Foglia morta - Liceo Statale J.Joyce

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Foglia morta - Liceo Statale J.Joyce
Titolo della tesina: La realtà come specchio del proprio dolore
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Sezione narrativa: racconto
Foglia morta
Adoravo passeggiare per le strade di Trieste in autunno. Guardavo le foglie già colorate in
sfumature di rosso, arancione e giallo, tipiche della stagione autunnale. Venivano mosse dal vento
freddo, spazzate via verso un altro posto. Le poche fra di loro che ancora erano sui rami
sembravano aggrapparsi con le ultime forze. In quelle foglie vidi la mentalità umana: gli uomini
tendono ad attaccarsi alle cose inutili e materiali della vita. Le pozzanghere riflettevano i colori
delle foglie come un miscuglio di colori sulla tavolozza di un pittore che non riesce a trovare la
giusta tonalità di arancione che desidera o come un campo di guerra insanguinato. Il caso volle che
in quel momento nelle mie cuffiette iniziò una canzone di Chris Brown, Autumn Leaves: mi piaceva
quella canzone, parlava della disperazione del cantante dopo esser stato lasciato e guardando le
foglie cadere gli sembrava che la donna amata fosse l’unica ragione della loro caduta. “It seems like
all the autumn leaves are falling and you’re the only reason for it”.
Guardai le panchine: alcune erano occupate da vecchietti che cibavano i piccioni ma non furono
quelle a colpirmi. Mi colpì una panchina in particolare su cui era seduto un ragazzo curvo che
guardava per terra. Mi ricordai di averlo visto ogni giorno che passavo di lì; lo trovai strano ma
d’altra parte non erano cose che mi riguardavano. Mi sedetti sull’altro capo della panchina e trassi
il mio libro preferito fuori dalla borsa. Romeo e Giulietta. Ero legata a quel libro, lo avevo letto una
decina di volte e non mi stancava mai. Possibile che per questioni di minuti i due innamorati non
potevano avere il loro lieto fine? Il ragazzo non mi degnò di uno sguardo, io mi tolsi le cuffiette per
cimentarmi nella lettura.
-
Queste gioie violente hanno fini violente.
Muiono nel loro trionfo, come polvere
Da sparo e il fuoco,
Che si consumano al primo bacio - disse.
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- Atto II, scena VI - fu l’unica cosa che riuscii a rispondere.
Sorrise e annuì – Ti vedo qui spesso. Ti piace questa via? -. Aveva occhi di un azzurro limpido,
sorriso strafottente, mascella quadrata quasi scolpita . Malgrado sorridesse, i suoi occhi erano tristi,
quasi lucidi. –Sì, ha la giusta atmosfera per leggere. E a te piace questa panchina? – risposi
guardando il mio libro, così magari mi avrebbe lasciata leggere in santa pace.
-
No, la odio in effetti. Mi trasmette brutti ricordi e nostalgia – la sua voce era fredda e
distaccata come se pensasse a voce altra, poi continuò – questo è l’ultimo posto in cui vidi
mio padre prima che mi abbandonasse -.
Lo guardai: mi sembrò di vedere un cane che cerca il padrone che non lo ha voluto più, ancora
con il suo collare con la medaglietta al collo. Non seppi cosa dire e tornai a leggere. Restammo
in silenzio, ognuno assorto nei suoi pensieri ma continuavo a sentire il suo sguardo posarsi su di
me. Incontrai il suo sguardo con il mio – non penso tu debba tornare qui ogni giorno. Non
cambierà le cose – dissi dura. Davvero credeva che tornando lì ogni giorno il padre sarebbe
tornato?
Contrasse la mascella e non parlò più.
Il giorno seguente percorsi la stessa via nello stesso orario, come ero solita fare. Il ragazzo sulla
panchina non c’era più. Mi sedetti sulla panchina libera e continuai a leggere da dove ero rimasta.
-Avevi ragione – disse una voce alle mie spalle ; conoscevo quella voce, era la sua.
Sussultai – però sei sempre qui, mi pare – dissi ironica girandomi.
Scoppiò in una risata – oggi sono tornato per te, non per lui. Staccati da quel libro e andiamo a
prenderci qualcosa al bar –
-Per me? Vuoi vendicarti della risposta che ti ho dato ieri? Mi picchierai? – dissi ridendo, in fondo
ispirava simpatia. Andammo al bar, facemmo conoscenza parlando del più e del meno delle nostre
vite ma il suo approccio era comunque freddo e distaccato, le sue mani sembravano troppo grandi
per prendere le mie o anche solo sfiorarle, per dare una carezza. Si vedeva che l’abbandono del
padre, anche se aveva ancora la madre, doveva averlo segnato molto. Mi venne voglia di prendergli
la mano e con uno scatto, senza pensarci, lo feci.
- So che sei rimasto bruciato con tuo padre ma non c’è niente di male nell’affezionarsi alle persone 2
- Ho paura, paura che le persone non mi accettino per quello che sono. Paura di restare solo. Paura
di esser abbandonato di nuovo -.
- Non puoi vivere la tua vita con la continua paura o con i continui rimpianti. Rischia. Soffrire fa
parte della vita e non c’è modo per evitarlo, anche se eviti contatti con persone -.
Fu così che, un momento dopo, eravamo uniti in un bacio. Un bacio passionale come se avesse
voluto liberarsi di tutte le sue paure e preoccupazioni.
Sospirò - Colton - Pearl -.
Decisi di aiutarlo nelle ricerche del padre. Colton voleva sapere a tutti i costi che fine avesse fatto,
così consultammo tutte le persone che lo avevano conosciuto, visitammo tutti i posti in cui era stato.
Per giorni, settimane, mesi, tutti i nostri sforzi furono vani.
Fino al 13 Luglio 2016. Suonammo il campanello in via delle Querce 15 e aspettammo. Ero quasi
più agitata io di lui, gli stringevo la mano. E se avesse già una nuova vita? Nuova moglie? Nuovi
figli? Se fosse andato avanti dimenticando il passato? Ma soprattutto come avrebbe reagito Colton?
Sarebbe tornato nel buio, nel dolore come due anni fa quando lo avevo conosciuto? Non poteva
accadere, non volevo che accadesse, non ora che stavamo vivendo la nostra vita insieme a pieno.
Presto si sarebbe laureato in medicina nella più prestigiosa università di Trieste e sarebbe diventato
un medico coi fiocchi. A me mancavano ancora due anni e avrei seguito le sue orme, diventando
medico legale. Era quella la mia aspirazione. Che potevamo desiderare di più?
La porta si aprì e apparve un signore sulla cinquantina. Alto, dalla corporatura robusta. Riuscivo a
riconoscere alcuni tratti del viso che mi era familiari, erano come quelli di Colton. Perfino
l’espressione d’ incertezza che comparve sul volto dell’uomo me lo ricordò. Lo sguardo che si
stagliava dai suoi occhi di colore azzurrino quasi bluastro (erano più scuri di quelli di Colton)
sembrava scrutarci. Doveva essere lui per forza.
- Signor Haynes? – chiese Colton.
- Sì –
Le mie previsioni furono fondate: aveva una nuova moglie e una nuova famiglia, anche numerosa.
Aveva dimenticato la vecchia , era andato avanti. Per Colton fu un colpo basso, di quelli che ti
danno nello stomaco, ma anche lui ora aveva una nuova vita e non aveva tempo di pensare alla
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vecchia. Era tempo di gettarsi tutto alle spalle. Il futuro si prospettava bello per entrambi. E, quasi
come in una favola, speravo nel “felici e contenti”.
Anna Tramma
Classe 4LB
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