Quei giorni a Sandbostel con Guareschi

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Quei giorni a Sandbostel con Guareschi
ASCARI, O.
QUEI GIORNI A SANDBOSTEL CON GUARESCHI
di Odoardo Ascari,
da «Il Giornale» - «Album cultura & Spettacoli», 30 luglio 2002, p. 27.
Pubblichiamo uno stralcio della testimonianza di un ufficiale italiano sui campi di prigionia
tedeschi. Nel racconto di Odoardo Ascari, che appare oggi in «Nuova storia contemporanea»,
si parla anche del lager di Sandbostel dove fu prigioniero Guareschi.
Sono uno degli ufficiali che, deportati nei lager nazisti (prima in Polonia, a Deblin-Irena, sulla Vistola, e poi, addirittura a Biala Podlaska, a est di Brest-Litovsk - dove fummo in 145 su 2.600 ufficiali
a dire di no - poi a Sandbostel e, infine, a Wietzendorf, in Vestfalia) si rifiutarono di sottoscrivere il
compromesso più giustificato: quello concluso per sopravvivere. Ma oggi nessuno si ricorda di noi
perché non serviamo a nessuno. Mi sembra giusto: noi non abbiamo servito nessuno. Fummo, insomma, dei prigionieri volontari: sino al 31 gennaio 1945 era possibile porre fine alla permanenza
nei lager, firmando l’adesione al lavoro. Del resto, i tedeschi - che avevano richiamato alle armi i ragazzini di 14 anni - non ci avevano mai desiderato come combattenti al loro fianco: sia perché non si
fidavano di noi, sia perché non sapevano come «inquadrarci». Il grande problema della Germania
era invece quello di trovare braccia per sorreggere lo sforzo estremo della guerra. Mi pare che, allo
scoppio della pace, esistessero in Germania alcuni milioni di lavoratori, deportati da tutti i Paesi
d’Europa.
Gli ufficiali italiani deportati furono, a quanto mi risulta, più di 35.000, ripartiti originariamente in
diversi campi di concentramento, in Germania e Polonia: a coloro che, in un primo tempo, avevano
rifiutato, l’adesione alla Repubblica sociale italiana fu proposto di diventare lavoratori; alla fine eravamo in pochi, in due soli campi, per quanto ne so.
Per quel che mi concerne, dopo una sosta in Renania - Stalag XIIA - fui deportato in Polonia, nel
lager di Deblin-Irena, sulla Vistola: la cosiddetta «Cittadella». Iniziarono Così le lunghe trasferte in
vagone bestiame, attraversando più di mezza Europa in condizioni disumane.
Gli ufficiali furono messi, in un primo tempo, dì fronte alla sola alternativa se restare «badogliani»
o se aderire alla Rsi.
Coloro che, a Deblin-Irena, firmarono per la Rsi – con la prospettiva del ritorno immediato in Italia - furono una piccola aliquota, circa il 5 per cento, non di più; gli altri rimasero fra i reticolati Non
ho un ricordo molto preciso di quel campo in cui passai il Natale. del ‘43 e nel quale il trattamento
non fu disumano; ma alla fine del gennaio 1944 i «badogliani» furono trasferiti a Biala Podlaska, a
est di Brest-Litòvsk.
Ricordo ancora l’autentico terrore che ci invase quando, rinchiusi, come al solito, in settanta in
ogni vagone, constatammo che il treno andava verso est, superando addirittura Brest-Litovsk, avviato verso il confine con la Russia: era come se naufragassimo in un terribile ignoto.
[...] Questo fu il prologo al nostro trasferimento a Sandbostel, campo XB, vicino a Bremervörde,
alcune decine di chilometri a sud di Brema. Vi giungemmo attraversando pressoché l’intera Polonia
e la Germania, stipati in due soli vagoni: il viaggio durò otto notti e, nove giorni. Non voglio qui ricordare ancora quel viaggio angoscioso perché non mi piace ispirare pietà. Basterà dire che le strutture psichiche di quattro o cinque dei deportati scoppiarono [...].
Dunque, eccoci a Sandbostel, a fine marzo ‘44. Si trattava di un autentico universo concentrazionario, che comprendeva quattro o cinque campi dei quali erano ospiti francesi, inglesi, polacchi e
russi: gli internati italiani erano al centro. Ebbero allora inizio le offerte di lavoro, che i tedeschi accompagnavano con una riduzione di viveri e con trattamenti che sono già stati troppe volte descritti
per essere qui ripetuti. Cominciò così lo stillicidio delle adesioni che venivano sottoscritte spesso
all’insaputa degli altri prigionieri, nell’apposito ufficio tedesco sito all’interno del campo. [...]
Chi. aveva deciso di resistere, mentre la situazione si faceva via via più drammatica, vedeva con
enorme preoccupazione assottigliarsi le file dei «resistenti», perché ciò rendeva più probabile la realizzazione della solita promessa tedesca: kaputt. E ciò anche perché, in seguito alle continue adesioni
al lavoro, gli ufficiali non optanti, prima dispersi in diversi campi sia in Polonia sia in Germania,
vennero concentrati in due soli campi, il più importante dei quali era, appunto, lo Stalag XB. Noi
sperammo sempre che i tedeschi chiudessero le adesioni al lavoro e rendessero la nostra situazione
irrevocabile; perché fin quando c’era quella possibilità, la tentazione di firmare era enorme.
Noi fummo, allo stesso tempo, prigionieri e custodi del nostro onore e della nostra dignità. [...]
I1 Diario clandestino di Guareschi, che, a differenza di me, non conosceva l’odio, è il resoconto fedele della nostra vicenda umana. Per comprendere meglio, è utile ricordare che gli ufficiali «non optanti» vanno divisi in tre categorie. Vi erano anzitutto gli ufficiali «effettivi» e, in particolare, i carabinieri, che rifiutavano l’adesione dicendo: «Io non firmo perché ho giurato fedeltà al re». [...] Debbo
dire subito che, per quel, che mi concerne, il giuramento al re - che allora giudicavo fuggiasco - mi
sembrava lontano, in tutti i sensi, e non mi sentivo assolutamente vincolato dalla promessa di fedeltà
a suo tempo fatta [...]: il tribunale a cui sentivo di dover rispondere era un altro, quello della mia coscienza. Veniva poi il «no» di coloro che avevano ideologie precise, come Alessandro Natta - che ho
conosciuto - dalla cui scelta, in fondo analoga, per logica, a quella degli ufficiali fedeli al re, mi sentivo egualmente lontano.
[...] La terza categoria, la meno numerosa, era composta da noi, gli ultimi figli di Don Chisciotte.
[...] Dicemmo no per dignità: tutto si può dire, tranne che fosse una scelta ideologica. E anche per
questo che oggi è difficile spiegare la ragioni di quel no, che resta l’orgoglio della mia vita. [...]
La resistenza - a Sandbostel - faceva perno su alcuni «uomini guida», il cui comportamento costituì
un punto di riferimento per tutti, man mano che arrivavano i giorni e i fatti che mettevano in crisi la
decisione difficile e sofferta di resistere. Il primo, in tutti i sensi, era la Medaglia d’oro Giuseppe Brignole, eletto a furor di popolo comandante del campo. [...] Parlava un genovese italianizzato, ma aveva la forza segreta e il sangue nascosto degli eroi: gli stessi tedeschi ne erano intimiditi. [...] Un altro uomo guida della resistenza fu Giovannino Guareschi, che era, anzitutto, un uomo libero, assolutamente lontano da ideologie astratte, con una dimensione umana letteralmente immensa. E i1suo
non era tanto più importante quando si pensi che gli era stato promesso, essendo un giornalista già
molto noto, in caso di adesione, il ritorno in Italia.
[...] A coloro che erano tentati di aderire al lavoro Guareschi diceva: «Non farlo perché per i tedeschi non bisogna attaccare neanche un francobollo». Ma la frase più celebre è quella rivolta al capitano Pinkel delle Ss: «Io non firmo perché non ho ancora conosciuto un tedesco che, pur essendo vivo, mi fosse simpatico come un tedesco morto». Si salvò perché il tedesco non capiva una parola di
italiano e perché l’interprete [...] ebbe paura - come poi confessò - anche per sé e tradusse con poche
parole confuse e senza senso la risposta storica di Guareschi.[...]
Da questa resistenza nacquero le conferenze, i dibattiti, i concorsi letterari, tutto quello che serviva
a salvarci dalla tendenza istintiva a ridurci al rango di animali in lotta con la fame. Mi piace ricordare
che nell’estate del ‘44 gli uomini della «baracca letteraria» misero in scena l’Enrico IV di Pirandello: e
fu proprio Gianrico Tedeschi - anche lui tra coloro che condividevano la grande sfida - l’interprete:
aveva davanti a sé donna Matilde, un baldo ufficiale talmente magro e affilato da impersonare la
«donna-crisi». [..]
Bibliografia essenziale di Giovannino Guareschi Archivio Guareschi - «Club dei Ventitré»
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