Gli effetti del mercato dei capitali sulla performance delle imprese

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Gli effetti del mercato dei capitali sulla performance delle imprese
Francesco Aiello • e Damiano Silipo•
Gli effetti del mercato dei capitali
sulla performance delle imprese italiane • •
1. Introduzione
Il presente lavoro prende le mosse dall'indeterminatezza teorica che caratterizza l'analisi degli effetti del
mercato dei capitali sulla performance delle imprese. L'opinione prevalente attribuisce al mercato dei
capitali un ruolo centrale nella crescita economica, in quanto esso fornisce capitale di rischio alle imprese,
consente di diversificare il rischio e di ripartire quest'ultimo tra un numero maggiore di soggetti, fornisce agli
imprenditori incentivi ad intraprendere e facilita la correzione degli errori nella gestione delle imprese,
attraverso la disciplina del take over. Inoltre, in un contesto di asimmetrie informative sui mercati finanziari,
il mercato dei capitali contribuisce a migliorare le informazioni sulle imprese. Secondo altri autori, il mercato
dei capitali è invece una fonte di distorsioni delle scelte delle imprese, in quanto induce ad adottare una
ottica di breve periodo nelle decisioni d'investimento, allo scopo di massimizzare il rendimento corrente del
valore delle azioni, a discapito degli investimenti a lungo termine.
In questo contesto, assume un valore ancora più rilevante l'indagine empirica sul ruolo svolto dal
mercato dei capitali nella crescita delle imprese. Ciò è tanto più significativo in Italia, dove il mercato dei
capitali ha storicamente avuto un ruolo marginale; e alla cui relativa arretratezza si attribuisce da più parti la
particolare struttura dimensionale delle imprese italiane, basata sul predominio delle piccole imprese.
Lo scopo del presente lavoro è quello di valutare gli effetti del mercato dei capitali sul
comportamento e la performance delle imprese italiane. Ciò sarà effettuato confrontando i principali
indicatori di natura reale e finanziaria delle imprese italiane quotate e non quotate. In particolare, l'indagine
empirica mira a verificare se le imprese quotate siano caratterizzate da una maggiore propensione
all'investimento, da una maggiore produttività e da migliori condizioni di finanziamento rispetto alle imprese
non quotate, ovvero se il mercato italiano dei capitali sia stato tra le determinanti della mancata crescita
• Università della Calabria, Dipartimento di Economia Politica, Asse Attrezzato P. Bucci, 19A – 87036 Rende (CS). Posta
elettronica: [email protected]; [email protected].
•• Gli autori rivolgono un vivo ringraziamento all’Ufficio Studi Mediobanca per le utili discussioni e l’assistenza tecnica
prestata nel rendere disponibili i dati delle imprese non finanziarie. Si ringrazia, inoltre, il Servizio Studi della Banca
Popolare di Crotone per aver fornito i dati relativi alle banche. I commenti di Marco Pagano e Marcello Messori hanno
permesso di migliorare una precedente stesura del lavoro. Naturalmente, i soli autori sono responsabili per quanto
sostenuto nel presente lavoro. Nei casi in cui dovesse ritenersi necessaria l’attribuzione a ciascun autore di parti
specifiche del lavoro, la stesura materiale dei paragrafi 3, 4 e 6 potrà essere attribuita a Francesco Aiello e quella dei
paragrafi 2 e 5 a Damiano Silipo. L’introduziuone e le conclusioni sono state scritte congiuntamente dai due autori.
delle imprese, imponendo distorsioni e vincoli di qualche natura sulle scelte e sul comportamento degli
agenti che operano dal lato dell’offerta.
Il confronto è stato effettuato con riferimento sia alle imprese industriali appartenenti allo stesso
settore di attività e alla stessa classe dimensionale, che alle banche incluse nella stessa classse dimensionale.
Inoltre, per evitare effetti distorsivi derivanti dalle forti divergenze nelle condizioni di sviluppo dell'economia
italiana, che incidono in modo considerevole sul comportamento delle imprese, si è proceduto ad una
disaggregazione territoriale dell'analisi empirica per aree caratterizzate da omogeneità nelle condizioni di
sviluppo e nei sistemi produttivi (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro e Mezzogiorno).
Al riguardo si noti che, la ristrettezza del mercato italiano dei capitali (cfr. par. 1) potrebbe rendere
poco significativa un’articolazione territoriale dell'analisi. D'altra parte, qualunque approccio che non
tenesse conto delle differenziazioni territoriali e settoriali potrebbe introdurre distorsioni ancora più
accentuate di quelle dovute all’esiguità delle imprese quotate, in quanto sia il comportamento delle banche
(cfr. tra gli altri, Galli e Onado, 1991; Messori e Silipo, 1997) che delle imprese italiane (cfr. Bagella,
1996) è fortemente condizionato dalle caratteristiche prevalenti nelle diverse aree dell'economia italiana.
Una delle poche indagini empiriche sull'argomento è stata svolta da Mayer e Alexander (1991) per
l'Inghilterra con riferimento al periodo 1980-87. Questi autori dimostrano che, le imprese quotate sono
caratterizzate da più elevati tassi di crescita e livelli della produttività del lavoro, determinati da processi di
acquisizione piuttosto che dagli investimenti interni. Rispetto alla performance finanziaria, le imprese
quotate godono anche di margini di profitti più alti, che sono stati in gran parte utilizzati per remunerare gli
azionisti. Infine, le imprese quotate sembrano essere caratterizzate anche da una diversa struttura
finanziaria, caratterizzata da un maggior ricorso al finanziamento a medio e lungo termine. Nel complesso,
quindi, la possibilità di accesso al mercato dei capitali per le imprese inglesi sembra aver avuto un benefico
effetto sulla loro performance sia finanziaria che reale.
Risultati contrastanti sono stati ottenuti per l'Italia da Pagano e al. (1996) e Ronchi e al. (1994).
Questi autori analizzano sia le determinanti che gli effetti della quotazione in borsa delle imprese italiane.
Essi dimostrano, tra l'altro, che nel periodo successivo alla quotazione, le imprese quotate hanno subito
una riduzione dei profitti, degli investimenti e della leva finanziaria, anche se la quotazione sembra aver
ridotto il costo del finanziamento bancario.
Questi risultati potrebbero dipendere da un diverso comportamento di banche e imprese nei diversi
contesti territoriali dell’economia italiana. Inoltre, essi potrebbero riflettere specificità settoriali. Per tener
conto di questi aspetti si è disaggregata l’analisi a livello regionale e si è esteso il lavoro comprendendo
anche il settore bancario, che è caratterizzato da un maggior grado di omogeneità produttiva rispetto a
quello delle imprese industriali.
Il lavoro è organizzato come segue. Il secondo paragrafo illustra le caratteristiche del sistema
finanziario italiano in relazione a quello degli altri paesi industrializzati. Il terzo paragrafo descrive le fonti dei
dati utilizzati e la metodologia adottata. Il quarto paragrafo presenta i risultati sulla propensione a quotarsi
2
delle imprese nelle diverse aree dell’economia italiana. Il quinto paragrafo considera i risultati sulla
performance delle imprese industriali, mentre nel sesto paragrafo si presentano i dati relativi alle banche.
Le maggiori conclusioni emerse nel corso del lavoro sono contenute nel settimo ed ultimo paragrafo.
2. Caratteristiche del sistema finanziario italiano
I caratteri distintivi del sistema finanziario italiano sono individuabili nella esistenza di un sistema orientato
alle banche e in un ruolo marginale del mercato azionario. Poche osservazioni sono sufficienti per
descrivere queste caratteristiche. Un primo dato che consente di cogliere chiaramente il differenziale
sviluppo del mercato dei capitali è relativo al rapporto tra capitalizzazione di borsa e PIL. Con riferimento
al 1993, questo rapporto assume un valore pari a 1,6 nel Regno Unito, 0,23 in Germania e solo 0,14 in
Italia (cfr. tab. 1). La ristrettezza del mercato finanziario italiano è dovuta non tanto alla minore dimensione
delle imprese quotate quanto all'esiguo numero di imprese quotate nella borsa italiana (cfr. Pagano e al.,
1996). Basti notare che, nel 1994 in Italia erano quotate solo 223 società, contro 654 della Francia, 650
della Germania, 2534 del Regno Unito e 2787 degli Stati Uniti (cfr. tab. 1). D'altra parte, se si esaminano
i dati relativi all'indebitamento delle imprese industriali e alle istituzioni che erogano tali prestiti, si può
osservare come nel Regno Unito il 56% dei prestiti è erogato dalle banche, mentre questa percentuale sale
all'89% in Germania e Italia (tabella 2). Inoltre, gran parte dei prestiti erogati dalle banche italiane è a breve
termine. Considerando come proxy della composizione dei prestiti la struttura dell'indebitamento delle
imprese, si può notare che, a fronte di una percentuale del 67% dei debiti a medio e lungo termine delle
imprese industriali del Regno Unito e del 69%% di quelle tedesche, le imprese italiane avevano nel 1994
solo il 37% di debiti a medio e lungo termine rispetto al totale dei debiti (cfr. tab. 2). Ciò manifesta,
dunque, un’anomalia del sistema finanziario italiano, caratterizzato da un mercato dei capitali scarsamente
sviluppato e da un sistema creditizio che eroga soprattutto prestiti a breve termine.
Queste caratteristiche del sistema finanziario italiano non solo trovano riscontro ma vengono
accentuate dalla struttura finanziaria delle imprese. Infatti, le imprese italiane presentano una struttura
dell'indebitamento orientata verso il breve termine in misura superiore a quella giustificata dalle attività
connesse a questa forma di credito. Al riguardo, sono indicativi alcuni risultati ottenuti dall'analisi dei bilanci
delle principali società industriali italiane effettuata da Mediobanca (1995). Questi risultati mostrano che,
nel decennio 1985-94 le principali imprese italiane presentano un margine di tesoreria sempre negativo e in
continua crescita (cfr. tab. 3). Considerando che questo indicatore rappresenta la differenza tra attività e
passività correnti, si deve concludere che, le imprese italiane hanno fatto crescente ricorso ai debiti a breve
per finanziare fabbisogni a più lunga scadenza. D'altra parte, questo ricorso dei prestiti a breve per
finanziare gli investimenti, trova giustificazione nell’insufficiente dotazione di capitale proprio che caratterizza
le imprese italiane. Nello stesso periodo, le principali società italiane avevano il margine di struttura
negativo, e in crescita dal 1990 (cfr. tab. 3). Ciò dimostra la sempre più marcata divaricazione tra il
fabbisogno di fondi da destinare agli investimenti e la disponibilità di risorse proprie da parte delle imprese
italiane.
3
La separazione tra banche e imprese e la centralità assunta in Italia dagli istituti di credito a breve
termine sembrano, quindi, aver impedito l'affermazione di una commistione di interessi tra banche e
imprese, che ha caratterizzato altri sistemi orientati alle banche (Germania e Giappone). Inoltre, la
ristrettezza del mercato azionario italiano non ha consentito alle imprese nemmeno di godere di quei
vantaggi che caratterizzano i sistemi orientati al mercato (Regno Unito e Stati Uniti), quale quello di un
facile e rapido accesso a fonti alternative di finanziamento.
Lo scopo del presente lavoro è quello di valutare se l'accesso al mercato dei capitali abbia avuto
effetti positivi sull'efficienza delle imprese. Ciò è rilevante anche ai fini di una valutazione dei cambiamenti
strutturali in atto nel sistema finanziario italiano, che stanno trasformando quest'ultimo da un modello di tipo
anglosassone ad un modello di tipo tedesco.
3. I dati utilizzati
Nel presente lavoro, la fonte statistica utilizzata nell’analisi delle impree non finanziarie è il CD-ROM “R&S
Mediobanca 1996”, il quale contiene tutti i dati e le informazioni pubblicati nell’Annuario R&S 1996
(Ricerche e Studi SPA, 1996) e nel Calepino dell’Azionista 1996, curato dall’Ufficio Studi di Mediobanca.
Le informazioni quantitative riferite alla banche sono tratte dal CD ROM “Bilbank” della Centrale dei
Bilanci delle Banche. L’arco temporale esaminato è il 1992-95 per le imprese non finanziarie e il 19931996 per le banche ed al fine di rendere più robusti i risultati, si sono considerati i dati medi del periodo
preso in esame, anziché i valori annuali.
In ciascun anno del periodo analizzato, le imprese non finanziarie sono state selezionate in base
all’attività economica svolta ed aventi la sede legale in Italia (cfr. tab. 4). Dal campione estratto sono state
escluse le società i cui dati relativi al fatturato non erano disponibili, pur essendo state fornite dal software di
Mediobanca le informazioni statistiche di tutte le altre variabili di interesse (oneri finanziari, debiti finanziari
totali, capitale netto, debiti totali, ROI, ROE ed utile netto). L’esclusione è dovuta al fatto che la
classificazione delle imprese non finanziarie è per classi di fatturato.
Per quanto riguarda l’individuazione delle società quotate si è tenuto conto dei listini ufficiali forniti
dall’Ufficio Società della Borsa di Milano. In questo elenco non sono state incluse quelle società i cui titoli
hanno subito provvedimenti di revoca dalle quotazioni ufficiali durante uno degli anni esaminati. Dopo aver
adottato questi criteri di selezione, il valore medio delle imprese non finanziarie incluse nel campione è
uguale a 1728, di cui 71 quotate (cfr. tab. 4 e 5), mentre il numero delle banche è pari a 792, di cui 36
quotate (cfr. tab. 16).
Come si è detto, al fine di operare con dati il più possibile omogenei tra di loro, le imprese sono
state classificate per classi dimensionali e aree geografiche. Per ciascun anno, le classi dimensionali sono
state formate tenendo conto del valore a prezzi correnti del fatturato (imprese non finanziarie) e del totale
attivo (banche), mentre la suddivisione per aree geografiche è stata realizzata in base alla localizzazione
della sede legale di ogni singola società. Si sono così considerate le seguenti quattro macro-regioni: NordOvest (Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Liguria), Nord-Est (Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto
Adige, Veneto, Emilia Romagna) Centro (Toscana, Marche, Umbria, Lazio) e Mezzogiorno (Abruzzo,
Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna).
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I risultati presentati nelle successive tabelle sono valori medi del periodo esaminato, e sono stati
ottenuti applicando per ciascuna macro-regione la seguente formula: ( ∑ ∑ Xij ): ( ∑ ∑ Yij ) dove
i
j
i
j
i=1,....,t e j=1,....,n. Xij e Yij rappresentano i valori delle variabili X ed Y relative alla j-esima società ed
all’i-esimo anno.
I dati presentati nella tabella 12 si riferiscono invece al valore medio dell’indice ROI delle imprese
non finanziarie di ciascuna area. Il valore medio è così calcolato: (∑ ∑ ROI ij ):( ∑ ni ) , dove ROIij è il
i
j
i
valore dell’indice ROI relativo alla j-esima società ed all’i-esimo anno ed ni è la numerosità del campione
nell’i-esimo anno. In modo analogo sono stati ottenuti i risultati relativi alla media dell’indice ROE presentati
nella tabella 14.
.
Sulla base di questi dati, si sono considerati i vari indicatori della performance reale e finanziaria
delle imprese quotate e non quotate appartenenti alla stessa classe dimensionale, settore di attività e area
geografica. La descrizione dei risultati ottenuti è presentata nei successivi paragrafi.
4. La propensione a quotarsi delle imprese italiane
Una qualunque considerazione sulla natura e il comportamento delle imprese industriali italiane quotate non
può che prendere le mosse dalla constatazione dell’esiguità delle imprese industriali quotate. Nel periodo
considerato, a fronte di una media di 220 imprese quotate, solo 70 appartenevano al settore industriale.
Ciò, da un lato, dimostra la ristrettezza del mercato italiano dei capitali (cfr. infra), dall'altro, induce a
valutare con qualche cautela i risultati di seguito riportati, che potrebbero essere condizionati dalla
specificità delle singole società quotate1.
Partendo dal presupposto che il campione R&S Mediobanca sia rappresentativo della distribuzione
delle imprese non finanziarie italiane, l'analisi della distribuzione delle imprese quotate e non quotate
consente di valutare la propensione a quotarsi delle imprese industriali italiane di ciascuna area geografica e
settore di attività.
Al riguardo, la tab. 5 consente di notare come, a fronte di una media di 71 imprese industriali
quotate nel periodo 1992-95, oltre tre quarti (46 su 71) erano collocate nel Nord-Ovest, dove avevano
sede oltre la metà delle imprese del campione (844 su 1533) e la principale borsa valori italiana. Nel
Nord-Est, pur essendo concentrate in media 384 società del campione, solo 12 erano le società quotate
(3,1%); mentre nel Centro le società quotate erano nello stesso periodo 8 su 202 (3,9%) e nel
Mezzogiorno 5 su 104 (4,8%). Da questi dati sembrerebbe, quindi, che la propensione a quotarsi sia
massima nel Nord-Ovest (5.4%) e minima nel Nord-Est (3,1%). Questo risultato potrebbe riflettere la
diversa composizione dimensionale delle imprese che nel Nord-Ovest è sbilanciata in favore delle imprese
di grandi dimensioni e questo potrebbe contribuire quindi a spiegare la maggiore propensione a quotarsi nel
Nord-ovest rispetto alle altre aree. (cfr tab. 5).
1 I possibili effetti distorsivi sono però attenuati dal fatto che, nel presente lavoro l'analisi viene estesa anche al settore
bancario, consentendo così di valutare in quale misura i risultati del settore industriale possano avere una validità
generale.
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Diversi fattori potrebbero indurre le imprese di più grandi dimensioni ad una maggiore propensione
a quotarsi. In primo luogo, la necessità di effettuare investimenti di grandi dimensioni indurrebbe le imprese
a quotarsi per accrescere le possibilità di finanziamento dell'impresa. Un ulteriore aspetto è costituito dalla
necessità di diversificare le fonti di finanziamento per ridurre il maggior rischio dell'attività imprenditoriale,
nonostante queste ultime godano di condizioni più favorevoli di finanziamento sul mercato del credito.
Infine, il maggiore ricorso al mercato dei capitali da parte delle grandi imprese potrebbe riflettere una
migliore performance reale di queste imprese, che ricorrerebbero al mercato dei capitali per segnalare
questa accresciuta efficienza produttiva (cfr. Pagano et al., 1996).
D'altra parte, il ricorso al mercato dei capitali per diversificare il rischio dovrebbe trovare un
ulteriore riscontro nel fatto che le imprese appartenenti ai settori più innovativi e, quindi, più rischiosi, sono
anche quelle più propense a ricorrere al mercato dei capitali. Nonostante i processi di modernizzazione
interessino tutti i settori, appare ragionevole affermare che alcuni settori sono più innovativi, mentre altri
settori sono più tradizionali. Tra i primi si collocano la chimica e farmaceutica, la meccanica, i mezzi di
trasporto, la carta e cartotecnica. Appartengono invece ai settori più tradizionali i prodotti energetici, i
minerali e prodotti non metalliferi, il tessile e abbigliamento, il legno e gomma.
Con riferimento al Nord-Ovest, i dati mostrano che, la percentuale delle imprese quotate sul totale
è pari al 30% nell'industria dei prodotti per l'edilizia e dei lavori stradali, al 25% nell'industria delle fibre
chimiche e del vetro, al 16,6% nel settore cartario, al 13,8% nel tessile, all'11,9% nel farmaceutico e
cosmetico, all'11,6% nei settori elettrico, elettronico e macchine per ufficio, all'11,1% nel settore energetico
(cfr. tab. 4). Come si può notare, le imprese dove la percentuale delle quotate è più elevata appartengono
quasi interamente ai settori più innovativi. Viceversa, per i settori più tradizionali, la percentuale delle
imprese quotate è pari all'1,3% nel settore alimentare, al 10,2% nel tessile e abbigliamento, al 10,5% nella
gomma e cavi, all'1,4% nel metallurgico e siderurgico. Sebbene esistano casi di settori relativamente
tradizionali dove la percentuale delle imprese quotate è più elevata (prodotti per l'edilizia e dei lavori
stradali, 30%) e settori relativamente innovativi con una bassa percentuale delle imprese quotate (mezzi di
trasporto, 4,2%), sulla base dei dati della tabella 4, si può affermare che, le imprese operanti nei settori più
innovativi hanno una maggiore propensione a quotarsi rispetto alle imprese operanti nei settori tradizionali.
Questi dati sembrerebbero quindi confermare che la maggiore rischiosità relativa alle imprese più innovative
induce ad una maggiore propensione a quotarsi, allo scopo di ripartire il più elevato rischio imprenditoriale
che caratterizza le imprese di questi settori.
Inoltre, le imprese quotate del Nord-Est, pur appartenendo sia a settori tradizionali che innovativi
(tessile e abbigliamento, meccanico ed elettromeccanico), sono state interessate da un elevato dinamismo,
sia in termini di crescita dimensionale che di innovazione produttiva. Ciò induce a ritenere che, la
quotazione delle imprese sia anche il risultato di un processo di crescita nella loro performance reale.
Nel complesso, quindi, la propensione a quotarsi è maggiore per le imprese industriali localizzate
nel Nord-Ovest, operanti nei settori più innovativi e di dimensioni medio-grandi. Inoltre, essa è anche più
elevata nei settori caratterizzati da un maggiore dinamismo. Questi dati sembrano quindi indurre alla
conclusione che, nel caso italiano, i fattori che maggiormente hanno pesato sulla propensione a quotarsi
siano stati la necessità di frazionare l'elevato rischio imprenditoriale ed il ricorso al mercato dei capitali per
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consolidare la crescita delle imprese e per segnalare l'accresciuta efficienza produttiva (cfr. anche Pagano
et al. 1996). Per valutare in che misura il mercato dei capitali abbia determinato effetti distorsivi sul
comportamento delle imprese, occorre confrontare la performance delle imprese quotate e non quotate.
5. Mercato dei capitali e performance delle imprese industriali.
Come si è detto, la teoria attribuisce numerose virtù al mercato dei capitali, i più importanti dei quali sono
la possibilità di trasferire e ripartire il rischio imprenditoriale, di aumentare le fonti di finanziamento e, quindi,
le occasioni di crescita dell'impresa ed infine di accrescere l'efficienza produttiva. Tra i pochi difetti
attribuiti al mercato dei capitali, il più importante è quello di determinare un'ottica di breve periodo nel
comportamento delle imprese, a causa della necessità di massimizzare il valore delle azioni.
Prima di valutare quale di questi fattori abbia assunto maggiore peso nel caso italiano, è utile
rilevare che esistono alcune principali differenziazioni tra le imprese meridionali e quelle delle altre aree.
Innanzi tutto, le imprese meridionali sono caratterizzate da una dimensione media più bassa (cfr. tabella 5),
e operano in gran parte nei settori tradizionali (cfr. tabella 4). Inoltre, esse hanno una diversa struttura
finanziaria rispetto a quelle delle altre aree.
Nonostante le imprese meridionali
siano caratterizzate da un maggiore grado di
patrimonializzazione, esse presentano un rapporto debiti finanziari/valore aggiunto significativamente più alto
rispetto a quello delle imprese collocate nel resto del paese: rispetto al valore mediano, questo rapporto nel
1995 era pari a 154 %, contro 106% delle imprese centro-settentrionali (cfr. Banca d'Italia, 1996, p.
202). Tuttavia, il maggior grado d'indebitamento finanziario delle imprese meridionali non si è ripercosso sul
costo del finanziamento, a causa delle agevolazioni finanziarie agli investimenti industriali, che hanno
consentito alle imprese meridionali di realizzare un costo medio del finanziamento inferiore a quello delle
altre aree (cfr. tab. 6)2.
Queste condizioni di finanziamento non sembrano però avere determinato una migliore
performance reale. Come si può rilevare dalla tabella 6, sia la redditività degli investimenti che la
produttività del lavoro delle imprese meridionali sono inferiori a quelle delle imprese centro-settentrionali.
Nel complesso quindi, le imprese meridionali sono caratterizzate da una maggiore fragilità.
Viceversa, le imprese del Centro-Nord, nonostante abbiano avuto un minor grado d'indebitamento,
sono caratterizzate da un costo del finanziamento più elevato ed una migliore performance reale (cfr. Tab.
6), rispetto a quelle del Mezzogiorno. In particolare, i maggiori oneri finanziari sostenuti dalle imprese del
Nord-Ovest sembrano determinati sia dal fatto che queste imprese non hanno goduto delle consistenti
agevolazioni finanziarie di cui hanno goduto le imprese del Mezzogiorno, ma anche dalla minore redditività
degli investimenti (7,5% contro una media del 9,44%). Infine, sul costo del debito può aver inciso anche la
caduta dei corsi azionari che si è avuta in questi anni, e che ha determinato una riduzione del 62% del ROE
delle imprese situate in quest'area (cfr. tab. 6).
Tuttavia, i maggiori oneri finanziari che caratterizzano le imprese del Nord-Ovest nel periodo
considerato non sembrano dovuti alle imprese quotate in quest'area. Infatti, nel Nord-Ovest gli oneri
2 Occorre, tuttavia, rilevare che, dal 1992 al 1995 sono state sospese le agevolazioni finanziarie ai nuovi investimenti
industriali, per cui questo vantaggio tende ad erodersi.
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finanziari sui debiti finanziari delle imprese quotate sono mediamente minori di quelli delle imprese non
quotate (cfr. tab 7), pur in presenza di un maggior grado d'indebitamento finanziario (cfr tab. 9).
Il minor costo medio del finanziamento di cui beneficiano le imprese quotate del Nord-ovest
sembra determinato dalle condizioni più vantaggiose che le imprese di grandi dimensioni riescono a
spuntare sul mercato del credito. Considerando che le imprese quotate ricorrono in misura rilevante alla
fattorizzazione dei crediti, e il costo della fattorizzazione è maggiore di quello del finanziamento, l'insieme dei
dati appena esaminati dimostra che, le imprese quotate del Nord-Ovest sono in grado di ottenere sul
mercato del credito condizioni di finanziamento significativamente più basse delle imprese non quotate. Le
imprese quotate delle altre aree hanno, invece, sostenuto condizioni di finanziamento più onerose rispetto
alle imprese non quotate (cfr. tab. 7), cosicchè i dati disponibili non consentono di estendere questo
risultato alle altre aree dell'economia italiana3.
Diversi fattori sembrano aver contribuito a questo risultato. Da un lato, il maggiore peso assunto
per le imprese quotate del Nord-Ovest dalle imprese di grandi dimensioni (cfr. tabella 5) dall'altro, il minor
grado d'indebitamento complessivo di queste imprese (cfr. tab. 8). Infine, la loro migliore performance
reale (cfr. tab. 10).
Infatti, l'elevata produttività delle imprese quotate, particolarmente nel Nord-Ovest, è dovuta in
gran parte alle imprese di grandi dimensioni, che hanno potuto maggiormente sfruttare le economie di scala
(cfr. tab. 10). Inoltre, il minor grado d'indebitamento delle imprese quotate (cfr. tab. 8) denota una
maggiore solidità di queste imprese, nonostante il loro maggiore indebitamento finanziario (cfr. tab. 9).
Infine, come mostra la tabella 10, le imprese quotate del Nord-Ovest sono caratterizzate nel periodo
considerato da livelli di produttività per addetto quasi doppi rispetto a quelli delle imprese non quotate. Ciò
non trova riscontro solo nel Centro, dove le imprese quotate presentano anche una minore efficienza
produttiva4.
Nonostante i dati non consentano di stabilire nessi causali, non si può non constatare come le
imprese quotate siano generalmente più efficienti; portando un qualche sostegno alla tesi secondo la quale
il mercato dei capitali abbia un ruolo anche nel miglioramento dell'efficienza produttiva delle imprese.
Se i dati disponibili non consentono di generalizzare i risultati ottenuti per le imprese del NordOvest alle imprese quotate delle altre aree, un risultato incontrovertibile è quello di una maggiore capacità di
finanziamento di cui godono le imprese quotate rispetto a quelle non quotate. Come mostra la tabella 9, le
imprese quotate, indipendentemente dall'area di appartenenza e dalla classe dimensionale, hanno avuto un
grado d'indebitamento finanziario maggiore rispetto alle imprese non quotate. Si può così concludere che
l'accesso al mercato dei capitali abbia contribuito ad accrescere la capacità d'indebitamento delle imprese,
particolarmente stringente in Italia (cfr. Pittaluga, 1989). Data la natura dei mercati finanziari italiani (cfr.
3 Infatti, essi si riferiscono al totale degli oneri finanziari delle imprese, non a quelli dovuti ai debiti bancari. Pagano e al.
(1996) dimostrano che il costo del credito bancario è più basso per le imprese quotate. La loro analisi però non è
disaggregata a livello territoriale; cosicchè il loro risultato potrebbe essere dovuto al fatto che gran parte delle imprese
quotate sia concentrata nel Nord-Ovest.
4 Al riguardo, si noti che questo confronto per le imprese del Centro e del Mezzogiorno è poco significativo, a causa
della assenza di imprese quotate nelle classi di fatturato più elevate, proprio quelle imprese che hanno contribuito
maggiormente a determinare i divari di produttività con il Nord (vedi tab. 10).
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par. 1), si può affermare che questo aspetto abbia rappresentato il vantaggio più importante delle imprese
quotate rispetto alle imprese non quotate.
D'altra parte, la maggiore capacità di finanziamento delle imprese quotate trova riscontro in una
dotazione di capitale generalmente superiore a quella delle imprese non quotate; quindi, si può affermare
che l'accesso al mercato dei capitali abbia costituito un fattore di crescita per le imprese italiane.
In quale misura la maggiore efficienza produttiva che caratterizza generalmente le imprese quotate si
riflette sulla loro redditività?
Come si può notare dalla tabella 12, la redditività degli investimenti è più bassa per le imprese
quotate rispetto a quelle non quotate ad esclusione del Centro. Ciò sembra essere indipendente dalla
composizione dimensionale delle imprese (cfr. tab. 12).
La maggiore efficienza produttiva che caratterizza le imprese quotate non è stata, quindi, sufficiente
a determinare una maggiore redditività complessiva di queste imprese. Come indica la tabella 11, l'utile
netto sul fatturato è stato inferiore per le imprese quotate. Ciò è stato prevalentemente determinato dalle
perdite realizzate dalle imprese quotate del Nord-Ovest (cfr. tab. 11)5.
La minore redditività delle imprese quotate potrebbe trovare una qualche spiegazione in una loro
diversa composizione strutturale. Infatti, il rapporto capitale netto/fatturato delle imprese quotate era
superiore a quello delle imprese quotate delle altre aree (cfr. tab. 13), che indurrebbe ad attribuire la
minore redditività alla minore produttività del capitale di queste imprese.
L'ultimo punto che si vuole esaminare è se l'accesso al mercato dei capitali abbia indotto un'ottica
di breve periodo nel comportamento delle imprese. Al riguardo, si noti che la redditività del capitale proprio
è più elevata per le imprese quotate, ad eccezione delle imprese del Centro e del Mezzogiorno (cfr. tab.
14). Il ricorso al mercato dei capitali sembrerebbe quindi aver determinato un vincolo per queste imprese,
a causa della necessità di garantire un rendimento adeguato alle azioni (cfr. tab. 14), anche in presenza di
una bassa redditività degli investimenti (cfr. tab. 12) e di utili netti negativi (cfr. tab. 11), allo scopo di
impedire una caduta drastica del valore delle azioni. Le imprese non quotate hanno invece reagito alla
bassa redditività contraendo il rendimento del capitale proprio (cfr. tab. 14). Sebbene questo
comportamento denoti l'assunzione di un'ottica di breve periodo, una completa valutazione degli effetti del
mercato dei capitali non può prescindere dalle conseguenze positive sulla struttura e la performance delle
imprese italiane individuate in precedenza.
6. Mercato dei capitali e performance delle banche italiane.
Nonostante nei paragrafi precedenti si sia tenuto conto delle differenziazioni territoriali e dimensionali delle
imprese industriali italiane, l'analisi finora svolta presenta due sostanziali limiti. Il primo consiste nella
ristrettezza del campione considerato, in particolare per ciò che concerne le imprese industriali quotate. Il
secondo limite è costituito dal fatto che, la distribuzione per settori di attività delle imprese quotate diverge
da quella delle imprese non quotate, cosicchè i risultati potrebbero essere distorti da specificità settoriali.
5 I dati del rapporto utile netto/valore aggiunto per il 1995 confermano sostanzialmente questi risultati. In particolare, essi
mostrano che, le maggiori perdite delle imprese quotate si hanno per le imprese appartenenti alla classe inferiore ai 25
miliardi di fatturato e alle classi superiori a 1000 miliardi di fatturato; nelle classi intermedie, le imprese quotate
ottengono una performance migliore delle non quotate (cfr. tab. 15).
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Nel tentativo di superare questi due limiti, abbiamo esteso lo studio degli effetti della quotazione in
borsa anche alle imprese appartenenti al settore bancario. Infatti, le differenziazioni che caratterizzano le
banche di dimensioni simili sono minime; cosicchè si può affermare che i prodotti offerti da queste banche
sono omogenei, consentendo così di superare uno dei limiti che caratterizza l'analisi del settore industriale.
Tuttavia, la numerosità del campione delle banche quotate presenta gli stessi limiti di quello delle imprese
industriali. Infatti, come si può notare dalla tabella 16, in Italia nel periodo 1993-96 esistevano in media
solo 36 banche quotate. Tenendo conto che, tra queste ultime, ben 24 erano situate nel Nord-Ovest,
sembra ragionevole concentrare l'analisi prevalentemente su quest'area, valutando successivamente in quale
misura i risultati divergono nelle altre aree dell'economia italiana. Inoltre, non essendo presenti banche
quotate nelle classi dimensionali inferiori ai 1000 miliardi di attivo, l'analisi verrà condotta con riferimento
alle banche incluse nelle classi superiori ai 1000 miliardi (cfr. tab.16).
Per valutare le caratteristiche strutturali del sistema bancario italiano, è utile partire da un confronto
con le altre banche europee. Rispetto a queste ultime, le banche italiane nel periodo considerato (1993-96)
erano caratterizzate da un costo medio per unità di margine d'intermediazione maggiore che negli altri paesi,
dovuto in gran parte al maggiore costo unitario del personale. Dal lato dei ricavi, le banche italiane
presentavano nei ricavi diversi dalla gestione del denaro valori simili a quelli degli altri paesi europei, anche
se la quota dei ricavi su servizi rimane modesta. Ne consegue che, le banche italiane si caratterizzano per
una minore redditività, cui ha contribuito anche l'ampia quota di capitale investito in cespiti a basso
rendimento. Infatti, il ROE è stato negli anni 1993-'95 pari all'1% in Italia, superiore a quallo registrato in
Francia (0,2%), ma inferiore al 6,4% della Germania, al 17,1% del Regno Unito e al 5% della Spagna
(cfr. Banca d'Italia, Relazione annuale, 1996). Questi dati indicano quindi che, le banche italiane presentano
una maggiore fragilità rispetto alle banche degli altri paesi europei.
Considerando più approfonditamente le caratteristiche strutturali delle banche italiane, si può
notare che le banche quotate hanno un grado di patrimonializzazione inferiore a quello delle banche non
quotate (tab. 17). Ciò è dovuto in gran parte all’insufficiente patrimonializzazione delle banche quotate di
grandi dimensioni localizzate nel Nord-ovest (cfr. tab. 17). Infatti, per le banche del Nord-Ovest che hanno
un attivo inferiore ai 25.000 miliardi, il grado di patrimonializzazione delle banche quotate è superiore a
quello delle non quotate. Nonostante le banche quotate avessero un rapporto sofferenze/impieghi più basso
delle banche non quotate, il più basso grado di patrimonializzazione delle banche quotate si riflette in un
rapporto sofferenze/patrimonio più elevato.
Ancora più evidente è la scarsa patrimonializzazione delle banche quotate, se si rapporta il
patrimonio di queste banche ai grandi rischi da esse sostenuti (cfr. tab. 17).
Se si considera che le banche italiane hanno avuto sia il margine di struttura che di tesoreria
negativi, si può comprendere come scarsa sia la loro capacità di investimento. Ciò è vero in misura
maggiore per le banche quotate. D'altra parte, le prospettive di crescita delle banche italiane non trovano
sostegno nemmeno nella loro capacità reddituale, che, come si è detto, risulta la più bassa d'Europa.
Come mostra la tabella 17 nel periodo 1993-96 il complesso delle banche italiane quotate registra
margini di interesse e di intermediazione più bassi rispetto alle banche non quotate, e di conseguenza, risulta
essere minore anche il loro utile lordo e netto sull'attivo (ROA).
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L'utile netto in rapporto al capitale e alle riserve (ROE) presenta, invece, un andamento
discordante. Come si può notare, il ROE è più elevato per le banche quotate del Nord-Ovest, mentre è
più basso se si considera la totalità delle banche italiane (cfr. tab. 17). Ciò è dovuto in gran parte alle gravi
perdite che hanno subito in questi anni le principali banche meridionali.
La divergenza nelle caratteristiche strutturali delle banche quotate e non quotate s'intreccia, infatti,
con una differenziazione del sistema bancario italiano per area geografica. Le banche meridionali sono
strutturalmente caratterizzate da un più elevato margine d'interesse, da una più elevata incidenza dei costi
operativi, da un inferiore apporto dei ricavi su servizi, da perdite su crediti relativamente superiori, da un
grado di capitalizzazione relativamente più basso. Inoltre, le banche meridionali operano in mercati
altamente segmentati (cfr. tra gli altri Silipo, 1996, e Messori-Silipo, 1997). In conseguenza delle gravi
perdite su crediti, le banche meridionali, diversamente dalle altre banche, nel periodo considerato hanno
registrato utili lordi negativi (cfr. Banca d'Italia, Relazione annuale, 1996).
Infine, il minor grado di patrimonializzazione e la minore redditività delle banche quotate ha
determinato un grado di indebitamento con le banche più elevato, e un costo del finanziamento bancario
doppio rispetto a quello delle banche non quotate, oltre che un costo medio delle passività onerose più
elevato (cfr. tab. 17); quest'ultimo risultato contrasta con quello ottenuto per le imprese industriali.
Nel complesso, quindi, i risultati appena esposti dimostrano che, le banche quotate, diversamente
dalle imprese, non sembrano avere benefici dalla quotazione in borsa. Anzi esse sono caratterizzate da una
maggiore fragilità strutturale e da peggiori prospettive reddituali rispetto alle banche non quotate. Esse,
inoltre, presentano distorsioni simili alle imprese quotate, determinate dalla necessità di remunerare
sufficientemente il capitale proprio, anche in presenza di una profittabilità scarsa o nulla.
7. Conclusioni
In questo lavoro si sono considerati gli effetti del mercato dei capitali sul comportamento e la performance
delle imprese italiane.
Un esame delle caratteristiche delle imprese italiane quotate e non quotate ha consentito di rilevare
come la propensione a quotarsi sia maggiore per le imprese del Nord-Ovest e per quelle di maggiori
dimensioni. Altri fattori che in Italia sembrano aver pesato sull'incentivo a quotarsi sono la necessità di
ripartire l'elevato rischio imprenditoriale che contraddistingue i settori più innovativi, e l'esigenza di utilizzare
il mercato dei capitali per consolidare la propria crescita, sia attraverso il ricorso a questa fonte aggiuntiva
di finanziamento che a causa di una maggiore facilitazione di accesso al mercato del credito che sembra
contraddistinguere le imprese italiane quotate.
Queste ultime hanno, infatti, una dotazione di capitale notevolmente superiore rispetto alle imprese
non quotate.
Inoltre, le imprese quotate sembrano caratterizzate da un più basso costo del credito, sia per la
loro maggiore solidità che per il loro maggiore potere contrattuale determinato dall'accesso al mercato del
capitali.
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Sul piano della performance, le imprese quotate denotano nel periodo considerato livelli molto più
elevati di efficienza produttiva, ma non una capacità superiore di creare reddito rispetto alle imprese non
quotate.
I bassi livelli di redditività e la necessità per le imprese quotate di remunerare gli azionisti, anche in
presenza di risultati negativi, può aver generato in queste imprese l'assunzione di una ottica di breve
periodo.
Tuttavia, il fatto che, diversamente da altri paesi (Regno Unito e Stati Uniti), le imprese italiane
abbiano utilizzato il mercato dei capitali come strumento aggiuntivo e non sostitutivo di finanziamento è
particolarmente indicativo del grado di arretratezza dei mercati finanziari italiani, che ha determinato vincoli
e distorsioni nel comportamento delle imprese.
Diversamente dai risultati delle imprese industriali dove l’evidenza empirica mostra alcuni benefici
derivanti dalla quotazione, i risultati delle banche mostrano chiaramente come le banche quotate siano
caratterizzate da indicatori sia di performance che di redditività peggiori rispetto alle banche non quotate.
Inoltre, le prime hanno anche livelli più elevati di fragilità strutturale.
La peggiore performance che caratterizza le banche quotate potrebbe trovare diverse
giustificazioni. Innanzitutto, potrebbe aver pesato un effetto dimensionale. Tenendo conto, che le banche di
grandi dimensioni hanno un peso maggiore nelle quotate, la performance peggiore delle grandi banche in
questi anni può aver contribuito a questo risultato finale. Inoltre, il fatto che le banche quotate stiano peggio
sia in termini di performance che di struttura, potrebbe denotare anche una diversa motivazione delle
banche a quotarsi: in queste ultime, al contrario delle imprese, il ricorso al mercato dei capitali potrebbe
essere stato determinato dalla loro maggiore fragilità.. Tuttavia, un esame accurato di questo aspetto
richiederebbe una verifica della performance delle banche quotate ex-ante e ex-post, che esula da questo
lavoro.
Infine, si tenga conto che la performance di una banca non è indipendente dalla sua natura
istituzionale (pubblica, privata, cooperativa, popolare, ecc..); per cui la ripartizione di quotate e non quotate
effettuata in questo lavoro potrebbe trovare un qualche intreccio con gli aspetti dell’allocazione della
proprietà delle banche italiane. L’analisi di questi fattori costituisce lo scopo di future ricerche.
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