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presentazione
Convegno 2013
F
ra le tante suggestioni offerte
dall’annuale convegno di Russia
Cristiana (del quale vengono qui
pubblicati gli atti della sessione italiana)
una ci pare si imponga, anche alla luce di
quanto sta avvenendo in Europa, tra il
nostro paese, l’Ucraina e la Russia che
attraversano crisi diverse.
C’è un evidente parallelismo tra l’io
dell’uomo e la società, tra il singolo e il
tutto, così che il primo sopravvive e
cresce soltanto se trova qualcuno che lo
libera dai suoi limiti, che lo liberi
ultimamente dalla morte che rende
insignificanti anche i successi più grandi;
l’io vive solo se incontra qualcuno che gli
fa cogliere nella sua finitezza qualcosa di
più grande, che gli fa intuire che i suoi
limiti non lo definiscono e così gli dà il
senso di rialzarsi dopo ogni caduta e la
forza per farlo. Allo stesso modo e
conseguentemente una società trova la
forza per crescere, si sviluppa, solo se
l’uomo ha dentro di sé una misura e un
desiderio infiniti che lo spingono a
rinnovarsi, a innovare e a ricominciare
ogni giorno, superando i limiti del finito
che non gli lascia realizzare i suoi sogni e
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ampliando un punto di vista, una
prospettiva che si è in qualche modo
rivelata ristretta.
Nell’esperienza storica del nostro
continente, delle sue nazioni e dei suoi
uomini, lo stimolo per questo
ampliamento delle prospettive, per
questa riapertura dei giochi, per questo
allargamento della ragione, è stato
sempre dato, tradizionalmente, dalla
religione; è nelle radici cristiane
dell’Europa, nell’affermarsi del
cristianesimo e della libertà religiosa
che vennero poste le fondamenta della
dignità e della libertà dell’uomo, da
quando (come ricorda A. Simoncini nella
sua relazione) l’editto di Milano sancì che
l’impero doveva garantire la libertà
religiosa come pegno di benessere
sociale, a quando, circa tre secoli dopo
ma più di mille anni prima della
rivoluzione francese, il III concilio di
Costantinopoli, nel 680-681, stabilì che
una natura umana senza libertà non era
una natura pienamente umana.
Una religione che è entrata in questo
modo nella storia civile del mondo non
può esservi semplicemente tollerata ma
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diventa fonte essenziale della sua vita. Lo
diventa però proprio nella misura in cui
indica il valore infinito della persona
umana e la sua irriducibilità e quindi nella
misura in cui non si lascia ridurre a una
serie di norme, precetti o valori. Non che
norme, valori e precetti siano da
respingere in maniera assoluta, ma un
cristianesimo che si lasciasse ridurre a
questo piano puramente immanente
negherebbe la sua natura di incontro con
Dio, mentre uno Stato che pretendesse di
imporre alla Chiesa questa riduzione
danneggerebbe innanzitutto se stesso,
privando i suoi cittadini di quello che li
rende veramente responsabili e creativi.
Come sottolineava Benedetto XVI a
questo proposito: «Senza l’apertura al
trascendente, la persona umana si ripiega
su se stessa, non riesce a trovare risposte
agli interrogativi del suo cuore circa il
senso della vita e a conquistare valori e
principi etici duraturi, e non riesce
nemmeno a sperimentare un’autentica
libertà e a sviluppare una società giusta».
Così uno Stato che usa la Chiesa come
instrumentum regni, tentazione
tremendamente risorgente in Russia,
finisce per privarsi di un autentico alleato,
sostituendolo con un ben povero
cortigiano. È facile suggestionare la
fantasia e il cuore dei credenti e degli
uomini di buona volontà, presentandosi
come difensori della moralità e
dell’ordine, ma la Chiesa salva il mondo
con l’annuncio che il Verbo si è fatto
carne, non con le idee morali, neppure
con quelle di Cristo, perché Cristo è più
di una morale o di un codice di
comportamento. E ovviamente è ben di
più di un giudice corrucciato.
La Chiesa non può accettare questa
riduzione. Esemplari sono stati in questo
senso la forza civile e lo spirito
autenticamente cristiano con i quali il
cardinal Husar, arcivescovo maggiore dei
greco-cattolici ucraini, ha respinto il facile
ruolo di sostegno spirituale di un
possibile nazionalismo ucraino e, a
commento dei recenti disordini di Kiev,
pur ribadendo con forza l’indipendenza
del suo paese, ha sottolineato la necessità
che quanto avveniva fosse nella
prospettiva di un bene autenticamente
comune e all’interno di un’assunzione di
responsabilità duratura: prima di questi
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giorni e per quelli che verranno.
La sfida che viene dall’est per il nostro
paese è esattamente tracciata in questo
quadro, nella capacità di riprendere uno
slancio che, pur cercandoli, vada al di là
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di semplici aggiustamenti tecnici, politici
ed economici, e trovi la ragionevolezza di
una speranza, più ampia e feconda della
rabbia.
ADRIANO DELL’ASTA
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