza al rapporto con Dio per poter poi risolvere i problemi in modo consequenziale a livello orizzontale. Dal punto di vista cristiano, la nostra pace è Cristo e la nostra giustizia si compie in Cristo. Il giusto dell’Antico Testamento diventa, nel Nuovo, il santo: ecco perché la giustizia diventa santità. I primi battezzati venivano chiamati santi e anche noi siamo chiamati alla santità, cioè al compimento dei comandamenti di Dio, alla vera giustizia. Per noi cristiani Cristo è colui nel quale è avvenuta la pace tra Dio e gli uomini, è colui che ha demolito il muro della separazione, secondo S. Paolo è colui nel quale la profezia si compie, è colui nel quale si compie il comandamento. Tutto questo si traduce nella spiritualità e non a caso le celebrazioni ortodosse accordano molta importanza a questa pace. In greco pacem si dice irene, ma poi irene è rimasto il termine con cui si indica la mancanza di guerra armata, invece la pace spirituale è stata chiamata ezikia e il mondo ezicasto è quello che propone questa pace interiore dalla quale sorga un comportamento pacifico di ogni uomo. La primissima litania di ogni celebrazione, chiamata in greco appunto irenika, comincia con le parole: «In pace preghiamo il Signore». Indica la necessità di predisporsi in una situazione di pace, di tranquillità, di silenzio: ciò che vuol dire prima di tutto pace con noi stessi. Preghiamo il Signore per la pace che viene dall’alto e per la salvezza delle nostre anime. La pace viene dunque dall’alto, non viene da noi ed è messa in collegamento in questa intercessione litanica con la salvezza delle nostre anime che non avviene senza la pace che viene dall’alto. Preghiamo il Signore per la pace di tutto il mondo e per la prosperità delle chiese di Dio. La pace del mondo è messa in collegamento con la pace nelle chiese ed è ovvio che questa pace oltre a essere una riconciliazione tra Dio e gli uomini e tra gli uomini stessi, è anche assolutamente necessaria. È ovvia per ogni cristiano la parola fedele almeno alla luce del Nuovo Testamento: se ti rendi conto che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta, vai a riconciliarti e poi presentati all’altare; Dio non riceve l’offerta del non riconciliato perché il non riconciliato non è capace di 31 ricevere i benefici di tale offerta, è ancora chiuso, non è ancora aperto così come dev’essere. Ma c’è anche un collegamento tra la riconciliazione per la pace del mondo e le nostre chiese che devono essere quello che il Signore voleva, cioè lievito di pace e di giustizia e devono porsi come fermenti di pace e giustizia prima di tutto al loro interno. L’ecumenismo da questo punto di vista è un’opera di pace, di riconciliazione, di giustizia nel senso di compimento della volontà di Dio. Se Cristo è la nostra pace è anche la nostra unità e la nostra unità non può che realizzarsi nella pace che è Cristo, così come la pace non si può realizzare che nell’unità, che è sempre Cristo. La chiesa è una, santa, chiamati alla santità sono i battezzati cristiani innestati in questo corpo trasfigurante che è la chiesa, questo laboratorio di trasfigurazione e di risurrezione. Nella chiesa dobbiamo per prima cosa realizzare la riconciliazione e la pace e questo è il compito che si è dato l’ecumenismo non perché ci fossero più chiese dal punto di vista dogmatico: la chiesa mistero è già una e noi lo confessiamo quando recitiamo il credo, ma i cristiani sono divisi tra di loro. Siamo fratelli nella fede in una comunione già esistente anche se non del tutto piena per cui è notevole la riscoperta che si è spinta fino al reciproco riconoscimento in quanto chiese sorelle, un po’ tardi dopo la separazione del 1054, ma meglio tardi che mai. Speriamo che a questa affermazione teologica corrisponda un comportamento di fatto, speriamo che ognuna di queste chiese riconosca all’altra la capacità di condurre i propri fedeli all’incontro con Dio. E allora se si riconosce questo non si svolge più l’attività di rubare i figli alla sorella offrendo un incontro più gradevole con lo stesso Dio. Mi riferisco al proselitismo che ormai è condannato, abolito in tutte le dichiarazioni ecumeniche, ma di fatto non ancora cessato. Dobbiamo avere pazienza, so che sono momenti di sofferenza, ma dobbiamo avere comprensione dicendo non: «Perché mi stai rubando il fedele o il fratello?», ma: «Padre perdona loro perché non capiscono quello che fanno». Il proselitismo è mancanza di amore laddove avviene ortodosso contro il protestante, protestante contro il cattolico, cattolico contro l’ortodosso e viceversa. La riscoperta dell’ecumenismo mi sembra una realizzazione di particolare importanza e la chiesa cattolica, le chiese della riforma e il mondo ortodosso hanno realizzato un notevole incontro con mutuo arricchimento all’in- 32 terno del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Si è arrivati a sottoscrivere documenti comuni, ma nel rapporto con la chiesa cattolica si è compiuto un passo ancora maggiore: oltre al riconoscimento reciproco come chiese sorelle si è arrivati alla cancellazione della memoria delle scomuniche e questo cambia radicalmente la situazione di fatto dei rapporti tra le due chiese. Essere divisi e reciprocamente scomunicati è molto diverso dal vivere divisi, ovvero non in comunione, ma non più in reciproca scomunica. Proprio la cancellazione della reciproca scomunica ha permesso di realizzare quelle convergenze teologiche che hanno portato all’espressione di “chiese sorelle”: è giusto che il cattolico dica: «La chiesa cattolica è la chiesa», è giusto che l’ortodosso dica: «La chiesa ortodossa è la chiesa», ma dal momento in cui non dicono più:«Solo questa è la chiesa» allora si lascia aperto uno spazio e col tempo si arriverà a dire insieme: «Siamo la chiesa. Se tu sei chiesa, io sono la chiesa, insieme siamo la chiesa una». Credo che sia un itinerario abbastanza naturale. Le convergenze teologiche alle quali si è arrivati in questi ultimi tempi costituiscono premesse per la soluzione di tutti i problemi che abbiamo tra di noi. Si sa che il mondo ortodosso ha realizzato le convergenze più notevoli con le antiche chiese orientali, ma in questo caso non si è ancora arrivati al momento della cancellazione della reciproca scomunica perché si vuole studiare una modalità attraverso la quale far coincidere il momento della dichiarazione della cancellazione della scomunica con il momento della ripresa della piena comunione. Nello stesso tempo devo dire che si verificheranno sempre di più non già delle incomprensioni, ma delle difficoltà non perché l’ecumenismo andrà in crisi, ma perché sul tavolo della Commissione Internazionale di Dialogo Teologico arriveranno i nodi più intricati che richiederanno più tempo per la loro soluzione. Dobbiamo stare attenti a non considerare queste difficoltà come momenti di crisi dell’ecumenismo: deve comunque continuare il dialogo della carità e dell’amore, atmosfera indispensabile per il dialogo della verità. Credo che sia molto importante nel frattempo per coltivare e far vedere l’esistenza di questo dialogo pregare insieme, meditare insieme, riflettere insieme come stiamo facendo questa sera, perché in questo modo usciamo dal nostro isolamento e diamo testimonianza del nostro riavvicinamento. E nello stesso tempo realizziamo anche una cosa molto bella che è stata ricordata a Santiago di Compostela: pratichiamo uno scambio di doni. Ognuno, presentando la propria spiritualità e il proprio modo di conce- 33 pire l’incontro con Dio e con i fratelli arricchisce l’altro e si arricchisce dal sentire l’altro. I doni sono di particolare importanza anche quando sono diversi perché nella loro diversità realizzano la loro bellezza e vengono dallo stesso spirito santo per noi cristiani. Particolarmente importanti per noi cristiani a livello di testimonianza comune sono gli atteggiamenti nei confronti dei problemi del mondo e non a caso le due assemblee ecumeniche di Basilea e di Graz hanno avuto un’eco particolare nel mondo, non soltanto tra le chiese e le religioni, perché gli argomenti che trattavano, la pace e la giustizia, sono problemi a monte religiosi, ma riguardano tutti gli uomini. Ecco perché sono altrettanto importanti anche le testimonianze che possiamo fare in comune, gli appelli per la pace e per la giustizia. È importante prendere coscienza dell’importanza della pace come armonia e le chiese e le religioni non possono rimanere indifferenti sulla pace del mondo. L’opera ecumenica si propone la pace tra le chiese per portare la pace nel mondo e in particolare in caso di conflitti è importante lanciare appelli comuni come quello per la pace in Iugoslavia formulato da sua santità Giovanni Paolo II con il patriarca della Romania. Così come la preghiera comunitaria è più forte della preghiera individuale, altrettanto più forte, più autorevole, più gradito alle orecchie di Dio è un appello fatto in comune. Vorrei ricordare due appelli che ho avuto modo di avere tra le mani in questi giorni. Nell’appello del patriarca Teoctist e del patriarca Pavle fatto nel 1995 si dice: «Sulla base dei principi evangelici che predichiamo rivolgiamo quest’appello della nostra coscienza, della nostra responsabilità pastorale, a tutti i responsabili della Jugoslavia e del mondo, per fare tutto il possibile affinché si faccia di nuovo pace, per fermare la guerra affinché la morte non metta più fine a tante vite di persone anche tra la popolazione innocente, affinché non siano più distrutte chiese e case di preghiera, affinché la casa di nessuno scompaia più dalla superficie della terra, affinché il fuoco tremendo della guerra non bruci più tanti valori culturali creati lungo secoli con lo sforzo di tanti popoli e molte generazioni». È altrettanto bello l’appello dell’8 maggio del 1999 firmato da sua santità il papa di Roma e sua beatitudine il patriarca della Romania, un cattolico e un ortodosso in questo caso: «Nel nome del Signore facciamo appello a tutti coloro che sono responsabili della tragedia attuale e li chiamiamo al 34 coraggio di riprendere il dialogo, di cercare le condizioni per una pace giusta e durevole che permetta il ritorno delle persone partite, allontanate dalle loro abitazioni e per mettere le basi della convivenza delle popolazioni della federazione jugoslava. Desideriamo incoraggiare la comunità internazionale e le sue istituzioni a utilizzare tutti i mezzi del diritto affinché le parti in conflitto risolvano i problemi». Questi appelli sono di particolare importanza e anche se le chiese non hanno i mezzi per chiudere le fabbriche di strumenti di morte, anche se le chiese non hanno direi i mezzi per fare pressione coercitiva sugli stati o almeno sui signori della guerra, questa pressione spirituale devono farla in nome dei principi evangelici. Ma c’è ancora un altro appello da fare: l’appello ai mass media perché facendo circolare quotidianamente informazioni innumerevoli, corrette e obiettive aiutino il processo di pace. Spesse volte, purtroppo, invece di aiutare la riappacificazione, i mass media contribuiscono al deterioramento delle condizioni e dei rapporti tra le parti in conflitto. A conclusione di questo millennio credo che sia importante che almeno noi, le chiese e le religioni, avanzino al mondo due o tre proposte. Prima di tutto la preghiera con l’intercessione continua affinché il Signore, Dio della pace ci dia la pace. In secondo luogo è importante la cancellazione di scomuniche e di eventuali rancori attraverso la purificazione della memoria: non abbiamo paura a leggere, a imparare la storia con tutto ciò che ci ha portato di negativo e di positivo, ma dobbiamo conoscerla tutta e bene affinché possa essere letta in modo più sereno. Questo ci deve condurre al terzo atteggiamento: il chiedersi perdono come passo obbligatorio per la riconciliazione e per la pace tra chiese, tra religioni e tra popoli. Leggevo sui giornali che nell’ultimo sinodo in Vaticano è stata molto bene accolta la richiesta di perdono del giovane vescovo ortodosso rumeno di Parigi monsignor Josif il quale ha detto: «Sappiamo che molti ortodossi hanno sofferto a causa dei cattolici e sua santità ha chiesto diverse volte perdono; ma sappiamo, e so altrettanto, che molti cattolici hanno sofferto a causa degli ortodossi, chiedo perdono per tutto quello che è avvenuto». Credo che questo sia il modo migliore per iniziare il nuovo millennio anche perché solo così ci inseriamo nella vita di Cristo il cui racconto nei Vangeli comincia con metanoite di Giovanni Battista e con quello di San Pietro nel giorno della Pentecoste. 35 ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Gianfranco Bottoni responsabile del servizio per l’ecumenismo e il dialogo della curia arcivescovile di Milano Vorrei che ci fosse un po’ più di indisciplina che vivacizzasse la nostra serata e mi piacerebbe affrontare insieme a voi i problemi che intendo proporre, vorrei che tutti i presenti potessero davvero essere coinvolti in una chiacchierata, in uno scambio. Faccio eco alle parole di padre Valdman sull’aspetto ecumenico sul quale comunque non intendo soffermare più di tanto l’attenzione visto il titolo generale della nostra conversazione che riguarda più le religioni in rapporto alla pace. La mia opinione sull’ecumenismo è questa: si tratta di prendere coscienza sempre di più che le sfide che vengono oggi dal cosiddetto pluralismo religioso o comunque dall’esigenza di costruire una società a livello planetario sulla base della pace e della giustizia riguardano il cristianesimo in quanto tale, non le singole confessioni cristiane. Da qui deriva l’importanza di riuscire a camminare insieme da parte delle chiese e dei diversi cristiani, di poter presentare una sola voce anche nel dialogo con le altre religioni, la voce del cristianesimo al di là delle nostre divisioni che dobbiamo superare e per le quali ha fatto molto bene don Valdman a invocare la contraddizione che c’è nell’assuefazione attuale. Prima della divisione, cioè prima delle scomuniche, i cristiani erano in perfetta comunione cioè facevano l’intercomunione, potevano comunicarsi nelle stesse celebrazioni eucaristiche e dal giorno in cui vennero comminate le scomuniche questo non è più possibile. Logica vorrebbe che dal giorno in cui sono state ritirate le scomuniche si ritornasse all’intercomunione, ma questo non avviene. Si sa che all’incontro tra Paolo VI e Atenagora durante il quale furono abolite le scomuniche tra la chiesa cattolica e il patriarcato di Costantinopoli il Papa avrebbe voluto che seguisse immediatamente l’intercomunione, la possibilità di partecipare all’eucaristia, la comunione piena. In realtà, Paolo VI fu sconsigliato dallo stesso Atenagora e dal cardinale Vildebrandt a fare questo passo perché non si era pronti, ci voleva un lungo periodo tempo, che sta durando da alcuni decenni e chissà quan- 36 do finirà, per la ricezione da parte delle comunità: diversamente si sarebbe andati incontro a nuovi scismi, a nuove divisioni. Questo è un fatto che ci deve far pensare: si fa molto prima a smontare e distruggere che a rimontare e ricostruire. E allora credo che sia molto saggio il cammino che gli orientali fanno tra ortodossi e chiese anticocristiane nel tentativo di fare coincidere il giorno in cui elimineremo le scomuniche con quello in cui ritornerà la piena comunione perché è molto più logico che sia così. Vengo invece subito, fatta questa premessa, sull’aspetto ecumenico che è certamente molto importante per poter entrare nell’ottica del discorso delle religioni nei confronti della pace. Vorrei portare a voi qualche mio interrogativo e ho bisogno del vostro coinvolgimento perché gli interrogativi si sciolgono soltanto insieme. Il vostro incontro porta un titolo molto solenne, ma anche opportunamente evocativo: Migrando nel terzo millennio. Orrori e speranze di un secolo breve. Proprio questa mattina avete ascoltato alcune testimonianze significative su orrori non poi così lontani nel tempo, ma recenti tanto che vivono ancora i testimoni e prima che siano scomparsi è importante che diano la loro testimonianza perché la memoria di questi orrori resti desta. Non solo in questo breve secolo, ma anche prima, lungo questo millennio, lungo la storia che è la storia delle religioni, gli orrori non mancano. Mi pare allora molto importante affrontare il tema delle religioni e della giustizia cercando di metterci al riparo dal rischio dell’apologetica e della retorica. L’apologetica è sempre molto subdola, molte volte compare in modo inconscio nel momento stesso in cui noi, intorno a un tavolo come rappresentanti delle religioni, cerchiamo di sostenere che le religioni oggi sono indispensabili per dare un contributo fondamentale alla pace, alla giustizia, all’edificazione di un nuovo mondo, di una nuova società. Questa tesi è certamente sacrosanta e verissima, ma non priva di un rischio, che è quello di voler accreditare le religioni come aggiornate, come capaci di essere in pista rispetto ai problemi di oggi, di avere un ruolo, di uscire dalla marginalità nella quale spesso sono state collocate lungo i più recenti tempi della storia e ritrovare una loro egemonia, un loro ruolo, una loro funzione importante e significativa per la società. Credo che questo sia un rischio dal quale noi dobbiamo guardarci riflettendo sul fatto che esiste un’ambiguità sempre e comunque nel ruolo 37 delle religioni perché le religioni hanno spesso fatto le guerre, hanno esportato i genocidi, hanno provocato molte sciagure e nello stesso tempo sono un fattore di speranza, sono una grande agenzia di promozione di un cammino che nella misura in cui riporta l’attenzione sull’autenticità della ricerca di Dio, come ricordava padre Valdman, possono essere autentiche e significative costruttrici di pace. Ma questo non è l’ovvio, non è scontato. Questo avviene nella misura in cui noi ci poniamo di fronte a un grande problema, che cercherò di evocare, con la capacità del dialogo e del senso critico che non sempre abbonda nei nostri incontri di religione per la pace. Cercherò di dare ragione di entrambi gli aspetti. Forse non a tutti è noto che nei lavori della Conferenza mondiale per i diritti dell’uomo del 1993 prima a Bangkok, dove si riunirono i rappresentanti degli stati asiatici, poi a Vienna dove nel giugno del 1993 si è celebrata l’assise mondiale della Conferenza per i diritti dell’uomo, i rappresentanti del 65 per cento della popolazione, cioè dei paesi asiatici e islamici, hanno messo in seria discussione la validità universale della dichiarazione dei diritti dell’uomo che risale al 1948, quella famosa di New York, argomentando che i diritti dell’uomo non dappertutto valgono nella stessa maniera, che vi si arriva attraverso processi diversi, che il modello asiatico è diverso da quello europeo e che la dichiarazione del 1948 che abbiamo sempre tutti considerato di valore universale, è in realtà frutto della mentalità nord-occidentale di matrice cristiana. È da allora che si è incominciato a parlare di universi culturali differenti nei luoghi di elaborazione di un pensiero strategico per la pace nel mondo. Con quest’espressione si vuole esprimere la complessità propria di ciascun sistema culturale che include come elemento costitutivo innanzitutto la religione. E intorno a questa matrice dell’universo culturale, che originariamente è sempre dato da una religione, c’è poi una riflessione filosofica, le ideologie che nascono, le pratiche politiche, i comportamenti esistenziali, cioè una serie di elementi caratterizzanti un universo culturale in una determinata area geografica del mondo. Parlare di diversi universi culturali significa parlare di sistemi che si pongono in termini autonomi e assoluti fino a problematizzare seriamente la possibilità di costruire una convivenza pacifica nel pianeta perché se non si riconoscono principi universali comuni sui quali fondare la convivenza, com’è possibile che questa convivenza sia pacifica e non esploda in conflitti? 38 Questo è un problema serio. Agenzie di riflessione a livello internazionale hanno avviato una ricerca che è arrivata a promuovere come essenziale per un futuro di pace il dialogo interreligioso. Agenzie laiche hanno avvertito l’esigenza di promuovere il dialogo interreligioso perché se le religioni non si incontrano, se non dialogano, non ci può essere osmosi tra i diversi universi culturali e c’è il rischio che si costituiscano come monadi, come mondi chiusi in rapporto, non in dialogo tra di loro e quindi come sistemi rigidi che possono favorire la deflagrazione di conflitti molto gravi anche se non più mondiali. Ma noi vogliamo una pace nel mondo che non sia convivenza con la proliferazione di conflitti magari locali e regionali. Questo è il problema rispetto al quale a me pare che ci troviamo di fronte comunque ad alcune possibili ambiguità. Le religioni vengono fortemente investite di una funzione di dialogo in relazione a un problema di convivenza sociale e civile nel mondo che non può non stare a cuore a ciascun essere umano, a ciascun cittadino di questo pianeta e quindi anche ad ogni uomo religioso. Ma il dialogo interreligioso resta un’altra cosa, è un cercare un punto comune a partire dal cuore del messaggio che ogni religione propone e non può essere solo il fatto d’incontrarsi in quelle aree di periferia rispetto al sistema religioso, che sono una specie di zona franca dove può avvenire il passaggio da un’area all’altra, da una religione all’altra perché si tratta di un problema di pace, di giustizia, di convivenza, di etica sociale. Per noi credenti in una o in un’altra religione resta importante il poterci incontrare non solo per edificare una convivenza sociale pacifica sul pianeta, ma per riuscire a riconoscerci partendo dal cuore del messaggio religioso che ciascuna fede vive, testimonia e vuole poter comunicare nel dialogo al proprio interlocutore appartenente ad un’altra religione. Un problema mondiale si riflette quindi sul dialogo interreligioso che non può essere né strumentalizzato né ridotto alla problematica dell’edificazione di una società. E nello stesso tempo c’è un ulteriore aspetto che a me preme esprimere e condividere con voi qui riuniti con una tensione riguardante l’edificazione di una società nella pace e nella giustizia. Le religioni si prestano di fatto agli orrori, all’esportazione delle guerre, ai fondamentalismi e ai fanatismi nella misura in cui diventano acriticamente religioni civili, rispondono cioè a un bisogno sociale. Quando le congiunture della storia sono tranquille le religioni civili riescono a met- 39 tersi d’accordo per costruire insieme la pace, ma le società spesso si pongono in termini conflittuali, antagonistici per i motivi più diversi e, nella misura in cui la religione in un determinato luogo\paese\nazione è diventata religione civile, quindi nazionalista, viene inevitabilmente catturata dalla logica conflittuale e diventa non un elemento di costruzione della pace, ma, anzi, molte volte, di radicalizzazione dei conflitti. Da qui nasce la necessità di affrontare il problema denunciando chiaramente quelli che sono i rischi della religione civile e nazionalista, della religione che si presta a fondamentalismi e fanatismi a partire dalle convivenze con le istanze sociali, economiche, politiche che governano una determinata realtà in un determinato momento in un determinato luogo o regione della terra: se non avviene questo le religioni non possono essere veramente fattori di speranza e costruttrici di pace. Ho quindi esposto una problematica e vorrei sollevare un’esigenza critica. Noi abbiamo alle spalle, mi limito al cristianesimo, secoli di cristianità. La cristianità è quell’esperienza in cui, soprattutto nei secoli del medioevo, si è determinata una sorta di identificazione tra società civile e comunità credente che venivano a coincidere. Al di fuori e all’interno della cristianità sono numerosi i luoghi nei quali sostanzialmente permane una visione teocratica la società. È stata faticosa la conquista della laicità con la modernità, il concetto di laicità dello Stato; è stato difficoltoso uscire da quell’epoca che di fatto caratterizza tuttora il cristianesimo e che abbiamo chiamato l’epoca Costantiniana, nella quale il cristianesimo è uscito dalle catacombe, dal tempo della persecuzione dei martiri ed è diventato religione di stato, egemonia, fattore costruttivo di una civiltà meravigliosa. Dobbiamo però anche evitare gli atteggiamenti ingenui di contestazione che non riconoscono i grandi vantaggi e le bellezze che la civiltà cristiana ha costruito lungo i secoli. Dobbiamo esercitare una riserva critica, non una contestazione, cioè la capacità di non identificare il messaggio cristiano con le istituzioni che il tipo di religiosità Costantiniana ha costruito. E allora arrivo alla conclusione citando due testimonianze che mi sono sempre sembrate particolarmente significative. Quando noi usciamo dalla logica della religione civile valgono le parole profetiche che Carlo Maria Martini pronunciò in occasione di una grande veglia che tenne in duomo durante la guerra del Golfo, un conflitto per il quale egli presentò quale deve essere l’atteggiamento del cristiano 40 che non si pone nella logica della religione civile e dell’etica sociale semplicemente, ma come testimone radicale dell’Evangelo fino alla profezia, fino a essere disposto a dare la vita. E questo significava non mettersi con le mani giunte al riparo dal conflitto, ma mettersi in mezzo al conflitto, tra i contendenti, con una mano sulla spalla dell’uno e con l’altra mano sulla spalla dell’altro fino a quando, pagando magari di persona, terminano le aggressioni dei due contendenti, finiscono i motivi del conflitto. E l’altra testimonianza mi viene non dal mondo cristiano perché il problema di porsi in termini non di religione civile c’è in ogni esperienza religiosa. Sono reduce da un pellegrinaggio che abbiamo fatto con l’arcivescovo e con la diocesi di Milano nelle terre delle radici della nostra fede a Damasco, ad Amman, in Giordania, in Siria e a Betlemme. All’università di Betlemme abbiamo vissuto una serata indimenticabile in cui i protagonisti sono stati un arabo cristiano, un palestinese mussulmano e un’ebrea. Si è creata una profonda convergenza tra queste tre persone che si sono poste a partire da un atteggiamento veramente profetico. Vorrei consegnarvi come conclusione le parole della donna ebrea, di nome Dalia Landau di Open house, una casa aperta che si costituì quando la stessa Dalia ereditò la casa dove abitava. Dalia è un’ebrea giunta in Israele con la sua famiglia dopo essere scampata dalla Shoà. In Israele fu loro assegnata una casa, ma un giorno del 1967 alcune persone bussarono alla sua porta e chiesero di poter vedere la loro casa sostenendo di averla costruita con le loro mani mostrando di conoscerla in ogni particolare. Da quel giorno la vita della famiglia ebrea che abitava in quella casa e di quella palestinese che era andata a vedere la propria casa delle origini mutò, iniziarono un dialogo finché Dalia Landau con la morte della madre diventò proprietaria di quella casa e concordò con la famiglia palestinese che sarebbe diventata una casa di tutti e così fu una “casa aperta”, non più abitata da nessuna delle due famiglie perché i palestinesi non potevano più entrare in quel territorio, ma un’istituzione di pace a vantaggio dei bimbi palestinesi. Questa donna concluse quell’incontro con delle parole che mi sono sembrate molto significative e che costituiscono il corrispondente di quello che Martini diceva in quella veglia durante la guerra. Ella diceva: «Quando venite voi pellegrini in questa terra noi vi chiediamo una sola cosa, di riuscire ad avere nel vostro cuore la stessa, assolutamente identica simpatia per l’uno e per l’altro popolo che qui vivono un conflitto, perché 41 non è mai così, se guardate dentro voi stessi, non è mai così. Io vi chiedo di avere lo stesso atteggiamento verso l’uno e verso l’altro». A me pare che le religioni possono diventare costruttrici di pace solo quando fanno – come Valdman giustamente ha evocato – autocritica, sanno chiedere perdono, sanno rendersi conto degli orrori che hanno provocato, sanno comprendere che è necessario uscire dalla prospettiva della religione civile compromessa con le logiche mondane per recuperare il cuore del proprio messaggio religioso e poterlo testimoniare radicalmente davvero a servizio dell’uno e dell’altro fratello quando questi si trovano coinvolti nei conflitti che nella storia sono comunque inevitabili. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Thamthog Rinpoce lama buddista tibetano, guida spirituale del Centro Rabten Ghe Pel Ling Nel mio intervento non voglio ricordare ciò che le religioni hanno fatto finora, ma discutere brevemente su cosa possiamo fare oggi, nel 2000, per sperare di vedere la vera e propria pace nel mondo. La pace non deriva da una religione né da una ideologia, ma da qualcosa che può essere costruito da noi stessi. Il discorso che sto per fare è il risultato di diciotto anni di studio nel mio monastero dove ho seguito la religione buddista e ho cercato di avere un’educazione buddista dall’età di quattro anni. Ciò che spiegherò brevemente non si trova nei libri: non cerco di riportare il discorso di qualcuno, ma vi rivelerò qualcosa che io sento profondamente dentro di me. Oggi avete ascoltato bellissimi consigli e idee, i relatori sono stati dei personaggi importanti, avete sentito la rappresentanza cattolica e quella ortodossa e poi ci sono stati tanti altri studiosi e relatori più competenti di me. Il mio intervento sarà un contatto tra me e voi, una discussione fra amici, quindi non esprimerò un’idea o una filosofia o un modo di vita legato al buddismo, né un insegnamento esclusivo legato al buddismo. Non vorrei spiegare che cosa il buddismo può fare, né voglio affermare che l’unica religione che possa fare qualcosa sia il buddismo, ma da praticante buddista esprimerò quello che sento dentro, quella che può essere una via giusta per la pace nel 2000. 42 Le religioni hanno sempre giocato un ruolo molto importante nella nostra vita, tante volte la religione è stata inquinata da motivi politici e spesso sembra che le religioni siano la causa della nostra sofferenza. Talvolta la religione è l’unica speranza della nostra vita. Se lasciamo da parte le peculiarità di ogni religione e cerchiamo di capire che cosa si intende per religiosità scopriremo che tutte le religioni insegnano l’importanza di sviluppare la qualità interiore del calore umano, che altro non è che la pace interiore. Tale pace può essere sviluppata se noi seguiamo un preciso ragionamento: bisogna sviluppare la pace interiore per evitare la guerra, i disastri, la sofferenza personale e poi questa pace, ottenuta attraverso i nostri sforzi; può contribuire alla creazione della pace mondiale dando così credibilità alla propria religiosità e alla religione stessa. Tutti gli esseri viventi desiderano una pace mentale, interiore. La differenza tra gli animali e gli esseri umani è che i primi non hanno la capacità di riuscire a sviluppare la pace interiore, mentre gli uomini hanno doti particolari, intelligenza, saggezza, discernimento e, soprattutto, possibilità di potenziare facoltà mentali che aiutano a sviluppare il calore umano. Chi è in grado di far nascere questa pace interiore può essere considerato un essere umano. Tutte le religioni danno importanza alla vita umana: la nostra esistenza è preziosa, sacra; la vita umana ha tante potenzialità che gli animali non possiedono. Nostro dovere è quindi riuscire a rendere questa vita significativa non per il bene personale, ma per il bene altrui. Se qualcuno ritiene che io sono un essere umano perché riesco a pensare e sono in grado di fare meglio di qualsiasi animale, assume un atteggiamento sbagliato perché anche gli animali parlano e riescono a comunicare: l’unica differenza tra queste due creature è che gli esseri umani hanno la capacità di sviluppare la capacità mentale, di riuscire a compiere azioni costruttive per il bene degli altri esseri viventi. La mancanza della pace interiore, della pace del mondo, del rispetto per gli altri è dovuto principalmente al nostro egoismo. Noi abbiamo un forte ego legato ad attitudini autogratificatorie, pronto a umiliare le altre creature, a non rispettare le altre religioni, credenze, ideologie e proprio questa è una delle cause che perturbano il nostro stato mentale procurando sofferenza e nello stesso tempo sono causa di conflitti religiosi e ideologici. Se io sono un animale posso vedere gli altri esseri umani come animali perché anche gli animali hanno la capacità di difendersi, sanno come pro- 43 curarsi il cibo, come proteggere il loro ambiente, quindi anche loro sono egoisti. Apparentemente non c’è quindi nessuna differenza, ma le differenze ci devono essere perché noi consideriamo gli esseri umani sotto tutti i punti di vista superiori agli animali, quindi il nostro primo dovere è rispettare l’animale, la vita altrui, senza escludere neanche una piccola formica. Quando parliamo della pace non dobbiamo essere egoisti e quando usiamo il termine “pace interiore” dobbiamo includere tutte le creature abitanti il nostro pianeta. Se solo gli esseri umani riusciranno a godere della pace non sarà sufficiente, ci sarà vera pace solo con il completo rispetto dell’esistenza, della sacralità dell’ambiente e di tutte le forme di vita. Per avere questo tipo di pace dobbiamo saper rispettare tutti gli altri esseri viventi che ci circondano. Tutto ciò va sviluppato attraverso una qualità mentale, una trasformazione mentale senza dovere dipendere esclusivamente da una religione, da una fede, ma seguendo qualcosa che possiamo definire come una fede universale. È questa una delle soluzioni per essere felici e può essere un grande contributo per far star bene gli altri. Nel buddismo di tradizione tibetana viene insegnato che fin dall’inizio bisogna cercare di avere un rapporto con la propria interiorità riuscendo a interrogare se stessi su quali siano i metodi per il raggiungimento della pace individuale e universale. Dobbiamo essere in grado di controllare la nostra mente, di individuare le nostre manchevolezze e di riuscire ad apprezzare le doti umane e spirituali che possono essere di aiuto per lo sviluppo sociale. Siamo all’alba di una nuova epoca e portiamo con noi la terribile esperienza di una guerra che gran parte di noi ha vissuto direttamente: sulla base di questa esperienza dobbiamo cercare di domandare a noi stessi in che modo la pace può essere acquisita e in che modo noi possiamo essere d’aiuto agli altri esseri viventi. Non si tratta di un aiuto materiale, che è necessario, ma non può eliminare tutte le sofferenze del mondo, ma dello sviluppo di una qualità mentale che possiamo trasmettere agli altri nei luoghi da noi frequentati: è il valore della pace, della serenità, della tolleranza. Tutti noi, come tutti gli esseri sensibili, desideriamo la felicità. Nessuno desidera soffrire e questa è una delle ragioni per cui dobbiamo sperimentare la pace mentale. Quali saranno gli svantaggi se non svilupperemo la pace interiore? Possiamo osservare che tutte le brutte esperienze che abbiamo vissuto, 44 sia a livello familiare a partire da un piccolo litigio, dalla mancanza di comprensione fra la coppia, dall’intolleranza fino ad arrivare ai conflitti fra comunità e alle guerre fra nazioni, avvengono per mancanza della pace interiore. Questa mancanza di pace interiore è dovuta alle forti emozioni negative, all’odio, all’ignoranza, all’aggressione, quindi la causa è un forte attaccamento al sé, al desiderio del raggiungimento della propria felicità senza rispettare gli altri esseri viventi. Credo che la pace a livello mondiale o fra due paesi non si otterrà mai sul tavolo di trattativa; la pace si realizza se tutti i popoli di una nazione, tutti i cittadini del mondo conoscono il suo valore e lo sviluppano a livello personale. A questo punto vi chiederete: «Cosa si intende per pace interiore? In che modo può essere realizzata?» È molto semplice, la pace interiore è la mancanza dell’attaccamento al proprio sé, la mancanza di egoismo, la capacità di tolleranza, la comprensione verso i problemi e la sofferenza degli altri, il perdono delle manchevolezze, dei difetti e degli errori altrui, è l’accettazione del dolore e della sofferenza per il bene degli altri, è il non provare mai odio, risentimento, rancore verso gli altri esseri senzienti. Se verranno meno questi sentimenti negativi raggiungeremo automaticamente la pace interiore, la serenità, una sorta di mente rilassata apparentemente incapace di agire, ma invece piena di energia costruttiva. Nel momento in cui cambieremo la nostra attitudine mentale avremo bisogno di un vero e proprio metodo di meditazione legato ad una religione che servirà come riferimento e aiuto concreto perché la pace mentale non si acquisisce chiudendosi nella propria camera né attraverso una lettura o una semplice seduta di meditazione o di yoga, ma è richiesto un ulteriore sforzo perché qui si tratta di affrontare il nostro odio, la nostra rabbia e quindi di avere il coraggio di indossare un’armatura in modo che nessuno possa ferirci nei sentimenti o sciogliere la nostra determinazione. L’impresa non è semplice perché dobbiamo innanzitutto affrontare la nostra rabbia, la collera, l’odio. All’inizio bisogna essere in grado di analizzare il meccanismo che fa insorgere l’odio perché questo sentimento non nasce se non è preceduto dalla rabbia, a sua volta se non c’è stata una causa, un fastidio, una sensazione di infelicità. L’infelicità deriva da un’esperienza negativa, dalla mancanza di comprensione quindi alla base di tutto è necessaria la comprensione: dobbiamo sa- 45 per rispettare i comportamenti di tutti gli altri esseri senzienti, perdonare, accettare. Se accetteremo i comportamenti degli altri noi riusciremo fin dall’inizio a cancellare la causa della nostra ira, in caso contrario l’ideologia, la religione, i comportamenti degli altri ci potranno dare fastidio. Questo fastidio nutrirà la nostra mente diventando una sorta di rabbia, la collera piano piano si tramuterà in odio diventando indistruttibile perché non sarà un sentimento temporaneo, ma sarà nato da una fredda serie di ragionamenti. Spinta dall’odio una persona compie numerose azioni negative senza pensare a quello che fa. Bisogna quindi sapere discriminare tra i pensieri che abbiamo in una giornata, se sono positivi o negativi, costruttivi o distruttivi; una costante consapevolezza nella vita serve per controllare la mente e questo controllo aiuta ad annientare quelle emozioni che sarebbero causa della sofferenza nostra e degli altri. Se seguendo un culto o una religione giungiamo ad un cambiamento interiore, se diventiamo più tolleranti, pacifici, sereni, se riusciamo ad acquisire una qualità che trasforma la nostra personalità, allora possiamo dire che quella religione o quel culto ci ha aiutato. Se, invece, seguendo un culto veniamo perturbati, se esso ci modifica facendoci diventare aggressivi o intolleranti la religione può diventare essa stessa strumento di distruzione. Noi dobbiamo quindi essere molto consapevoli dei nostri sentimenti, di quello che ascoltiamo dagli altri e anche di quello che ci viene proposto dalle religioni che a volte tendono a manipolare chi le segue. Io non citerò testi buddisti, anche se ne potrei proporre tantissimi, ma questa non mi sembra la sede adatta, perciò mi limiterò ad un consiglio semplicissimo da seguire per acquisire la pace interiore: dobbiamo essere gentili, sviluppare calore umano, buon cuore, altruismo, dobbiamo diminuire l’egoismo. Solo così possiamo raggiungere la pace interiore. Ma non è così semplice riuscire ad avere queste doti spirituali, è difficile per noi esercitare l’altruismo, la gentilezza, il buon cuore, per cui dobbiamo affidarci a una religione che ci insegni la tecnica della meditazione per poter sviluppare queste qualità. Io credo quindi che il dovere di tutte le religioni e di ogni religioso sia di riuscire a insegnare il metodo per sviluppare la pace interiore e quindi la pace a livello mondiale attraverso la gentilezza, l’altruismo e le varie tecniche per la diminuzione dell’intolleranza verso gli altri. Ritengo che ogni religione possa insegnare questo indipendentemente dal- 46 le diverse fedi e credenze per raggiungere nel terzo millennio la vera pace nella quale tutti possano convivere senza risentimento e senza odio. Il mondo sta diventando sempre più piccolo e i problemi aumentano anziché diminuire, più avanzano la civiltà e lo sviluppo economico e scientifico più sembra che i problemi aumentino. Si viene sempre più spesso a contatto con realtà diverse dalle nostre e noi dobbiamo imparare a essere aperti verso gli altri cercando di cogliere gli aspetti migliori di ogni proposta. Io sono buddista, ma cerco di capire cosa insegnano anche le altre religioni e da loro cerco di assimilare un insegnamento per valorizzare la mia pratica religiosa. Così anche voi, pur vivendo in un paese cattolico, dovete cercare di comprendere gli aspetti positivi dalle altre religioni in modo da rafforzare la vostra fede e da dare un’interpretazione delle vostre credenze più utile e costruttiva per gli altri esseri viventi. Voglio concludere il mio intervento con un breve riepilogo: la pace mentale, la felicità personale e mondiale non sono realizzabili attraverso lo sviluppo economico, tecnologico e scientifico perché si tratta di qualità acquisibili solo attraverso la nostra mente. Dobbiamo quindi trasformare la nostra mente, purificare le nostre emozioni negative e le attitudini mentali sbagliate. Dobbiamo dunque accorgerci che è necessario apportare un cambiamento interiore: la nostra vita non cambia solo cambiando gli indumenti o vivendo in una casa migliore, ma dobbiamo cambiare interiormente per stare meglio ed essere in qualche modo utili per gli altri. Purtroppo la pace mentale non può essere comprata in un magazzino, non può essere costruita in una fabbrica né possiamo ottenerla pregando in chiesa o in un tempio buddista. Essa può essere acquisita solamente attraverso la comprensione e il controllo della propria mente, mediante una consapevolezza e un controllo che provengono dall’insegnamento di una religione. Se ciascuno di noi sperimenterà la gentilezza dalla mattina alla sera e quindi non proverà risentimento, odio o rabbia verso gli altri, ma comprensione e amore, allora sarà in grado di trasmettere la pace anche agli altri. Solo in questo modo diventeremo utili a portare la pace nel mondo e fra i popoli. Io ho puntato il dito verso di voi mentre parlavo, ma ne tenevo tre puntate verso di me… Questo significa che, come religioso, devo fare più di voi e devo impegnarmi a trasmettere qualcosa di sincero senza prendere la mia fede come appoggio o, difendendola, dare maggior credibilità al buddismo. 47 Vi ho dato una piccola speranza: se cercate la vera pace, la felicità nella famiglia o nella vostra comunità allora dovete avere il coraggio, la forza, la determinazione di controllare le vostre emozioni negative, di riuscire a sviluppare più pensieri positivi, di saper rispettare la vita degli altri, di avere maggior tolleranza e soprattutto di non provare mai odio verso gli altri esseri senzienti. In questo modo sarete felici nella vostra famiglia, una coppia sarà sempre unita e pacifica e lo saranno anche la comunità, la nazione e tutte le nazioni. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Jaya Murthy bramina Indù Innanzitutto devo dire che questo mio incontro con il lama è stato veramente voluto dalla volontà di Dio e condividere questo tavolo con lui è stato per me un grande piacere. Noi veniamo non solo dallo stesso paese, ma anche dalla stessa cittadina, Maisur. È la città dove sono nata e dall’incontro con il lama mi è venuta un’energia in più per parlare con voi. Ringrazio tutti per avermi dato l’opportunità di trattare questo argomento molto appassionante della pace e della giustizia e del ruolo della religione nello stabilire la pace e la giustizia nel terzo millennio. Indubbiamente le religioni svolgono un ruolo importante nello stabilire la pace ed è anche vero che l’uomo di natura è religioso. A mio parere non c’è nessuno, qualunque sia la sua condizione, che non viva una forma di fede. Anche la nostra antica cultura vedica ha sempre predicato la pace e la giustizia. I saggi dell’antichità compivano il sacrificio del fuoco per chiedere agli dei di salvaguardare la pace e la giustizia nel mondo perché la vita umana senza pace e giustizia è inutile. Questo fu il motivo di esistenza dell’uomo fin dall’antichità: mantenere la pace interiore ed esteriore come spiegava il lama prima. Persino Gandhi ha dichiarato di non aver nulla di innovativo da proporre su questo tema perché la non-violenza e il bisogno di giustizia sono antichi come le montagne. L’importanza della pace e della giustizia nel mondo sono senza tempo. 48 Ritengo che sia ora opportuno accennare brevemente all’induismo prima di addentrarmi nel vivo dell’argomento. Vi voglio citare alcuni concetti fondamentali della nostra religione. Il termine induismo non indica una religione, bensì una cultura, un modo di essere, di vivere, di vestirsi, nutrirsi, amare, morire, una serie di abitudini quotidiane che si tramandano da millenni. La nostra è una civiltà estremamente fedele al passato. Questo è un punto importante per capire l’induismo. E lo scopo di tale fedeltà è la conquista della pace interiore per vivere un’esistenza serena in questo mondo. L’induismo è fondato sulla sapienza sacra infatti la fonte principale di questa religione è l’antica sapienza vedica tramandata da un insieme di testi auto-rivelati che sarebbero stati misteriosamente uditi nello spazio del cuore durante la meditazione da una serie di poeti asceti che li avrebbero poi trasmessi oralmente alle generazioni successive. La non violenza è il dovere supremo dell’uomo e la verità vince sempre: questa è la grande fede che tutti gli indiani hanno. Con questo credo l’uomo viene preservato dalla gelosia verso gli altri e le domande esistenziali: «Chi sono io? Perché sono così?» sono solo un riflesso della vita precedente. Forse a voi sembra strano, ma in India si vive spesso con molta serenità sulla base del principio che non si può fuggire dal karma, ma si può soltanto migliorare questa vita con la fede in modo di godere una esistenza migliore nella rinascita successiva. Le azioni violente verso un altro essere vivente sono un grande ostacolo al cammino di purificazione. Siamo quasi alle soglie del terzo millennio e purtroppo la violenza affligge il mondo nonostante i ripetuti appelli alla pace da parte dell’autorità religiosa e delle voci profetiche degli uomini di buona volontà di tutto il pianeta. Si tratta di appelli in cui si comunica che non ci può essere pace senza giustizia e che la giustizia nel mondo non può essere stabilita con la forza delle armi. Gli abusi, le sopraffazioni, lo sfruttamento, l’odio razziale ancora affliggono pesantemente il nostro tempo e a questo sembra quasi non esserci rimedio. L’uomo spesso viola il dharma eterno, disobbedisce alla legge divina e non può più vivere in pace con se stesso e con gli altri perché quando perdiamo la pace interiore, quando c’è tutto buio dentro è inutile andare a cercare con una candela dov’è la pace, è impossibile trovarla. Di fronte a questa situazione sembra che nell’era dell’oscurità non ci sia speranza, invece non è detto. 49 L’insegnamento dell’induismo afferma che non dobbiamo perdere la speranza di trovare la pace e la giustizia. La fede è la chiave principale per essere benedetti da Dio. La religione non predica di abbandonare tutto, ma di vivere la materialità rispettando il dharma per arrivare a godere anche nel Nirvana. La vita terrena deve essere vissuta come fa un fior di loto che galleggia e non affonda nell’acqua. Questi sono gli ingredienti della pace e della giustizia secondo l’induismo. Nell’era di Internet e dei computer l’uomo vive una vita frenetica che lascia pochissimo tempo ai servizi di Dio, quindi occorre ricordare il suo nome ogni attimo, in fondo per farlo non occorre tanto tempo. La coscienza di Dio impedisce all’uomo di compiere atti violenti che conducono a violare la giustizia. È un atto comune alla fine di ogni rito religioso pregare per la pace nel mondo. La non violenza è l’arma più potente nel mantenimento della pace: rispettando questo solo comandamento è possibile trasformare questo mondo nel paradiso per tutti. Solo la fede aiuta l’uomo ad uscire dalla spirale delle violenze. E io mi auguro che l’uomo si risvegli illuminato all’alba del primo giorno del terzo millennio. 50 sabato 20 novembre Le speranze dei popoli a un passo dal nuovo millennio Testimonianze dall’Asia ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Joachin Naing Moe prete birmano La Birmania si trova nel sud est asiatico ed è di dimensioni doppie rispetto all’Italia, ma la sua popolazione è inferiore a quella italiana, infatti i birmani sono 46 milioni. In maggioranza sono contadini perché lo sviluppo industriale è quasi inesistente. Il mio paese è una monarchia e dal 1826 al 1948 è stato una colonia dell’Inghilterra. Quando eravamo sotto il dominio degli inglesi la situazione era migliore di quella attuale. Durante la seconda guerra mondiale i giapponesi sono entrati nel nostro paese e si sono comportati molto peggio degli inglesi compiendo atti di violenza anche contro le donne, mentre i birmani li avevano accolti sperando di ricevere aiuto per la liberazione dal dominio britannico. In lingua birmana questa situazione è bene espressa da un proverbio che dice: «Io avevo paura della tigre, sono fuggito nella foresta e ho scoperto che l’elefante selvatico è peggio della tigre». In conseguenza di ciò i giovani birmani si sono allora di nuovo appellati agli inglesi nel 1947 e questa fu l’epoca delle stragi militari organizzate per eliminare il generale Ho San, capo della rivolta contro i giapponesi, che morì il 19 luglio del 1947 prima dell’indipendenza e voi forse conoscete sua figlia Ho San Fu Shi, che ha ricevuto il premio Nobel nel 1991. Dopo l’indipendenza, il 4 gennaio 1948, il governo birmano decise di darsi un ordinamento democratico e di eleggere un parlamento, così iniziarono le lotte interne. 51 Nel 1962 ci fu un colpo di stato e la dittatura dura da 37 anni fino ad oggi: io posso dire di essere nato e cresciuto sotto la dittatura. Non è stato e facile. Nel 1967 gli studenti dell’università si organizzarono per lottare contro la dittatura, ma il governo fece mettere una bomba nell’aula dell’università che ha ucciso tantissimi ragazzi. La comunità internazionale non è intervenuta nemmeno nel 1975 quando l’esercito sparò contro una manifestazione di studenti che protestavano contro il regime. In molti hanno lottato in questi anni per ottenere la democrazia, ma il risultato è stato solo la perdita di tante vite. Nel 1988, quando la figlia del generale Ho San è rientrata in Birmania per motivi di salute di sua madre, ha visto tanta ingiustizia in Birmania e ha deciso di non partire, ma di lottare per il suo popolo. Si è battuta per avere elezioni libere insieme a tutti gli studenti che avevano manifestato contro il governo dittatoriale e il governo ha accettato tutto ciò per conservare il proprio credito a livello internazionale. Nel 1990 si sono svolte elezioni democratiche e sono state vinte da Ho San Fu Shi con 396 deputati su 486, ma il governo invece di cedere il posto ha continuato a governare mettendola agli arresti domiciliari e impedendole di incontrarsi con i suoi collaboratori fino ad oggi. Abbiamo gridato tanto per avere la democrazia e nel 1991 il mondo ha assegnato il Nobel per la pace ad Ho San Fu Shi, che non è potuta andare personalmente a ricevere il premio, ma sono dovuti andare i suoi due figli. Anche gli italiani sanno poco sulla Birmania, infatti quando Ho San Fu Shi ha ricevuto il premio Nobel il telegiornale di Rai Uno non ha mostrato nessuna fotografia e non è riuscito a mostrare servizi completi sulla storia della sua vita e sul suo impegno. Userò la mia voce questa mattina per chiedere a ciascuno di voi di gridare con me e in questo modo potrò essere più forte nella mia lotta per la democrazia. Io ho gridato anche in America, anche in Francia, ma la gente sembra approvare al momento quello che dico, poi non si impegna concretamente: spero che voi facciate qualcosa per aiutarci ad ottenere la democrazia e il rispetto dei diritti umani nel mio paese. Un cittadino birmano, per esempio, non può dormire fuori da casa sua: se io voglio restare a dormire a casa di un mio amico devo avere il permesso della polizia altrimenti se mi trovano mi mettono in prigione 52 insieme al padrone della casa che mi ospita. Noi non ci possiamo muovere liberamente neanche all’interno del paese dove viviamo. Il governo ha messo anche il coprifuoco e dopo le nove di sera non si può uscire di casa. Mio fratello faceva il pescatore e una sera è rientrato con la sua barca insieme a quattro suoi amici alle 21:05. Sono stati tutti arrestati per quindici giorni. La dittatura ha paura di tutti, non rispetta neanche i monaci buddisti. Quando nel 1988 gli studenti hanno lottato per avere la democrazia tanti monaci buddisti si sono uniti a loro e il governo ha ucciso non soltanto studenti, ma anche monaci. La dittatura non ha rispetto nemmeno per la religione. Anche il mio grido è pericoloso, se si venisse a sapere che sono qui io non potrei rientrare nella mia patria, tanti sacerdoti sono stati torturati. Ma io non posso rimanere più in silenzio davanti all’ingiustizia che quando ero in Birmania non avevo compreso pienamente perché mancavano del tutto i collegamenti con l’esterno. Quando sono arrivato in Europa i miei occhi si sono aperti, hanno visto, ho capito cosa significa democrazia, cosa vuol dire libertà. In Birmania tutti devono tacere, se qualcuno osa protestare viene ucciso, la soluzione è uccidere, più del 60 per cento delle entrate dello Stato è utilizzato per comprare armi per uccidere i propri figli. Cari fratelli e sorelle io vi voglio chiedere non soltanto preghiere per assistere i birmani, ma anche di fare qualcosa di concreto. Il regime mantiene il mio paese nella povertà, tutti sono molto poveri, ieri sera abbiamo visto un film sui paesi più poveri del mondo e la Birmania è tra questi. Nel mio paese mancano i mezzi di comunicazione, anche la televisione ha un solo canale attraverso il quale la dittatura trasmette i suoi programmi e nessuno può esprimere la propria opinione. I contadini non lavorano con mezzi moderni, hanno solo le mucche e le loro mani e tutti devono lavorare per la dittatura. Quando i contadini raccolgono il riso è obbligatorio vendere il raccolto al governo che lo paga poco, nessuno può vendere liberamente e significa che tutti diventano operai della dittatura e nessuno è padrone della propria terra. I contadini coltivano riso e mangiano riso a colazione, a pranzo e a cena. Nel periodo della mietitura spesso i topi escono per mangiare il riso, quando ci sono i topi i serpenti velenosi escono per mangiare i topi e molte volte i contadini muoiono a causa dei morsi dei serpenti velenosi perché per raggiungere l’ospedale sono necessarie cinque o sei ore di viaggio e chi non ha soldi non può farsi curare perché l’assistenza è a 53 pagamento. I contadini non hanno soldi e non godono nemmeno del diritto alla salute perché i medici non vogliono andare nei villaggi dove i contadini non possono pagare. Tante persone muoiono per cause banali e questo mi fa soffrire molto. Due anni e mezzo fa io ho perso mia mamma per uno stupido incidente in camera operatoria, doveva operarsi di cataratta ed è morta perché il regime è corrotto e il medico che l’ha operata si trovava lì, come tanti altri, perché figlio di qualcuno non perché bravo e competente, in Europa non si muore di cataratta. Io prego per loro perché la vita è preziosa, appartiene a Dio e nessuno può togliere la vita al suo prossimo, anche la dittatura non può andare contro questa legge. Queste gravi ingiustizie provocate dalla dittatura esistono in tanti paesi dell’Asia: sarebbe bello che tutte le nazioni a livello internazionale si muovessero per ottenere democrazia, diritti umani, la pace. Tra le tante ingiustizie che sono costretti a subire i contadini in Birmania c’è quella del cambio delle banconote e quindi del valore del denaro. È già successo più di cinque o sei volte: i contadini con grandi sacrifici riescono ad accumulare qualche risparmio per garantire un futuro ai propri figli e improvvisamente si cambia il corso delle banconote, i risparmi non valgono più nulla e si deve ricominciare tutto da capo. Se si facesse così in Italia il governo sarebbe subito rovesciato. In Birmania non è cosi perché nessuno può gridare, perché quando qualcuno grida il regime uccide. Spesso interi villaggi che lottano per la democrazia sono trasferiti, la popolazione intera deve lasciare le proprie case e ricominciare tutto dal nulla, non si può portare via niente, neppure le ossa dei propri cari. L’ingiustizia è grande e io di fronte all’ingiustizia non posso rimanere indifferente. Tante persone non sanno che io da piccolo ho incominciato a lavorare, nella mia famiglia siamo dodici fratelli e a sette anni ho iniziato a lavorare. Dovevo alzarmi alle quattro del mattino per andare pescare nel fiume, poi vendevo al mercato il pesce per guadagnarmi pane e poi andavo a scuola. Voi dovete ringraziare Dio perché per voi non è necessario lavorare da bambini, io ringrazio Dio perché ho imparato qual è il valore dello studio e sono arrivato fino all’università. In questo momento tanti ragazzi continuano a lottare per vivere, devono lavorare a sette anni per aiutare i genitori, a dodici anni sanno già 54 cucinare mentre i genitori lavorano, per andare a scuola devono percorrere cinque o sei chilometri a piedi e gli studi non sono obbligatori, al governo dittatore fa piacere che non si vada a scuola, è più facile governare nell’ignoranza. Io non voglio rimanere in Italia perché voglio tornare con il mio popolo, sono qui come studente perché se il governo sapesse quello che qui ho detto mi caccerebbe. Se volete aiutare i bambini birmani con adozioni a distanza vi posso dare delle indicazioni, aiutateli perché sono costretti a subire tante ingiustizie. Se volete venire nel mio paese dovete pagare solo il biglietto aereo perché la gente è molto ospitale, così avrete modo di vedere e conoscere la nostra realtà. Siamo figli dell’unico Padre, non conta in quale paese noi nasciamo, noi dobbiamo avere tutti gli stessi diritti e non possiamo rimanere indifferenti di fronte all’ingiustizia. Vorrei concludere raccontando la mia esperienza personale. Io non sono fuggito dalla mia patria, non era questa la mia intenzione, ma ho obbedito al mio vescovo che mi ha mandato prima a Parigi e poi a Roma per approfondire i miei studi. Prima di partire mio padre mi ha pregato di chiedere al vescovo di non farmi uscire dalla mia patria. Io gli ho risposto che dovevo obbedire, ho quindi accettato e mio padre mi ha detto: «Se tu te ne vai, quando ritornerai non mi troverai più». Mio padre è morto nel 1992 quando io studiavo a Roma, non sono potuto rientrare nella mia patria perché la dittatura militare chiede tanti documenti e io non sono riuscito a procurarmeli in tempo perché la notizia è arrivata troppo tardi. Io avrei tante cose ancora da raccontare, ma io sono una goccia d’acqua e una goccia d’acqua sotto il sole scompare subito, tante gocce se si uniscono possono fare un mare. Io vi invito, quindi, a venire nel mio paese e a vedere con i vostri occhi, a sentire con le vostre orecchie perché i paesi europei conoscono troppo poco i paesi asiatici. 55 ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Chodup Tsering lama coordinatore del Centro Studi Tibetani Rabten Ghe Pel Ling La mattinata di oggi è stata per me davvero pesante, ho ascoltato le storie di diversi paesi del mondo, storie di sofferenza, di distruzione, di genocidio, ne sono stato coinvolto perché il mio paese ha una vicenda simile e io stesso ho provato la sofferenza sulla mia pelle. Al convegno dell’anno scorso partecipò Karma Chukey, vicepresidente della comunità degli esuli tibetani in Italia, una mia amica che portò la sua testimonianza sul Tibet e sulla resistenza del popolo tibetano contro l’occupazione cinese. Anche io sono qui oggi per testimoniare la nostra sofferenza nel vostro mondo dove le possibilità di comunicazione sono migliori e dove la stampa fornisce più notizie. D’altra parte il mondo sta diventando ogni giorno sempre più piccolo e anche il Tibet non è più isolato come una volta, lo si può raggiungere in nove o dieci ore di volo. Quella che voglio raccontarvi è la mia esperienza di profugo, la mia fuga, la mia sofferenza psicologica causata dall’invasione, l’abbandono forzato non solo della patria, ma anche della casa e di tutto ciò che è legato alla propria vita. Io avevo 6 anni quando abbiamo visto la nostra vita minacciata e abbiamo dovuto fuggire abbandonando tutto. In Tibet siamo quasi tutti pastori nomadi e contadini, io mi ricordo che in una bella giornata con mio fratello stavo custodendo degli agnellini, dei capretti e dei piccoli yak della nostra famiglia perché i bambini danno il loro contributo al lavoro domestico fino dal momento in cui imparano a camminare. Verso le due di pomeriggio la tranquillità fu interrotta da urla provenienti dalla montagna, poi un gruppo di persone si avvicinò correndo spaventato verso la nostra abitazione, i miei genitori uscirono dalla tenda, ci gridavano di scappare, ma non capivamo cosa stesse succedendo. Quello fu il momento in cui lasciammo tutto quello che possedevamo. Cominciammo a scappare insieme con i nostri genitori, era notte, ma non avevamo paura, ci sembrava un gioco oppure che stessimo andando a fare visita a dei parenti dall’altra parte della montagna. Ma quando alla luce del mattino vidi degli estranei armati di fucile che 56 occupavano la nostra tenda e si erano impadroniti del nostro bestiame provai una sensazione strana, di fastidio, capii cosa significa occupazione e subimmo la prepotenza di vederci portare via dalle mani i nostri giocattoli preferiti. Quella sensazione si trasformò in angoscia, divenne una paura incredibile per la quale non ci ricordavamo più della fame e della sete e non sentivamo il freddo, ma sempre con quelle immagini presenti cominciammo a scappare. Dovevamo attraversare le montagne più alte del mondo e camminammo nella neve per tre giorni e tre notti, eravamo cinque fratelli, ma due dei più piccoli non riuscirono a resistere al freddo e alla fame e non ce la fecero. Ricercati dai soldati cinesi impiegammo sette o otto giorni per raggiungere il confine con il Nepal e quindi un territorio sicuro, il cammino era faticoso e non avevamo niente da mangiare. Questa esperienza che portiamo sulla nostra pelle, bene impressa nella nostra mente ha fatto crescere dentro di me grande risentimento e odio fino a quando ho terminato i miei studi all’università. Ho sempre provato un grande odio nei confronti di tutti i cinesi, anche di quelle persone che magari non conoscono neanche dove si trova il Tibet, che non hanno niente a che fare con l’occupazione. Nella città dove ho frequentato l’università il ristorante migliore era quello dei cinesi e a me bastava vedere quel ristorante o un cinese uscire fuori da lì che mi veniva in mente di saltargli addosso. Per fortuna col tempo capendo la situazione del mondo, la sofferenza umana e studiando bene la nostra storia questo tipo di risentimento e di odio sono piano piano diminuiti, soprattutto venendo in Italia, incontrando tanti cinesi e rendendomi conto che molti di loro non sanno neppure cosa sia il Tibet. Mi sono accorto che il mio risentimento era inutile, ci faceva soffrire e poteva rivelarsi distruttivo nei confronti di altri esseri. Nel 1984 e poi nel 1987 sua santità il Dalai Lama ci ha aperto gli occhi, ci ha insegnato il valore della riconciliazione, del perdono della accettazione della realtà Per tante volte avevamo domandato a noi stessi se fosse il caso di perdonarli, di accettare la realtà che avevamo subito, di cercare una riconciliazione a livello individuale e nazionale. Era una domanda difficile per noi tibetani diventata un enigma al quale non trovavamo risposta, ma ognuno di noi ha cercato di capire il valore umano, il valore di quello che ci trovavamo di fronte. 57 Io credo che la resistenza possa essere attuata solo in due modi: o con le armi o in modo pacifico. La resistenza armata non porta a nessun risultato creativo e costruttivo, non si riesce ad ottenere nulla spargendo sangue e uccidendo bambini innocenti. Qualsiasi tipo di resistenza armata porta dolore ai nemici e agli amici. Tanti di noi, come me che sono un rappresentante del Tibet, portano il nostro dolore a voi per cercare la vostra solidarietà, la vostra comprensione, il vostro grido di richiesta di pace e della libertà. Dal 1982 sono qui in Italia, sono il primo responsabile dell’associazione Italia-Tibet, ho partecipato a centinaia di incontri pubblici, abbiamo gridato, abbiamo fatto commuovere la gente, abbiamo cercato di organizzare convegni per illustrare i nostri problemi, abbiamo perfino pianto, ma non abbiamo avuto un grande successo perché voi studenti, voi persone solidali con la questione tibetana e con la sofferenza di tanti paesi asiatici non siete riusciti a fare niente che potesse dare un risultato immediato. Dal 1987-88 la nostra speranza per l’indipendenza, per una vera libertà del popolo tibetano con il ripristino dei diritti umani basilari viene schiacciata, annientata dallo sviluppo economico in Cina. Fino a qualche anno fa almeno qualche governo e qualche politico osavano dire qualche parola contro l’invasione cinese e le continue repressioni psicologiche nei confronti del popolo tibetano, ma tutto questo è diminuito con il tempo, perché ormai tutto il mondo è orientato più verso lo sviluppo economico che non verso il valore dell’umanità e quello che sta accadendo dall’altra parte del mondo ai nostri fratelli e sorelle non interessa. Io ogni tanto guardo la televisione italiana, guardo quando sua santità il Papa parla, celebra la santa messa e seguo con attenzione, non come cattolico, non come un religioso, ma come una persona qualsiasi sperando ogni domenica che sua santità il Papa, affacciandosi da quella santa finestra, si ricordi della sofferenza del popolo tibetano, pronunci una parola a favore del mio popolo, per la sua libertà, contro la continua repressione, ma dal 1982 fino ad oggi io personalmente non ho sentito neanche una sola parola dalla finestra, né durante qualche messa trasmessa da ogni angolo del mondo. Moltissime persone comuni hanno dimostrato solidarietà al popolo tibetano, ma loro non potevano fare nulla, toccava ai politici intervenire perché la loro voce vale quella di centomila persone messe insieme. 58 La mia presenza qui non vuole essere solo una denuncia, perché se dovessi raccontare questi ultimi cinquanta anni di invasione effettiva gli orrori sarebbero sicuramente indicibili e io non voglio spaventare nessuno. Quello che noi abbiamo subito in Tibet nessun giornalista ha mai potuto descriverlo liberamente, perché non era consentito filmare e interrogare la gente sugli effetti e le conseguenze dell’invasione cinese. Quello che vediamo in Tibet in questi ultimi dieci anni è tutta una finzione, è l’immagine di una ricostruzione creata per i turisti, per il motivo economico, ma non c’è nessun atto concreto per ridare la libertà di espressione e di parola al popolo tibetano. Per fare un paragone tra la vostra fortuna e la nostra sfortuna mi viene in mente la situazione degli studenti, dei giovani tibetani. Dopo l’invasione cinese si è verificato un massiccio trasferimento del popolo cinese in Tibet, si tratta di una vera e propria politica di colonizzazione perché attualmente vivono più di otto milioni di cinesi in Tibet contro non più di cinque milioni di tibetani. La legge attualmente in vigore vieta gli alcolici, ma non ai tibetani che possono ubriacarsi e fare tutto quello che vogliono purché stiano buoni e rimangano i più ignoranti, diventino stupidi che non sono in grado di alzare la voce e i pugni contro la repressione costante della Cina. Se andrete in Tibet vedrete che i giovani tibetani hanno perso il loro futuro: dopo anni di carcere e tortura sono lasciati liberi di sfogarsi e fare quello che vogliono e la reazione psicologica è prevedibile. I cinesi lasciano che si stordiscano con l’alcool e le scuole obbligatorie quasi non esistono. I bambini più fortunati possono frequentare la scuola, ma qui sono discriminati, per esempio sono costretti ad uscire dalla classe durante le lezioni d’inglese e delle scienze, perché non possono apprendere materie avanzate che favorirebbero un loro sviluppo. Io ritengo che questo tipo di discriminazione sia più grave che la distruzione di un tempio, perché il futuro del Tibet e il futuro del mondo è in mano ai giovani. Quando i tibetani si ammalano vanno all’ospedale, ma i cinesi hanno istituito ospedali divisi in due parti e c’è una grande differenza tra l’ala assegnata ai cinesi e quella dove ricevono assistenza i tibetani. I medici più preparati e l’assistenza migliore sono riservati alla prima categoria di cittadini, cioè i cinesi, mentre i tibetani sono diventati cittadini di seconda categoria nel loro stesso paese. Questo è un semplice esempio di quello che oggi avviene in Tibet, quindi non è una storia vecchia di quaranta anni fa. 59 All’inizio dell’occupazione c’è stata quella che loro hanno chiamato rivoluzione culturale e che ha causato la distruzione di più di ottomila monasteri e monumenti storici e l’uccisione di un milione e mezzo di persone, ma di questo ormai non si ricorda più nessuno e quasi nessuno potrebbe immaginare che ci possa essere stata una distruzione così grave sul tetto del mondo. Quello che sta accadendo ancora oggi in Tibet è ancora più grave alla fine del XX secolo, all’alba del terzo millennio e noi dobbiamo cercare di assumere un atteggiamento mentale diverso, dobbiamo cercare la riconciliazione, dobbiamo trovare una soluzione per ridare almeno parità e uguaglianza a tutti i cittadini. Sua santità il Dalai Lama da qualche anno sta cercando una soluzione pacifica con la Cina e la sua proposta comprende una vera e propria autonomia della gestione interna anche se sotto il dominio cinese e la possibilità per i tibetani di mantenere la propria identità culturale, di riuscire a salvare la propria cultura, la tradizione, il futuro ma soprattutto la ricchezza spirituale, che è diventata lo stimolo della sopravvivenza del popolo tibetano. I cinesi hanno sempre promesso, da parte di Pechino non è mai mancata una risposta positiva, la disponibilità ad un compromesso che comportasse vantaggi sia per il Tibet e i tibetani, che per la Cina e i cinesi. Il Dalai Lama da parte sua si è sempre dichiarato favorevole ad accettare le condizioni pur di giungere a una conclusione che non prevedesse spargimento di sangue, non ha chiesto l’indipendenza per il Tibet, ma maggior pace e sicurezza. Nonostante le premesse, l’accordo finora non si è concretizzato an,che perché viene chiesto al Dalai Lama di dichiarare al mondo che il Tibet è sempre stato parte della Cina, ma il Dalai Lama non può mentire, anche se può accettare determinate circostanze non può alterare la realtà storica. Siccome il mio intervento doveva essere breve non ho affrontato questioni più strettamente legate alla cultura del mio paese, ma mi sono limitato a descrivervi in parte la questione tibetana. A voi chiedo solamente di stare al nostro fianco e di aiutarci ad avere giustizia. La mia speranza è che nel terzo millennio possiamo vivere in un mondo di pace e di serenità dove non ci siano confini, né invasioni e dove non sentiremo più la parola della prepotenza, ma solo il linguaggio della pace e della fratellanza. 60 ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Youssef Wakkas scrittore siriano Prima di rendere la mia testimonianza, ritengo opportuno presentarmi. Sono di nazionalità siriana. Mi trovo meritevolmente in carcere dal 1992 per traffico di sostanze stupefacenti. Oggi, grazie all’invito degli organizzatori di questo convegno, mi viene offerta l’occasione di raccontarvi la mia esperienza come carcerato e come scrittore immigrato. Non vi è dubbio che siamo diversi e che ciascuno di noi ha una cultura diversa dalle altre, ma anche se un gruppo etnico tende a conservare gli aspetti e gli elementi fondamentali delle proprie tradizioni e delle proprie usanze, ciò non toglie che tutti quanti abbiamo radici comuni tra noi. Studiando i raggruppamenti linguistici si riesce a comprendere meglio la nostra storia ed il passato comune che ci unisce. Bianchi, gialli, neri: tutti mangiano, respirano l’aria e provano gli stessi sentimenti, soltanto delle incomprensioni spesso li mettono faccia a faccia con l’educazione che hanno ricevuto da piccoli nella loro società e così spesso una minoranza viene guardata con una certa diffidenza da una maggioranza, come se fossero degli elementi stonati che inquinano la bellezza e l’armonia del loro ambiente. L’estraneo è stato sempre sinonimo d’incognita e se aggiungiamo a questo i nostri pregiudizi possiamo in pochi giorni riempire le piazze delle città di infami e costruire processi contro presunti untori. Il mio non è un tentativo di analizzare una certa psicologia, quella dell’immigrato delinquente o un certo ambiente, il carcere, bensì è un viaggio irregolare tra donne e uomini che parlano diverse lingue, praticano diverse religioni e nel cuore hanno tutti un unico sentimento: convivere pacificamente uno con l’altro. Questo concetto fantasioso sicuramente non ha la forza magica di cambiare il mondo da un giorno all’altro, ma suggerisce una certa soluzione, almeno contemplativa, come diceva mio nonno quando ci mettevano a discutere della spinosa questione mediorientale, nella quale speranza e sangue si mescolano da mezzo secolo per dare volto ad una pace che interpreta non soltanto la volontà di Dio, ma anche dei popoli che vivono in quella terra martoriata. E una contemplazione ravvicinata di questa realtà ci mostra che sia in 61 passato e sia in tempo recente il fenomeno immigratorio spesso è stato strumentalizzato al punto da presentarlo come la causa principale di tutti i mali che affliggono le società moderne. Allora, come conseguenza logica, certi comportamenti distorti riportano a galla addirittura antichi pregiudizi che trovano nel diverso il debole, la vittima predestinata per sfogare la propria indignazione. L’incomprensione e il disorientamento non fomentano solo l’odio, ma spingono l’individuo a compiere atti di violenza, individuando nell’estraneo una minaccia pericolosa alla propria società, alle sue usanze, alla sua stessa esistenza. Ma quali sono le cause di questo atteggiamento? Si sa che le minoranze, in tutte le società, non hanno mai avuto una vita facile e la loro diversità è stata quasi sempre il perno attorno a cui giravano gli atti di violenza, di discriminazione razziale e intolleranza. È facile quindi immaginare come dietro a queste reazioni si nascondano tanti fattori psicologici che vanno dai semplici sentimenti di antipatia fino al fanatismo che tende ad annullare gli altri per fare spazio ad idee ormai consunte come il nazionalismo e la superiorità razziale o militare. La guerre infinite nei Balcani sono per esempio solo la punta di questo gigantesco iceberg. Dal punto di vista della realtà psicologica degli immigrati giudizi frettolosi e mancanza di riflessione approfondita spesso sottraggono loro il diritto ad esprimersi liberamente. La prima reazione dell’immigrato davanti all’ostilità della società accogliente è quella di nascondere i propri sentimenti dietro un largo sorriso e di parlare come la mammina di Rossella di Via col vento per strappare qualche sorriso agli altri. Tra le vie della metropoli, camminando con la borsa a tracolla, si pensa soltanto alla casa sotto il cui tetto riposarsi: un sogno miserabile contro la rabbia che non vuole svanire. A parte gli immigrati regolari, esistono anche quelli che non hanno avuto gli estremi per costruire un rapporto amichevole con la società accogliente, cioè gli immigrati delinquenti, di cui il sottoscritto faceva parte fino a poco tempo fa. Non vorrei addentrarmi in dettagli inutili, ma vorrei iniziare subito raccontando un piccolo episodio che mi è accaduto all’inizio della mia carcerazione e che, almeno in parte, può spiegare come stanno veramente le cose all’interno di quella comunità di carcerati stranieri che, secondo le ultime statistiche del ministero dell’Interno, conta ben dodicimila unità 62 di diversa provenienza ciascuno dei quali ha dietro le spalle storie tragicomiche che nemmeno il grande Mario Merola sarebbe in grado di immaginare. Il mio compagno di cella era un picciotto che apparteneva ad una delle tante organizzazioni criminali che controllano l’hinterland milanese. Lo scontro tra noi ebbe inizio fin dal primo giorno. Egli credeva fermamente che fossi inferiore a lui e non gli andava proprio giù il mio atteggiamento spigliato. Pretendeva di stabilire una gerarchia in cui ovviamente lui sarebbe stato il boss e io lo scagnozzo che avrebbe dovuto portargli il caffè a letto, pulire la cella e vestirsi decentemente, cioè pantaloni, camicia con maniche lunghe abbottonata fino al collo anche durante il mese di agosto, scarpe lucide e calze bianche. Una mattina, di punto in bianco, cercando un appiglio per attaccare lite, riconobbe in me la persona che, non si sa in quale circostanza, l’aveva offeso. Un episodio che, secondo lui, era accaduto nel carcere di San Vittore nel 1990. «Ma se a quell’epoca non ero ancora in carcere, come avrei potuto offenderti?» risposi io preparandomi alla battaglia. Egli, colpito dalla forza di questa verità, replicò con stizza: «Allora è stato un tuo paesano!». La storia del lupo e dell’agnello in una sua versione autentica si stava svolgendo sotto gli occhi probabilmente soddisfatti di Fedro. Non so come descrivere ciò che ho provato in quel momento, potrei soltanto dire che ho passato istanti terribili. L’uomo, quando si trova davanti all’interrogativo cruciale: o io o lui, diventa estremamente stupido, non vede niente e la paura lo spinge a reagire in un modo del tutto imprevedibile. In quell’attimo, a parte gli sgabelli, volavano nell’aria anche parole grosse che mettevano in evidenza in nostri sentimenti carichi di odio e di disprezzo l’uno verso l’altro. In seguito, riappacificati dal boss che comandava la sezione, entrambi ci siamo chiesti se quei pregiudizi fossero veri e se ci conoscevamo bene veramente. Lui aveva un’idea vaga degli arabi, basata prevalentemente su frammenti d’informazioni captati qua e là che gli descrivevano dei beduini ignoranti arricchiti dal petrolio. Invece io provavo un’ostilità irriducibile contro tutto ciò che è occidentale, perché la mia memoria era zeppa di eventi negativi a partire dalla spedizione di Lawrence d’Arabia fino alla sconfitta umiliante della Guerra dei sei giorni nel 1967 e l’appoggio incondizionato dei paesi occidentali allo stato ebraico. In pratica, 63 con un piccolo sforzo scoprimmo che né io né lui avevamo un’idea chiara l’uno dell’altro. La debolezza e l’incomprensione reciproca spesso giocano un ruolo decisivo nel determinare le nostre azioni anche se, alla fine, ce ne vergogniamo. Ma allora perché lo facciamo e quale demone ci spinge a sentenziare giudizi e a discriminare un altro popolo soltanto per sentito dire? E non sono forse gli stessi giudizi che hanno subito gli italiani all’estero all’inizio di questo secolo? Il presente evoca immancabilmente il passato: valigie legate con lo spago, immagini dei santi stretti al petto e la mappatella sulla testa. Quelli erano uomini e donne che parlavano italiano, questi che vediamo oggi sugli schermi della tv sono uomini e donne che parlano curdo, albanese, arabo, cinese, indù, eccetera. Allora dov’è la differenza? In realtà non c’è alcuna differenza perché è provato che anche se abbiamo diverso colore di pelle e parliamo diverse lingue, tutti quanti siamo uguali e, secondo le nostre stesse leggi, almeno in teoria dobbiamo avere gli stessi diritti. Io non so con quale spirito dobbiamo varcare la soglia del terzo millennio, né tanto meno come sarà il nostro futuro. Non sono un esperto in materia però visto che maghi, veggenti, astrologi e ciarlatani di ogni tipo esprimono i loro pareri catastrofici con una disinvoltura impressionante, non vedo il motivo per cui non possa farlo anch’io. Dato che sono ottimista di natura direi che il nostro futuro sarà quasi roseo se i paesi occidentali smetteranno di essere egoisti e avranno il buon senso di tramutare il colonialismo economico, che è stato la logica conseguenza di quello militare, in una cooperazione seria a tutti i livelli mettendo un po’ da parte i propri interessi economici e territoriali e, soprattutto, avendo un concetto chiaro del mondo che vogliamo lasciare alle generazioni future. Senza una politica equa, senza un piano Marshall globale, il flusso degli immigrati non cesserà mai e le conseguenze sono davanti agli occhi di tutti. Questi individui che si trovano all’improvviso assoggettati a leggi e regolamenti totalmente estranei a loro davanti a certi comportamenti poco ortodossi nei loro confronti potrebbero perfino spingersi a disprezzare se stessi, a sentirsi veramente inferiori all’interno della società accogliente com’è successo agli afro-americani secoli fa con risultati a dir poco catastrofici. A questo punto, malgrado la stima delle nostre qualità di esseri intelli- 64 genti e razionali, ci viene da chiederci se veramente siamo all’altezza delle nostre aspirazioni. Senz’altro il problema è ancora più profondo e molto più complicato di quanto si possa immaginare, ma non è mai tardi per rimediare e ai paesi occidentali, che in passato hanno pagato un prezzo altissimo a causa di concetti ideologici-razziali, tocca un ruolo importante. Anzi, data la ricchezza di cui godono e la loro influenza internazionale, questo ruolo, dal mio punto di vista, potrebbe essere determinante nel processo lento e tortuoso che tende a diffondere i principi della libertà e della democrazia tra i popoli che per un motivo o per l’altro non hanno ancora potuto raggiungere questo traguardo importantissimo per gettare le fondamenta del progresso sociale, economico e politico. La globalizzazione del mercato nel modo in cui è pianificata dai paesi occidentali ci offre più di uno scenario del prossimo futuro, ma io dubito che la sua estensione sia limitata al settore economico. Con l’economia viaggiano anche le persone e, immancabilmente, queste saranno seguite dalla loro cultura e dalle loro tradizioni. Mostra questo processo il conflitto attuale tra le diverse culture orientali e quella italiana o, in termini ancora più vasti, tra occidente ed oriente, in modo particolare con la cultura araba legata strettamente con la religione mussulmana. Le fasi che contraddistingueranno questo conflitto si potrebbero assumere in tre tappe obbligatorie: l’incontro, lo scontro e infine il dialogo. Per il momento questo conflitto si è fermato sulla seconda tappa, cioè lo scontro e con tutta probabilità l’esito di questo scontro, sarà determinante per delineare il modo e l’andamento del dialogo tra le due parti in questione. Non mancheranno le polemiche né le tentazioni di soffocare questo dialogo o addirittura di ostacolarlo con atti di violenza. La posta in gioco, economica ovviamente, è troppo elevata e non sarà molto facile far prevalere il buon senso sulla competizione feroce tra le tante multinazionali che lottano tra di loro per dominare il mercato mondiale. Il ritorno del diverso è proprio del ciclo geopolitico, la speranza grandiosa è quella di unire tutta l’umanità sotto una tenda in una specie di ritiro spirituale prima di riprendere il viaggio, ma sembra un sogno lontano. Noi, dopo tutto, siamo ancora prigionieri delle tentazioni della nostra debolezza etica e morale come dimostrano tanti incubi che oggi dominano la nostra vita culturale. I libri e i giornali che leggiamo, i film che guardiamo, gli arsenali militari zeppi di armi nucleari, l’inquinamento atmosferico, tutti quanti all’uni- 65 sono ci avvertono che la nostra fine è imminente e naturalmente sarà tragica tanto per non smentire i predicatori che sudano sette camicie per annunciare la salvezza finale. Il nostro umore a causa di questi pericoli imminenti è diventato estremamente vacillante, in pochi minuti sono passato dall’ottimismo al pessimismo e viceversa, ma che cosa si nasconde dietro questa instabilità psicologica della massa? Tempo fa, scrissi al signor Ferruccio De Bortoli, direttore responsabile del Corriere della Sera ed egli mi rispose con un abbonamento gratuito al suo giornale come per dire: ora la metteremo alla prova e guai se il suo intelletto non sarà all’altezza della nostra fiducia. Tutti i giorni quando mi consegnano il giornale dopo le tredici mi metto a leggerlo dalla a alla zeta inclusi gli annunci pubblicitari. Non so perché, ma sento che tutta la mia questione esistenziale, inclusi ovviamente l’integrazione e l’inserimento sociale a dirlo con le parole dei burocrati, dipende dalla lettura di quel giornale, vivo con la paura di essere bocciato da un momento all’altro e soltanto il pensiero di questo esito triste mi manda in paranoia. Immaginate che un giorno mi si presentasse il direttore, come ha fatto recentemente in un incubo, e mi chiedesse così a bruciapelo: «Allora, signor Wakkas, le è piaciuta la pubblicità dell’ultima pagina del 4 settembre 1999?» «Sì signore, mi è piaciuta tanto» risponderei prontamente. Poi per mostrargli quanto sono attendibile reciterei a memoria anche il testo di supporto: «Sono tornato più sottilmente crudele che mai, il silenzio si riempie di grida e lamenti mentre nelle stanze della mia mente si aprono abissi senza luce ora dovrai affrontarli, perché Hannibal è molto, molto vicino». Sì, per chi non lo sa, Hannibal, detto erroneamente il cannibale, è molto vicino a noi, anzi, vive dentro di noi perché egli è il prodotto originale dei misfatti che abbiamo compiuto con successo e ostinazione immancabile durante i secoli passati. Per concludere non ho trovato niente di più adatto delle parole di Aldo Carpi, che nel 1941 è stato deportato dai nazisti in un campo di sterminio con l’accusa di aver compiuto atti di umanità: «Entri in voi la gioia e la certezza di un tempo migliore. Forse non è lontano, non osiamo sperarlo né attaccarci alla speranza, è meglio continuare come se non fosse così sarà meglio ritrovarci tutti là dove siamo partiti e riprendere insieme la via, una famiglia la nostra che deve arrivare alla conclusione del suo, nostro, loro sforzo, una meta per tutti ed una per ciascuno. Vedo qui che se solo si conoscesse la lingua dell’altro si troverebbe subito rispon- 66 denza, affiatamento e rispetto, si sentirebbe subito la fraternità umana, che il riso sia mongolico o latino». ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Luca Carra giornalista Sono stato in Cambogia nel marzo scorso e ho girato il paese. La Cambogia è un paese molto interessante, molto bello, ma è soprattutto un esperimento che le persone che lì vivono stanno compiendo sotto gli occhi dell’opinione internazionale ed è l’esempio, insieme con altri posti sventurati, di come la guerra, intesa non come guerra classica tipo la prima guerra mondiale, ma la guerra contemporanea possa distruggere il tessuto sociale di una nazione, possa riportare indietro di secoli il livello culturale di un popolo, possa far tornare analfabeti i ragazzi e, soprattutto, possa causare conseguenze sociali e sanitarie devastanti. La guerra moderna si caratterizza e si distingue da tutte le guerre del passato, culminate nel grande macello della seconda guerra mondiale, perché viene combattuta prevalentemente contro le popolazioni civili. Non sono più eserciti che si scontrano, ma viene utilizzata l’uccisione della popolazione civile come mezzo bellico. Il 90 per cento delle vittime delle guerre mondiali sono civili. Questo nuovo modo di combattere, che si è andato imponendo nella guerra mondiale, attraverso l’uso delle mine antiuomo e di mezzi di distruzione che purtroppo non terminano la loro azione quando la guerra si conclude con un armistizio o con una pace e con il riconoscimento di un vinto e di un vincitore continua a volte in maniera più subdola e altrettanto negativa in lunghissimi dopoguerra e quello della Cambogia è il dopoguerra più lungo che ci sia stato La Cambogia è un piccolo paese incuneato tra la Tailandia, il Laos e il Vietnam. È un paese fluviale, ci sono molte baracche su palafitte lungo le sponde dei fiumi e per il resto è risaia. La guerra ha distrutto questo paese, ma la vita e le attività economiche stanno riprendendo. C’è anche una ripresa della vita religiosa che per molti anni è stata oppressa dal regime dei Khmer rossi, che ha dominato la vita della Cambogia dal 1975 al 1979. Ora questa vita, non solo sotto gli aspetti economici e sociali, ma anche religiosa (il Buddismo è molto sentito in Cambogia) sta riprendendo. 67 Girando la Cambogia, come in moltissimi altri paesi, si vedono moltissimi mutilati a causa delle mine antiuomo, che ad anni di distanza dalla conclusione della guerriglia tra Khmer rossi e Vietnamiti colpiscono ancora. È un’eredità che la guerra lascia nei decenni successivi a tutta la popolazione civile, tanto più che durante il regime dei Khmer rossi era stata sospesa anche l’assistenza medica di base. Purtroppo le conseguenze della guerra non sono solo sociali ed economiche, ma anche sanitarie con il diffondersi della malaria, dell’Aids, di molte malattie infettive e con la distruzione sistematica dei luoghi di cura e degli ospedali. Gli orfani sono moltissimi e vivono in comunità sostenute da molte organizzazioni internazionali, alcune delle quali anche italiane ed è possibile aiutarli con il sistema delle adozioni a distanza. Mine, malattie, bambini senza genitori sono ulteriori conseguenze della guerra. Si incontrano templi con raffigurazioni induiste e buddiste costruiti dal 900 al 1300 dopo Cristo quando la Cambogia era un regno, il regno Khmer, che dominava tutta la regione e che esprimeva una grandiosità politico-militare enorme, di pregnante significato per ogni guerra perché questi stupendi siti monumentali, che ancora oggi vengono visitati da milioni di turisti, esprimono una potenza e una grandezza che tutti i regimi successivi hanno usato a scopo ideologico e propagandistico. Tutti i regimi, a partire da quello più efferato dei Khmer rossi nella metà degli anni ‘70, ma anche prima e dopo, si sono richiamati al grande impero Khmer, a queste costruzioni, all’imperialismo che fu attivo intorno all’anno mille, come un modello a cui riferirsi, da cercare di recuperare e da imporre a tutto il sud-est asiatico. Questo senso di grandezza e di superiorità è la base del razzismo presente anche in Asia, non solo in Europa e in America. Il razzismo in Asia è un problema enorme; in Cambogia convivono cambogiani, vietnamiti, cinesi e, per lunghi anni, vietnamiti e cinesi si sono dovuti nascondere perché, se scoperti, venivano uccisi immediatamente. Lo stesso problema esiste in Tibet e in Birmania. È un razzismo fortissimo, radicato in secoli di storia, che alimenta poi per buona parte le guerre, che naturalmente vengono manipolate e monopolizzate dalle grandi potenze per scopi economici o di altro genere ed è una delle ragioni alla radice dei conflitti. Ho visitato una scuola che all’avvento del regime totalitario e spietato era stata evacuata, chiusa e cintata con un muro che nascondeva l’interno e trasformata in un carce- 68 re. In quattro anni di regime da questa scuola, da questo campo di concentramento sono passati e qui sono stati uccisi ventimila oppositori politici; penso se ne siano salvati sette. Nel giro turistico di Phnon Penh è stata inclusa anche questa terribile visita, durante la quale ho letto un cartello su cui è scritto che non bisogna urlare quando si viene torturati e qui venivano eseguite torture che superano qualsiasi immaginazione. Ventimila oppositori politici, veri o presunti, sono stati uccisi dopo essere stati costretti a confessare colpe assolutamente false, tipo di essere agenti della Cia mandati in Cambogia per sovvertire il regime. Nei quattro anni di regime comunista asiatico, che ha unito aspetti cinesi e vietnamiti, sono state uccise due milioni di persone, uno sterminio di cui la comunità internazionale chiede ragione con l’istituzione di un tribunale penale internazionale. Molto brevemente vorrei raccontarvi un po’ di storia cambogiana fino ad arrivare ai problemi di oggi. Prima del regime dei Khmer rossi per alcuni secoli la Cambogia è stata una colonia francese. Nel 1954 ha ottenuto l’indipendenza, poi è iniziata la lunga guerra dell’Indocina con i francesi e con gli americani con l’intervento in Vietnam. La Cambogia ha cominciato a soffrire le prime sferzate della guerra proprio come conseguenza del Vietnam: i B52 americani hanno scaricato qui la bellezza di 257mila tonnellate di bombe rendendo in sostanza indisponibili le risaie, riducendo il terreno agricolo da sei milioni a un milione di acri, producendo miseria, malnutrizione, carestia. Durante questo periodo era al potere un uomo della Cia, un uomo degli americani, che ha governato con pugno di ferro perseguitando l’opposizione comunista allora molto forte nel paese e collegata con il comunismo vietnamita. Nel 1975, a seguito della guerra del Vietnam, i Khmer rossi hanno preso il potere. I capi, tra cui Pol Pot, avevano studiato in Europa ed hanno creato, dopo aver subito terribili persecuzioni negli anni precedenti, una forma di comunismo sintesi poco felice del comunismo dogmatico francese dell’epoca, ossia dello stalinismo degli anni ‘40 e ‘50, che si è unito in una miscela esplosiva con il maoismo e il comunismo vietnamita. Il centro dell’ideologia dei Khmer rossi era dare forza ai veri protagonisti della Cambogia, gli agricoltori e i contadini perché l’80 per cento della popolazione svolgeva lavori agricoli. Come in un film grottesco, il giorno stesso in cui i Khmer rossi sono entrati a Phnon Penh, la città coloniale con il suo fascino e con un milione e mez- 69 zo di persone è stata svuotata completamente. Il regime ha diffuso la voce che gli americani avrebbero bombardato la città e bisognava fuggire; tutta la popolazione della città è stata deportata nelle campagne, sono state create comuni agricole e si è puntato tutto sulla produzione. Altro capo saldo della politica dei Khmer rossi è stata l’eliminazione del ceto intellettuale e tecnico del paese: medici, ingegneri, maestri di scuola sono stati sterminati. Senza una classe di tecnici il paese non poteva raggiungere gli obbiettivi di crescita economica e di autarchia proposti perché, ovviamente, la Cambogia si chiuse al resto del mondo. C’è stato un crollo della produzione agricola, la vita nelle comuni era pesantissima, tutto veniva messo in comune, collettivizzato, il marito veniva diviso dalla moglie e dai bambini, ognuno lavorava in reparti diversi, si è distrutta la vita familiare, perché la famiglia era intesa come un’istituzione controrivoluzionaria, come la religione. Il tutto ha portato ad un collasso culturale, economico e sociale del paese di proporzioni enormi di fronte al quale i dirigenti dei Khmer rossi non sono riusciti a fare autocritica, non hanno ammesso i loro sbagli, non hanno tentato di correggersi, anche perché erano in guerra con il resto del mondo. Hanno così trovato una via di fuga, una soluzione che molto spesso i regimi totalitari trovano, ossia un colpevole, un capro espiatorio. La polizia e l’esercito sono andati di villaggio in villaggio identificando persone che per aspetti talvolta anche irrilevanti della loro condotta potevano essere sospettate; venivano portate in campi di concentramento e torturate fino a quando non avevano un cedimento confessando prima di tutto di essere spie del nemico che voleva portare alla rovina la Cambogia e poi, prima di essere uccisi, rivelando almeno dieci nomi di familiari e di parenti accusandoli di attività sovversiva. A questo punto il cerchio si chiudeva, il meccanismo era perfetto, le persone venivano arrestate, tradotte nei campi di concentramento, torturate, davano altri nomi e poi venivano uccise. In questo modo sono stati cancellati due milioni di individui. Il regime è durato fino al 1979, poi l’esercito vietnamita ha invaso la Cambogia. Il regime vietnamita è durato dieci anni, un regime non democratico, molto duro con l’opposizione. I Khmer rossi non si sono arresi, si sono rifugiati nelle foreste, ai confini del paese e la guerriglia è continuata, una guerra in forma minore e a bassa intensità per dieci anni durante i quali ci sono stati profughi, sono state seminate mine. Dal 1989 con le libere elezioni in Vietnam controllare dall’Onu è iniziata una transizione molto difficile verso la democrazia. 70 Eredità di questa storia tragica sono cinque milioni di mine (è il paese con il maggior numero di mine nel mondo), una vittima ogni duecentotrenta persone. Ci sono problemi di malnutrizione, di malattie malcurate, ma soprattutto ci sono due milioni di profughi. Il problema dei profughi non è dato solo da persone che si allontanano per andare in grandi campi di raccolta dove poi scoppiano epidemie perché è difficile mantenere la situazione sanitaria sotto controllo, ma anche dalla quantità e dai tempi in cui i profughi rientrano. Tornano in un paese minato, non c’è più il posto per piantare la propria palafitta per cui bisogna bruciare le foreste, a volte di legno pregiato tipo tek, per far posto a nuovi insediamenti, per avere nuovi campi, nuove risaie, ma anche per mettere allo scoperto eventuali mine. Tutti i terreni intorno alle scuole e alle palafitte sono stati minati, quindi succede che i bambini o la famiglia tornata ad insediarsi nel paese e a ricominciare la propria attività, un bel giorno saltino in aria. Certamente la situazione delle vittime delle mine è migliorata in questi anni, ma il rientro dei profughi riacutizza la situazione. Un’altra ripercussione negativa e molto pesante, non solo dal punto di vista economico e sanitario di questo lunghissimo dopoguerra che dura ormai da vent’anni è che tutte le armi leggere non sono state ritirate, ma sono rimaste nelle mani dei civili con la conseguenza che il 50 per cento dei feriti sono persone che si sparano tra di loro. Il problema delle mine, degli scontri a fuoco, della malnutrizione, delle malattie infettive mostrano come in questi posti il dopoguerra sia una situazione ancora più velenosa e critica della guerra stessa. Oggi incomincia comunque a migliorare, tanto che un turista può girare con una certa tranquillità in Cambogia tralasciando, però, le terre del nord-ovest. Voglio sottolineare che l’eredità che la guerra moderna lascia a questi paesi potrà essere cancellata solo in decenni, non in anni e questa situazione riguarda moltissimi luoghi del mondo. Dal 1945 al 1998, in cinquantatré anni, ci sono state trentotto guerre, non piccoli conflitti, che hanno provocato quattro milioni di morti e trentacinque milioni di profughi. Oggi nel mondo ce ne sono circa venti milioni che attendono una sistemazione, a volte difficilissima. Cosa può fare la comunità internazionale per cercare di rafforzare leggi, norme di diritto internazionale, per portare soccorso a queste persone e per sanare le ferite che la guerra ha provocato? Ci sono quattro argomenti attualmente discussione. Il primo è stato l’isti- 71 tuzione di un tribunale penale internazionale a Roma nel 1998 il cui statuto è stato ratificato dall’Italia e che si spera venga ratificato da altri paesi. È un tribunale che, sull’esempio dell’ex tribunale per l’ex Jugoslavia e il Ruanda, vuole perseguire i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e i genocidi. In Cambogia si sta preparando un processo internazionale di questo genere. Un altro problema, che riguarda la Cambogia, e non solo, è costituito dai bambini soldato: sono trecentomila nel mondo e a questo proposito l’Unicef sta mettendo a punto un protocollo da aggiungere alla dichiarazione dei diritti del bambino per sancire, per quello che può valere, il divieto che dei ragazzi inferiori ai diciotto anni possano partecipare alle guerre. A favore dei profughi l’Onu sta lavorando ad un protocollo da aggiungere al proprio statuto in modo da garantire protezione a tutti, i cosiddetti interni ed esterni. I profughi esterni, cioè i profughi che riescono a fuggire da un paese in cui si sta combattendo una guerra, sono tutelati da una protezione umanitaria, mentre quelli interni, quelli che non riescono a fuggire, che trovano rifugio in campi all’interno del paese in cui è in corso il conflitto, non hanno alcuna protezione. Infine le armi: non solo le mine, ma le armi leggere che, restando nei paesi in cui ci sono state guerre, alimentano la delinquenza comune. Il primo passo è stato fatto con il trattato di Ottawa nel 1997 con la messa al bando delle mine, già firmato dall’Italia, ma non da Usa, Cina e Russia al quale, comunque, altri paesi stanno aderendo. Sono allo studio altri trattati per cercare di controllare la produzione e il commercio delle armi leggere, ancora un volano non solo dei piccoli conflitti, ma anche della delinquenza comune che diventa endemica nelle società che stanno scontando un dopoguerra. 72 Le speranze dei popoli a un passo dal nuovo millennio Testimonianze dall’Africa ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Kossi Komla Ebri les Cultures, Erba Questi ospiti sono qui per testimoniare l’esperienza del popolo africano ad un passo dal nuovo millennio. Ma sono qui anche per narrare in qualche modo quella che è la loro storia di immigrati e quello che li accomuna, li lega: la stessa passione per la scrittura. Quindi io comincerò col sottolineare quest’ultimo aspetto a cui faremo sempre riferimento: sono tutti vincitori del concorso Eks&Tra, che è il primo concorso per immigrati ideato in Italia. L’associazione interculturale Eks&tra è una Onlus di Rimini i cui membri appartengono a diverse culture e provengono da Paesi diversi. Il nome che hanno scelto, Eks&tra, indica la provenienza da altre nazioni (cioè ex) e l’arrivo tra voi (tra): questa “&” non è altro che una congiunzione che assume in sé la ricchezza dell’incontro fra culture diverse. È un’associazione che si propone quindi di far conoscere ed incontrare delle tradizioni culturali, di favorire l’integrazione. A questo fine Eks&tra organizza il principale concorso letterario espressamente dedicato alla letteratura di migrazione oltre al concorso di musiche e danze etniche, incontri, dibattiti, corsi di formazione e tante altre iniziative. 73 ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Daghmoumi Abdelkader scrittore marocchino Innanzitutto saluto tutti quanti, tutti quelli che si sono preparati e armati di santa pazienza per venire ad ascoltare noi, ma un saluto particolare lo rivolgo a tutti quelli che in qualche modo, per causa di forza maggiore non sono presenti. Mi riferisco a tutti quelli che si trovano nei centri di detenzione provvisoria distribuiti in quasi tutte le metropoli italiane. Due giorni fa mi è arrivata una lettera; ne leggo solo un pezzo nel quale c’è scritto: «No ai lager in Italia. Sono luoghi nascosti alla periferia delle città, del tutto o quasi del tutto invisibili, sono luoghi in cui le persone trattenute non hanno commesso alcun crimine, per questo sono luoghi di sospensione del diritto. Uomini, donne, giovanissimi, provenienti da paesi diversi da quelli dell’Unione Europea, vengono fermati per strada, sequestrati, interrogati, sorvegliati, costretti a dormire in container con numerosi altri detenuti, talvolta picchiati, privati della loro libertà senza aver commesso un reato, senza aver subito un processo e spesso senza essere messi in condizione di ricorrere all’assistenza legale, che pure la legge prevede. In questi luoghi, al di là di coloro che vi sono detenuti e di coloro che li gestiscono, nessuno può entrare. A differenza di quanto avviene nelle carceri, i parlamentari, almeno nei fatti, e gli avvocati non vi hanno libero accesso. Non si sa quello che in essi avviene». Dopo questo vorrei parlare di quello che succede aldilà del mare. Io provengo dal Marocco, da Tangeri. Qualcheduno avrà sentito nominare Tangeri, almeno in qualche film tipo il vecchissimo Contrabbando a Tangeri. Cercherò di descrivere Tangeri che sta vivendo il cosiddetto villaggio globale, ossia l’apertura verso altre culture, altre lingue, altre religioni. La città era divisa in tanti spazi, non ghetti, ma zone dove ognuno aveva il diritto di esercitare la propria cultura, la propria religione, la propria lingua però si viveva tutti insieme. Questo succedeva dagli anni ‘60 fino agli inizi degli anni ‘70 e c’erano, per esempio, diversi tipi di scuola. Queste scuole, italiana, americana, francese, ebraica, erano chiaramente legate al fenomeno del colonialismo, ma dopo l’indipendenza sono state aperte a tutti e c’era la libertà di scegliere il tipo di scuola che si preferiva. Io ho frequentato la scuola italiana con insegnanti italiani, all’interno della scuola si parlava l’italiano, la lingua straniera era l’arabo, pur tro- 74 vandoci in un paese arabo. La scuola era una specie di città, una città all’interno di un’altra città: c’era la scuola primaria, secondaria, le superiori, c’era l’asilo nido, l’ospedale italiano, l’associazione del Club Alpino Italiano con un ristorante italiano dallo stesso nome. Esiste ancora, viene da ridere, ma è così. Per le altre scuole avveniva la stessa cosa: la scuola francese ovviamente aveva gli insegnanti francesi ed era impostata sulla cultura francese e così nella scuola spagnola e in quella americana. Si viveva in armonia, ovviamente c’erano piccoli screzi tra i cittadini locali ancora bambini e i figli di quelli che erano gli stranieri per noi. Io mi ricordo delle piccole liti con gli italiani, con i francesi soprattutto durante le partite di calcio, si organizzavano partite tra bambini marocchini e bambini italiani e ne succedevano di tutti i colori però la violenza era punita, nel senso che se tornavamo a casa dopo avere qualche piccolo litigio i genitori ci riprendevano. Questa era una forma di educazione perché cercavano sempre di dare ragione ai cittadini che erano ospiti da noi tenendo sempre presente che nella cultura araba l’ospitalità è sacra. C’erano chiese cattoliche, francescane, c’era la chiesa valdese, la sinagoga e ognuno aveva il suo credo e le proprie giornate di festa, insomma si cercava di rispettare tutti. Il musulmano andava nella sua moschea e magari dietro l’angolo c’era il cittadino ebreo che andava alla sua sinagoga, ma questo non comportava alcun problema, c’era un rispetto reciproco e questo grazie anche alla gente e a quello in cui la gente credeva allora. Vigeva la libertà, ma non era costruita in modo artificiale, l’accettazione del diverso era dentro di loro, non c’erano prescrizioni al riguardo, i nostri genitori erano così aperti di natura. Naturalmente c’erano differenze di ideali, ma la cosa più importante era che tutti quanti dovevano vivere, il principio fondamentale era vivere e lasciare vivere gli altri. Vigeva un’armonia totale, un senso di pace, di tranquillità, andavi in giro e magari trovavi la biblioteca americana, la biblioteca francese. Questo, ripeto, è stato anche il frutto del colonialismo che dal punto di vista culturale aveva lasciato anche alcuni frutti positivi. Io sono partito dal Marocco nel 1980. Quando sono dovuto partire, avendo frequentato la scuola italiana, sono venuto in Italia a concludere i miei studi in un’università italiana, dato che era l’unica scelta che potevo fare. Un po’ per volta mi sono accorto che parecchi sogni, parecchi ideali che allora avevo maturato venivano a mancare. E questo è successo in parte per volontà politica, infatti io mi ricordo che allora, quando sono 75 entrato in Italia, sul foglio del permesso di soggiorno c’era stampato: «Divieto di svolgere attività lavorativa» con tanto di timbro da parte del Governo italiano. Ciò comportava una forma di ghettizzazione, di allontanamento dell’immigrato dalla vita attiva che si svolge normalmente. Lo stesso valeva in tanti altri casi, per esempio quando si doveva avanzare la richiesta al collegio universitario io non ne avevo diritto, pur essendo figlio di una cultura italiana. E non vorrei mettermi nei panni di uno che è giunto qui spaesato completamente perché almeno io sono arrivato avendo già incorporato una fetta della cultura italiana, ma per un immigrato che proviene da un paese straniero, che non conosce la lingua e la cultura del paese che lo ospita il sacrificio è ancora maggiore. Quando torno a Tangeri oggi mi accorgo che la mia città sta cambiando, il Marocco intero sta cambiando nella politica, nell’organizzazione economica. Se qualcuno passa dal Marocco lo sente subito, lo vede subito: tutto è in un fermento che vuole arrivare a una meta. Concludo con una breve lettura, perché io cerco di manifestare il mio pensiero scrivendo, in questo caso, poesie. Molte persone pensano che con la poesia non si possono risolvere i problemi che ci circondano e che ci affliggono, invece non è vero: a volte si riescono a lanciare messaggi ancora più incisivi di quelli che possono offrire le pagine di un quotidiano. Marionetta 2000 Si alza il sole depresso e cupo, dietro i colli come questo nostro sipario di tutti i giorni per milioni di occhi dagli sguardi attenti. Stiamo per presentarvi il nostro spettacolo, grande teatro di marionette danzanti sopra le nuvole bianche, gregge di pecore erranti le nostre lune offuscate con molte leggende, poca storia importante. Ci siamo tutti con corone di spine, bocche grandi, grandi bocche parlanti, cuori leggeri occhi scintillanti. Pulcinella è un bimbo Rom, ali d’argento figlio della stella e del sole, mano lesta, rasoio in tasca più veloce di tutti i venti. Arlecchino è un marocchino, ferito in ventre, occhi allegri, ti saluta con l’inchino. Ecco Brighella, arrivato dall’Albania, marinaio per dovere, capitano senza nome, tre stellette sulla pelle incise paiono brillanti. Che ti vedo? Mangiafuoco, cresciuto in piazza Algeria, piazza delle bombe, palcoscenico della morte, uscito indenne, tanti amuleti 76 sul collo penzolanti. Sul ciglio della strada piange pentita la Fata Turchina, mignotta di sorte, pelle scura, sguardo penetrante, Africa in cuore, la sua dolcezza al primo passante. Colombina ha spiccato il volo in Sudamerica vuole tornare in mille molecole di vita, ci vuole trasformare, la nostra fiaba si porterà per tanti anni da narrare. Marionette, marionette noi in quest’era decadente, noi figli del niente. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Gabriella Ghermandi srittrice etiope Era luglio quando mi arrivò la telefonata di Claudio Bizzozero: «Buongiorno, mi chiamo Claudio Bizzozero, faccio patte di un Ong che si chiama Coordinamento comasco per la Pace, stiamo organizzando l’annuale incontro sulla pace e sui diritti dell’uomo e volevamo invitarla». Una bomba, letteralmente una bomba. Eravamo ancora in piena guerra del Kosovo, la famosa guerra giusta. Mi dannavo mattina e sera a litigare con amici e colleghi che, convinti, mi dicevano che quello era l’unico modo per fermare quel nazista di Milosevic, leggevo giornali che scrivevano di questo esempio di guerra salvatrice manipolando in modo a dir poco bieco l’informazione, solo alcuni sprazzi di correttezza e di lucidità qua e là rischiaravano il buio totale. Avrei voluto gridare al mondo la mia indignazione: «Non esistono guerre giuste, di questo sono arcisicura». Per questo quella telefonata fu una bomba, mi si dava la possibilità di esprimere tutto il mio disappunto. Cominciai una strenua ricerca su tutto ciò che poteva convalidare la mia tesi, trovai il sito Zmeg, dove scrive uno degli uomini giornalisticamente e umanamente più corretti che io conosca, Noam Chomsky, chiaramente contro la guerra, articoli su le Monde diplomatique, il trattato di Rambouillet preparato dal gruppo di contatto (formato da Stati Uniti, Russia, Francia, Germania e Italia) e proposto ai serbi la prima volta e quello rielaborato e presentato alle ultime trattative qualche giorno prima della guerra, quello che provocò l’indignazione di Milan Milutinovic, presidente della Repubblica serba e capo della delegazione jugoslava, il quale sosteneva che il testo ulti- 77 mo snaturava ciò che era stato discusso alle prime trattative e che la Jugoslavia era orientata a firmare. Lessi anche la carta delle Nazioni unite e quelle sui diritti dell’uomo soprattutto nel punto dove finiscono per entrare in contraddizione. Volevo essere certa di portare una tesi e di saperne abbastanza da poter rispondere ad ogni domanda o controbattere a eventuali punti di vista diversi. Volevo proporre di organizzare comitati e coordinamenti sullo studio del diritto di veto e proposta di una sua eventuale abolizione, studi sulla rivisitazione dell’Onu per renderlo effettivamente pregnante nell’organizzazione politica e sociale di questo nostro pianeta e invalicabile in decisioni così importanti come la guerra nel Kosovo. Ogni giorno scoprivo qualcosa sul panorama politico internazionale; ad esempio voi lo sapete che Taiwan non fa parte delle Nazioni unite per opposizione della Cina, nonostante sia uno stato da oltre 50 anni? Studiavo o leggevo per prepararmi a questo incontro ogni momento libero, poi un’ altra telefonata di Claudio a cui spiego come vorrei articolare il mio intervento: «Guarda che sei invitata come scrittrice, non come sociologa». Fine! Già io non sono una sociologa. Allora ho deciso di raccontarvi la mia storia e il mio incontro con la guerra, la pace e i diritti umani. Io sono italo-etiope, anzi italo-etiope-eritrea, perché mia madre è eritrea, mio padre era italiano e io sono nata e cresciuta in Etiopia, quando l’Etiopia e l’Eritrea ancora erano un unico stato. Avevo quasi nove anni quando nel nostro paese scoppiò la guerra civile. L’allora imperatore Negus Hailè Salassie fu spodestato, insieme a tutti i suoi ministri e governatori, qualche giorno dopo una di quelle stupide manifestazioni dei trasportatori contro l’aumento della benzina. Nessuno ci aveva fatto caso più di tanto, quel giorno, ma molti giovani giravano mezzo armati e attaccavano la polizia con sassaiole. Quello, per noi, fu l’inizio della fine. In pochi giorni la vita di tutti noi cambiò. Da una vita di calma e di ritmi etiopi ad una di spari e coprifuoco dalle 18 alle 6. La mia scuola chiuse in marzo e la notte io sognavo sempre i militari davanti al cancello dell’edificio scolastico e acqua, tanta acqua che copriva le strade, acqua fangosa, piena di detriti. L’esecuzione dei 60 ministri e sottosegretari dell’imperatore la sentimmo tutti, quella notte. Quelle mitragliate lunghe e lente, come al rallentatore. I cani guaivano e noi bambini ci stringevamo spaventati ai nostri genitori. Per tutti gli anni successivi in cui vissi in Etiopia ci fu sempre il coprifuoco, non tornò mai una situazione completamente normale. La sera, quando sparavano, mio padre, per farci superare la paura, spegneva tutte le luci di casa e poi diceva «venite sulla veranda a vedere i fuochi d’artificio» e di giorno, per ogni alimento che 78 qualche tempo prima trovavamo ad ogni angolo di strada, bisognava fare la fila. I tipici prodotti etiopi, te, caffè e zucchero, non si trovavano più, in compenso c’erano tante camionette militari piene di cubani, russi e anche qualche bulgaro e la tv, al posto dei telefilm americani, che eravamo abituati a vedere prima, trasmetteva gare di ginnastica artistica e saggi di piano. Le aziende private erano state nazionalizzate e la povertà dilagava in maniera proporzionale all’aumento dei prezzi dei beni di consumo essenziali. Eravamo finiti nelle grinfie di una dittatura filo-sovietica con relative spie e polizia segreta che controllava gli eventuali dissidenti. con deportazione in massa di giovani studenti e tanta sofferenza. Vivemmo cinque anni nella guerra civile del mio paese, poi decidemmo di venire in Italia. Molti anni dopo, nell’’89, mi capitò di andare a trovare un amico kurdo nel Kurdistan siriano e di colpo mi ritrovai addosso quello stesso odore di paura, quella stessa tensione. Posti di blocco con militari violenti, che controllavano i documenti dei kurdi, polizia segreta ovunque, odio che i kurdi nutrivano verso “gli arabi”. Una sera conobbi ad Aleppo una famiglia kurda della Turchia, guerriglieri, orgogliosi di combattere per la loro indipendenza e facevano tanti figli per continuare la lotta, dovevano rinfoltire il loro esercito. La moglie del mio amico mi raccontò di un suo fratello che era stato deportato dall’esercito siriano non sapevano dove. Le sole informazioni sul suo stato di salute erano costate il quasi totale patrimonio dei suoi genitori in bustarelle ai vari funzionari dell’esercito. Anche a me successe una disavventura per il solo essere in loro compagnia: all’ufficio informazioni turistiche gestite dall’esercito siriano mi fu requisito il passaporto, assieme ai documenti del mio amico, perché non era stata denunciata la mia presenza nella casa di un kurdo al commissariato di polizia del suo paese. Mi salvai perché ad un certo punto arrivò il militare responsabile dell’ufficio, un vecchio compagno di classe del mio ospite. Tornai in Italia con la tristezza nel cuore. Per tanti anni avevo pensato che la mia tristezza nei confronti della situazione politica dell’Etiopia era dovuta al fatto che quello era il mio paese, ora scoprivo che non era così, uguale era la tristezza che provavo per i kurdi e uguale era anche quella per gli arabi e i turchi che avevano imparato ad odiarli e a temerli. e per me che tanti anni prima nello stesso modo, avevo odiato e temuto i russi e i cubani, a mio avviso, responsabili della nostra situazione politica. Oggi penso che non ci sia spazio per odio e guerra se si cerca la pace. Con cui mi trovo perfettamente in linea. Attualmente 76 paesi sono coinvolti in conflitti interni o tra stati. 79 Non mi pare che questo secolo abbia dato buoni frutti. Ci sono tante critiche che vorrei muovere in tal senso. Nell’invischiamento della ricerca di quello che viene definito sviluppo economico si sono persi i valori principali per la costruzione e il rispetto della pace, a volte questi stessi principi sono stati il manto di copertura di biechi interessi. La ricerca di nuovi mercati economici o eventuali miraggi di situazioni economicamente allettanti porta governi, multinazionali e organizzazioni di vario genere a calpestare la dignità umana, la loro per prima. Spesso mi capita di pensare che, in nome di un miglioramento generale delle condizioni dell’uomo, abbiamo finito per costruire un meccanismo che sta per inghiottirci completamente annullando il punto da cui era partito. E allora che fare? Ho pensato molto a questo, che proposta portare? Di quelle poche concrete vi parlerò dopo, ora ne vorrei fare un’altra. Un giorno mi capitò di assistere ad un incontro sui diritti umani a cui partecipava il Dalai Lama, capo spirituale e politico del governo tibetano in esilio. Fu illuminante. Parlava di consapevolezza dei propri diritti ma anche di quelli degli altri, diritti alle culture diverse, ai pensieri diversi, stili di vita diversi e una possibile convivenza di queste differenze ognuno disposto a non invadere lo spazio dell’altro con la violenza e la convinzione di avere l’idea o la cultura più giusta e poi di un concetto rivoluzionario, almeno per me, la responsabilità universale. Siamo tutti responsabili dell’andamento di questo pianeta, è inutile demandare tutta la responsabilità ai governanti. Siamo noi i primi responsabili, noi costruiamo il tessuto sociale che permette una buona convivenza con gli altri, siamo noi che decidiamo se farci manipolare o meno dai media. Siamo noi insegnanti che decidiamo se rendere un bambino curioso o apatico e un adulto conseguente. Noi possiamo essere genitori costruttivi e aperti o coercitivi e dispotici, in fondo ognuno di noi, nel suo piccolo, ha in mano una briciola di questo pianeta, dobbiamo stare attenti e non dimenticarci di questo e che in questa briciola non deve mancare la consapevolezza costruttiva dell’esistenza dell’altro. Ecco, ora vorrei passare alle proposte concrete. Vorrei prima parlarvi di un’altra cosa, di una lettera che è stata ritrovata nella tasca di uno dei due ragazzi della Guinea che sono morti nel vano del carrello di atterraggio di un airbus diretto a Bruxelles. Erano due ragazzi di 14-15 anni che stavano scappando con il sogno di raggiungere l’Europa per poter studiare. Mi ha commosso molto il pensarli, per cui propongo, in loro memoria e di tutti i ragazzi morti con e per il desiderio di studiare, una serie 80 di borse di studio per i ragazzi meritevoli del terzo mondo che vogliono studiare e successivamente mettere a frutto la loro esperienza nel loro paese di origine con eventuali sostegni anche dopo il conseguimento della laurea o del diploma per il reinserimento e la creazione di attività nel loro paese. Queste borse di studio possono essere per diplomi e lauree. Sostegni alla scolarizzazione dei paesi in via di sviluppo attraverso materiali didattici etc.. Tutto questo con il massimo rispetto e la non ingerenza nelle culture altre. Penserei anche a scuole professionali da aprirsi nei paesi in via di sviluppo, da noi in Etiopia sono molto apprezzate le scuole dei Salesiani che fanno corsi per meccanico, falegname etc. Poi un’altra proposta è un aumento del microcredito nella forma proposta dal banchiere bengalese Muhammed Yunus, fondatore della Grameen Bank per l’incremento di piccole attività artigiane, agricole e quant’altro dei paesi in via di sviluppo. Trovo questa formula molto efficace se si considera il tessuto sociale dei paesi in via di sviluppo, in quanto non stravolgerebbe i loro ritmi di vita e la loro cultura. Chi volesse maggiori informazioni può visitare il sito Internet http://www.citechco/net/grameen/ bank, può leggersi il banchiere dei poveri oppure il sito della banca etica che si ispira a principi analoghi: http:// www.citinv.it/bancaetica. Poi un’altra proposta consiste nell’abbattimento reale del debito dei paesi poveri o almeno degli interessi sul prestito. Dico abbattimento reale perché quello proposto abbatterebbe solo il 2% del prestito. Vi rimando ad un articolo di le Monde diplomatique settembre ‘99, questi articoli sono reperibili sul sito Internet de il manifesto collegato a le Monde diplomatique e ultima proposta una totale riconsiderazione dell’Onu, diritto di veto del Consiglio di sicurezza compreso. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Samuel Kalejaye scrittore nigeriano Vengo dalla Nigeria, sono in Italia da 21 anni, sono diplomato e laureato in Italia quindi, come africano, mi sento uno che ha imparato molto nella cultura italiana. Credetemi, nonostante questo ho nostalgia dell’Africa. La Nigeria si trova nella parte occidentale dell’Africa, sull’Atlantico ed è il paese più popolato dell’Africa, in quanto la Nigeria secondo 81 l’ultimo censimento ha una popolazione di 120 milioni di abitanti. La Nigeria è grande cinque volte l’Italia e il 90 per cento delle sue risorse economiche è dovuto alla produzione di petrolio. La Nigeria è il settimo paese produttore di petrolio nel mondo. Con questi quattro dati che vi ho dato, molti, facendo i conti diranno: «Allora la Nigeria dovrebbe essere il paese più ricco del mondo, visto che con pochi soldi si fanno molte cose in Africa. Questo paese vende molto petrolio, ha un sacco di soldi, quindi dovrebbe essere il paese più ricco». E io sono costretto a dire di no, perché i soldi del petrolio della Nigeria vanno all’estero, vanno in tutti i paesi occidentali che sfruttano le materie prime di questo paese come fanno con tantissimi altri paesi africani. Pur essendo il proprietario delle materie prime, vengono estratte, vengono manipolate, vengono lavorate da paesi esteri e le risorse economiche derivate da queste estrazioni vengono esportate all’estero. Quando, così mi hai introdotto prima, hai parlato di «gridare con rabbia»… è vero, io grido con rabbia questi fatti per una semplice questione. Tutti noi siamo qui stasera per solidarietà, per manifestare per la pace. Io sono sempre convinto che è molto più facile, è molto più facile fare la pace che fare la guerra. Allora perché facciamo la guerra? Vuol dire che l’uomo è talmente stupido da scegliere qualcosa che gli fa male a scapito di qualcosa che gli fa bene? Fino a adesso la mia risposta è sì. La Nigeria, fortunatamente non è un paese in guerra, però è un paese come tantissimi altri stati africani che ha lottato per avere la sua indipendenza dalla dominazione inglese e questa indipendenza è avvenuta nel 1960 e nel ‘63 la Nigeria è diventata una repubblica federale. Attualmente la Nigeria è divisa in 36 stati abbastanza autonomi con un governo federale centrale. È un paese che ha avuto molte vicissitudini per quanto riguarda i governi che si sono succeduti negli anni, in quanto è quasi sempre stato governato da regimi militari e come voi sapete, quando ci sono in mezzo i militari, tutti i discorsi sulle libertà vengono a mancare, sia quelle personali sia quelle di stampa, tutto quello che riguarda i diritti umani viene accantonato. Fortunatamente dal 29 maggio di quest’anno è stato eletto un presidente dal popolo, quindi vige un regime civile. Qui mi fermerei per quanto riguarda il discorso sul mio paese e vorrei ritornare un attimo su un tema che mi ha colpito molto in questo convegno, che è il tema della nostalgia e della speranza. Io ho scritto sette comandamenti per quanto riguarda gli immigrati. Il primo comandamento è la partenza: quando l’immigrato parte dal suo 82 paese d’origine è pieno di speranza, con molti entusiasmi viene salutato all’aeroporto, prende l’aereo, va in un paese civile, va un in paese estero. Il secondo comandamento è lo scontro con la realtà. Il primo scontro, per qualsiasi immigrato, è con la burocrazia: arriva in un paese nuovo, il primo problema che ha è la burocrazia perché come straniero si deve mettere a posto, permesso di soggiorno, permesso questo, permessi di ogni tipo. Come diceva l’altro collega dal Marocco prima, lui è arrivato nell’80 io sono arrivato nel ‘78, io vengo da Rimini e a Rimini eravamo solo in sei. Mi ricordo che tutte le mattine dovevamo presentarci in questura prima di andare a scuola. Noi non stiamo parlando di un paese militare, stiamo parlando dell’Italia. Perché l’Italia allora era diversa. Il permesso di soggiorno nel ‘78 durava tre mesi: ogni tre mesi la polizia ti vuole vedere, cosa fai, cosa non fai… Non potevi lavorare, perché se la polizia scopriva qualcuno lavorare, questa persona veniva impacchettata con la sua valigia in mano e rispedita nel suo paese. Quindi, sotto questo punto di vista, possiamo dire che c’è stato uno sviluppo enorme in Italia e di questo, da parte degli immigrati, ringrazio voi che siete qui, che siete italiani, e ringrazio anche tutti gli italiani. Il terzo comandamento è: le lotte. Le lotte dei migranti per quadrare il cerchio. La vita di un immigrato è un cerchio: parti da casa la mattina e devi andare fuori con tutte le incertezze che ci sono, a lavorare o a studiare o fare quello che vuoi, e devi tornare a casa. E per far quadrare questo cerchio, mentre per un italiano ci vogliono il 50 per cento delle forze, per un immigrato ci vogliono il 200 per cento delle forze. Perché metà delle forze vengono sfruttate per difenderti dalle angherie, dalle dicerie, dalle… non so se è una parolaccia, ma me lo permettete?... dalle cavolate che vengono dette da cui ti devi difendere. Quarto comandamento tutti i rischi di cedimento e di insuccesso, perché un immigrato, quando è qui, vuole ottenere qualcosa e se non riesce a ottenerla arriva il quinto comandamento, che è la rinuncia. La rinuncia all’integrazione, oppure la rassegnazione. Un immigrato in questo paese vuole integrarsi: è facile dire integrazione, ma l’integrazione costa. Uno straniero per integrarsi deve andare in giro con i suoi amici che sono italiani, che hanno i genitori che gli danno i soldi per andare in discoteca, che gli pagano la pizzeria, gli pagano il ristorante, gli pagano questo e gli pagano quest’altro… all’immigrato chi glieli paga? Da solo. Deve pagare l’affitto, deve pagare da mangiare, deve pagare il trasporto…alla fine non diamo colpa all’immigrato se non riesce ad integrarsi perché è difficile. Il sesto comandamento, ho messo, la sfidu- 83 cia. Quando tutte queste cose qui non gli riescono, l’immigrato ha una sfiducia enorme, sia in se stesso che in tutto ciò che lo circonda. E di questo non si può dare colpa a nessuno. Da fuori si dice: «Quello non ha voglia di… », ma non è colpa sua, non ci si riesce facilmente. Il settimo comandamento, per chiudere, è la resa. Cercando di fare quadrare il cerchio, e non ci riesce, ci rinuncia, perché ci sono troppi rischi, ci rinuncia, perché ci sono troppi insuccessi e c’è la resa incondizionata. E l’immigrato cosa fa, primo pensiero? «Richiudo la valigia che ho fatto tanti anni fa e ritorno nel mio paese». E questa è una sconfitta. Siccome questi sette comandamenti sono cose abbastanza negative, io spero, per ogni immigrato che viene in questo paese di non avere a che fare con questi sette comandamenti, tranne che con il primo, quando si parte dal proprio paese con grande entusiasmo e con tanta voglia di fare e tanta voglia di riuscire. Concludo questo intervento leggendovi una mia poesia scritta, tre anni fa e capirete dai versi il mio stato d’animo di allora. Non ho scelta Non ho scelta,/ non ho scelta devo parlare,/ parlare della miseria del mio popolo,// forse qualcuno mi potrà capire./ Non ho scelta,/ devo ascoltare,/ ascoltare le bugie raccontate sul mio popolo,/ spero che qualcuno li difenda./ Non ho scelta,/ devo sentire,/ sentire il sangue che mi bolle nelle vene,/ quando vedo come vive l’Africa./ Non ho scelta devo soffrire,/ soffrire l’inferno che sta vivendo la mia gente,/ quando vedo l’immagine sulla televisione./ Non ho scelta devo subire,/ subire tutte le umiliazioni con i miei fratelli,/ così mi sento più vicino a loro./ Non ho scelta devo cantare,/ cantare l’inno della pace nel mondo,/ per esorcizzare il male che il Popolo sta subendo./ Non ho scelta devo aiutare,/ aiutare la gente che soffre,/ così la mia vita avrà un senso./ Non ho scelta devo raccontare,/ raccontare la verità agli uomini, / perché possano sapere e credere./ Non ho scelta devo vedere,/ vedere la violenza sui bambini, / fingendo che non esiste più l’innocenza./ Non ho scelta devo pensare, / pensare che verrà il giorno,/ che i popoli saranno tutti liberi./ Non ho scelta devo capire,/ capire che è tutta illusione,/ il mondo non aiuterà mai i deboli./ Non ho scelta devo andare,/ andare in tutte le piazze, gridando giustizia,/ sperando che qualcuno mi ascolti./ Non ho scelta devo tornare,/ tornare nel 84 mio paese di origine,/ in questo posto non sono un ospite gradito./ Adesso lo stato d’animo dello scrittore è molto cambiato, perché l’ultima parte della poesia è stata cambiata. Dice: Non ho scelta devo restare,/ restare in questo paese, e/ poi ringraziarlo di quello che mi ha fatto… ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Jadelin Mabiala Gangbo scrittore congolese Sono uno tra i tanti che viene da lontano, il mio Paese è l’Africa centrale, il Congo. Ci sono casini laggiù, così dicono i giornali, così mi disse mio fratello quando arrivò in Italia quest’estate. Io vivo in Italia da quando avevo tre anni. Ho vissuto in una specie di orfanotrofio, con tanto di preti e il resto dell’ambaradan. In collegio c’erano un sacco di etnie, un sacco di colori, un sacco di musi diversi e lì, siccome c’erano anche tantissime storie, mi sentivo parte di qualcosa, parte di una società, di un gruppo, di una comune. È quando sono uscito dal collegio che mi sono sentito un diverso. Perché è come…non so, avete presente un pazzo che esce dal manicomio? Qualcosa del genere. Finché è nel manicomio si crede a casa, poi quando esce la gente gli dice: «Ehi, matto! Torna a casa!». Una cosa del genere. E ho iniziato a scrivere perché, quando seguivo un po’ la moda degli occidentali, volevo anch’io essere come i miei compagni di classe, avere i loro stessi vestiti, avere sempre nove a scuola e una bella macchina e cose del genere… però sentivo la mancanza di qualcosa, sentivo che mi mancavano le voci dei miei amici, quelli del collegio, i bonazzoni, quelli che bevevano vino, che si accontentavano di poco, che venivano la sera a raccontarmi le storie. E allora da lì ho cominciato a scrivere perché sentivo l’esigenza di far emergere le voci di queste persone, che non sono mai riuscite a lasciare un timbro. In Congo ho lasciato i miei genitori e anche un fratello che praticamente ho conosciuto per via di una ricerca. Io in Congo ci sono stato due volte. Una volta avevo undici anni, l’altra volta dovevo compierne tredici. Da lì non ho più visto i miei genitori, perché non ci sono più tornato, e questo mio fratello da quest’estate. Ed è del suo arrivo che vorrei parlarvi, di 85 quando è arrivato lui in Italia. È successo tutto all’incirca un anno fa. Io e la mia ragazza dovevamo andare in Messico e, si sa, per andare in Messico ci vogliono un po’ di soldi, ma non tantissimi. Occorrono tre milioni tre milioni e mezzo, si tirano su: ma per un extracomunitario non è sufficiente. Per un extracomunitario oltre al passaporto, oltre al permesso di soggiorno, carta di identità e tutte le altre cose, ci vuole una carta di credito, ci vuole una dichiarazione del datore di lavoro che garantisca che la sua bestia, una volta arrivata in Messico, si preoccuperà di tornare indietro, ci vuole…Poi mi chiedevano praticamente cento dollari, dovevo dimostrare che avevo cento dollari per ogni giorno che stavo lì, oltre al biglietto. Voglio dire, cento dollari sono un casino, non è che mi devo comprare il Messico, cioè cento dollari!… Alla fine poi in Messico si spende poco. Ho voglia di farmi il viaggio e comincio a mettere a posto i miei documenti e parto dalla carta d’identità, vado all’anagrafe e dico «Ehi, devo fare la carta d’identità». Dico il mio nome e la signora batte, poi a un certo punto dice «Guardi, lei non esiste». «Come non esisto, io ci sono!». No, non esistevo praticamente. Ero stato cancellato, sul computer non c’era il mio nome, non c’era il mio indirizzo, non c’era il codice fiscale, non c’era niente. Era come se avessi vissuto per niente, dovevo ricominciare da capo. Praticamente è successo così: quando mi sono trasferito da Imola a Bologna, non mi sono preoccupato di andare alla polizia a dire: «Ehi ragazzi, guardate io mi sposto a Bologna, sono trenta chilometri, comunque non farò niente di male e se mi cercate, comunque mi trovate lì». No, io ho preso e mi sono spostato, ok? Cosa è successo? Questo è bastato a far sì che vent’anni della mia vita in Italia fossero annientati. Non risultavo, non c’ero, fantasma. Così io dovevo ricominciare daccapo, mi trovavo di nuovo a dover riimmigrare in Italia, rifare tutti i documenti e per che cosa? Perché ero un pezzo di carta? Voglio dire, ci sono no? Esisto. Mi vedete, ho un sacco di amici, ho fatto le scuole, ho fatto le elementari, le superiori o fatto un sacco di lavori, sono andato in quel bar, in quell’altro, sono andato in discoteca, l’ho vissuta l’Italia, giusto? Perché non ci sono più? Allora, chiedo alla signora: «Devo fare… Come faccio adesso a mettermi a posto?». E lei mi dice: «Devi arrivare qua con un passaporto… ». E ovviamente il passaporto era scaduto. Quindi per rinnovare il passaporto, telefono all’ambasciata del Congo a Roma. Loro mi dicono che lì i passaporti non li rinnovano più, quelli del mio paese, e che mi devo rivolgere a quelli della Francia, al consolato francese. Telefono a quello della Francia e lì la stessa solfa, devo rivolgermi al Congo direttamente. Vabbè, quindi, cerco qualcuno, un mio parente, qualcuno che abita in Congo e dopo un 86 mese di ricerca, finalmente sento questo mio fratello, che non ci vedevamo da dieci anni. È un’emozione strana sentirlo… è più piccolo di me di due anni e aveva una voce grossa, mi chiedeva notizie sull’Italia, soprattutto delle donne: «Ma come sono le donne italiane?». Così… Io gli chiedevo dei nostri genitori, il babbo era da qualche parte in Congo, la mamma in Benin, non si sapeva bene, non li sentiva, perché c’erano casini e ci sono tuttora. Lui viveva da una zia, precario, aveva finito gli studi però non c’era lavoro, non c’era niente, non c’erano soldi e per un ragazzo di vent’anni era importante. Perché poi lui, da quello che mi raccontava si capiva che era una persona ambiziosa, che aveva dei grandi progetti, voleva diventare un presidente e così lo sentivo sprecato e quindi avevo deciso di farlo venire in Italia. Poi la mia ragazza mi chiedeva se tutto questo fosse giusto, in fondo, estrapolarlo dalla sua cultura dalla sua lingua, dalle sue istituzioni, dai suoi amici, dagli avocadi che ha nel cortile, ci sono le banane, c’è una spiaggia bianca, il mare chiaro. Dannazione è un beninese, perché devo toglierlo dal Benin, ficcarlo in Italia! Cosi lo vedo dopo praticamente deici anni che non ci vedevamo. Lo vedo in aeroporto, un freddo porco e lui è vestito come un mulo tutto rannicchiato. È alto sei metri e io mi sento quasi imbarazzato a doverlo conoscere adesso. Così quando lo porto a casa sgrana gli occhi dappertutto, si guarda intorno, perché in casa mia c’è un frigorifero con tanto di congelatore, c’è un forno, lo sciacquone del bagno funziona a dovere. Nella mia camera c’è un letto matrimoniale, un comodino, c’è un telefono con la segreteria telefonica, l’armadio. C’è tutto il minimo indispensabile praticamente e lui si volta e dice: «Ma cazzo fratello sei ricco e io sono ricco». Così quando ci mettiamo a tavola a mangiare la pasta del discount, gli spiego che il mio computer lo sto pagando a rate e che la lavatrice l’ho presa da un demolitore, funziona così. A quel punto dopo aver mangiato lui si mette a letto nel mio letto e si addormenta e io mi metto di fronte a lui e guardo sto fagotto tutto acciambellato sul mio letto coperto fino alla testa perché ha un freddo boia. Accendo la stufa e mi chiedo cosa pensa, dannazione. Lo guardo e penso: «È mio fratello stesso sangue stessa carne» E perché un ragazzo di vent’anni si trovava a dover migrare? Il ragazzo era giovane, è giovane e pensavo a cosa credesse di trovare in Italia, quale oro, cosa stesse pensando nei suoi sogni e mi veniva in mente una canzone che cantavano gli schiavi del sud ai tempi che furono nei campi di cotone e che all’incirca faceva così: «Oh Lord I’m tired, oh Lord I’m tired, oh Lord. Sono stanchissimo di questo schifo». 87 ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Ngoi Paul Bakolo scrittore zairese Io prendo spunto dal personaggio di Buiamba che è un racconto che ho scritto, mi sembra, quattro anni fa, dove il personaggio a un certo punto non sopporta gli sguardi, non sopporta più le frasi nascoste dietro i sorrisini e decide di far capire a tutti che se in italiano a qualcuno viene detto sei un “baluba”, che in milanese significa «sei un poco di buono», è un insulto grave e violento. Sono arrivato in Italia direi quasi per caso, per caso e per una partita di pallone. Io studiavo a Kinshasa dove ho fatto principalmente le superiori, perché le elementari non mi ricordo neanche più dove le ho fatte, in giro per villaggi, per il mondo. Mentre le superiori le ho fatte in uno dei licei di Kinshasa che allora si chiamava Atene Royal de Kalina, poi negli anni sessanta è tornato a chiamarsi Ateneo de la Gombe perché è situato nella zona della Gombe e oggi nuovamente si chiama Atene de Kalina senza il Royal, perché non c’è più il re del Belgio. Io avevo un professore francese che però era francese di origine italiana, di un paese in provincia di Torino dove sono originari anche i nonni di Michel Platini. Devo dire che la scuola mi piaceva molto perché a scuola non andavo solo per studiare, ma anche per raccontare e raccontarci. L’anno in cui ho fatto la maturità, questo professore, avendo già capito che dopo la maturità io volevo andarmene perché veniva imposto a tutti i ragazzi che finivano gli studi di fare un anno obbligatorio di servizio militare, mi ha chiesto se io avevo effettivamente la volontà di emigrare e mi ha dato la possibilità, tramite un suo parente che era prete a Roma, di farmi iscrivere in una squadra di calcio del Vaticano che doveva giocare a Kinshasa. Io all’epoca vivevo con i miei nonni e una sera ci siamo ritrovati due giovani preti di Roma che parlavano solo italiano, che ci fanno capire che sono stati mandati dal mio professore e che avevano già pronta tutta la documentazione per me per uscire. Al mattino verso le sei mi portano in questa chiesa dove erano alloggiati, al centro di Kinshasa, dove arrivarono dei militari che dovevano controllare se tutto era regolare e vedono, insieme ai giocatori di questa parrocchia di Roma, il mio passaporto. Allora mi chiamano e mi dicono: «Parli l’ingala?». Il militare mi guarda e pensando che io fossi italiano dice all’altro in ingala: «Mi sa che questo 88 qua non capisce molto, bene senti che lingua parla». Non hanno capito l’inganno e così nell’81 mi sono ritrovato su un aereo per Roma dove ho passato solo due notti e ho giocato a pallone. In Italia esisteva un’università per stranieri a Perugia, mi hanno chiesto se volevo andare a studiare l’italiano e io ho accettato. Ora vivo a Pavia, dove ho fatto l’università, e la convivenza tra le due culture quella originaria dell’Africa, del Congo, e quella italiana tutto sommato si è svolta con un matrimonio abbastanza felice, nel senso che sono arrivato a vivere questi due mondi in un modo abbastanza semplice. Naturalmente ci sono stati episodi brutti, ne ho vissuto forse uno solo particolarmente grave, in fondo credo che dopo anni uno poi ci convive magari non ci fa più il caso. Ma è importante sviluppare, anche tramite i racconti che scriviamo e tramite soprattutto la partecipazione degli africani che vivono in Italia che hanno la possibilità di poter parlare o comunque di poter confrontarsi, il dialogo tra le culture per superare i luoghi comuni sull’Africa e sui suo abitanti. 89 Diciamo no all’uomo Del Monte. Campagna d’informazione per un consumo più critico ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Claudio Bizzozero direttore del Coordinamento comasco per la Pace Avevamo programmato questa giornata dedicata all’Africa, riservando al momento conclusivo la presentazione di questa campagna. Stamattina abbiamo fatto qualche accenno in apertura – c’erano molti ragazzi delle scuole – utilizzando due oggetti, una pistola, un’arma da fuoco e una lattina un po’ anonima perché non ha vestito, è nuda. In genere la si trova con un vestito addosso che varia a seconda dei casi e del contenuto. Abbiamo chiesto quale delle due cose fosse da considerare un’arma, uno strumento di schiavitù, uno strumento di violenza. Spontaneamente verrebbe da rispondere la pistola invece in realtà non è proprio così. In questo modo abbiamo voluto introdurre questa campagna che stiamo avviando qui sul nostro territorio. La facciamo partire oggi utilizzando proprio questi due oggetti, cercando di capire che cosa questi due oggetti sono effettivamente, ma per farlo bisogna andare oltre l’apparenza. Intanto per capire che questa è una pistola ci vuol poco, è una pistola vera, non serve il porto d’armi per questa, però è vera, non è un giocattolo, è un lanciarazzi di quelli che servono in barca per le segnalazioni di soccorso per cui alla fine è uno strumento di libertà. La lattina, invece, è uno strumento di schiavitù. Vista così non è che dica molto, prendiamo allora tre lattine diverse, hanno tre vestiti differenti: Coop, Del Monte, Soleado. Siccome questa campagna d’informazione 90 per un consumo più critico è intitolata Diciamo no all’uomo Del Monte, allora è probabile che uno, vedendo queste tre lattine, pensi che la lattina incriminata sia quella in mezzo. Ma girando la lattina, guardandone il retro, si possono scoprire molte cose. Si può scoprire, per esempio, che su questa lattina è molto evidente l’indicazione del luogo dove è stata prodotta: c’è scritto Kenya. Più sotto trovate anche il nome della piantagione: piantagione di Thika. È esattamente la piantagione in cui è stata prodotta quella lattina, che si trova a pochissimi chilometri da Korogocho. C’è una differenza fondamentale tra il retro di queste tre etichette, davanti sono molto diverse, ma anche dietro sono molto differenti l’una dall’altra. Sulla lattina Del Monte la scritta “prodotto in Kenya” è molto evidente, invece sulla lattina Coop ci sono una serie di indicazioni relative alla sicurezza del prodotto, alle modalità corrette di conservazione, alla qualità di benessere di chi mangia il contenuto perché sono riportati il valore energetico, i carboidrati e quant’altro, ci sono informazioni sulla naturalità della produzione e poi una serie di indicazioni per saperne di più. Sembrerebbe che io stia facendo uno spot per la Coop e invece stia denigrando commercialmente la Del Monte, allora guardiamo meglio: la parolina Thika è scritta un po’ più in piccolo su questa lattina Soleado. E allora scopriamo che anche questa lattina, che sembrava apparentemente diversa, in realtà è identica all’altra. Ha un vestito diverso, però il contenuto è lo stesso. Ma la sorpresa più grande, per lo meno per quanto mi riguarda, l’ho avuta quando ho preso la terza lattina: anche questa è prodotta in Kenya, a Thika. Io non so con che coraggio i signori che vendono queste lattine mettono queste etichette con le quali affermano che tutto è garantito per la sicurezza, la conservazione e il benessere. Vi ho quindi dimostrato che anche se ci sono dei vestiti diversi guardando con attenzione si scoprono delle cose molto interessanti. Queste lattine sono state acquistate nei nostri supermercati. La lattina Coop è stata acquistata a poche centinaia di metri da qua in un grande ipermercato Coop. Soleado è stata acquistata all’IperBennet, che è l’altro grande supermercato che c’è a Cantù. Anche queste due, quella che era in mezzo della Del Monte e quest’altra che aveva anche lei il vestito Del Monte che noi abbiamo tolto sono state acquistate rispettivamente una alla Coop e una al Bennet. Tutto questo non serve per colpevolizzare nessuno, ma probabilmente fa arrabbiare qualcuno. 91 A me ha fatto arrabbiare molto, mi sono sentito molto preso in giro soprattutto da questa lattina più che dalle altre perché almeno le altre ti dicono che è prodotta da una certa parte e tu magari puoi evitare di acquistarla. Questa, invece, dichiara delle sacrosante bugie perché la sicurezza, la conservazione, il benessere sono tutte boiate per via del fatto che – ed è quello che a noi interessa sottolineare con questa campagna – la produzione di queste lattine, che contengono come avete visto ananas, avviene in una piantagione dove i diritti dei lavoratori sono tutt’altro che tutelati. Abbiamo preparato questa piccola brochure, sono poche pagine che contengono però molti dati su questa questione, potete poi andarli a verificare. Fra le altre cose potete verificare che chi lavora in questa piantagione guadagna per otto ore di lavoro 96 scellini kenyani pari a meno di quattromila lire. 96 scellini, cioè quattromila lire, potrebbero essere poco o tanto a seconda del livello l’inflazione. Andando a guardare con più attenzione quella realtà si scopre però che 96 scellini sono pochissimo, quasi niente. Molte di quelle persone che abitano in quei quartieri a Korogocho dove opera padre Alex Zanotelli sono contadini privati delle terre che sono costretti ad andare a vivere in città e lì non c’è l’Hilton ad aspettarli, ma c’è Korogocho, l’inferno. Alcuni sono partiti dalle terre più ricche e più fertili del Kenya. Queste persone guadagnano 96 scellini kenyani al giorno: se un abitante di Korogocho dovesse andare a lavorare in questa piantagione senza doversi trasferire lì a vivere (molti lavoratori stagionali per il periodo della raccolta si sistemano in qualche modo intorno alla piantagione in situazioni molto analoghe a quelle di Korogocho), ma facendo il pendolare dal momento che la distanza è breve, per andarci con un mezzo pubblico dovrebbe spendere qualcosa come 30 scellini per andare e 30 scellini per tornare, quindi più o meno 60 scellini se ne andrebbero così. Gliene resterebbero 36. Mezzo litro di latte a Korogocho costa 22 scellini e questo significa che con quello che gli rimane dopo aver pagato il pullman pagherebbe meno di un litro di latte. Che cosa vogliamo e cosa chiediamo con questa campagna? Non solo vogliamo denunciare le condizioni dei lavoratori, ma c’è di mezzo anche il benessere per chi mangia. Se date un’occhiata alla brochure che abbiamo preparato scoprite che questi ananas, oltre ad essere coltivati in situazioni di assoluta negazione dei diritti dei lavoratori, sono anche pro- 92 dotti con metodi poco naturali utilizzando sostanze dannose come pesticidi di vario genere. Questa è una campagna che abbiamo avviato insieme al Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano, abbiamo preparato questo materiale e lo stiamo divulgando con il sostegno anche di altre associazioni italiane. Oltre a questa brochure esplicativa abbiamo preparato un volantino in cui c’è una spiegazione sintetica del tutto e quattro cartoline da inviare. E questa è la cosa che vi chiediamo di fare: divulgare, diffondere e inviare queste cartoline. Una va spedita a Sergio Cragnotti e questo è un altro particolare interessante che si può scoprire non dalla lattina, ma andando a vedere qual è la struttura proprietaria del pacchetto azionario, delle azioni di questa multinazionale. Così facendo, si scopre che il proprietario della maggioranza delle azioni, chi controlla la Del Monte Kenya, è Sergio Cragnotti, noto imprenditore italiano e presidente della squadra di calcio della Lazio. È una proprietà di fatto italiana, quindi c’è un motivo aggiuntivo che dovrebbe spingere noi, in quanto italiani, a fare questo lavoro di informazione, di sensibilizzazione e anche di presa di posizione. Non si tratta per ora di una campagna di boicottaggio, è una campagna con cui si richiedono alcune cose ad una multinazionale. Noi chiediamo a Sergio Cragnotti, in quanto principale azionario della Del Monte Kenya, di innalzare i salari a livelli dignitosi, di garantire ai lavoratori tutti i diritti previsti dalle leggi e dai contratti – e in Kenya ci sono contratti collettivi, ma non vengono applicati –, di abbandonare l’uso di prodotti chimici particolarmente dannosi e di adottare misure protettive adeguate, di accettare il controllo di una commissione indipendente concordata con gli organizzatori della presente campagna. La seconda cartolina, invece, vorremmo che la destinaste all’Associazione Italiana Calciatori e, in particolare, al presidente, che è l’avvocato Sergio Campana e sostanzialmente ripetiamo le stesse richieste sottolineando, fra l’altro, che la Del Monte sponsorizza un’importante squadra di calcio italiana adesso in testa al campionato. Infine c’è la Coop. Io ho un carattere molto irascibile e avrei preferito un altro tenore per questa cartolina che, invece, chiede semplicemente di intraprendere alcune azioni dal momento che la Coop si è dimostrata molto sensibile a queste questioni. Abbiamo però pensato che, usando un tono diverso, probabilmente questa grossa azienda italiana avrebbe reagito magari tagliando i contratti e non è quello che noi vogliamo: la 93 Coop deve fare pressione perché la Del Monte Kenya applichi i contratti collettivi e tutte le altre richieste. Per questo chiediamo sostanzialmente alla Coop, in quanto grossa azienda italiana che diffonde questo prodotto, che si attivi per chiedere a chi di dovere le stesse cose che chiediamo con la prima cartolina. La preghiera che vi facciamo è di prendere questo materiale, di darci una mano nella distribuzione e di questo mi ha pregato in particolare anche Franco Gesualdi. Noi adesso diffondiamo questa campagna a livello locale, ma a livello nazionale è stata anticipata sul numero di questo mese di Nigrizia e dal settimanale Avvenimenti che l’ha messa in prima pagina la settimana scorsa. Subito dopo l’uscita di Nigrizia e di Avvenimenti il responsabile di Del Monte Italia ha telefonato al Centro Nuovo Modello di Sviluppo chiedendo se era possibile fermare questa campagna e trovare un accordo. Del Monte in realtà non è la proprietaria di Del Monte Kenya perché il vero proprietario è Cirio, cioè Cragnotti e questa campagna produce un effetto negativo sull’immagine Del Monte in generale. Secondo loro, quindi, il nostro tiro non è andato a segno e bisognava attuare una trattativa, un accordo per evitare conseguenze negative. Questo preannuncia, io credo, qualche possibile ulteriore reazione in futuro ed è evidente che se queste reazioni fossero molto dure, soprattutto a livello italiano, non basterebbe una colletta che potremmo organizzare tra noi, anche se fossimo in tanti, per sostenere l’eventuale impatto di una possibile querela. Tutto quello che abbiamo scritto è documentato, molti di noi, tra i quali io personalmente, siamo stati testimoni oculari a Thika e poche settimane fa è stato nostro ospite nella sede del Coordinamento comasco per la Pace il rappresentante dei lavoratori della piantagione Del Monte di Thika il quale ci ha detto che, tra le altre cose, lì sarebbe utilizzato il fruitone. Uso il condizionale in questo caso perché non c’è la prova, non abbiamo uno strumento che potrebbe essere utilizzato in sede legale per dimostrare che effettivamente le cose stanno così. Lui ci ha portato – però in sede giudiziale si potrebbe obiettare che potrebbe essere stato preso altrove – una scatola di una sostanza che si chiama fruitone che un tempo era utilizzata in quasi tutto il mondo come pesticida, ma oggi è vietata dalle legislazioni dei Paesi di tutto il mondo con l’eccezione, mi pare, della sola Tailandia. È evidente, quindi, che il contenuto di questa piccola brochure può dar fastidio e allora quello che vi chiederemo è di sostenere questa campagna anche economicamente. 94 Abbandonando l’ipotesi peggiore, quella della querela, l’ipotesi migliore è che si apra la possibilità che una delegazione, come noi chiediamo in quella cartolina, che comprenda anche rappresentanti degli organismi che hanno avviato la campagna venga invitata a fare dei controlli affinché la multinazionale si impegni a rispettare le regole che qui vengono indicate. In quel caso questi viaggi, dei quali uno non è così improbabile forse anche a tempi brevi, avranno dei costi. Un’altra questione molto importante riguarda il possesso della terra, la necessità di possedere la terra per poter da lì partire per costruire con le proprie mani condizioni di vita migliori come hanno sottolineato alcuni dei relatori che abbiamo avuto ospiti in questi giorni e come sicuramente faranno altri nel pomeriggio di domani. A questo proposito occorre tenere conto che la piantagione di Thika, secondo quanto dichiara Del Monte Kenya, ha le dimensioni di 5 mila ettari, quindi è molto estesa e molto probabilmente è molto più ampia di quello che loro dichiarano. Un contadino che lavorava lì, un bracciante, mi ha raccontato che con un ettaro di questa terra, che è la terra più fertile del Kenya, una famiglia di sei persone può vivere in condizioni più che buone, può avere quel che serve per la propria autosussistenza, per la propria sopravvivenza, può ricavare anche un tanto in più da poter commercializzare in piccola economia locale. Questo mi è stato poi confermato da una persona di Korogocho che ha studiato, che ha avuto modo di fare l’università e che ha compiuto una ricerca in questo senso. Se facciamo i conti e consideriamo che siano veri i dati che loro danno, moltiplichiamo 5 mila per 6, ricaviamo che ci sono 30 mila persone che potrebbero vivere più che dignitosamente. E siamo ancora bassi nella nostra stima perché in realtà le dimensioni sono più grandi, quindi minimo 30 mila persone potrebbero vivere dignitosamente. Invece a Thika lavorano cinquemila persone nelle condizioni che dicevamo prima e molti di questi sono stagionali per cui lavorano nel periodo della raccolta degli ananas e poi, per gli altri mesi dell’anno, via. Tutta la piantagione è circondata da filo spinato ed è controllata da personale sudafricano perché la precedente proprietà era sudafricana. Si tratta di personale che sui controlli a persone appartenenti ad etnie diverse e a popoli diversi da quello con la pelle bianca non vanno tanto per la leggera. In una stessa realtà ci sono le due facce di una medaglia: da una parte Korogocho, che è il volto della povertà assoluta e dall’altra il profitto assoluto, quello delle grandi multinazionali, ma anche delle piccole multinaziona- 95 li locali con aspirazioni da grande azienda rispettosa di tutti i diritti dei lavoratori che nei fatti invece si comportano come le altre aziende che rispettose non si dicono... il riferimento è chiaro, mi pare. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Kossi Komla Ebri les Cultures di Erba Vorrei portare un mio piccolo contributo finale a questo discorso sulla speranza dei popoli a un passo dal nuovo millennio. Per quanto riguarda l’Africa le prospettive per il futuro sembrano abbastanza difficili, i problemi sono tanti, i problemi di diversi paesi. I denominatori comuni di tutti questi problemi hanno nome: crisi politiche istituzionali, crisi economiche, crisi della democrazia, conflitti etnici, ignoranza, povertà, corruzione e malattie e l’insieme di tutti questi fattori è alla base della regressione e della marginalizzazione di tutto il continente africano che non riesce ad agganciare il treno della storia dell’umanità. Io non sono tra coloro che si nascondono sotto il paravento della colpevolizzazione eterna dell’Europa e del Nord del mondo. Certo non si possono dimenticare fatti così terribili come la tratta degli schiavi che iniziò proprio dalle nostre coste, o il colonialismo che permise lo sfruttamento delle nostre ricchezze, ma per rigore di verità è giusto ristabilire la corresponsabilità storica degli africani stessi sia allora che oggi alle loro disgrazie. Fra questi problemi dopo l’indipendenza con il suo corollario di neo-colonialismo, l’indipendenza ha fatto dell’Africa il continente delle contraddizioni degli stati autocratici, senza strutture economiche sociali, delle gigantesche capitali e un entroterra morto, una natalità galoppante su territori dal ricco sottosuolo, funzionari corrotti, esercito prepotente, criminalità ingravescente, delle enormi ricchezze personali ed una popolazione schiacciata dalla miseria. La demografia: ci dicono che nel 2050 la Nigeria avrà 600 milioni di abitanti. Sappiamo che 1 milione e mezzo di bambini nascono in Africa ogni anno; già ora la metà della popolazione in Africa ha meno di 21 anni. I giovani con meno di 15 anni rappresentano più della metà della popolazione sia in Nigeria, in Senegal, in Togo che in Ghana, eppure nonostante il raddoppio della popolazione la densità media in Africa nel 2050 sarà solo di 30 abitanti per chilometro quadrato. L’Africa quindi non sarà abbastanza popolata anche se certe regioni lo saranno o lo 96 sono già troppo. L’Africa in fondo è un continente vuoto perché le popolazioni sono disperse per distribuzione ineguale delle popolazioni tra le varie regioni e tra la campagna e la città. Il suo ritmo di crescita è troppo forte paragonato a quello della crescita economica; rallentare la prima e accelerare la seconda, questa forse è la sfida principale di questo fine secolo per i governi africani. L’altra grossa piaga per l’Africa è il debito estero, il debito estero dei 41 tra i paesi più poveri del mondo è stimato a 2 miliardi e 177 di dollari. Con questo debito siamo entrati in un circolo vizioso che si automantiene in quanto è impossibile svilupparsi senza indebitarsi e indebitandoci non riusciamo a svilupparci. I paesi africani che hanno commesso l’errore largamente suggerito dall’estero di finanziare un’incerta crescita con il credito, devono ora rimborsarlo: l’Egitto, la Nigeria, l’Algeria per esempio devono oggi ognuno 32 milioni di dollari. La Nigeria consacra il 44 per cento delle proprie ricchezze, provenienti essenzialmente dal petrolio, al rimborso di questo suo debito. Forse alcuni di noi non sanno che ci sono stati africani in cui gli stipendi non sono pagati da 3 a 6 mesi. Come possiamo in questa situazione aspettarci di vedere la disoccupazione indietreggiare nei grandi centri urbani, costruire delle infrastrutture, istituzioni essenziali, vitali come gli ospedali, le strade oppure arginare la stessa emigrazione? L’indebitamento diventa così un freno per la democrazia e il progresso di 700 milioni di africani, in quanto il tutto ci porta ad un altro doppio paradosso: si chiede un prestito per rimborsare e non per investire e di conseguenza per carenze di nuovi investimenti si diventa ogni giorno di più incapaci di rimborsare il debito accumulato. D’altra parte i debiti aumentano, le illusioni diventano effettive e subdoli mezzi di ricatto. Certo bisogna sperare, sperare – dice il dizionario – è attendere fiduciosamente qualche cosa che si desidera e nutrire fiducia che possa accadere quanto si desidera. Qual è il nostro sogno? Il nostro sogno parte da una constatazione. La prima constatazione è che non ci potrà mai essere un cambiamento se conosci i coinvolgimenti degli africani stessi: basta con le soluzioni precotte calate dall’alto, basta con l’Africa burattina mendicante alla corte dell’opulenza. Il raggiungimento di una interdipendenza asimmetrica al posto di quella simmetrica o dirigente. E questo passa inevitabilmente attraverso una economia stabile in uno sviluppo limitato, perché come già aveva intuito la grande anima Gandhi, la terra produce abbastanza per soddisfare il bisogno di ognuno, ma non per soddisfare l’avidità di ognuno: quindi sviluppo limitato. E qui occorrerebbe ridefinire il concetto di sviluppo, reinventare l’economia riprendendo gli stessi fondamenti della scienza economica per cambia- 97 re alcuni presupposti impliciti, come quello della priorità della lotta egoistica per la vita. Cioè il sapere economico deve stabilirsi non su premesse di volontà di potenza, come abbiamo visto, di ricerca del profitto ad ogni costo, ma su quelle della buona organizzazione di vita dei gruppi umani secondo la stessa etimologia del termine economia. Quindi se abbiamo identificato gli ostacoli in questi quattro che potevano essere: la divisione etnica, la democrazia, il debito, la demografia, bisogna che troviamo una soluzione. Divisione etnica e demografia: a dire il vero il miglior modo per risolvere la problematica del cosiddetto “tribalismo” in Africa senza sacrificare il valore della solidarietà è quello di inventare un nuovo contratto sociale che consideri il potere un servizio e non un privilegio. Dobbiamo costantemente ricordare ai nostri dirigenti e ai loro cortigiani alleati dell’Europa che li mantengono e li aiutano a rimanere al potere, che la libertà di pensare, di esprimersi e di agire rispettando così i principi fondamentali dei diritti dell’uomo è un fattore essenziale dello sviluppo. Per quanto riguarda la demografia, il ruolo dello stato è fondamentale di fronte al problema della demografia in Africa, non si tratta di fare come in Cina: il processo deve essere prima di tutto pedagogico e molto prudente per non provocare la mobilizzazione della tradizione e dell’istinto. Si tratta di convincere che i figli essendo meno numerosi avranno ancora più valore, che il benessere dei genitori non è strettamente legato alla procreazione di una discendenza numerosa e famelica, teoricamente capace di lavorare fin dalla più tenera età e di nutrirli quando saranno vecchi, ma alla possibilità data ai loro figli di accedere attraverso l’educazione ad un futuro migliore. La soluzione alla demografia passa quindi inevitabilmente per l’istruzione, soprattutto delle donne. La demografia ci dimostra oggi che gli stati africani che hanno il più alto tasso di alfabetizzazione hanno anche il più basso tasso di natalità. Il debito: ci sono, come abbiamo visto, dei passi timidi in questa direzione; si spera che nei paesi che non potranno godere dell’annullamento di questi debiti la difficoltà possa essere superata se il debito sarà pianificato. Concludo dicendo che a Denver il G7 ha già posto nell’agenda dei propri lavori l’Africa. Forse sta nascendo un nuovo interesse per il nostro continente per ricollocarlo nel mondo, ma nasce oggi l’obbligo di un nuovo patto di solidarietà non di quella che oggi si definisce la solidarietà del cavaliere e del cavallo. Il nuovo rapporto tra l’Europa e Africa deve essere costruito insieme ascoltando l’Africa e suoi protagonisti, mettendosi in atteggiamento di dialogo reciproco definendo un’impostazione di corresponsabilità. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ 98 domenica 21 novembre Le speranze dei popoli a un passo dal nuovo millennio Testimonianze dall’Europa ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Renzo Scapolo associazione Sprofondo Sono arrivato all’una di questa notte con ancora negli occhi un sacco di facce. Alcune di loro avevano delle lacrime tristi-allegre, nel senso che queste centinaia di persone che abbiamo incontrato settimana scorsa hanno bisogno di sapere che non li abbandoniamo. L’impressione che trasmettono le zone del dopoguerra è quella di una famiglia che si è ribaltata sull’autostrada, si è incendiato il motore, i passeggeri sono rimasti dentro, un po’ morti, un po’ bruciati, qualcuno ne è uscito traumatizzato. Finalmente arrivano i pompieri, spengono l’incendio, tirano fuori quelli che sono vivi, poi il capo dei pompieri saluta il papà e dice: «Abbiamo spento la guerra, abbiamo spento l’incendio. Coraggio, tornate a casa». Poi ti saluta e se ne va. Tu sei lì, nella notte, con la moglie dentro la macchina con la spina dorsale rotta, tuo figlio morto bruciato e le macchine passano veloci. Tu sei lì tentando di fermarne qualcuna, ma non ti vedono. Simile a questa è la situazione della gente di Sarajevo: l’incendio è spento però è tutto rotto, ci sono i morti, ci sono le ossa rotte e soprattutto ci sono i sentimenti rotti, le speranze rotte. La grande assente a Sarajevo, voi l’avrete captato, è la speranza. La speranza non è più di casa e sul giornale di domenica c’era la notizia che 50 mila bosniaci stanno aspettando il visto per uscire dalla Bosnia. Un terzo di loro sono ancora in giro per il mondo. Per questo noi dobbiamo assolutamente trovare il sistema di far vedere a quella gente che siamo lì. Andrea, che è il nostro piccolo grandissimo 99 volontario, ci ha dato un suggerimento che dobbiamo realizzare anche perché costa poco. Dice che c’è una telecamera che è collegata ad Internet che dà l’impressione, quando si è in riunione, di essere uniti a quelli dall’altra parte. Infatti l’altra sera eravamo a mangiare una pizza insieme ai volontari che erano là quest’estate e abbiamo telefonato ad Andrea. Io ho detto: «C’è Andrea al telefono». E dall’altro capo ho sentito la voce di Andrea che ci ha gelato: «Ah, sento che siete in tanti, quasi in troppi. Io sono qui da solo». Penso che dobbiamo assolutamente far sentire ad Andrea e a Sarajevo che non sono soli. Voi che siete stati lì dovete aiutarli, dobbiamo tutti aiutarli. Anche con questa simpatica diavoleria telematica possiamo dire: «Vedi che siamo tutti insieme!». È chiaro che non si tratta solo di un trucco psicologico, ma dobbiamo inventare una forma per stare vicino a questa gente bruciata e dire loro che siamo accanto a loro per aiutarli a rimarginare le bruciature, non tanto quelle del corpo, non solo quelle delle case, ma quelle dell’anima. Che questa semenza che vogliamo piantare ancora nelle terre bruciate a Sarajevo e dintorni rispunti con i tepori della prossima primavera, che rispunti la speranza. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Paolo Ricca pastore valdese Parlerò soltanto in riferimento al Cristianesimo perché è l’unica religione di cui conosco la storia — e anche l’anima, spero —, ed è l’unica religione di cui mi faccio carico, sia perché cerco di essere cristiano, sia perché cerco di capire quale è stato ed è il rapporto tra Cristianesimo e pace, ma soprattutto tra Cristianesimo e guerra e Cristianesimo e violenza. Perché voi sapete che, purtroppo, c’è stata una teologia della guerra prima di una teologia della pace, nella storia del Cristianesimo, e questo è appunto il segno fatale di una mutazione genetica, come la chiamo io credo non a torto, del Cristianesimo stesso, avvenuta con la svolta costantiniana. Vorrei percorrere insieme a voi alcune tappe del rapporto tra fede biblica, quella che è testimoniata nell’Antico e nel Nuovo testamento, e fede cristiana, tappe che mi sembrano significative per la nostra riflessione, per l’analisi del rapporto tra cristiane- 100 simo e pace. Prima però dobbiamo parlare del rapporto tra cristianesimo e guerra, perché dobbiamo fare i conti con una storia negativa e non si può cominciare la pace se non ci si rende conto di essere stati programmati per la guerra. Questo è il dramma, questa è la difficoltà nostra: siamo ancora cristiani programmati per la guerra. Poi si può fare della retorica, ma in realtà non abbiamo gli strumenti né tecnici, né soprattutto interiori, spirituali, per essere una reale forza di pace in mezzo ai popoli. La prima è naturalmente la tappa che in generale il sacro ha con la violenza, il rapporto che ha il sacro con la violenza. Il fatto generale che riguarda anche il cristianesimo è che il simbolo del cristianesimo è una croce, e su questa croce c’era un uomo, che poi secondo la fede cristiana non era soltanto un uomo ma era Dio, e il simbolo che assume tutto il messaggio è questo patibolo: più violenza di quello non so cosa ci possa essere. Ma appunto il messaggio cristiano è che quel simbolo è l’ultimo, è il simbolo che cancella, che inizia una storia nuova, è il simbolo che rompe l’alleanza tra sacro e violenza per istituire l’alleanza tra sacro e non violenza. Quindi la prima considerazione che volevo fare è questa: non ci deve stupire se il Cristianesimo, come tante altre espressioni del sacro, ha alle sue spalle una storia non pacifica. Non ci dobbiamo stupire perché fa parte di un retaggio generale che abbraccia il Cristianesimo, l’Ebraismo, l’Islam e anche tante altre religioni, in cui soprattutto l’idea del capro espiatorio, ha avuto un ruolo enorme. Quindi non ci dobbiamo stupire se non siamo programmati pacificamente perché il fatto di appartenere in qualche maniera diretta o indiretta all’universo del sacro ci colloca in un diagramma umano e culturale molto compromesso di per sé con la violenza, con l’idea del sacrificio. Pensate alla pagina biblica, impressionante da tutti i punti di vista, di Abramo ed Isacco, un padre con il pugnale sul figlio per comando di Dio, non so se mi spiego. Toglie il fiato, quella pagina lì. Poi ci rimette un montone e, si dice va beh, solo un animale, ma anche lì ci vuole comunque una morte, deve correre il sangue. Anche quella è violenza, voi sapete che oggi una delle più grandi forme di violenza è quella sugli animali, una cosa seria non è che si dice tanto sono animali, non si risolve il problema in questa maniera. Ma nel Cristianesimo a questo primo abbinamento tra religione e violenza, che deriva dall’abbinamento sacro e violenza, se ne è aggiunto un altro: l’alleanza con il potere politico. La seconda tappa di questo itinerario è naturalmente Gesù. Anzi, prima potremmo dire una parola sul diluvio, sul fatto che a un certo punto c’è questa estrema manifestazione di violenza connessa con il peccato dell’uo- 101 mo, per cui Dio manda il diluvio che distrugge l’umanità tranne Noè e l’arca. Ma quello che è straordinario secondo me in quella pagina biblica è che, dopo il diluvio, Dio si converte alla non violenza, dicendo: «Non manderò più il diluvio». Questo perché il disegno nel cuore dell’uomo è malvagio fin dalla giovinezza e Dio se ne accorge: la violenza non guarisce, non fa crescere, non purifica. Al contrario di quello che dicevano i fascisti, non soltanto nel senso politico, ma proprio come visione della vita, del mondo e dell’uomo, che ci si tempra con l’acciaio delle armi e si diventa uomini maneggiando la spada. Dio invece si accorge che la violenza produce morte e non vita nuova, né umanità, giustizia, pace. A mio giudizio, dunque, nelle pagine antiche della Bibbia c’è la straordinaria conversione di Dio alla non violenza, e ci viene incontro quella figura di colui che non manda più il diluvio, che non fa più piovere la bomba atomica, che non ricorre più alla violenza per guarire l’umanità malata. Poi abbiamo Gesù, ma qui il discorso sarebbe lungo e poiché credo che siete familiari con tutte queste cose, quindi credo che passerò oltre. Dico soltanto che ci sono delle parole, in Gesù, che sono come delle parole di fuoco scritte nella nostra coscienza, mentre varchiamo il millennio e ci prepariamo al tempo che si apre con parole scritte dentro ai nostri cuori e alla nostra anima. Ad esempio «Beati i mansueti perché vedranno la Terra», non il cielo ma la terra, come diceva Boudelaire «lasciamo il cielo ai cristiani e ai passerotti noi ci teniamo la Terra». «Beati i costruttori di pace perché saranno chiamati figli di Dio»: ai costruttori di pace non interessa se sei cristiano, buddista, protestante, cattolico o ateo, non interessa, ma interessa se costruisci la pace o no. Se la costruisci sei chiamato figlio di Dio, sei figlio di Dio. Se sei strumento di pace sei figlio di Dio. Portiamo queste parole dentro di noi. Sono queste le parole del futuro. Poi ci sono degli episodi straordinari, ma il discorso sarebbe lungo e ne ricordo soltanto uno. È quell’episodio bellissimo quando Gesù insieme ai suoi discepoli passa accanto ad un villaggio di samaritani che non li accolgono; allora i discepoli dicono: «Dobbiamo far venire il fuoco su questo villaggio», bruciare tutti al napalm come abbiamo visto tante volte nella giungla del Vietnam. Gesù dice: «No, andiamo oltre», nessun diluvio, nessun napalm, nessuna bomba, nessun mitra, nessun Rambo. Anche questo mito di Rambo, che sarebbe la vera personificazione dell’uomo, dell’uomo giusto che non parla mai spara soltanto: non è questo l’uomo che noi cerchiamo, non è questa l’umanità che vogliamo costruire. L’uomo disarmato: non sei mai tanto uomo quando non hai le armi. Hai la parola e hai il tuo corpo, ed è l’unica arma insieme allo spirito. Questo è Gesù, que- 102 sto ci ha lasciato in un’eredità indimenticabile. Per non parlare di quell’episodio che è quasi umoristico eppure tragico e drammatico, quando, vi ricordate, Pietro tira fuori la sua spada per difendere non si sa chi, se se stesso o Gesù, e Gesù dice: «Io potrei chiamare dieci legioni di angeli, ma non li chiamo, non voglio la violenza, neanche quella degli angeli». Questo è un messaggio, questa è una parola che ci portiamo nel millennio. Non essere vinto dal male, ma vinci il male con il bene. Paolo l’apostolo, Paolo il più grande discepolo di Gesù è quello che l’ha capito meglio di tutti. E poi, ancora soltanto questo riferimento bellissimo, un brano nella lettera agli Efesini dell’apostolo Paolo, capitolo 6, che io chiamo lo strip-tease del legionario romano. L’apostolo Paolo immagina il legionario romano, che come sapete è la grande figura che ha fatto poi l’impero, perché l’impero non l’hanno fatto i politici ma, come sempre, gli eserciti. Comunque, dicevo, c’è il legionario romano e l’apostolo Paolo lo immagina e lo spoglia: non dobbiamo dire che il re è nudo ma che il soldato è nudo. Lo spoglia, gli toglie l’elmo, la corazza, la spada, i calzari, tutto quello che è l’armatura del legionario romano. Paolo pezzo per pezzo lo smonta e lo riveste con l’armatura di Dio, cioè con la spada della fede, con l’elmo dello spirito, con la corazza di non so più di che cosa, ma insomma tutta una ricostruzione. Ecco l’uomo nuovo, non il Rambo romano, ma l’uomo cristiano. Questo è quello che portiamo noi dentro, questa è l’immagine che abbiamo davanti a noi. Questo era quello che fin dalla conversione di Dio, dopo il diluvio fino alla storia di Gesù, alla sua figura di parole, atti e gesti, ci portava in una direzione di costruzione di pace. Purtroppo il cristianesimo storico ha abbandonato questa strada e questa è quella che chiamo la mutazione genetica del cristianesimo avvenuta soprattutto nel IV secolo. Vi voglio ricordare, perché è molto emblematico, il famoso sogno di Costantino. La notte prima della battaglia decisiva del Ponte Miglio a Roma contro Massenzio, lui fa un sogno e in questo sogno vede non so chi che gli dice: «Guarda, non cominciare la battaglia se prima non avrai messo sugli scudi dei tuoi soldati il segno di Cristo». E il segno di Cristo è una x attraversata da una i ricurva in cima, cioè il famoso crittogramma di Cristo. Naturalmente Costantino mette sugli scudi il segno di Cristo, vince ed è la prima volta che il nome di Cristo viene legato ad un’arma bellica, ad uno strumento bellico. La prima volta che nella comunità cristiana non si usa soltanto la forza della parola, o la forza dello spirito, bensì la forza delle armi. Questa è la mutazione genetica che è poi continuata attraverso i secoli e di cui ancora noi portiamo il segn. È inutile che vi parli delle crociate, che tuttavia sono state anch’esse 103 una parte cospicua di questa lunga storia. Infatti, dal XI al XIV secolo della nostra storia cristiana la crociata è stata il perno della politica papale. C’è tutta la tradizione francescana anti-crociata, di cui si dovrebbe parlare a lungo: sempre ci sono state grazie a Dio nel Cristianesimo sempre delle iniziative alternative, non è una storia univoca, c’è stata sempre un’opposizione minoritaria e battuta, emarginata. Vi voglio leggere qualcosa tanto per darvi un’idea del fatto che non parliamo di cose così costruite, ma piuttosto per provare che è esistita una mistica della crociata, una letteratura incredibile. Una voce del 1187, tratta dal poema di San Gallo, invita a partecipare alla crociata nei termini seguenti: «Se la santa croce un giorno ti ha redento, tu ora redimi la croce», cioè vai in Palestina a liberarla dai Turchi, dall’impero Ottomano, dai mussulmani. Redimi la croce con la spada, pensate. E diventa redentore là dove fosti redento. Il capitolo delle guerre di religione, complesso finché si vuole, è pur sempre un capitolo della storia cristiana. C’è poi tutto il capitolo della nazionalizzazione di Dio, legato alla militarizzazione di Dio, cioè tutto l’800 con la religione della patria e il processo della nazionalizzazione e della militarizzazione di Dio. L’accaparramento nazionalistico di Dio — e non so se siamo usciti da questa visione — : con la spada redimi la croce. Voglio concludere con una parola di speranza: io ho voluto semplicemente parlare di casa nostra, di quello che abbiamo alle spalle, ma quello che abbiamo alle spalle lo abbiamo anche dentro. Dire“religioni per la pace, per il 2000” implica un severo esame di coscienza del nostro passato. E questo nostro severo esame di coscienza è la premessa per appunto disporci in una prospettiva diversa da quella che è stata la collocazione del cristianesimo storico rispetto alle questioni della guerra e della violenza. Per poi porci in una maniera nuova, antitetica a quella descritta, pur un po’ sommariamente, fin qui. Noi abbiamo delle indicazioni, perché oltre a quelle bibliche a cui ho fatto riferimento, ce ne sono molte altre nella storia del cristianesimo: c’è sempre stato infatti un filo logico di testimoni della pace, sia gruppi che individui, che non è mai mancato. Dio non ha fatto mai cessare questa voce e anche nel nostro secolo noi abbiamo molti che ci aiutano e ci hanno aiutato, incoraggiandoci ad essere più coraggiosi nel nostro impegno per la pace. Qui c’è monsignor Bettazzi che è stato per tanti anni presidente di Pax Cristi, un segno bello che ci fa sperare, ci sono gruppi sono movimenti: piste percorse da pochi, ma importanti. Così come sono importanti il Mir, il Movimento Internazionale per la Riconciliazione e tanti altri movimenti. Come è importante tutta la tematica lanciata dal consiglio ecumenico delle chiese: giu- 104 stizia, pace ed integrità, salvaguardia del creato. Anche lì la coscientizzazione del cristianesimo per la sua responsabilità specifica nei confronti della pace è un processo in atto, un processo che cammina e che va avanti. Poi pensiamo a mille altri testimoni martiri del nostro secolo caduti sul fronte della pace. Tutti questi sono segni importanti, segni incoraggianti e sono i semi di un nuovo cristianesimo. Io credo che non sia un espressione retorica, demagogica ed eccessiva parlare di un nuovo cristianesimo, perché per quanto riguarda la questione del rapporto tra cristianesimo, violenza, pace, guerra, credo che abbiamo bisogno di qualche cosa del genere e di chiedere a Dio che ci dia il coraggio di credere fino in fondo, in questo stupendo e meraviglioso Vangelo della pace, di essere noi stessi investiti fino in fondo da questa conversione di Dio alla pace e alla non violenza. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Luigi Bettazzi vescovo emerito cattolico Noi diciamo: «Pace in terra agli uomini di buona volontà», e agli altri guerra. Abbiamo sempre fatto così. Questo è accaduto perché abbiamo messo tra Dio e l’uomo la mediazione della Chiesa, tant’è vero che quando divenne ancora più pesante la mediazione della Chiesa e della gerarchia, i fratelli evangelici dissero: «Solo la scrittura conta». Ciò ha determinato nuove guerre: quando pensiamo ai Valdesi dobbiamo sempre chiedere perdono per quanti ne abbiamo uccisi, perfino approfittando della Pasqua, delle Pasque piemontesi fino al 1848 quando finalmente sono stati riconosciuti cittadini come gli altri. La religione è diventata motivo di guerra e di oppressione. Noi li ringraziamo perché, tenendo fede alla Parola, ci hanno aiutato a riscoprirla. Prima del Concilio Vaticano II quello che contava era la parola della Chiesa, catechismi, encicliche, lettere pastorali, quando vedevamo uno con la Bibbia dicevamo: «È un protestante», perché i cattolici non avevano mica bisogno della Bibbia! Ma la Parola della Chiesa serve, ci aiuta ad accogliere la parola di Dio. Diceva un romanziere inglese che i laici nella Chiesa assumono tre atteggiamenti fondamentali: in ginocchio, seduti e con le mani in tasca. In ginocchio quando prega il prete e si assiste, seduti quando parla il prete e si ascolta, con le mani in tasca quando passa a raccogliere le offerte. Un 105 po’ umoristico, ma la Chiesa sono i credenti, ogni cristiano è Chiesa. Le strutture servono perché noi possiamo essere Chiesa e ciò che costituisce la Chiesa, la caratteristica dei credenti in Gesù Cristo è la comunione, «essere una cosa sola come io e il Padre», dice Gesù. Le strutture servono nel momento in cui costruiscono la fraternità, la solidarietà, la comunione dei cristiani e questo non per chiuderci di fronte agli altri, ma per essere, come comunione di credenti, una testimonianza di pace nel mondo. Come facciamo noi cristiani a predicare la pace se siamo divisi tra di noi? Abbiamo quindi sentito di essere una cosa sola, come abbiamo sentito che dobbiamo ritornare ad essere veramente fratelli per poter dare una testimonianza di pace nel mondo. Questa per noi Chiesa Cattolica è la grande rivoluzione del Concilio, che ha avuto una grande spinta di attuazione da papa Giovanni XXIII non solo perché l’ha iniziato di nascosto per paura che venisse bloccato, ma per la conclusione che ha stabilito: non è possibile vedere la Chiesa di qua e il mondo di là, separati, ma solo la Chiesa e il mondo uniti. È lo stesso concetto che animò l’enciclica Pacem in terris conseguente alla crisi di Cuba. Questa enciclica è grande perché per la prima volta all’interno della Chiesa cattolica un documento così importante è stato rivolto non solo a vescovi, preti, suore, cristiani, ma a tutti gli uomini di buona volontà e perché per la prima volta un papa trattava un argomento non strettamente religioso, ma un tema umano: la pace. Per noi cristiani Gesù è venuto a portare la pace e la gloria in terra, e la pace poggia su quattro pilastri. Il primo è la verità, non la verità per cui abbiamo fatto le guerre, ma la verità dell’essere umano, fin dal primo istante, fino all’ultimo momento, anche se non capisce più niente, qualunque sia il colore della sua pelle, qualunque sia la sua cultura. Questo accomuna tutti, anche chi non crede: Dio si è fatto uomo. Tutto il mondo è fatto per tutti gli uomini, è la destinazione universale dei beni, non «io mi prendo questo e tu arrangiati». Abbiamo tutti un po’ l’idea che se una cosa è nostra ne facciamo quello che vogliamo, ma il primato è la destinazione. È un concetto esistente anche nella legge civile, la destinazione universale dei beni: se i sindaci hanno bisogno di un pezzo di terreno per costruire una strada, pagano e lo espropriano a chi lo possiede. È prevista anche dal Codice civile italiano: se uno ha rubato un pezzo di pane e in casa sua muoiono di fame, il pretore non può incarcerarlo perché il diritto alla vita prevale sulla proprietà. Ma anche i 35 milioni di 106 persone che muoiono ogni anno per fame o per le conseguenze della fame hanno diritto alla vita. Già negli anni ‘80 quando si era in piena guerra fredda e si combatteva Est contro Ovest era crescente la divaricazione tra il Nord e il Sud del mondo, tra la parte più sviluppata e quella meno sviluppata. E infatti nell’Onu sono rappresentati tutti i paesi, ma noi paesi ricchi facciamo a modo nostro, facciamo la guerra con la Nato, abbiamo costituito la Banca mondiale e il Fondo monetario ai quali non prendono parte i poveri. Si stanno pensando leggi per il commercio mondiale corrispondenti agli interessi dei ricchi. Queste sono le radici della guerra, anche perché noi ricchi fabbrichiamo le armi e quando ne abbiamo troppe dobbiamo usarle e dobbiamo sperimentare quelle nuove: se non ci sono le guerre come facciamo? Chi vende le armi ai paesi poveri in modo che si massacrino fra di loro? Queste cose vanno dette perché il pilastro della giustizia è fondamentale per noi cristiani. Il terzo pilastro è la libertà, perché l’essere umano è veramente essere umano solo se è libero. Ma la libertà non è mettere una libera volpe in un libero pollaio: in questo caso tutti sono liberi, ma soltanto la volpe di fatto è libera. Il rispetto delle libertà implica anche il rispetto dell’informazione, perché io sono libero se so le cose come sono, se l’informazione è manipolata io credo di scegliere il meglio, invece scelgo quello che mi hanno proposto. Questo è il grande problema con cui entriamo nel 2000: il pensiero che siamo tutti bravissimi, siamo tutti capaci, ma in realtà siamo tutti guidati da chi ci inculca le idee. Chi possiede le televisioni e le radio le gestisce non per dire bugie, ma per dire le verità nel modo che serve a loro. Il quarto pilastro mi sembra importante per farci comprendere il senso della pace. Papa Giovanni parlava di “amore”, noi oggi diremmo “solidarietà”, non intesa come gesto di benevolenza, ma come dovere di umanità, di giustizia, di restituzione di tutto quello che abbiamo sottratto in passato, come il riconoscimento dei diritti fondamentali dei piccoli, dei poveri, degli emarginati. Le religioni, tutte le religioni, in fondo non si richiamano ad un Dio solo? Lo chiamano con nomi diversi, ma di fronte a un Dio, anche se formiamo categorie sociali diverse, non siamo tutti quanti uguali? Lo stesso Islam, che insiste tanto sull’unità di Dio, poi applica più le tradizioni che il Corano. Noi abbiamo la responsabilità di essere cristiani di Gesù Cristo, che è vero 107 Dio e vero uomo, e quindi dovremmo avere la fede che ci aiuta ad accogliere la sua parola che supera tutte le mediazioni che creano le violenze. Cristo si è fatto uomo perché noi ci perfezioniamo, raggiungiamo la pienezza della nostra umanità. Io credo che di fronte ad un 2000 che si presenta superficiale ed egoista nelle tendenze il cristianesimo si debba aprire alla pienezza della parola e dello spirito di Dio. Il pensiero è un amore forte e proprio per questo si apre alla solidarietà come dovere, un dovere d’amore perché Gesù si è impoverito, come dice San Paolo «ha messo da parte la sua dignità per farsi uomo», ha messo da parte la sua superiorità per farsi obbediente fino alla morte in croce accettando tutte le umiliazioni. Ma attraverso quelle si è proclamato Signore, è risorto ed è cominciato un mondo nuovo. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Bozidar Stanisic scrittore bosniaco Posso presentarmi non soltanto come un ex-insegnante di lettere della exJugoslavia, un paese che fino al 1991 esisteva ancora sulla mappa d’Europa, ma anche come uno dei quattro milioni e mezzo di persone che si sono spostate, volendo o non volendo, dal 1991. Per tutto quell’“esercito” non c’è una terra promessa, non c’è l’Israele. I paesi nei quali vivono disperse per tutto il mondo sono più di 30, ormai molti come me parlano un’altra lingua, non soltanto la propria lingua madre, e molti anche riprendono le tradizioni e le abitudini della gente con la quale vivono. Parlerò molto soggettivamente della mia esperienza bosniaca-jugoslava e di quella in un piccolo paese vicino a Udine che si chiama Zuliano, dal nome di un ex legionario romano Julius che ebbe in regalo dall’imperatore quella terra. Dal 1992 anch’io ho preso un piccolo insediamento presso un centro di accoglienza che porta il nome di Ernesto Balducci. L’esperienza in Bosnia incominciò la sera del 20 novembre 1990. Erano finite le prime elezioni democratiche dopo la seconda guerra mondiale e a dare la notizia – erano le 7.30 – fu la giornalista della TV Sarajevo che lesse i risultati: l’86 per cento dei cittadini della Bosnia-Erzegovina ha votato per i partiti nazionalisti. Per me era un grande trauma, una grande spaccatura soprattutto psicologica, perché non credevo che fosse possibile che succedesse una cosa simile. Da quel mo- 108 mento in poi la Bosnia andava verso un abisso, perché il nazionalismo tira fuori molti sentimenti oscuri, tra i quali l’odio. In quei momenti, in una cittadina della Bosnia centrale dove lavoravo come insegnante di lettere, ho scelto l’impegno diciamo pacifista: con un gruppo di concittadini ho fondato un’organizzazione che aveva il nome di Unione della Gente di Buona Volontà, aperta a tutti. In effetti contava circa 300 persone e anche molti simpatizzanti. Quelli più vicini alle nostre idee erano gli allievi del liceo locale dove insegnavo e un giorno, proprio quando incominciò la guerra in Slovenia e arrivarono i primi profughi di quella zona nella nostra cittadina, io trovai sulla lavagna una scritta: «Noi non vogliamo dividerci. Vogliamo la pace, non vogliamo la guerra». Le cose, però, come sapete, sono andate proprio storte: la situazione precipitava verso una tragedia. Ormai posso dire che molti di quei ragazzi non vivono più nel proprio paese: molti erano i figli nati da matrimoni misti per i quali in molti stati della ex-Jugoslavia non c’è più posto. Le organizzazioni pacifiste locali, se fossero sostenute dalle forze positive in Europa, potrebbero fare molto di più. Nel liceo dove lavoravo posso dire che non vivevo proprio una vita tranquilla, perché anche alcuni colleghi politicamente impegnati nei nuovi partiti mi chidevano: «Cosa farete voi che volete la pace quando incomincerà la guerra, quando si dovrà imbracciare il fucile?». Io sono scappato, non uso un altro verbo, non uso “andare”, ma proprio “scappare” e “fuggire” perché non c’era più posto per un’altra opinione, per una diversità sia nel pensiero, che nella riflessione, che nell’attività. Il posto dove ho trovato rifugio, e che per me è anche una metafora letteraria, è Zuliano di Udine. Lì infatti ho ritrovato quello che molti simili a me avevano perso: ho ritrovato non soltanto una casa, una sistemazione, un ritrovo con i miei familiari, ma anche una collaborazione. A mio modesto parere quel posto è anche simbolico per l’intera Europa: soltanto 50 chilometri più lontano c’è la base dell’Usaf di Aviano, che aveva un grande ruolo nei Balcani. C’è un progetto, che si chiama Zuliano 2000, di ampliamento del centro di accoglienza dal quale vi porto anche i sinceri saluti del responsabile don Pierluigi Di Piazza. Con lui ho parlato anche della vostra iniziativa che ha valutato molto stimolante, e pensa che sia possibile collaborare tra due associazioni, tra due gruppi per trovare dei punti di riferimento molto importanti. Ma a soltanto 50 chilometri di distanza c’è il progetto Aviano 2000. È una grande sfida, Aviano o Zuliano. C’è anche la rima, ma per me in effetti non esiste: non si rimano cose che sono così opposte. C’è antitesi, una grande scelta: 109 pace o guerra, collaborazione e dialogo tra varie religioni, culture, lingue diverse o prepotenza militare. Io mi auguro, alla fine, di vedere in quel micromondo – i Balcani – con i confini permeabili, con la gente che collabora e che affronta le nuove sfide del nuovo secolo, non soltanto in campo economico, ma piuttosto in quello culturale, degli incontri che potrebbero portare la gente verso un nuovo futuro. Per questo dico non dimenticate la Bosnia, non perché portiate un aiuto classico, ma per una collaborazione reale. Prima di concludere voglio leggere un brano. Se lo trovate ironico, positivo o negativo, lo lascio al vostro giudizio: «Dopo ogni guerra noi diventiamo migliori facilmente, portiamo la croce dei nuovi giorni, cerchiamo l’oggi, non ci voltiamo verso i funghi velenosi degli interrogativi che crescono accanto ai sentieri inselvatichiti, erbe taglienti di più che perfetti come per caso spuntate, come per caso affilate. Alle cassandre da tempo abbiamo già predetto il futuro e se del resto già da tanto tempo camminano ai margini della sordità del mondo portando la propria voce sul palmo della mano e noi tranquilli siamo tranquilli e sempre migliori e leggeri». ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Amik Kasoruk scrittore albanese Una locuzione albanese dice «quando uno si scotta le labbra con la minestra, dopo soffia pure sullo yogurt». Mi tornò in mente questo proverbio quando fu assegnato il premio Nobel per la letteratura a Günter Grass. In uno dei principali quotidiani lessi l’impressione a caldo di uno dei rappresentanti più noti della cultura italiana: «Le ultime edizioni del Nobel sembrano quasi tracciare una linea comune, premiando autori impegnati nella sinistra». Ci rimasi male. Speravo che oggi in alcuni intellettuali non fosse ancora radicata una mentalità di parte, che il concetto arbitrario di un’arte sottomessa alle ideologie non fosse sopravvissuto alle grandi trasformazioni di questo secolo. Nei lontani anni Quaranta, quando ero un adolescente, ebbi la sfortuna di vivere un’epoca di trasformazione in peggio della vita spirituale del mio Paese, poiché cominciò a dominare la mentalità di coloro che, come dicevano gli antichi, avevano letto solo un libro. Stava prendendo vita la 110 restrizione dei canoni del realismo socialista, ai quali, per quasi mezzo secolo, venne sottomessa tutta la produzione culturale albanese. Ma, allo stesso tempo, ebbi tra altro anche la fortuna di avere come professore di letteratura un noto poeta di qui tempi, Fejzi Dika, il quale, gentile nell’anima e libero nei pensieri, quando un giorno ci stava spiegando, costretto dal programma imposto, che la vera letteratura doveva considerarsi solo quella che rientrava nella cornice dell’ideologia marxista-leninista, non poté fare a meno di raccontarci un aneddoto dalla vita di Heine, il quale avrebbe esclamato, indignato, «io non voglio vivere quel giorno, quando I’egalitarista trionfante mi dirà: “Perché canti alla rosa aristocratica, canta invece alla patata, alla democratica patata che nutre il popolo!”». Era cominciata, per noi, quell’era, quando dovevamo abituarci all’idea di non trovare più la rosa nei temi letterari. Quando lessi, qualche mese fa, quel parere sull’assegnazione del Nobel di quest’anno, mi chiesi: abbiamo a che fare con l’affermazione di un parere che ha del paradossale? È una valutazione calcolata che tiene conto di un secondo fine, poi non tanto latente? Ma che c’entra l’ideologismo o la coloritura politica con l’arte? Quale opera d’arte ha un carattere di parte? Quale pittura, quale sintonia, quale monumento di architettura è di sinistra o di destra? Confondere le opinioni di un autore con la sua opera artistica, trattare come opera d’arte la presentazione, anche in forma elaborata, di queste opinioni di parte, penso sia un errore madornale. L’autore, quale umano, può essere di destra o di sinistra. Ma se lui rimane soggiogato dalle sue opinioni, se non riesce ad elevarsi sopra le limitazioni ideologiche, se la sua opera porterà il marchio dei concetti a partito preso, avremo forse degli abili scrittori ma non grandi opere. E avremo arche la formazione di un humus ove le zone invalicabili, le esclusioni, l’interpretazione partigiana avranno il sopravvento. La storia recente è testimone di quello che successe in una parte d’Europa. Visar Zhiti è uno dei poeti contemporanei più noti dell’Albania, che qui in Italia ha vinto i premi letterari Leopardi d’oro e Ada Negri. Un giorno, trovandosi all’estero, durante un convegno, qualcuno gli chiese se la sua poesia fosse di destra, avendo lui passato otto anni della sua vita in carcere per motivi politici. E Zhiti, che aveva sofferto l’inferno nel campo di lavori forzati nelle gallerie sotterranee della miniera di Spac sotto la dittatura comunista, rispose: «Veramente non lo so. Io non conosco una poesia di destra e una di sinistra. Conosco solo della buona e della cattiva poesia!». 111 L’imposizione degli ideologismi sull’arte non ha portato a nulla di buono. L’affermazione di Lenin, «la letteratura... deve essere per nove decimi una letteratura di partito» portò a limitazioni inconcepibili. Nel mio Paese ne sanno qualcosa sulla eliminazione fisica di molti scrittori, sulle carcerazioni di intellettuali, sulla interdizione di buona parte della creatività letteraria albanese, sull’impoverimento degradante della vita spirituale di un intero popolo. Non poteva non cristallizzarsi la polarizzazione della società. Espressione eloquente di questa polarizzazione fu appunto la letteratura conformista, panegirista, osannante, tanto da causare l’allergia per “l’arte del realismo socialista”. In carcere, poco prima di morire, il poeta Trifon Xhagjika, amareggiato ma fiero, apostrofava così lo Stato socialista: «Non posso perdonarti. /Uccidimi se vuoi;/ nelle tue notti insanguinate / sentirai il mio spirito:/ Ti odio, Repubblica,/ nutrice degli dei dal sangue infetto!». Uno dei più grandi lirici albanesi degli anni ’30-’40, Lasgush Poradeci, scelse la via del silenzio e si dedicò unicamente alle traduzioni (peraltro eccellenti) per non unirsi al coro degli adulatori del regime. La letteratura albanese non conobbe più le sue liriche, ma si arricchì del valore di una vita degna. Arshi Pipa aveva conosciuto il carcere prima di fuggire illegalmente in occidente, dove proseguì a contribuire allo sviluppo della cultura nazionale, Musine Kokalari, la delicata scrittrice dallo stile dolce e soave? dopo 15 anni di carcere fu deportata e morì relegata in una sperduta cittadina del nord. A Martin Kamaij stava stretta una patria che aveva interdetto la libera circolazione delle idee e scelse l’esilio, ove diede alla letteratura albanese dei veri capolavori. Kasem Trebeshina fu messo ripetutamente in carcere (ove passò ben 17 anni della sua vita), ma non cessò di scrivere e di consegnarci degne opere in prosa. Visar Zhiti fu costretto a confidare alla memoria dei suoi compagni di carcere le sue poesie (non gli era permesso scrivere!) perché non subissero l’offesa dell’oblio. Sono questi solo alcuni nomi di martiri del libero pensiero albanese. Ma nessuno di loro, dico nessuno, espresse odio o rancore nelle loro opere. Partecipando al dolore di tutta la gente che subisce l’ingiustizia, il poeta Zhiti scrive: «Non sono il primo condannato in questa terra / e mi addoloro perché non sono l’ultimo». Il crimine perpetrato nei campi di Auschwitz e di Buchenwald è ugualmente barbaro quanto le persecuzioni nei gulag della Russia o lo sterminio di Pol Pot. La protesta di un Thomas Mann contro il nazismo equivale quella 112 di un Solzhenitsin contro il comunismo. Non credo che il colore della tirannia cambi niente quando si tratta di calpestare i diritti umani. Ma è da condannare sempre la prepotenza del potere, la malvagità della forza bruta, l’inganno rivestito di una patina di verità, la dittatura giustificata dall’ideologia. La distruzione del tessuto sociale e culturale in Albania si perpetrò nel nome di un’ideologia di sinistra che degenerò in una spietata dittatura. Il dialogo fu soppresso, la fantasia frenata, la creatività cadde vittima di un’indegna autocensura e, tutto quello che veniva pubblicato, sottoposto ad una censura impari. Buona parte dei valori letterari del passato fu messa all’indice. Si potevano leggere solo quei libri che venivano giudicati idonei dal partito-stato e si potevano scrivere solo quelli che andavano bene al regime. La mediocrità fu elevata a valore. Tutto iniziò con l’imporre un’ideologia che avrebbe fatto piazza pulita di tutti quei fattori che contrastavano l’arbitrarietà e il livellamento dei valori. Primo, fra tutti, la cultura, intesa come sforzo libero a perfezionarsi tramite la conoscenza, intesa come la luce che (parafrasando Campanella) «la amiamo perché amiamo noi stessi illuminati da essa...». Quando la creatività letteraria sarà valutata non perché supportata da una corrente ideologica ma appunto perché si eleva al disopra delle correnti politiche, quando essa annuncerà verità che non ottengono il plauso di un solo partito o di un solo gruppo sociale, quando lo scrittore non guarderà a destra o a sinistra ma davanti a sé, scrutando l’avvenire, penso che ci libereremo dalla strumentalizzazione della parola scritta. Essere liberi in arte presuppone non essere succube di preconcetti, non essere legato da vincoli limitativi che conoscono solo alternative estreme. Grandi opere sono state create anche quando il concetto di destra e sinistra non aveva fatto ancora capolino. Non necessariamente la grande narrativa dei temi sociali è stata scritta da socialisti o quelle dei grandi drammi nell’alta società da nobili per nascita. L’intuito artistico presuppone una totale libertà. La verità artistica può non coincidere con la verità così come noi la intendiamo nella nostra vita quotidiana, ma essa non può essere condizionata dalla posizione sociale né tanto meno dalla formazione politica dell’autore. Semmai essa è frutto di un’osservazione acuta, della capacità di sintesi da parte dell’autore, dal tipo di messaggio che lui si è prefisso a trasmettere all’umanità. Le ideologie cambiano, si sostituiscono, si evolvono, falliscono, scompaiono. L’arte rimane. L’ideologia è un’interpretazione della vita sociale. L’arte è un pilastro della civiltà. Ultimamente le Edizioni Laterza hanno pubblicato un libricino di poesie di 113 bambini kosovari. Una specialmente mi ha toccato profondamente. In mezzo a tanta crudeltà e massacri, la voce di un bambino, con una semplicità commovente, ci insegna che l’arte, sempre e ovunque, ha la sua parte. Si intitola Per te Kosovo, l’autore è un tredicenne da Malisheva e suona così: «Poco è regalarti la mano destra/e con l’altra alzare la bandiera./Poco è darti l’occhio sinistro/e con il destro guardare il mirino./È poco darti la metà del sangue/e con l’altra colorare/la strada della vittoria./È poco donarti la metà della voce/e con l’altra innalzare al cielo il tuo nome ». Non c’è odio ma tanto amore in questi versi. Non c’entrano gli ideologismi in questa poesia. Essa non è di destra né di sinistra, è semplicemente una poesia che racchiude una lezione di profonda umanità. Una piccola grande poesia. A questi valori ci può portare la cultura che implica, tra altro, una concezione missionaria del mestiere di scrittore cosi come lo aveva concepito Molière, quando scriveva: « Bisogna che io non scriva più delle commedie se i “tartufi” hanno il sopravvento». Auguriamoci che a soccombere siano i “tartufi” che si nascondono dietro i preconcetti ideologici. Ne abbiamo veramente bisogno. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Gezim Hajdari scrittore albanese Parto dagli interventi del pastore valdese, da quello di monsignor Bettazzi, ma anche da quello del missionario italiano che ha parlato ieri. Mi ha colpito quest’analisi dettagliata, questa critica-autocritica, del percorso religioso nei secoli e nei tempi. È stata anche un’analisi cosciente, ma è una criticaautocritica che non viene dal basso, dalle parrocchie, dalle chiese, ma è venuta dall’alto e invece deve venire a volte anche dal basso. Il ripensamento è venuto anche dal Vaticano dallo stesso Woityla che ha una grande esperienza: ha conosciuto due realtà, due sistemi, due ideologie e i vivendo anche nei tempi del post-modernismo, del gran consumismo, ha una grande visione sulle cose del mondo. È stata la prima volta che la chiesa cattolica è uscita fuori dal dogma, è scesa nelle strade, a partecipare alla vita quotidiana, a preoccuparsi dell’uomo, a sentire la voce dell’uomo, a partecipare anche al dolore dell’uomo, dell’individuo come società. 114 Che razza di Dio è che si occupa solo dell’amore e non partecipa ai bisogni quotidiani dell’uomo? Per la prima volta la Chiesa sta cercando di salvare anche storicamente l’uomo, e non solo spiritualmente nell’Aldilà come sempre. Il percorso religioso è un percorso pieno di errori e anche orrori, come ad esempio le crociate e i templari. La Chiesa cattolica non mai stata così cattolica, mai è diventata così universale. Ma ho notato una cosa che mi ha fatto molta impressione quando il pastore valdese ha parlato di «uomo nuovo». Io ho paura di queste teorie, perché abbiamo una brutta esperienza, è un concetto ambiguo: l’uomo nuovo all’interno dei parametri spirituali o all’interno di parametri ideologici e politici? Inoltre monsignor Bettazzi ha detto che noi siamo fortunati ad essere cristiani. Ma una certa affermazione porta con sé una mentalità aggressiva. Carissimi amici ed amiche, teniamo conto che sulla terra ci sono oggi trecento grandi religioni. L’islam dice: «Io sono l’ultimo messaggero di Allah» e cerca di occupare il proprio spazio convertendo il più possibile all’Islam. La stessa cosa dice anche il cristianesimo: «Io sono l’ultimo figlio di Dio» e cerca di convertire il più possibile al Cristianesimo. Altri, i Buddisti per esempio, dicono: «Si può vivere senza Dio» perché conoscono la reincarnazione e se un tempo un buddista ammazzava la moglie non veniva giustiziato perché era un diritto. E allora c’è da chiedersi: qual è il messaggio d’amore? A a chi devo credere? Ecco perché, ritornando al mio discorso, ho detto che per la prima volta la Chiesa cattolica ha cercato di dialogare con le altre religioni, di collaborare, di scendere in piazza, di occuparsi di ingiustizie sociali anche denunciando lo sfruttamento e il sangue versato. Per sdrammatizzare il clima un po’ cupo che si è creato dopo che abbiamo ascoltato i miei carissimi amici e connazionali balcanici, vorrei leggere un mio componimento per fare un omaggio al mio carissimo amico scrittore Amik. «E tu pianura dammi la spiga d’oro, il sole tondo e maturo che regge vivo il giorno. E tu valle dammi la freschezza permanente, le acque della sorgente che fanno svegliare le giovinezze della ghirlanda al caldo. E tu selva dammi le foglie verdi, l’uccello lirico che canta per la vita che non muore» Amik ha subito tanti anni di carcere, ma lui non ha parlato per niente della sua vita carceraria, né dei campi di concentramento in cui è stato internato. Avete sentito anche dall’intervento di un altro scrittore bosniaco che i Balcani portano questo senso del destino, della fatalità, ma per tanti anni, nel corso della storia, sono rimasti prigionieri e vittime delle ideologie i Balcani, territorio dei drammi atroci, delle tragedie, la terra dei balordi, dei de- 115 spoti e dei dittatori. Ma i Balcani sono anche il territorio degli interessi delle grandi potenze, dei traffici illeciti, epicentro di intrighi internazionali senza risalire nei secoli e nel tempo. Tutti siamo testimoni di chi ha vissuto di persona questa guerra: i missionari, le suore, le associazioni, i volontari e, di riflesso, anche alcuni di noi, attraverso la televisione. Dopo lo smembramento dell’ex Jugoslavia nasce il nazionalismo balcanico, l’arma più pericolosa. Quel nazionalismo patetico, ridicolo, pericoloso. Iniziò la guerra in Slovenia, in Croazia, in Bosnia, in Kosovo, la guerra civile in Albania nel ’97. Mentre si combatteva in Bosnia, a Colleferro, il paesino vicino al quale abito, si produceva la polvere da sparo che veniva poi mandata là. L’Italia commercia armi anche con i paesi del Terzo mondo. Tutti questi armamenti, quasi tutti leggeri, sono trasportati da navi con prodotti agricoli. E poi i politici italiani, ma anche le gerarchie ecclesiastiche, scendevano in piazza gridando: «No alla guerra». Ammazzavano di notte e predicavano di giorno! È una vicenda squallida, tra le più sporche dell’umanità. Il primo bombardamento su Sarajevo non è stato un bombardamento su un ponte o su una casa, ma sulla Biblioteca nazionale di Sarajevo. Perché? Non a caso: per distruggere la memoria di quella nazione. Come se non bastasse i serbi tolsero l’autonomia nell’’89 al Kosovo, chiusero l’Università, cambiarono i nomi delle strade e iniziò un’atroce repressione politica, culturale. Tutta l’opinione europea, anche quella italiana, mentre si combatteva ed era in corso un genocidio in Bosnia non interveniva. In tre anni sgozzarono 300.000 uomini, stuprarono 30.000 donne, ammazzarono 12.000 bambini. L’opinione mondiale si chiedeva «Ma come mai, perché non si interviene? L’Onu, la Nato…» Intervenne in Kosovo la Nato e l’opinione pubblica mondiale: «Perché interviene?». Ecco i Balcani sono il paese dei paradossi, delle assurdità. Io sono stato tra quei pochi che hanno appoggiato l’intervento, dolorosamente. Spero che dopo il tramonto degli dei nei Balcani – ma anche in Europa e nel mondo – e il fallimento delle ideologie, si potrà ricostruire l’uomo, questo uomo del post-modernismo che è diventato uomo-oggetto, questa macchina diabolica e perversa, che corre e consuma, non ha più valori estetici ed etici, quest’uomo che sta morendo anche spiritualmente. Propongo la cultura come grande punto di riferimento per ricostruire quest’uomo. Dobbiamo ritornare indietro per ricostruire l’antico: una nuova cultura umanistica, un nuovo umanesimo perché viviamo in una grande crisi esistenziale, ideologica, politica, ma la crisi più grande è la crisi di apertura filosofica. La letteratura rimane come grande punto di riferimento morale che proclama libertà, che proclama salvez- 116 za. Per contribuire nell’integrare la nostra identità nella nuova identità mondiale cerchiamo di dialogare. Ecco perché io ho deciso di scrivere in italiano, spontaneamente e adesso traduco nella mia lingua. Non è una perdita della mia identità, un tradimento, anzi è un arricchimento, un confronto, un misurarsi con il mondo. È una universalizzazione del linguaggio. Ecco da questo punto di vista io mi sento un nomade, un errante, un ospite del mondo: sono albanese, ma mi sento cittadino del mondo. Quando domandarono ad un grande studioso di letteratura dell’immigrazione che cos’è la civiltà mediterranea lui rispose «scambio». Come diceva Kipling «Noi siamo il fardello della civiltà, veniamo per liberare queste tribù». Ma non è avvenuto un dialogo reciproco, uno scambio interculturale come stiamo cercando di fare noi oggi perché l’Europa dopo il crollo del muro di Berlino ha costruito un altro muro, peggiore, un muro invisibile e pericoloso: il muro di Bruxelles, aiutando i balcanici a costruire il terzo muro, il muro degli stati etnici alle soglie del terzo millennio. 117 Le speranze dei popoli a un passo dal nuovo millennio Testimonianze dall’America ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Gladys Basagoitia Dazza scrittrice peruviana Io non farò un discorso, persone più qualificate di me lo hanno fatto. Leggerò solo le mie poesie: alcune sono di denuncia, altre di speranza. Speranza che insieme possiamo costruire la pace facendo pace con noi stessi e con i nostri vicini, allargando poi quest’onda fino a formare quella cultura della pace che ognuno di noi - chi scrive, chi ascolta e chi legge può costruire. Molto tempo fa scrissi le poesie sul ventesimo secolo: farò una carrellata leggendo una poesia dopo l’altra, fino alla fine del tempo che mi è stato concesso. Secolo venti Abbiamo fatto poemi/ società/ cinematografi/ ci sono nate ali/ possediamo il sole/ la forza delle acque e le acque del sole/ frughiamo gli spazi/ sono nostri ora tutti i poteri ma/ una madre si strappa i capelli o muore nei postriboli/ e nelle notte d’inverno ci sono pallidi grappoli addormentati nelle strade/ ci sono bimbi scalzi dimenticati/ in tutti gli angoli si invoca la morte e mille nomi/ ed essa passa alla larga aspettando che s’imparino i modi della vita/ sul tuo volto nella memoria è passato il tempo di agognati crepuscoli/ non è possibile assaporare il calore del sole sulla pelle/ questa spiaggia per sempre così lontana/ sono altre le visioni che compaiono galoppando la groppa dell’amore maltrattato/ non c’è 118 idillio possibile/ né campi di grano nella mia patria/ c’è un rumore maligno/ ali di rabbia di fame sul mio volto nello specchio sul tuo volto nella memoria/ e cosi giunge l’albeggiare/ così un giorno succede ad altro giorno/ passa il momento del ricordo/ non posso riposare nella nostalgia/ non importa se mi trovo sotto altri cieli/ non importa se un giorno mi seppellirà altra terra/ io devo ritornare senza sosta tra i fuochi ordinando il fuoco/ confesso/ amo il piacere e la bellezza/ l’armonia dei colori delle forme del suono/ amo l’amore come lo fece mio nonno/ amo la vita/ e tuttavia/ darei tutto per la verità di un futuro da costruire insieme/ spalle e spalle/ amore e forza/ carezza o grido/ voglio la luce benché mi ferisca/ pace per tutti/ futuro che stessimo costruendo non più per noi stessi/ dodecafonica/ lo spettro dell’inverno già passato ritorna minaccioso/ non solo l’est/ rauche voci/ il gioco atterrito/ un grumo muto,/ l’uomo/ sotto il fuoco e la fame speranza ottusa/ le montagne invecchiate dalla neve scura/ insanguinata/ per forza nasce dissonante il verso/ l’angoscia è dodecafonica. A un bambino ucciso con tanti altri Tu che giocavi con i missili centrando il mio cuore adulto/ la tua tenerezza accarezzava animaletti di ferro/ i tuoi sogni inseguivano le spirali della vite/ piccolo/ ignorato dai fiori/ orfano di verde/ di sole/ prigioniero inconsapevole/ racchiuso dentro amari metalli/ nelle tue tempie affondarono le loro eliche governi malvagi/ muri di televisioni di computer/ ti allontanarono dalla favola/ delle lumache in amore dalla magia delle formiche dai canarini dai giocattoli inventati/ sei morto come passerotto nel suo nido nel calduccio prima del risveglio/ morì con te per l’ennesima volta la speranza. La marcia per la pace Seguo sullo schermo le moltitudini in cammino/ fra di loro lo spirito mio avanza/ Tuttavia costretta ferma a letto faccio fatica a moderare il mio cuore in marcia/ Donne in nero di nuovo oggi/ in difesa del benessere dell’incerta posterità era già tutto deciso arbitrariamente/ l’angoscia si accaniva/ la fraternità offesa atrocemente/ per non disperare/ per non nasconderci/ per non recedere all’indifferenza nel tetro inverno nel centro della città/ in piedi 119 ferme/ non rassegnate, non sperdute/ il nostro furioso silenzio si faceva sentire contro la morte, contro il massacro/ ne abbiamo visti tanti passare, adirati, curiosi, disorientati trascinando i figli per mano facevano finta di non vedere la nostra testimonianza/ facevamo paura/ noi/ aspettando che ridiventassero uomini/ una voglia di pace perché non fosse più necessario/ noi donne consapevoli gridare il lutto con il silenzio/ il coraggio di non uccidere/ lontani dal pericolo sorridente/ strette di mano/ decisioni foriere di sciagure/ né causa/ né bandiere come scusa/ non c’è anima innocente/ chi uccide persino l’assassino è sempre un assassino/ né vendetta né violenza/ il coraggio di non uccidere/ la dignità del profugo. Gioco Giochi di guerra/ per finta/ solo tasti solo sangui d’inchiostro/ e per finta giocando impararono a uccidere davvero. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Vittoria Savio testimone della violazione dei diritti umani in Perù Mi sento sempre molto in difficoltà a parlare a nome di altri. Non so perché noi italiani ci arroghiamo il diritto di parlare per i peruviani, dunque mi limiterò a raccontare il progetto cui collaboro, sperando che voi possiate sentire direttamente da qualche peruviano le cose che succedono là. Sono andata in Perù nel 1980, lasciando la scuola per lavorare prima in una comunità campesina a Puno a oltre 4 mila metri e per poi passare, nell’88, a Lima, dove lavoravo con le collaboratrici domestiche. Come la maggioranza degli italiani, fino a quando è arrivata la manodopera a buon prezzo del terzo mondo io non sapevo chi fossero le colf, non mi ero mai posta il problema: poi la manodopera a buon prezzo è arrivata e forse molti di noi che siamo qui, ora, possiamo addirittura permettercela. In ogni caso, quando io lavoravo nella comunità campesina le donne mi parlavano di bambine che lasciavano la famiglia quando avevano quattro o cinque anni, perché loro stesse le avevano affidate a una signora che le facesse crescere come persone. Bartolomè de las Ca- 120 sas, che riuscì a convincere il Vaticano - e non era facile -, che gli indios avevano un’anima ed erano persone come le altre, non è dunque ancora riuscito a convincere i peruviani di una certa classe che gli indios sono persone a tutti gli effetti. A questo proposito, tra gli indios peruviani esiste proprio un detto: «Mando mia figlia in una casa di bianchi, così diventa gente». Io davvero non riuscivo a spiegarmi perché una bambina così piccola potesse essere mandata a lavorare in una casa. A Lima ho lavorato ad un progetto per collaboratrici domestiche, però maggiorenni. Da Lima nel ’92 sono passata a Cuzco, dove abbiamo fondato un’associazione che molti di voi probabilmente conoscono: è la Caital (Centro de Apojo Integral al Trabajador de Lugar), nata per offrire alle ragazze alcuni servizi, come corsi di autostima per convincerle che sono persone a tutti gli effetti e hanno diritto a esigere dei diritti. Si tratta di corsi destinati a far superare più in fretta lo shock cui generalmente vanno incontro passando da una cultura quasi preispanica da campo a una più occidentale, nelle case ricche. Oltre a questo, diamo una mano alle ragazze per questioni mediche, ginecologiche e psicologiche. È molto difficile chiamare bambini in Perù una che ha come età cronologica 10 anni, bambine di 10 anni hanno un’esperienza e una maturità che a volte è superiore a un maggiorenne d’età europea. Però a volte le minori hanno dei traumi cosi forti che non è possibile pensare di reinserirle nel mondo del lavoro. Fra i servizi che offriamo alle ragazze che sono li è insegnare a fare i lavori domestici perché se una bambina piccola va a lavorare e non è ancora capace la signora dice: «Ti insegno a farli e non ti pago mentre impari però non ti pago neanche dopo perché grazie a me tu hai imparato a lavorare». Quindi quando noi facciamo il contratto delle minori chiediamo alcuni punti: che gli diano subito un piccolo stipendio, lo stipendio non lo decidiamo noi perché crediamo sia giusto che visto sono loro la forza lavoro loro devono fare il prezzo. poi esigiamo il diritto alla scuola, non ai corsi notturni ma diurni, tempo per fare i compiti e almeno 7 ore di riposo notturno e il diritto di dormire se la bambina vuole, due notti a settimana nella comunità, perché per loro la comunità, l’hogar è il primo posto dove hanno sentito di essere a casa. Esigiamo anche 20 giorni all’anno di vacanza. Credo che a voi venga da pensare perché c’è tanta violenza verso le bambine e perché loro l’accettano. L’accettano perché sono abituate a considerarsi meno degli altri quindi si dicono «Asi es la vida». 121 ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Christiana de Caldas scrittrice brasiliana La pace costa cinque milioni novecento novanta mila lire. È una bellissima cucina. La possiamo vedere in molti cartelloni pubblicitari appesi a Roma. C’è la foto della cucina completa, arredata dai più moderni elettrodomestici. Ma, signori, questa cucina è del tutto speciale: vi offre la pace. Pieni di convinzione, i monaci dello spot televisivo dicono “om”. L’”om” è un suono sacro. Ai monaci si è aperta la via della contemplazione? No. Hanno succhiato una caramella che apre le vie respiratorie. Una donna è accanto ad una macchina, in una posizione yoga. (Yoga vuoi dire “unione” del corpo e della mente). Quella donna ha avuto un contatto più profondo con se stessa? No. Ha appena comprato un certo modello di macchina che promette l’interiorità. L’interno della macchina è lussuoso. Entrarci significa entrare in una nuova dimensione di coscienza. La pace? Si ottiene con una cucina. Per la comunicazione col divino, basta una caramella. Per l’auto consapevolezza, l’auto... Cosa sta succedendo ai valori più elevati della nostra civiltà? Invasi dalla pubblicità, questi valori stanno diventando beni di consumo. La pace, un gadget come una Barbie o un walkman o un computer. Stiamo permettendo che i nostri valori spirituali siano venduti come articoli. Così, se abbiamo dei soldi per pagare una determinata macchina, raggiungeremo l’armonia interiore. Saremo in pace se compreremo quella determinata cucina. Cinque milioni novecento novanta mila lire... Persone intelligenti, quelli della pubblicità. Sanno di cosa abbiamo bisogno. Nelle nostre giornate rumorose ed inquinate, piene di fretta, vissute senza tempo per fermarci, i pubblicitari hanno compreso che abbiamo bisogno di interiorità, di calma, di pace. Ma questi non sono valori che si comprano. Questi valori nascono quando coltiviamo il silenzio. Sono prodotto di contemplazione. Contemplare vuoi dire allontanare i pensieri, svuotare la mente, spodestare un ego attaccato a riconoscimenti e successo, per sviluppare una consapevolezza più profonda che apre la mente alla realtà e all’azione pacifica. Citerò solo due esempi di questo 122 nostro secolo che sta per finire: Albert Schweizer (Nobel per la pace nel 1952) e Madre Teresa di Calcutta (Nobel per la pace nel 1979). Ma in un mondo in cui l’ignoranza e la banalità ci telecomandano, in un mondo di rumori invadenti (traffico, motorini, clacson, discoteche, spot televisivi in cui urlare è diventato uno stile, radio accese a tutto volume nelle spiagge, telefonini che squillano da tutte le tasche), la contemplazione che ci porta a scoprire la pace, è diventata un lusso quasi irraggiungibile. Corrado Pensa (un cognome suggestivo...), scrive nei suoi saggi sulla meditazione buddhista: “Oggi si sente spesso parlare delle sfide del terzo millennio. Personalmente, non riesco a vederne una più cruciale di questa: far capire che la contemplazione non è un lusso, ma una necessità naturale”. Esiste, come vediamo, un diritto al silenzio della contemplazione, un diritto alla pace. Ma i beni spirituali di cui abbiamo bisogno sono subdolamente associati a beni materiali superflui. Si crea, così, una connessione logica fra di loro per farci credere che la cucina di cinque milioni novecento novantamila lire sia portatrice di pace. C’è qui una doppia illusione. Primo: perché quelli della pubblicità hanno un prodotto da vendere e della pace o dell’interiorità non se ne importano assolutamente. A loro interessa solo vendere il prodotto. Secondo, ed è l’aspetto più triste di quest’illusione: i valori spirituali non possono essere né regalati né comprati: sono e saranno ottenuti con uno sforzo interiore personale, costante. Le dottrine spirituali - tutte - hanno sempre considerato la pace come distante dal possesso dei beni materiali. Ma oggi, grazie ad una manipolazione mentale e si aprono ai valori dello spirito allo stesso livello delle valigette 24 ore o delle tute griffate o degli atlanti a noi regalati nei benzinai vicino casa. Dove comincia il lavoro per la costruzione di un mondo pacifico? Sicuramente troviamo delle risposte giuste quando parliamo di conoscenza e rispetto dei diritti, tolleranza, assenza di dogmatismo, accettazione del diverso. Non sbagliamo quando lottiamo per l’applicazione di leggi che difendano questi principi. Corriamo però il rischio di scivolare nella retorica se lottiamo per queste verità senza il lavoro interiore di conquista e mantenimento della pace. E non è facile essere in pace. Non essendo un bene di consumo, la pace non è mai totalmente raggiunta. Né possiamo farne delle scorte perché la realtà cambia e la pace è contatto consapevole 123 con la realtà. La pace viene sperimentata giorno dopo giorno. Vivere in pace è una sfida permanente. Vi racconto una storiella brasiliana. Siamo in Amazzonia. Non molto lontano dal grande fiume. In piena foresta, si sviluppa un terribile incendio. Le fiamme cominciano la loro distruzione. Il fuoco si propaga, arde la vegetazione, cadono gli alberi. Un uccellino vola, in mezzo al fumo provocato dall’incendio. Si avvicina alle acque del fiume, prende con il becco una goccia d’acqua, vola verso la zona dell’incendio e fa cadere la goccia d’acqua. Ritorna al fiume prende un’altra goccia, vola verso l’incendio e la butta giù. Ripete questo in continuazione. Gli altri animali vedono l’uccellino indaffarato e uno di loro gli grida: “Guarda che non serve a nulla quello che stai facendo! L’incendio va avanti lo stesso. Le gocce che mandi giù sono inutili!” Senza fermarsi, l’uccellino risponde: «Non so se l’incendio si spegnerà; io sto facendo la mia parte». Come dice il proverbio africano: «Chi vuoi fare sul serio qualcosa, trova una strada; gli altri, una scusa». Finché crediamo che la pace sia un problema degli altri, stiamo contribuendo alla guerra. Il sottofondo della pace è una realtà fatta di problemi. Se c’è un problema, c’è una soluzione e lavorare per la pace è esattamente trovare le soluzioni con tranquillità. La calma mentale non è sinonimo di oziosità. «La vera calma» ce lo dice Suzuki, «va scoperta nell’attività stessa». Noi però spesso diciamo che una persona è pacifica quando vogliamo dire che quella persona vive isolata nel suo cantuccio senza mescolarsi agli affari degli altri. Che idee associamo al concetto di pace? L’inerzia del “requiescat in pace” dei defunti? Il letargo del pacioccone? L’ozio del fannullone? Diciamo “lasciami in pace’’ quando non vogliamo essere disturbati. Ma il concetto di pace sarà così negativo? Ho fatto una piccola indagine tra persone che conosco. Volevo vedere che idee avevano sulla pace. Ecco alcune delle risposte: Un bambino di otto anni: «Pace è quando mio padre non vuole che io e mio fratello litighiamo». Una commessa di ventinove anni: Pace è la tranquillità, vuoi dire essere serena con la mente”. Uno studente liceale: «Pace? Significa non avere problemi e stare bene con la propria coscienza». 124 Un industriale: «Pace è l’assenza di guerra». E così via. Da notare: praticamente tutti pensano che quando c’è un problema, la pace se ne va; tutti hanno delle connotazioni negative della pace che è vista come assenza di conflitti o di disturbi. A quasi tutte le risposte, manca una comprensione dialettica della realtà. Eppure, lavorare per la pace significa capire che la guerra inizia sempre dentro di noi. Le polarità del mondo esterno: bene-male, bello-brutto, luce-tenebre, giustizia-ingiustizia, pace-guerra, sono anche delle polarità interne. Per un meccanismo psicologico difensivo, tendiamo sempre a vedere uno di questi poli (quello che urta la visione positiva che abbiamo di noi stessi) fuori di noi: è nostra sorella che è invidiosa, non noi; la cucina dei vicini manda odori cattivi, non la nostra; gli extracomunitari sono responsabili della disoccupazione, non le insufficienti azioni politiche delle autorità del nostro paese. Questo meccanismo psicologico difensivo si chiama proiezione. Perché difensivo? Perché con la proiezione, vediamo in noi solo quello che è bello, gradevole, buono. Ci difendiamo dal vedere in noi il polo negativo della nostra realtà. Ci alleggeriamo dal peso delle cose che non ci piacciono. Le buttiamo sugli altri. Quando proiettiamo sugli altri i nostri lati oscuri, noi crediamo di essere fatti di sola luce. Ma di notte, quando dormiamo, ecco che i nostri lati oscuri sorgono. Chi non ha mai sognato di essere perseguitato da un animale selvaggio? Chi non ha ancora sognato una persona cattiva che ci tratta male? Chi, nei sogni, non ha mai litigato con qualcuno? E’ un eccellente modo per riconoscere le parti interne che non riconosciamo come nostre e che si presentano mentre dormiamo. Ci alziamo e diciamo: “meno male che era un sogno” trascurando il fatto che il sogno parla del sognatore, non delle persone che lui sogna. Nel film iraniano “Il sapore della Ciliegia”, un uomo racconta che essendosi toccato la testa con un dito, sentì dolore; tenne il dito premuto contro l’occhio e sentì dolore; toccò la spalla, nuovamente il dolore; mise il dito sul ginocchio, sentì dolore. Allora, sto proprio male, pensò l’uomo. Dovunque mi tocco, sento dolore. Finché capì che era il suo dito che stava male. Noi diciamo che gli altri sono falsi, i più giovani irresponsabili, i profughi violenti. In realtà, parliamo del nostro dito. 125 Vivere in pace è molto difficile perché il conflitto è parte della pace. In una democrazia, la semplice opposizione è già un conflitto. La guerra è sempre in agguato. Fa parte della dialettica della pace. Dentro e fuori di noi. Le polemiche sorgono dappertutto. Persino fra i giurati del Comitato per l’assegnazione del premio Nobel per la pace... La pace suppone l’io, l’altro, l’uguale, il diverso e questo crea un sacco di problemi. Di solito, noi pensiamo che con i problemi perdiamo la pace. Questo perché, come abbiamo visto, concepiamo la pace come assenza di conflitti, mancanza di discussione («Come è stata l’assemblea? Pacifica. Tutti d’accordo»). Vuol dire che se ci sono delle opinioni diverse, la pace scompare? A quale ideologia ci porta un simile modo di comprendere la pace? Le difficoltà ci spingono, ci suggeriscono modi perché possiamo superarle. In un certo senso, vivere è trovare delle soluzioni ai problemi. Nella guerra non si cercano delle soluzioni perché i problemi sono risolti in modo arbitrario, con violenza, senza il rispetto delle regole, senza considerare i diritti delle persone e dei popoli. Vivere in pace significa essere in guerra con i problemi. Come abbiamo visto, succede così anche a livello psicologico. Spesso diciamo: «Giusto adesso che stavo in pace, mi sorge questo problema...» oppure: «Appena risolvo un problema, me ne sorge un altro». Il segreto è guardare a faccia a faccia i problemi e cercarne la soluzione. Un nuovo problema davanti a noi significa essere in contatto con la realtà; significa la possibilità di allargare la nostra consapevolezza. Le difficoltà non sono negative. Sono segnali che indicano i punti su cui dobbiamo lavorare per progredire. Questo vale anche per le società. Durante l’estate di quest’anno, ho partecipato ad un festival internazionale di poesia a Struga, una graziosa cittadina sul lago di Ochrid, nella Macedonia. (Se avete visto il film macedone Prima della pioggia, vi ricorderete del bellissimo monastero medievale in cui ha inizio l’azione del film. Quel monastero si trova in alto ad una collina che si affaccia sul lago di Ochrid.) Poeti di tutto il mondo si sono trovati a Struga per recitare le loro poesie. Ai margini del fiume Drim, che segna i confini tra la Macedonia e l’Albania, nella sera di domenica 29 agosto, migliaia di persone, io fra loro, si sono radunate per sentire poesie da tutto il mondo. Ero arrivata da Skopje, la capitale della Macedonia e da lì avevo visto, molto da vicino, le montagne del Kosovo, scenario di una recentissime guerra. Osservando i poeti che recitavano i loro poemi e che poi se li scambiavano, mi resi conto dell’importanza degli incontri per mantenere accesi i valori della nostra civiltà. Mi sembrava di sentire nella voce dei poeti quello che 126 Simone de Beauvoir ha giustamente chiamato «i mormorii sotterranei della speranza». In un mondo pieno delle ferite e delle cicatrici di tante guerre è giusto creare dei momenti per mantenere viva la poesia. Credo che un uomo difficilmente userà armi da fuoco contro un altro uomo se ha potuto sentire ed apprezzare la poesia della patria di quell’uomo. Bisogna confermare la dignità umana con la riflessione e con la cultura, come stiamo facendo qui a Cantù. Giovanni Paolo II ha detto: «Ad uccidere, prima delle armi, è il cuore dell’uomo». Questo convegno ci offre l’opportunità di rendere più sensibile il nostro cuore. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Rosana Crispim Da Costa scrittrice brasiliana Secondo me la “letteratura d’immigrazione” è universale, e universale è importante. La “letteratura italiana” è bellissima, però la “letteratura d’immigrazione” contiene tanti altri mondi. Io sono molto orgogliosa di questo, anche perché ho imparato ad apprezzare la parola immigrazione, anche perché non cerco di essere un’immigrata. Sono venuta in Italia proprio per avventurarmi, perché sono innamoratissima della lingua italiana, sono venuta qua per stare tre mesi per imparare la lingua e per una serie di tanti altri fattori tra cui l’amore sono diventata un’emigrante e sono contentissima di questo, anche perché io non credo nelle frontiere come limiti di conoscenza. Secondo me, sarebbe bello un mondo dove tutti parlino tante lingue e ci si possa capire tutti. Però va bene la bellezza delle lingue diverse, ma non i limiti dei pregiudizi. Secondo me abbiamo tutti tanto da dare. Serenata Per potere strapparti una serenata,/ ho dovuto strisciare/ le mie chele;/ bagnarle nel vino/ fino a diventare aceto./ Tu hai cavalcato la mia vita/ in un solo galoppo preciso,/ lasciandomi in mezzo/ alla strada da sola./ E sono rimasta obbediente ad aspettare/ la tua memoria di cavallo./ Mi sono contorta durante diverse lune./ Ho lottato contro tutti i miei fantasmi./ Ho chiesto qualche aiuto/ e sono stata aiutata 127 molto poco./ In fine, tu sei arrivato,/ mi hai inondato,/ installandoti dentro di me/ per pronunciare mai più addio. Terra fruttifera Signore,/ in questo vecchio millennio/ sono stata più terra che acqua./ Ho sotterrato le mie radici per proteggerle e/ infine - ho costruito una nuova vita./ Oggi la mia terra è fruttifera./ Dopo aver affrontato tante battaglie/ uscivo con qualche graffio,/ mi siedo sotto l’ombra fresca / per cantare la mia storia./ I miei passi sono sicuri/ in questo giovane millennio./ Vorrei cambiare i miei segreti/ per la saggezza del tempo./ E quando riuscirò a sentire la sua voce -/ sarò pronta per dividere/ la mia sorgente femminile./ Non ho paura di non essere capita./ Forse uso una lingua confusa./ Ma come è possibile arrivare alla fonte,/ prima di imparare a sentire la musica delle rocce?/ Esiste una strada:/ tornare al ventre della madre,/ accettando tutte le stagioni -/ e rinascere puri dalla contaminazione morale./ Fare della vita un vaso/ dipinto anno per anno -/ fino a diventare una opera d’arte./ Signore,/ la pace che mi incanta/ è quella degli uomini/ che non sanno né leggere,/ né scrivere l’amore./ Ma riconoscono/ che l’aria che respirano / è uguale all’altro continente. Giardino Era inevitabile. L’arrivo della primavera mischiato con il mio quotidiano non poteva che provocarmi una sensazione di vuoto. Mentre andavo al lavoro, pensavo di buttare i miei affari all’aria e partire per un paese lontano, dove le stagioni si confondono e le persone passano le giornate aspettando il momento del riposo, del ballo, dell’incontro con la persona amata. E vivono senza pesare il tempo che dedicano alla loro sopravvivenza. Mi sono fatto una vita abbastanza lineare e la seguo con una disciplina meccanica. Forse, molte persone dipendono da questa mia triste missione, e così mi giustifico e proseguo per la mia strada. Un giorno, però, camminando in mezzo ai grigi palazzi milanesi, mi sono accorto di una piccola donna, marcata dal tempo: era seduta in un angolo e vendeva rose secche. Nelle sue mani, piene di rughe, riposava una rosa appassita a tal punto che il quadro che vedevo era coerente con il personaggio. Non so se per pietà o curiosità, alcune persone facevano la carità, prendendo in cambio le rose secche. 128 Immaginavo che quella vecchia aspettasse che le sue rose facessero nascere un movimento diverso nelle anime delle persone che passavano freneticamente davanti a lei e alle proprie vite. Ho cominciato a comprare ogni giorno una rosa. Era come se dicessi una preghiera. Con quella rosa in mano non mi sentivo solo, ma parte di questo mondo, i miei sogni non erano più una fuga, ma un alimento per vivere con più tenerezza. Ancora oggi ripenso a quella vecchia rosa. E i miei pensieri viaggiano verso un bel giardino che un giorno le regalerò. Così potrà piantarle, vederle nascere, sbocciare e morire come insegna la natura. Nel suo ricordo rimarranno i cuori che ha fatto sorridere, incluso il mio, che cammina in questa vita alla ricerca di terra, acqua e rose. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Amendola Clementina Sandra scrittrice argentina Io sono molto emozionata inoltre parlo già un linguaggio contaminato. Da quando scrivo ho incominciato a viaggiare per l’Italia: Rimini, Milano, Cecina, Mantova, Salerno, Padova, Cantù, o meglio da quando ho incominciato a viaggiare ho dovuto scrivere per esprimere la mia condizione di figlia d’emigrato, esiliata, emigrata anch’io. Vivere l’esilio dentro l’esilio. I viaggi cominciano quando mio padre mi racconta i suoi viaggi. Mio padre ha lasciato la sua Calabria e il suo mare per immettersi in un enorme fiume, il Rio de la Plata. Adesso sono qui, come dico anche in una mia poesia. I miei personaggi sono parte di me, scoprono altri personaggi. Sono personaggi che sono lasciati e che devono lasciare: devono lasciare un’infanzia, una condizione, una patria, una terra, delle orme, impronte. Quello che ho cercato di fare con questo intervento, o meglio, quello che abbiamo cercato, perché devo ringraziare il contributo magico dei due miei amici è stato illustrare il mio vissuto, e, lo dico nelle parole di Rosalba Campra, abbiamo cercato di fare un’indagine senza compiacimenti sui fantasmi dell’essere argentino, che danno delle asimmetrie fantastiche, la dimensione di una disperata storia d’amore, di sogni sognati invano. Adesso leggerò una poesia: 129 Per fare teoria Più di tanti ci siamo trovati/ per fare teoria e imparare a memoria/ quando un immigrante è utile accettare./ Nella scienza sociale abbiamo saputo/ metterci d’accordo da che parte guardare/ per il proprio benessere./ Però l’ultimo a parlare ha saputo farci atterrare/ su questa realtà:/ emigrare è arrivare, è cercare/ è pure lasciare e posticipare./ E cambiare la propria realtà senza essere estraneo/ alla dura solitudine./ E come far passare un’anima/ da un corpo all’altro, ma/ l’identità, la cultura,/ la libertà, l’assenza,/ con che mezzi si possono contenere? ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Luis Borri esule argentino Saluto tutti e vi ringrazio per avermi invitato a partecipare. Io non parlerò della mia esperienza personale, invece vorrei riflettere con voi per pochi minuti sull’esperienza di lotta delle Madri di Plaza de Mayo in Argentina, alla quale io mi sento legato da anni attraverso il lavoro d’appoggio, di sostegno e di solidarietà di un gruppo che ha sede a Milano e in altre città. Fatta questa premessa, io mi sento di ringraziare un’altra volta gli organizzatori per aver incluso il mio intervento nella seconda parte di questo convegno. La prima parte è stata dedicata ad un consuntivo su questo secolo e sul millennio che finisce e la seconda parte è un preventivo sul futuro, infatti questa sezione s’intitola Le speranze dei popoli a un passo dal nuovo millennio. Io mi sento molto a mio agio in questa veste perché la parola speranza è proprio la chiave dell’esperienza ventennale delle Madri de Plaza de Mayo. Le Madri non vogliono che il loro nome sia legato al dovere del passato, bensì alla prospettiva del futuro, alla speranza di trasformare questo mondo. Le Madri si sentono rivoluzionarie e, in questo senso, si sentono partorite dai loro figli; sono rivoluzionarie anche perché hanno ribaltato la scacchiera della politica tradizionale, dell’agire sociale tradizionale, hanno incominciato a usare come strumento che oggi è stato al centro di questo incontro: la parola. 130 Le Madri dicono che non vogliono lasciare ai giovani solo il ricordo del loro esempio di donne che con tenacia per anni hanno continuato e continueranno a puntare il dito sugli assassini, sui complici e sui mandanti del genocidio del loro figli, vogliono lasciare a loro un’idea di futuro facendo loro comprendere che grande necessità hanno di parole per costruire il loro avvenire. Le Madri dicono che la prima cosa da fare è non avere paura, così la prima cosa da fare è non avere paura delle parole, delle parole che si usano. Da questo punto di vista, prima di collegarci telefonicamente con la presidentessa delle Madri, vorrei fare qualche accenno al modo in cui le Madri hanno dato alle parole il loro giusto valore, in molti casi ribaltando completamente l’uso del linguaggio. Quando parlano di solidarietà le Madri dicono che la solidarietà non si fa con le parole, ma con il corpo e, rovesciando i canoni tradizionali della politica, dichiarano di affermare quello che pensano e di fare quello che affermano, di trasformare quindi in azioni le parole, sono solidali con il corpo. Loro dicono spesso di essere stufe di sentire parlare di diritti umani e chiedono di incominciare a parlare dei doveri umani, dei doveri che ha la società civile, soprattutto dei paesi ricchi che si deve far carico dei bisogni e usare anche il corpo, non soltanto le parole. Poco tempo fa, le Madri sono state a Milano e hanno dimostrato anche lì la solidarietà con il loro corpo quando sono state invitate a fare una visita a quel lager che è il centro di detenzione di via Corelli creato dalle autorità per rinchiudere i cittadini extracomunitari senza documenti. Le due Madri che erano presenti a Milano, ambedue settantenni, si sono avvicinate al cordone della polizia e hanno chiesto: «Non si può passare?» e mentre una diceva questo l’altra si è infilata tra i poliziotti con lo sgomento di tutti, qualcuno ha accennato a dare una manganellata, ma si sono resi conto che non era il caso di farlo soprattutto con queste Madri battagliere. Loro hanno dimostrato in questo modo cos’è la solidarietà. Un’altra parola che sta a cuore alle Madri è democrazia. Spesso le Madri vengono accusate in Argentina di disprezzare la democrazia perché hanno dichiarato di non partecipare alle elezioni, di non volere scegliere il meno peggio. E alle critiche rispondono: «Uno non può disprezzare quello che non ha conosciuto e i popoli sudamericani certamente la democrazia ancora non l’hanno ancora conosciuta». Altre parole sono verità e giustizia. In questi ultimi tempi stanno proliferando iniziative sulla verità, commissioni per la verità, come per esempio in 131 Sudafrica e anche in Argentina si sono aperti dei processi sulla verità. La verità e la giustizia sono le due facce della stessa moneta. Chi davanti ai genocidi, alle tante sopraffazioni che ha vissuto questo secolo si accontenta soltanto della verità? È vero che la verità, soprattutto per i giovani che non hanno vissuto direttamente queste esperienze, può essere una spinta che genera solidarietà e impegno civile, ma quando la verità viene data in un contesto d’impunità, quindi senza giustizia – e non lo dico soltanto per il caso dell’Argentina – invece di far aprire gli occhi ai giovani li fa chiudere perché si sbattono in faccia alla gente gli orrori insieme all’impunità dei responsabili. Spesso le Madri vengono definite sovversive e loro dicono di essere contente di essere sovversive perché vogliono sovvertire le ingiustizie. Riscoprono il vero senso delle parole e per questo non hanno paura di usarle. Io vorrei raccontarvi molte cose sulle Madri, sul tema della speranza perché loro, che sono molto convinte della loro verità ideologica, sanno che fra non molto tempo non ci sarà più nessuna di loro e per questo vogliono lasciare ai ragazzi non semplicemente la verità e la forza per incominciare o continuare a segnalare gli assassini, ma un invito a pensare al futuro insieme al presente. Non vogliono avere monumenti né ricordi postumi, ma vogliono lasciare ai giovani spazi per creare, per dibattere, per discutere. Un primo esempio è stata la creazione della libreria delle Madri di Plaza de Mayo, nata dal nulla, senza autorizzazione, senza chiedere permesso a nessuno. Semplicemente la presidentessa ha preso un foglio di carta e ha scritto: «Io Ebe de Bonafini, a nome dei miei trentamila figli scomparsi, autorizzo tutti i giovani ad usare questa libreria che sarà uno spazio per loro». Lo hanno appeso e da quel momento la libreria è nata. Non so se sapete ma ultimamente le madri hanno subito degli attentati, imbrattamenti di fronte alla libreria, hanno ricevuto minacce di morte da alcuni gruppi paramilitari che continuano a vivere in Argentina, ma loro vanno avanti lo stesso, non un passo indietro, come dicono sempre. Credo che Ebe, nel collegamento telefonico, vi parlerà dell’impegno per la creazione l’Università popolare delle Madri, che è già una realtà. Hanno raccolto intorno a loro i migliori intellettuali, molti professori, quelli che non si sono venduti, quelli veramente indipendenti, che sono stati sempre vicini per creare questa università e adesso non sanno più come fermare le iscrizioni per i corsi che cominceranno all’inizio del 2000. Tornando all’importanza delle parole io, vedendo che ci sono varie poesie su questo tavolo, volevo leggervi una poesia che è stata scritta trenta anni fa 132 da un poeta argentino morto qualche anno fa. Anche se è stata scritta qualche tempo fa è attualissima, non solo per il paesaggio metropolitano che riflette, ma anche per gli strumenti che danno al personaggio di questa poesia, che è l’uomo della strada, la possibilità di cambiare una realtà schiacciante. È un testo molto attuale perché se, ovviamente, alcuni riferimenti storici sono datati, voi potete facilmente cambiare nomi e luoghi per aggiornarlo alla realtà di oggi. La poesia si intitola Uomo della strada dì di no e dice così: Uscire, col vento sopra, come ogni mattina/ verso il giorno trepidante issando la pazienza/ insistendo sui sogni che non si avverano mai,/ e fuggono follemente davanti alla nostra fortuna storta./ Uscire già ferito dai notiziari/ e coi giornali in fiamme dalle scintille del continente./ Correndo verso se stesso disperatamente solo./ È una brutta vicenda,/ una rauca vergogna nascosta nell’interno della cartella./ Quella sciocca zavorra del camminatore senza tregua./ L’uomo della strada,/ col petto trafitto dalle successive umiliazioni quotidiane,/ dico e ridico/ bisogna fare qualcosa vecchio, prima che arrivi il cancro/ e ti lasci stecchito./ Bisogna fare qualcosa, qui, adesso./ Far non so che cavolo,/ cominciare la rivolta perché non c’è la faccio più/ se non comincio a raddrizzare la vita./ Qui adesso,/ assumendo la rabbia feroce ogni giorno./ Ma cosa fare fratello sotto la pioggia?/ Sotto il cemento dove un cane agonizza?/ Sotto il governo che sgola inutilmente / sotto le sue bugie./ Cosa fare fratello,/ lacerato dai cartelloni pubblicitari,/ dove la Coca Cola muore dalle risate./ Bisogna trovare il modo di dargliele,/ perché a me non mi calmano più con un’altra aspirina./ Ma cosa fare fratello sotto la pioggia?/ Come un ridicolo ispettore di cornicioni./ Io uomo della strada,/ colpevole di essere la massa./ Io grandissima colpa non inghiotto più il rospo./ Dico no alla morte./ Dico no tondo e secco./ E per tutto il viaggio non sparo una cannonata,/ un no in piena faccia al mercante della patria,/ no finché non avrò l’asso in mano,/ no alla piccola burla quasi impercettibile,/ no ai legali prosperamente oscuri,/ no ai fotoromanzi, al cantante epilettico,/ no all’oppio dell’ozio della tv e della radio,/ dì di no./ È una bomba con la miccia accesa./ Dì di no da per tutto/ in casa, in strada, nei treni, nello stadio nel vento,/ portalo al tuo lavoro e mettilo bene in mostra/ come un fazzoletto nuo- 133 vo./ Dopo, comincia a salire in grado sovversivo,/ fino al non più eroico/ e in ogni momento./ No alla persecuzione, all’atroce carestia, / ai colpi di stato e alle leggi zoppe,/ no ai conflitti in qualsiasi altra parte,/ alla guerra in Vietnam per esempio./ No all’umiliazione del nostro sangue,/ come in Santo Domingo./ Dì di no ovunque, senza indugi/ finché si sparga per il paese intero un no,/ un no come una casa,/ grande casa dove un giorno / potremo alloggiare i nostri giorni, i nostri sogni./ Ma se per caso senti nell’aria/ un rumore di un popolo marciando come un torrente/ se venissero a cercate i compagni fiume,/ per unirti al Giordano per diventare il limo delle sue sponde/ allora innalzati sulla dignità delle patria che amiamo,/ ed esci a dire sì semplicemente. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Ebe de Bonafini presidentessa delle Madres de Plaza de Mayo (collegamento telefonico) Sono commossa perché sentire applausi con il cuore così aperto da questa distanza mi ha fatto emozionare molto. Noi Madres continuiamo a lottare in questo brutto momento che sta attraversando il nostro paese. Il nostro progetto sta avanzando non solo con un caffè letterario, una sala dedicata all’arte, il teatro e la libreria, ma soprattutto ci stiamo dedicando con tutte le nostre forze all’apertura di una Università popolare che avrà cinque facoltà tutte legate alla politica, ai diritti umani, alle scienze della comunicazione, al teatro e all’arte. La nostra università aprirà il prossimo 3 aprile e vogliamo che tutti voi ci aiutiate nella nostra lotta per la quale abbiamo già raccolto migliaia di adesioni di intellettuali e di persone che vogliono essere vicine alle Madri per ottenere giustizia e rivoluzione. Attualmente le Madres sono impegnate in tre progetti: il primo è quello della continua denuncia degli assassini del genocidio, il secondo è l’università popolare, che è anche uno dei più grandi successi per consolidare il legame che abbiamo con i giovani, il terzo è la nostra presenza nella Plaza de Mayo alle ore zero del 2000 per rendere evidente un simbolico passaggio di consegne dalle Madres ai giovani perché proseguano la nostra lotta e sicuramente saremo in migliaia. Le Madres ringraziano tutti quelli che ci appoggiano e che ci sostengono da 134 venti anni, tutti quelli che hanno impegnato il loro cuore nella lotta e grazie ai quali ancora una volta saremo numerosi in Plaza de Mayo. La parola d’ordine di quest’anno è: vivere combattendo l’ingiustizia. Questa è una parola che ci portiamo appresso perché è legata ai nostri figli, che appunto vivevano per combattere l’ingiustizia. E questa sarà anche la parola d’ordine delle Madres de Plaza de Mayo nella marcia della resistenza per il passaggio del millennio. Molte grazie a tutti. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Luigi Bettazzi vescovo emerito cattolico Sono molto esitante a parlare dopo che siamo entrati in questo insieme di emozioni e di riflessioni, direi quasi di poesia, creato in gran parte da latinoamericani e da donne. Ho detto “poesia”, mentre noi di solito facciamo la prosa: noi che siamo qui in Europa, in Italia, nella “padania” e abbiamo molto da imparare da questi amici latinoamericani, da queste donne impegnate in una società che da sempre è fatta da uomini. Tutto questo ci richiama alla ricchezza che don Tonino Bello definiva la “convivialità delle differenze”. Di solito le diversità si utilizzano per contrapporsi, dominare e fare le guerre. Tu hai un altro colore di pelle, un’altra statura, un’altra cultura, un’altra religione e allora io ti combatto, ti domino. Al contrario, le differenze sono fatte per la convivialità: tu sei diverso da me e hai qualcosa che io non ho, io ho qualcosa che tu non hai, se ci mettiamo insieme siamo più ricchi, siamo più persone tutti e due. Questa dovrebbe essere la profonda convinzione da acquisire e questo è il punto di partenza per il cammino della pace. Purtroppo, invece, riduciamo tutte le cose a valore misurabile per poterle accumulare, per poterle analizzare, per poterle moltiplicare. Con questo soffochiamo i grandi valori, anche sul piano religioso. Anche la devozione a Dio finiamo spesso per ridurla a qualcosa di misurabile, perfino nel Giubileo rischiamo di farlo, invece di coglierne i valori profondi. Ed è significativo che protagoniste fin qui siano state in gran parte le donne perché la società che abbiamo fatto finora, quella dei valori misurabili che fa le guerre, che cerca il potere, il dominio, è tipicamente maschile. 135 Le donne quando vanno al governo fanno peggio di noi perché vogliono copiarci, mentre la donna è fatta per la vita, per i valori. Io credo nella convivialità delle differenze e tanti anni fa ho scritto il libro Farsi uomo proprio perché la Chiesa si è fatta uomo nel Concilio. Poi ho pensato che farsi uomo è farsi maschio anziano. Tutti noi dovremmo dare maggiore considerazione a questa differenza sul maschile: persino quando leggiamo la Bibbia diciamo che Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, ha creato Adamo e poi si è accorto che da solo non ce la faceva e gli ha messo vicino la donna perché gli facesse dei figli: questa è, purtroppo, la concezione comune che abbiamo sempre avuto. Ma se leggiamo con attenzione la Bibbia, in realtà essa dice che «Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza, maschio e femmina li fece». L’immagine di Dio è nell’essere umano in rapporto con l’altro. Del resto, anche del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo diciamo che sono uno solo perché in rapporto l’uno con l’altro. Così ho scritto un altro libro, Farsi donna. Poi, però, quando l’uomo e la donna sono intimamente conviviali, fanno l’altra differenza, che è il bambino. Se dunque la società si rendesse conto che deve essere intessuta della convivialità tra maschio e femmina, allora questo sarebbe un grande cammino per la pace. Qualche volta, pensando ai principi libertè, egalitè, fraternitè sanciti dalla Rivoluzione francese, mi trovo a considerare quanto abbiamo esasperato il concetto di libertà, soprattutto noi maschi, trasformandola in capitalismo selvaggio, dominazione e potere. E l’uguaglianza, anche questa l’abbiamo esasperata, mutandola spesso in dittatura che emargina chi non ci sta. Siamo alla terza, la fraternità: anche qui si corre un rischio, quello di farne una sorta di solidarietà simile alla beneficenza, che facciamo noi più ricchi perché i poveri stiano buoni. Io credo che questi incontri di uomini e donne — dovremmo poi dire di donne e uomini — di tutte le età e i continenti dovrebbero essere realmente il segno di un cammino di pace, a cominciare dalla consapevolezza che i continenti che noi chiamiamo nuovi sono vecchi come i nostri, anche se ci ostiniamo a misurare tutto dall’Europa dimenticando che si tratta di terre scoperte e poi conquistate. E tuttavia ancora non smettiamo di chiamarle “giovani”, sottolineando con questo quanto siamo vecchi noi, chiusi nel nostro egoismo, nel nostro individualismo, direi nella stanchezza di queste chiusure. Al contrario, io credo che dovremmo aprirci, ascoltare, partecipare, sentire che abbiamo bisogno di questa convivialità delle differenze, di questi fratelli e sorelle tanto più giovani di noi, 136 tanto più pieni di valori, tanto più pieni di entusiasmo. Questo è un atto di fede nell’essere umano. Perché, proprio come al solito, il nostro atteggiamento è di metterci al primo posto per aiutare gli altri, mentre in realtà abbiamo bisogno di crescere, camminare, credere e sperare. Mi viene da dire che tutto questo è anche evangelico: abbiamo sempre pensato che Gesù fosse malinconico, triste, e certo ne avrebbe avuto ragione, se avesse visto noi. Invece, dico che qualche volta anche lui ha riso sotto i baffi: è scritto, nel Vangelo. Almeno una volta egli dice infatti: «Esulto nello spirito», perché se la godeva, e aggiunge: «Ti ringrazio Signore perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli». Insomma, «Ti ringrazio Signore perché magari le nascondi agli europei ma le stai rivelando agli americani, agli africani, agli altri». Proprio in questo sta il senso della crescita fatta insieme, per cui noi andiamo non tanto perché gli altri hanno bisogno di noi, ma perché siamo noi che abbiamo bisogno degli altri: per ritrovare la pienezza della nostra umanità, per camminare nella fraternità e nella speranza, per un cammino di pace. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Lance Hanson poeta tsistsistas Innanzitutto vi porto i saluti dagli tsistsistas, che sono il mio popolo. Noi non ci chiamiamo cheyenne, non siamo americani, non siamo indiani perché gli indiani vivono in India, siamo tsistsistas e la nostra lingua rappresenta una profonda cultura. La mia nazione è una delle circa seicento popolazioni che vivono ancora oggi in apartheid in America, ma non siamo vittime perché abbiamo mantenuto la nostra lingua, le nostre cerimonie e i nostri rituali. Noi viviamo continuamente in lotta. Io e i miei fratelli lottiamo contro l’imperialismo. Vi leggerò alcune poesie che rispecchiano la vita del mio popolo. na shi neh Sono qui/ da dove il vento freddo arriva/ dove il vento freddo va/ dove il sole sorge/ dove il sole tramonta/ poteri dello spirito ascoltatemi/ io sono un essere umano/ io sono un essere umano. 137 canto di rivoluzione l’alba porta con sé il dolore della luce/ di qualcuno che non vuole essere visto/ una voce che deve essere nascosta/ in un luogo/ che non gli appartiene/ è un fiume o una brezza/ o l’acqua che scorre e piange/ di sé/ che ti fa desiderare di essere libero?/ il canto proibito di un grillo/ giace tra le rose/ un vento aleggia intorno sussurrando del che/ e di cavallo pazzo/ in un mattino di gelo/ nel dolore del risveglio/ il grido dell’umanità esce da sé/ impossibile da fermare/ come il gocciolio dell’acqua/ come il pianto di un bambino. un altro viaggio in treno appena fuori arles/ una luna piena sul fiume rodano/ in viaggio dall’america attraverso l’europa una settimana fa/ una sensazione cupa e incerta è scesa su di me/ in un dipinto zen due monaci ciechi attraversano/ un ponte di tronchi su un fiume/ cercando la strada con le mani/ come i miei zii cheyenne prima di me/ uomini cacciati e uccisi dalla democrazia/ guardo i venti instabili di una preghiera incompiuta/ che raggiunge il mondo umano/ e dove l’edificio della lotta/ trova il suo equilibrio? nelle strade della bosnia/ nelle nebbie lacere e strappate del sud africa/ o negli alberi macchiati di sangue dell’amazzonia?/ la notte avanza come una farfalla bruciata/ appena fuori tolosa/ ricordo una ragazza con i capelli color rame/ un altro treno un anno fa/ attraversammo un confine di amicizia e terrore/ è scomparsa in una notte di sarajevo/ o era belgrado o il chiapas/ o papua nuova guinea dove le stelle stanno piangendo/ qualunque fosse il posto lei non è più tornata/ questa storia sta accadendo di nuovo/ e il mondo continua a distruggersi. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Elvira Patiño scrittrice messicana Prima di entrare nel tema illustrandovi alcuni tratti della storia messicana, voglio dire che mi rendo conto perfettamente della contraddizione 138 di parlare di una lotta di liberazione. Purtroppo guerra e pace in molti momenti storici camminano intrecciate, e tante volte si giunge alla pace attraverso la lotta. Io ho riflettuto molto su questo paradosso, tanto che è diventato per me un argomento molto sentito, espresso nei miei racconti attraverso i pensieri e le parole dei personaggi delle mie storie. Per esempio, nell’ultimo racconto che è stato pubblicato dalle edizioni Fara e che si chiama Naufragio, il protagonista, scampato alla guerra e a una tempesta, quando il mare si agita pensa che c’è dentro di noi mortali una forza che va al di là del dolore e della volontà. Dopo tanto fuggire alla devastazione e nonostante il naufragio, c’è ancora speranza nel suo volto solcato da tante amarezze, perché in lui dopo la distruzione e la morte resta sempre un sorriso capace di prevalere sulla parte negativa. Questo personaggio, guardando il figlio adolescente che dorme stanco e sofferente vicino a lui, dice: «Mi piacerebbe offrirgli un futuro di pace e finirla con le guerre, ma sfortunatamente l’uomo è più attratto dalla violenza e dal terrore che non dalla ragione». Anche in altri racconti viene sviluppata questa speranza: in Al di là del mare il nonno del protagonista è un italiano che va a vivere in America Latina perché deve scampare alla guerra e non vuole essere travolto da questa pazzia umana. Non vorrei sembrare presuntuosa perché parlo dei miei racconti, ma soltanto sottolineare che questo è un argomento che mi sta particolarmente a cuore; mi sorprende e rattrista molto la parte della natura umana che è sempre tesa alla conquista, all’individualismo, al potere, che progetta questo volto grigio e infame e contrasta con ciò che a me piace molto: la faccia dell’umanità che è il sole, la luce, la parte sorridente, la pace che è una parola meravigliosa ma rimane una chimera lontana, ed è così difficile da ottenere. Il mio popolo ci ha provato, ad ottenerla, in diversi momenti attraverso tutta la sua storia, e ci sta provando ancora oggi. Ma ci può essere pace in un mondo dove prevale la fame, l’ingiustizia e la violenza? Se di ingiustizia vogliamo parlare, pensiamo soltanto che nel 1519, quando arrivò Hernan Cortés il conquistatore, gli indigeni che vivevano nella terra messicana erano circa 25 milioni: la conquista con le armi, ma anche attraverso le malattie, provocò uno sterminio di tali proporzioni che alla fine del ‘500 si contavano solo 2 milioni di indigeni, ridotti ad 1 milione alla metà del ‘600. Pessime condizioni di vita non sussistono solo in Chiapas, ma in tanti 139 altri luoghi. Il Messico ha avuto, negli anni ’60 e ’70, guerriglie importanti come quella di Ignacio Vasquez e Lucio Cavagnas nello stato di Guerrero, ma nel caso del Chiapas la novità che ha permesso al comandante Marcos di far sapere al mondo che cosa stava succedendo è Internet. Quanto è successo in Chiapas è stato diffuso in tutto il mondo grazie agli strumenti di comunicazione di massa. Io ricordo quando ero in Italia e vedevo in diretta da San Cristobal de Las Casas le torture a cui erano sottoposti i rivoluzionari… Appare così evidente come la violenza scatenata in Chiapas sia una risposta naturale, forzata e antica agli eventuali problemi di cattivo governo e ingiustizia sociale accumulatasi nel tempo ed è emblematica la frase pronunciata dal subcomandante Marcos nei giorni iniziali del conflitto: «Preferiamo morire combattendo piuttosto che perdere». Riferendosi agli attuali problemi della zona e per concludere, io penso che questo mio meraviglioso paese di tramonti rosacei, di natura lussureggiante dal realismo magico e di bellezze veramente spettacolari non può affogare come invece sta accadendo. Non sarebbe giusto per tanti uomini e per tante donne che ci vivono, e per gli eroi che hanno dato la propria vita per lasciare ai propri figli un paese più giusto. Purtroppo la cruda realtà offre del Messico un’immagine disperata, che bisogna cambiare. Gli zapatisti ci provano, gli intellettuali anche e così molte donne. L’importante è identificare i colpevoli dell’attuale situazione: nei governanti corrotti, nei loro sostenitori che hanno saccheggiato il paese per anni, seminando corruzione e miseria, permettendo l’investimento estero più indiscriminato e incontrollato ed impedendo la ricerca e la crescita interna, ma senza dimenticare che anche noi abbiamo una grande responsabilità. Come arrivare ad una pace giusta e ottenere che la gente possa vivere in tranquillità, con lo stomaco pieno e un minimo di benessere per poter sviluppare, oltre al corpo, lo spirito? Io oggi non ho la risposta, ma al terzo millennio manca ancora un anno: avrò tempo per pensarci. 140 Conclusioni ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Felipe Toussaint Loera vicario generale della diocesi di San Cristobal de Las Casas (Chiapas) Nella mia vita di prete c’è una contraddizione che vivo, o meglio, vivevo: adesso non la vivo più perché la gente del Chiapas mi ha insegnato a capire come si può vivere ed essere cristiani in questo mondo. Dopo 500 anni di conquista essi non hanno imparato il Vangelo, lo hanno fatto proprio, lo hanno incarnato che hanno la propria versione: una versione bellissima perché piena di vita. C’è prima diceva Marta: in Messico esiste una relazione con la morte così vicina, così speciale. Noi alla festa dei morti andiamo ai cimiteri e facciamo festa: si danza, si mangia, si parla con loro: non abbiamo paura della morte, ne abbiamo rispetto. Questa non è paura, si sa che i vivi e morti hanno una stessa realtà. La questione comunque non è cosa ho imparato sul cristianesimo, ma piuttosto credo che quello che si insegna in un incontro come questo è a vedere la vita in un altro modo. Bene, questo incontro ci ha offerto l’opportunità di ascoltare gente dell’Africa, della Bosnia: per me è la prima volta che conosco un uomo della Bosnia o dell’Albania ed è così lontano quello che sta succedendo a Sarajevo, in Bosnia, in Kosovo: talvolta non riusciamo a capire cosa stanno facendo, qual è il motivo della lotta. Questo incontro per me è stata una buona opportunità per conoscere la gente, per capire diversi sensi della vita, la diversità. Devo dire una cosa che mi ha colpito: non so perché, ma quando parlava questo scrittore africano io mi sentivo felice. Poi ,quando ho ascoltato Roberto Camerani e Liliana Segre, ho sentito una forte tristezza. Dobbiamo imparare a 141 parlare, anche se raccontare la propria sofferenza è una realtà terribile. La violenza non è una cosa buona: noi abbiamo un messaggio da diffondere per il mondo. Devo dire che quando hanno parlato questi fratelli della Bosnia e dell’Albania mi sono sentito così triste, non so perché, anche se raccontavano cose buone, io sentivo la tristezza in me stesso. Quando parlavano i latino-americani invece mi sentivo bene: quando ha parlato il nostro amico Lance Hanson ho sentito felicità. Io avuto l’opportunità di viaggiare in Canada e conoscere i gruppi nativi del posto, di incontrare gruppi nativi del Canada che sono in Messico e di trovare un’unità in tutta l’America, dall’Alaska alla Patagonia. I gruppi nativi di quest’America, questa lunga America, stanno finalmente trovando una forza spirituale per emergere dopo 500 anni di oppressione. Io non conosco bene la realtà dell’Italia, o almeno del nord–Italia, conosco solo quello che ho studiato all’università. Però credo che tutta questa esperienza — per voi e per me, in primo luogo — è un’opportunità per leggere e conoscere il mondo con altri occhi, non con gli occhi di quelli che non riescono a vedere fuori di sé e vogliono conoscere solo quello che hanno di fronte. Perché alla fine possiamo dire: «L’ho visto, l’ho guardato, l’ho ascoltato e per me rimane come un mistero, come un vero mistero che devo rispettare, amare e servire». Tutto questo l’ho imparato nel mondo dei Maya, dove ho avuto l’opportunità di vivere i miei ultimi anni con il gruppo Chool e dove ho conosciuto la lotta, il loro cuore e la loro sofferenza, dove ho ascoltato il canto di sofferenza delle donne quando muoiono i bambini, ho ascoltato l’uomo che soffre perché suo figlio sta morendo e non può andare a casa sua e tanti uomini ubriachi che vogliono dimenticare cosa stanno vivendo. Però ho anche ascoltato, ed è la cosa più importante, la speranza: questi popoli soffrono ma hanno speranza, questa è la realtà. Ricordo un giovane cristiano che voleva conoscere la vita cristiana di questa città, Savanilla, dove ho vissuto per 5 anni. Abbiamo camminato ore e ore sulla montagna e nel fango, perché noi nel Chiapas diciamo «In 12 mesi piove 13», cioè piove tutto l’anno. Questo giovane mi diceva: «Qui non si sente Dio perché la gente è così seria e silenziosa». Io gli ho detto: «Perché tu hai dentro il rumore della città, per questo non puoi ascoltare la gioia della campagna. Non riesci ad ascoltare la gioia della campagna e il senso di Dio e del sacro che si ha nella montagna e con questa gente perché hai tanto rumore nella testa». È quello che ho imparato nel Chiapas quando è cominciata questa guerra, questa rivoluzione degli zapatisti: per me non è stata una sorpresa, noi sapevamo che c’era questo movimento. Era impossibile non vedere: se tu hai una comunità dove il 50 per cento della gente ha 142 scelto quella via, li senti, sai cosa stanno pensando. Non sapevamo in quale giorno, quando sarebbe successo. Quello che è stato una sorpresa per me e per tanti di noi è stata la risposta del Messico e del mondo: in realtà è stata una sorpresa anche per gli zapatisti. Io so che ci sono tanti zapatisti pronti per la lotta che hanno dovuto abbandonare questa scelta. Avevano imparato come difendere la comunità, come fuggire sulla montagna e come lottare con i soldati con le mani e forse con un fucile di legno, però si sono dovuti fermare, perché la società, e anche la Chiesa, gli ha detto: «Fermatevi e cercate la via non violenta». E loro hanno detto va bene. Per capire il mondo dobbiamo avere un’altra mentalità: non pensare alla competizione, non pensare che il pesce grande mangia il piccolo, non pensare prima di tutto al proprio interesse. ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Nota della curatrice Questo volume è stato ottenuto trascrivendo le relazioni e gli interventi registrati al convegno. Si è scelto di rispettare il più possibile lo stile dei diversi oratori limitandosi nella redazione alla semplice revisione formale necessaria nel passaggio dall’orale allo scritto. Il volume raccoglie i testi non rivisti dagli autori delle relazioni svolte, in alcuni casi nella forma integrale, talora limitandosi ai passi essenziali. In particolare, nella trascrizione degli interventi che contenevano poesie e racconti si è proceduto a una selezione delle opere presentate. Per l’esiguità dello spazio disponibile non si sono potuti invece includere in questa pubblicazione gli interventi svolti nei diversi dibattiti che hanno animato il convegno, né i testi delle opere musicali e audiovisive, né le relazioni presentate nella Settimana della Pace che ha preparato l’iniziativa. Antonia Barone 143 Il programma MIGRANDO NEL TERZO MILLENNIO Orrori e speranze di un secolo breve 2° Convegno internazionale del Coordinamento comasco per la Pace 18 – 21 novembre 1999 Cineteatro Fumagalli via San Giuseppe 9 Cantù Settimana della Pace e dei Diritti Umani Il Convegno è stato introdotto lunedì 15 novembre con un concerto del Gruppo corale White in Dark diretto dal maestro Umberto Sanavìo, nelle mattine del 16, 17 e 18 novembre con animazioni sulla Pace, l’intercultura e i Diritti Umani per le scuole, mercoledì 16 sera con lo spettacolo musicale Gospel - voce - anima - libertà di e con le Nuove proposte e la sera di mercoledì 17 con la proiezione di Polveri di vita di R. Bouchareb e con il dibattito con Morando Morandini sul ruolo del cinema nella promozione della Pace e dei Diritti Umani. Interventi di: Thamthog Rinpoce, lama buddista tibetano e guida spirituale del centro Rabten Ghe Pel Ling; Jaya Murty, bramina indù. Sabato 20 novembre 9 Le speranze dei popoli a un passo dal nuovo millennio – Testimonianze dall’Asia Interventi di: Joachin Naing Moe, prete birmano; Chodup Tsering, lama, coordinatore del centro studi tibetani Rabten Ghe Pel Ling; Youssef Wakkas, scrittore siriano; Luca Carra, giornalista. 14.30 Le speranze dei popoli a un passo dal nuovo millennio – Testimonianze dall’Africa Interventi di: Daghmoumi Abdelkader, scrittore marocchino; Gabriella Ghermandi, scrittrice etiope; Samuel Kalejaye, scrittore nigeriano; Jadeline Mabiala Gangbo, scrittore congolese; Ngoi Paul Bakolo, scrittore zairese. Diciamo no all’uomo Del Monte. Campagna d’informazione per un consumo più critico Claudio Bizzozero Dibattito moderato da Kossi Komla Ebri, associazione les Cultures. Domenica 21 novembre Giovedì 18 Novembre 21 Apertura del convegno Apertura musicale con Franceso D’auria, Luis Agudo e il coro di Vittorio Liberti. Felipe Toussaint Loera, vicario generale della diocesi di San Cristobal de Las Casas, Chiapas. Un pacchetto West, musiche, poesie racconti e altro a cura di C. Abate, F. Pruneri, L. Secchi, A. Ferro e C. Savoia. Venerdì 19 novembre 9 Claudio Bizzozero Gli orrori del XX secolo. L’orrore dei lager nazisti Interventi di: Roberto Camerani, ex deportato politico; Liliana Segre, ex deportata ebrea. Dibattito Musiche della tradizione ebraica, yiddish e sefardita di Paolo Buconi, voce e violino. 17.30 Le religioni per la Pace e la Giustizia all’alba del terzo millennio Interventi di: Traian Valdman, arciprete ortodosso; Gianfranco Bottoni, responsabile del servizio per l’ecumenismo e il dialogo della Curia arcivescovile di Milano. Dibattito 21 Le religioni per la Pace e la Giustizia all’alba del terzo millennio 144 9.30 Le speranze dei popoli a un passo dal nuovo millennio – Testimonianze dall’Europa Interventi di: don Renzo Scapolo; Paolo Ricca, pastore valdese; Luigi Bettazzi, vescovo emerito cattolico; Bozidar Stanisic, scrittore profugo bosniaco; Amik Kasoruko, scrittore albanese; Gezim Hajdari, scrittore albanese. Ambasciatori di Pace a Sarajevo Sara Verh, Chiara Tacchini, Fabia Abati e Benedetta Botta, studentesse comasche hanno illustrato l’esperienza vissuta a Sarajevo. 14.30 Le speranze dei popoli a un passo dal nuovo millennio – Testimonianze dall’America Interventi di: Gladys Basagoitia Dazza, scrittrice peruviana; Vittoria Savio, testimone della violazione dei diritti umani in Perù; Christiana De Caldas Brito, scrittrice brasiliana; Rosana Crispim Da Costa, scrittrice brasiliana; Amendola Clementina Sandra, scrittrice esule argentina; Luis Borri, esule argentino. 17 Collegamento telefonico da Buenos Aires con Ebe de Bonafini, presidente delle Madri di Plaza de Mayo. Le speranze dei popoli a un passo dal nuovo millennio – Testimonianze dall’America Interventi di: Lance Henson, poeta cheyenne; Martha Elvira Patiño, scrittrice messicana. Viva Zapata, video di Giorgio Fornoni, documentarista, girato all’inizio del 1995 in Chiapas. Chiusura del convegno Felipe Toussaint Loera, vicario generale della diocesi di San Cristobal de Las Casas. Indice PRESENTAZIONE ...................................................................................................................... 5 Claudio Bizzozero APERTURA ............................................................................................................ 7 Felipe Toussaint Loera GLI ORRORI DEL XX SECOLO. L’ORRORE DEI LAGER NAZISTI .......................................... 13 Claudio Bizzozero, Liliana Segre, Roberto Camerani LE RELIGIONI PER LA PACE E LA GIUSTIZIA ALL’ALBA DEL TERZO MILLENNIO ............................................................................. 29 Traian Valdman, Gianfranco Bottoni, Thamthog Rinpoce, Jaya Murty LE SPERANZE DEI POPOLI A UN PASSO DAL NUOVO MILLENNIO TESTIMONIANZE DALL’ASIA .................................................................................... 51 Joachin Naing Moe, Chodup Tsering, Youssef Wakkas, Luca Carra LE SPERANZE DEI POPOLI A UN PASSO DAL NUOVO MILLENNIO TESTIMONIANZE DALL’AFRICA ................................................................................. 73 Kossi Komla Ebri, Daghmoumi Abdelkader, Gabriella Ghermandi, Samuel Kalejaye, Jadeline Mabiala Gangbo, Ngoi Paul Bakolo DICIAMO NO ALL’UOMO DEL MONTE. CAMPAGNA D’INFORMAZIONE PER UN CONSUMO PIÙ CRITICO ....................................... 90 Claudio Bizzozero CONCLUSIONE DELLA GIORNATA .............................................................................. 96 Kossi Komla Ebri LE SPERANZE DEI POPOLI A UN PASSO DAL NUOVO MILLENNIO TESTIMONIANZE DALL’EUROPA ................................................................................ 99 Renzo Scapolo, Paolo Ricca, Luigi Bettazzi, Bozidar Stanisic, Amik Kasoruko, Gezim Hajdari LE SPERANZE DEI POPOLI A UN PASSO DAL NUOVO MILLENNIO TESTIMONIANZE DALL’AMERICA ............................................................................. 118 Gladys Basagoitia Dazza, Vittoria Savio, Christiana De Caldas Brito, Rosana Crispim Da Costa, Amendola Clementina Sandra, Luis Borri, Ebe de Bonafini, Lance Henson Martha Elvira Patiño CONCLUSIONI .................................................................................................... 141 Felipe Toussaint Loera Nota della curatrice ........................................................................................... 143 Antonia Barone Il programma .................................................................................................... 144 145 ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Coordinamento comasco per la Pace Cantù, via D. Cimarosa, 3 tel. 031.701517 fax 031.702875 [email protected] www.comopace.org ecoinformazioni settimanale della provincia di Como Como, viale Masia 34 tel 031.571813 fax 031.573320 [email protected] www.ecoinformazioni.rcl.it Finito di stampare nel mese di novembre 2000 Grafica Malima, Como 146