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Le mie donne
di Madame Rivetto
www.upstaris.org - scrittura creativa mantecata
Le mie donne
di Madame Rivetto
Le mie donne
Il concerto di Sierra & Bianca (Everybody Wants
To Go To Japan)
Era una gelida serata ed io indossavo soltanto una leggerissima
maglietta bianca con cappuccio, sopra un giubbino di pelle nera che
mi stava benissimo, ma che mi faceva camminare rigida per tutto il
freddo che sentivo nelle ossa.
Era da qualche mese che aspettavo quel concerto, e mi accorsi che il
duo sarebbe giunto in città, casualmente, come sempre, come ogni
volta che qualcosa di importante, di grosso deve accadere;
ero in
auto con Jackie un sabato mattina, di ritorno dal carcere dove
eravamo volontarie tramite un associazione laica onlus, quando vidi
sui muri un paio di locandine che annunciavano il loro arrivo tre
giorni più tardi.
Fare volontariato con i detenuti l’ho sempre considerato una specie
di investimento, per il mio futuro intendo. Con tutte le truffe che
ho in ballo non si sa mai che possa essere pizzicata, e il fatto che
io faccia volontariato in una casa di reclusione, potrebbe magari
migliorare la mia scomoda posizione. Mi interessa credere che possa
essere così; a volte mi piace pensare di poter mettere le mani avanti
piuttosto che immaginarmele strette in un paio di manette.
Il loro ultimo lavoro era grandioso, avevo letteralmente consumato il
loro cd, un misto di suoni e poesia, un fluttuare sognante, la voce
di Sierra mi emozionava martellandomi il cervello e il cuore.
Non erano assolutamente pezzi per un dj set, ma quando iniziavo a
fare la serata, ad accendere e a provare l’impianto la mettevo sempre
come seconda canzone, compiacendomi del suono, della voce e delle
splendide liriche.
E spesso mi chiedevo, così alla lontana, giusto per curiosità, come
fosse realmente Sierra.
Nelle poche immagini della band che circolavano sul web, Sierra e
Bianca sembravano due elfi usciti da una fantasia di Tim Burton, visi
pallidi con occhi stralunati, vestiti eccentrici e raffazzonati,
acconciature bizzarre e locations insolite.
Ho in mente una foto di Sierra, dove è per terra che gioca con un
trenino cercando di farlo viaggiare su delle rotaie, mentre attorno a
lei sul pavimento c’è un orsacchiotto sguercio, una piccola pianola
rossa, una trottola di metallo colorata, dei burattini di legno
ingarbugliati tra loro.
Misi nel lettore il loro secondo album, canticchiando canzoni
spezzacuore che non cadevano mai nel solito romanticismo del cazzo,
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Le mie donne
bensì dipingevano un più profondo stato emotivo, delicato a tal punto
da ferirmi per quanto mi facesse sentire intimamente nuda, mentre il
gelo dell’inverno mi attanagliava.
La voce di Sierra mi dava calore.
Avrebbero suonato martedì sera in un club a nord della città,
ovviamente dalla parte opposta di dove abitavo, ma fino all’ultimo
non ne fui certa; Jackie era stata licenziata e non ero sicura che se
la sentisse di venire con me, pensavo fosse demoralizzata o perlomeno
incazzata.
Invece no, anche in quest’occasione Jackie mi lasciò senza parole, mi
disse poche frasi come era solita fare, lasciandomi intendere che non
gliene fregava un cazzo, che avrebbe trovato un altro impiego e che
comunque voleva affondare quella bagnarola piena di merda che era
stata la sua giornata, in una bella serata con della buona musica.
Ci incontrammo con Ics davanti al locale e decidemmo di andare a
mangiare qualcosa in un posto caldo prima che avesse inizio il
concerto, ci accomodammo in una piccola bettola a gestione familiare
qualche centinaio di metri più in là da dove ci eravamo trovate.
Un signore basso dai capelli bianchi e dalle sopracciglia folte e
nere ci fece strada verso la fine del locale dove ci fece sedere; non
appena tolsi il mio striminzito giubbino di pelle girandomi e alzando
lo sguardo vidi davanti a me Sierra.
Come non notarla, si era pitturata sulle guance una specie di
tricolore su cui campeggiavano dei brillantini, ci guardammo per
qualche secondo poi abbassai lo sguardo sul menù, anche se sapevo già
cosa volevo ordinare.
Sierra era seduta al tavolo presumo con dei musicisti della band,
alcuni di loro parlavano francese altri inglese, avevano appena
finito di mangiare, e lei si stava versando del vino rosso sfuso
ammazzando così una caraffa da mezzo litro.
Dissi a Jackie che se avessi avuto con me l’ultimo cd le avrei
chiesto di autografarmelo, lei mi mandò a cagare senza nemmeno
guardarmi in faccia.
A dire il vero, non era proprio così, lo dissi solo per stemperare un
momento nel quale sentivo un palese nervosismo entrarmi nell’animo,
ma a Jackie non gliene fregava un cazzo.
Ho un cd autografato dagli Stereophonics, che incontrai casualmente
un pomeriggio in un pub, subito dopo aver comprato “Just enough
education to perform” in un negozio di usato; ora mi vergogno da
morire di avere quel disco.
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Le mie donne
Sierra aveva dei lunghi capelli neri, la carnagione pallida ed
immacolata,
pelle
di
porcellana,
occhi
azzurrissimi,
quasi
trasparenti, una piccola croce tatuata sul dorso della mano destra,
quella con cui teneva uno stuzzicadenti.
Vidi sua sorella Bianca uscire con un paio di tipi qualche minuto
dopo che ordinammo un paio di pizze e tre birre medie; Sierra invece
era ancora al tavolo con tre o quattro membri della crew, non c’erano
dubbi mi stava guardando, passandosi lo stuzzicadenti tra labbra,
denti, lingua e fissandomi in un modo che iniziava a darmi qualche
difficoltà.
Cercavo di contenermi, non volevo dare l’immagine della lesbica che
cerca di sedurre la rockstar di turno, precisando comunque che le
definizioni fini a se stesse sono riduttive, vincolanti e dopotutto
fuorvianti, ragione per cui io non mi definisco lesbica e Sierra,
anche a suo dire, non è assolutamente una rockstar.
Fu comunque difficile non ricambiare le sue occhiate, i nostri
sguardi si incrociarono più volte, fino a quando non riuscendo più a
sostenere questo hide and seek delle pupille, mi scivolò fuori un
sorriso; decisi quindi di usarlo come arma di seduzione, atta però ad
essere più un lascivo invito a proporsi piuttosto che uno sfrontato
atto di invadenza verso colei che avevo dinanzi.
Sierra rise a fior di labbra un po’ imbarazzata, ci scambiammo
occhiate di circostanza di nascosto dai rispettivi commensali.
Ero al tavolo con Jackie e Ics ma non ricordo nulla delle loro
conversazioni, ogni tanto annuivo fingendomi interessata, strizzando
l’occhio a Sierra che dal suo tavolo faceva gli stessi miei gesti, i
miei movimenti allo specchio.
Dentro di me canticchiavo le sue canzoni.
Eppure io avevo deciso di andare al loro concerto solo perché le
ritenevo musicalmente valide, innovative, ero lì per farmi una serata
tra amiche, insomma un martedì sera diverso.
E poi avevo ormai raggiunto un certo equilibrio emotivo, grazie al
lavoro che avevo fatto su me stessa; attraverso lo yoga, l’omeopatia,
la psicoterapia di gruppo, insomma ne ero uscita da sola.
E poi non ero più una ragazzina di vent'anni con le mutandine bagnate
in preda alle tempeste ormonali.
Ciononostante Sierra mi si catapultò nel cuore, spiaccicandolo contro
il muro di quella bettola alla periferia nord mentre cercavo di
tagliare una pizza alla diavola, che non volevo neanche assaggiare.
Dicono che quando t’innamori perdi l’appetito, ma io non mi innamoro
mai, io ho un certo equilibrio.
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Le mie donne
Io non salto mai un pasto.
Lasciai tre quarti di pizza nel piatto.
Un tipo di colore
presumibilmente della band chiese il conto al
signore dai capelli bianchi e dalle ciglia folte,
un altro tizio
rasato con il pizzetto saldò il tutto con delle banconote
appallottolate.
Sierra si alzò, si infilò una giacca a vento beige con il cappuccio;
legati in vita degli stracci che le facevano da cintura su un
gonnellone rosso e ampio, un bikini fissato con delle clips sopra
alla pancia e una borsa a tracolla di Winnie the Pooh, uscendo mi
guardò negli occhi e mi disse: “bye bye baby”.
Alzai timidamente la mano in cenno di saluto tra i commenti di Jackie
e la rassegnazione di Ics, entrambe concordavano sul fatto che fossi
sempre la solita, dissi che non era vero, che ero innamorata,
scherzando con loro solo per smorzare a me stessa il volume ed il
valore di ciò che stavo provando.
Pensai all’occasione che mi ero fatta appena sfuggire quando nella
bettola l’ambulante cingalese mi offrì di comprare dei fiori, avrei
voluto regalarle una rosa, bianca come lei, come la sua purezza, come
il suo candore, oppure, più azzardatamente una rossa, ma per timore
di essere poi oggetto di commenti e battute da parte di Jackie e Ics,
mi giocai così una splendida opportunità.
Pagammo il conto e ci incamminammo verso il locale.
Le pozzanghere sui marciapiedi erano ghiacciate
rompere il sottile strato di gelo camminandoci
mi accesi una canna, e vidi a poca distanza,
stazione di servizio, Sierra che parlava con il
accorse di noi, anzi di me, che stavo arrivando.
ed io mi divertivo a
sopra con i talloni,
in prossimità di una
tipo di colore; e si
Rallentai il passo.
Jackie e Ics erano davanti a me, Sierra iniziò a guardarmi e mi fece
un paio di domande in inglese che non compresi, paralizzata le
sorrisi nuovamente, sicura del potere che avevo quando schiudevo le
labbra; mi fece capire che voleva fare un paio di tiri ed io le
passai il cannone.
Farfugliò qualcosa al ragazzo di colore che con le mani in tasca si
diresse verso Jackie e Ics che incuranti avevano deciso di
incamminarsi anche senza di me.
Mi chiese il mio nome, e se ero di qui; le risposi che non volevo più
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Le mie donne
vivere in questa città e che mi vergognavo del luogo in cui ero nata
e cresciuta.
Mi accennò che l’indomani sarebbero partiti per Zurigo, poi avrebbero
proseguito per Berlino, mi chiese se avessi avuto programmi per i
prossimi giorni, e mi fece più volte i complimenti per il mio
sorriso.
La canna era finita, spenta, sepolta in una pozzanghera che avevo
poco prima trivellato con le mie scarpe.
Le assicurai che avrei ripreso il concerto con la mia video camera,
che gli avrei poi spedito una copia e che adoravo la sua voce, la sua
teatralità, e i suoi abiti, e su quest’ultima cosa mentii
spudoratamente.
Gli sbirri avrebbero potuto anche fermarla, sembrava una donna rom
appena fuggita dalla sua baracca; in quel periodo la caccia
all’immigrato e al poveraccio era il principale sport cittadino
sponsorizzato dalle autorità.
Parlammo ancora per un altro pò, il concerto doveva iniziare e i
membri della band la stavano aspettando, mi disse se avevo programmi
per l’after show, ed io ovviamente risposi di no.
Il concerto iniziò con Bianca, la sorella che arpeggiava al centro
del palco, un susseguirsi di strumenti insoliti, oboe e flauti, un
campionatore che emetteva i versi degli animali, gli esperimenti
vocali di Sierra,
circondate da dei musicisti perfetti, il volto
delle sorelle proiettato come sfondo in un alternarsi di immagini
caoticamente ipnotiche.
Quando Bianca smetteva di arpeggiare dando il cambio vocale a Sierra,
quest’ultima fotografava il pubblico con una specie di Polaroid,
appoggiando poi con attenzione ogni scatto, ogni singola istantanea
su una specie di pianola illuminata.
Gli applausi del pubblico, pochi estimatori per una band visionaria;
il loro fantastico mondo, la cameretta della loro infanzia nella
quale ci avevano invitato ad entrare per giocare con loro.
I pezzi erano difficilmente riconducibili alle tracce del disco, ogni
canzone stravolta, rivoltata, stuprata dalla voce di Sierra che
penetrava qualsiasi pertugio in ogni cazzo di anfratto.
Ogni tanto passavo la videocamera ad Ics e a Jackie perché volevo
guardare Sierra, memorizzarla nel mio archivio ma anche perché, meno
romanticamente, mi venivano dei terribili formicolii alle braccia.
Sorseggiavo birra sgasata del bicchiere di plastica, Sierra cantava
agitando in aria un bastone con attaccata la testa di peluche
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dell’orso Yoghi, Jackie era depressa e disoccupata, Ics si fumava una
canna dietro l’altra.
- “ If every angel's terrible , Then why do you welcome them?” Lo show finì dopo un paio di bis, le sorelle ringraziarono, Ics e
Jackie volevano andare via, Sierra sbucò fuori all’improvviso da un
lato del palco e mi chiese se avevo voglia di bere qualcosa o se
volevo seguire le mie amiche, vidi sul suo viso il timore di un mio
possibile
ripensamento,
che
comunque
non
era
assolutamente
contemplato.
Risposi quindi che le amiche erano stanche, che volevano andare a
casa, diedi loro le chiavi della macchina raccomandandogli di fare
benzina.
Sierra mi disse che non voleva che prendessi freddo e che aveva un
maglione da prestarmi, mi chiese di seguirla fino al parking del
supermercato dove era parcheggiato il tour bus.
Mi fece salire e mi condusse nella sua area, c’era una specie di
cuccetta in disordine con lenzuola, scarpe, carte, fotografie,
vestiti, peluche, magazine, cd ed una chitarra con due corde; il
tutto armoniosamente ordinato nel caos di quei pochissimi metri
quadrati.
Prese un paio di lattine di birra dal frigo bar e mi chiese
nuovamente che impegni avevo per i prossimi giorni, le dissi che
purtroppo avevo delle importanti scadenze lavorative, e che, più
verosimilmente, la mia vita era un casino.
Mi domandò dove avessi imparato a parlare inglese dicendomi che
adorava il mio accento, le risposi spiegandole la verità, parlando
della mia irrequietudine che mi aveva portata a vagabondare per il
mondo.
Sorrise chiedendomi se avevo ancora freddo, e se davvero volevo il
suo maglione, perché se realmente volevamo andare a bere qualcosa
bisognava
farlo
alla
svelta;
in
città
un’onda
di
becero
proibizionismo aveva sancito lo stop alla vendita di bevande
alcoliche nei locali pubblici a partire dalle ore due del mattino.
Nonostante il bidibilgio presente, io e Sierra decidemmo di stare lì,
sul bus, a parlare sorseggiando lattine di Amstel, mi disse che aveva
origini Cherokee e che aveva girato per tutti gli Stati Uniti su una
roulotte, che amava scattare fotografie, dalle digitali alle
istantanee, e che adorava i pupazzi di peluche.
Il suo sguardo era bellissimo quasi quanto il mio sorriso, che Sierra
decise e di intrappolare qualche minuto più tardi con le sue labbra
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morbide.
Ricambiai timidamente il bacio, mi chiese qualcosa ed io risposi di
sì, anche se non avevo capito di cosa si trattasse, ma ero certa che
non poteva essere nulla di male.
Ci infilammo sotto le coperte nel suo piccolo vano, strette e vicine,
ci baciammo a lungo godendo dei reciproci orgasmi tutta la notte,
fino all’alba, sua sorella e il resto della crew sarebbero rientrati
a breve, dopo aver trascorso la serata nei circuiti alternativi della
città (e lì mi chiesi fino a che ora gli avessero servito da bere).
Mi domandò nuovamente se avevo programmi per le prossime due
settimane, che voleva che la seguissi per il resto del tour, che era
stata stregata dal mio sorriso che continuai impunemente ad usare.
Ci scambiammo giuramenti, maglioni, anelli, braccialetti e biancheria
intima con la promessa che ci saremmo sentite presto, mi accompagnò
alla porta del bus, mi baciò sulle labbra sussurrandomi: “take care”,
ed io risposi con un ebete: “no problem”.
Il suo maglione mi riscaldava mentre camminavo osservando le
pozzanghere gelate, mi girai ancora una volta e la salutai con il
gesto della mano, mi sarebbe mancata.
La penso spesso, soprattutto in questo periodo dell’anno, ho
qualche parte che ora è in Giappone ma che verso primavera
ripassare di qui.
Ho il suo numero di cellulare e il suo indirizzo e-mail ma
ancora contattata, eppure ho già pronta una rosa
rossa
prossima volta che la incontrerò.
letto da
dovrebbe
non l’ho
per
la
Nei giorni successivi ricevetti al mio indirizzo una busta
proveniente da Zurigo, conteneva delle istantanee e presumibilmente
il testo di una nuova canzone.
In uno scatto vi ero io che goffamente cercavo di tagliare una pizza
alla diavola, in un altro c’ero io nel locale appoggiata ad una
colonna con la videocamera a tracolla, in un altro ancora dormivo
svestita su un bus in mezzo a degli orsacchiotti di peluche,
nell’ultimo invece vi ero sempre io di spalle che camminavo nella
pioggia.
Ripensai a quella notte con Sierra e al fatto che non la rividi più,
nemmeno su MTV.
“Life is like a rollercoaster
It does flips and throws you over
Board your ship that’s going nowhere
If you stop, you’ll end up somewhere
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Le mie donne
Everybody wants
Everybody wants
Everybody wants
Everybody, just
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to go to Japan
to go to Japan
to go to Japan
hold hands”
Le mie donne
Lady Ansia
Mi rigiro nel letto, nervosamente, il respiro è sempre più affannoso,
veloce, il rumore delle mie branchie mi sveglia, parte il battito del
cuore sempre più veloce.
La testa sta per scoppiare, le mani veloci tremano cercando di
afferrare qualsiasi cosa atta a distrarmi dal delirio della paranoia.
“E’ solo un brutto viaggio... dai rilassati..”
“Non è la prima volta che percorri questa galleria, in questa
direzione il tunnel è più stretto, tenti di sollevare le braccia per
liberarti del peso che senti addosso, ma le tue mani si scorticano
contro le pareti di roccia impedendoti ancora di respirare..”
Mi alzo e vado in bagno ad urinare, magari il liberarmi del liquido
nocivo renderà il mio cervello più leggero, e forse potrei anche
meditare sull’idea di addormentarmi.
Potrei anche assopirmi, dolcemente , dimenticando l’ansia che mi rode
fino alle viscere.
Finisco di pisciare, sono sudata e mi gira leggermente la testa, non
tiro l’acqua perchè non vorrei svegliare altri fantasmi, non vorrei
che accorresse troppa gente; non sto dando una festa in maschera in
giardino.
No, non posso uscire ad accendere il barbecue, devo convincermi che
devo dormire, devo spegnere i cattivi pensieri e abbandonarmi ad un
sonno riparatore promettendo a tutto il mondo che sarò buona.
Penso di aver commesso un crimine, e se non l’ho ancora fatto
suppongo che la mia mano armata si potrà scagliare contro qualcuno
prima o poi, ma questa non sono io, potrei autoinfliggermi delle
punizioni per misfatti che non ho commesso.
Qualcuno mi ha detto che sono cattiva e il mio cervello si sta
spappolando.
Vado in cucina, esco sul balcone e prendo aria, respiri profondi, per
spaccarmi i polmoni e il cuore, cerco le mie sigarette.
Fortunatamente trovo subito il pacchetto, me ne accendo una, e cerco
di inalare quanta più nicotina i miei bronchi sono in grado di
contenere, spero mi dia una bella botta, in modo da stordirmi; ma
allora forse sarebbe più appropriata una canna.
Si certo, che stupida sono stata!
Una canna!
Rientro in casa, apro una rivista, cerco di leggere qualche articolo
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per rilassarmi mentre il ticchettio delle lancette scandisce il
susseguirsi della mia angoscia.
Mi faccio una tisana di quelle rilassanti, ma mi accorgo che la vodka
può essere più efficace.
Trangugio i pochi sorsi rimasti, illudendomi invano dell’arrivo di
una rapida soluzione al mio problema, ma non passa.
Decido che mi devo pulire il viso dalle
impurità, dopo che sarò
andata in bagno e mi sarò sgrassata da sudore e tossine potrò
finalmente riposare.
Ingenuamente cerco di convincermi che strofinandomi il volto con
della crema e del tonico mi stancherà così tanto da portarmi
all’oblio.
Passo il cotone idrofilo attorno al contorno occhi provato da questo
lungo itinerario, sfrego un po troppo forte irritandomi la pelle
secca e squamosa.
Nevrotica nei movimenti cerco di focalizzare un idea dinanzi allo
specchio tentandola di metterla bene a fuoco davanti al mio sguardo
offuscato.
La luce del corridoio mi mette angoscia.
Esco di nuovo sul balcone accendendo una sigaretta, la vodka è
terminata, devo di nuovo andare in bagno, sto così male che potrei
vomitare.
Un conato mi guida fino al davanzale del mio balcone, proprio di
fianco ai vasi dei gerani, appoggio le mani alla sbarra, e un fiume
di acido e panico sgorga fuori dal mio esofago.
Una volta, due volte, tre volte, mani poderose stanno strizzando il
mio fegato, facendo fuoriuscire anche l’ultima goccia di bile dalla
mia bocca.
Credo di aver imbrattato la balaustra del balcone dei vicini del
piano di sotto, si sono trasferiti qui da poco e io gli ho riservato
la mia migliore accoglienza.
Mi viene in mente che spinta da un indomabile senso di colpa potrei
presentarmi ora, nella notte fonda e buia, e scusarmi offrendomi di
rimediare al danno passando una spugnetta imbevuta di detersivo
sgrassante e di buoni propositi.
Inizio a pregare Dio, gli angeli, mi affido all’Islam, penso a
Siddharta, ma non ne esco fuori.
Ho paura che il viaggio della paranoia non finisca, che resterò in
questo limbo sporco di sudore e vomito per sempre, che la mia
angoscia non finirà.
Dico a me stessa che in fondo sono cattiva e questa è solo ciò che
merito per la mia pessima linea di condotta e per la mia dubbia
morale.
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Le mie donne
Presa da questi pensieri attorcigliati in una spirale senza ritorno
decido che forse è meglio distrarsi innaffiando i gerani sul balcone.
Magari poi mi viene sonno.
Ma non ne sono cosi sicura allora tento di allungare l’azione di
giardinaggio utilizzando anche del fertilizzante, dilatando i tempi
per trarne sollievo fasullo.
All’alba gli uccellini iniziano a salutare il giorno nuovo, mentre io
guardo la luce che inizia a farsi strada nella notte cattiva, per me
finalmente il viaggio è finito, per loro è l’inizio di una nuova
avventura.
Mi calo qualche goccia di ansiolitico cercando di non esagerare, ho
paura dell’infarto, il mio cuore già provato, potrebbe non reggere;
questo è ciò che sto pensando in quel momento.
Idee e pensieri che si contraddicono annullandosi, per poi legarsi,
riprodursi in una continuità che mi lacera il cervello.
Decido che non devo perdere la testa inutilmente, urlo che non devo
pensare, sbatto i pugni contro il muro, una smorfia imbruttisce il
mio volto.
La luce è ormai penetrata in tutti gli angoli della mia gabbia di
angoscia, intravedo il giorno nuovo attraverso le sbarre, vorrei che
non venisse mai più la notte cattiva, e che l’ansia puttana non mi
cercasse più.
Le ho urlato dietro che non doveva più osare avvicinarsi a me.
E spero proprio che abbia capito, ho finito le mie gocce e dovrò
cercare una farmacia aperta di domenica.
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Samantha V.
Ero in auto mentre estraevo dalla borsetta il mio Blackberry dando un
occhiata a tutto ciò che avrei dovuto fare quella giornata;
videoconferenza con Miami, telefonate importanti, colloqui per
l’assunzione di una nuova assistente, riunione di budget, più varie
ed eventuali, insomma una giornata piena e densa.
Nel traffico pensavo e parlavo a voce alta, ero venuta a conoscenza
che una segretaria di progetto, una certa Samantha, detta anche Sam
la bionda, era diventata molto popolare in azienda per il fatto di
fare molti straordinari sotto le scrivanie.
Grazie a queste ore di guadagno extra mi riferirono pure che era
riuscita a comprarsi la Mini Cooper, un paio di tette nuove, e una
vacanza all inclusive sul Mar Rosso.
Desideri impossibili da realizzare per una semplice segretarietta
sotto le mie dipendenze, considerando lo stipendio da fame che gli
veniva elargito.
Mi informarono anche del fatto che, soprattutto d’estate, aveva
sempre le ginocchia sbucciate, la pelle visibilmente rossa con segni
di abrasione.
Tutti i pavimenti del palazzo erano coperti da una moquette
marroncina.
Il rossetto di Sam la bionda era perennemente sbavato, insomma non
dava una buona immagine della compagnia; e tra i vari impegni della
giornata avrei dovuto far stilare da Piera, la mia assistente in
procinto di andare in maternità, una lettera di richiamo da
consegnarle entro il fine settimana.
Giusto per guastarle il weekend.
Avevo ottenuto prove inconfutabili del fatto che Sam aveva spompinato
tutto il reparto tecnico del secondo piano dell’azienda, e ora
capisco come mai l’altro giorno mentre ero sull’ascensore che mi
conduceva al terzo piano dell’edificio della compagnia, ho letto:
“Samantha V. spompina tutti” con affianco un numero di telefono.
Nei giorni successivi mi arrivarono parecchie chiamate nelle ore più
disparate del giorno e della notte, dove uomini con il respiro
affannoso mi dicevano che ero una troia e che con la lingua ci sapevo
davvero fare.
Ovviamente pensai subito ad uno scambio di persona, come infatti era,
e mi domandavo come tutto questo fosse potuto accadere.
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Feci un sopralluogo nell’ascensore e affianco al nome di Samantha e
ad uno scarabocchio rappresentante un pene con immancabile goccia,
c’era il mio numero di cellulare, che cancellai prontamente.
Premesso che sono una lesbica monogama in carriera, e ammesso e non
concesso che se così non fosse non troverei comunque stimolante,
interessante o addirittura evolutivo o educativo, o qualsiasi altro
aggettivo si voglia adoperare, spompinare tutto il reparto tecnico,
compreso Rocco lo storpio ed Ettore il ritardato; questa vicenda mi
dava in ogni modo parecchio da pensare.
Mi chiedevo per esempio se fosse stato il Dott. Zanetti in persona a
proporre questo remunerativo ingaggio a Samantha per incrementare la
produttività del suo reparto, oppure se più semplicemente, con quello
spirito imprenditoriale un po’ contadino, fosse stata la stessa Sam
ad offrire i suoi servigi in cambio di offerte libere.
Ma nel caso della seconda ipotesi, se così fosse stato perchè Sam
spompinava anche il ritardato e lo storpio?
Per par condicio?
E chi cazzo aveva scritto il mio numero di cellulare nell’ascensore
accanto al nome di Sam la bionda?
Era stato semplicemente un errore o forse uno scherzo di pessimo
gusto a scapito mio e anche della stessa Samantha?
Rocco ed Ettore erano due soggetti “diversamente abili”, entrati in
azienda grazie alla normativa per le assunzioni obbligatorie previste
dalla legge per le categorie protette. Già, che stronzata di decreto,
mi sembra fosse la n. 68 del 1999, ma non ne sono certa.
Il diverso sin da piccola mi ha sempre fatto paura, rabbia,
irritazione epidermica, fastidio diffuso .
Mi reputo un esteta e vedere gente brutta, menomata, svantaggiata mi
innervosisce sempre un pò.
E’ come vedere uno sgorbio disegnato sui muri di San Vittore affianco
ad un dipinto del Tintoretto.
Non ci sta, non esiste.
Deve essere comunque nel mio DNA, infatti quando avevo sette anni
facevo sempre piangere Manola, una bambina down; tutte le volte che
saliva sull’altalena mi precipitavo dietro di lei dandole dei sonori
calci nel culo facendo così poi impennare il seggiolino, che si
attorcigliava attorno alla catena tra le risate e le lacrime dei
mocciosi nei giardinetti dietro casa.
Mi ricordo di Striscia (così soprannominato perchè non aveva un uso
autonomo delle gambe), al quale dedicavo sempre una filastrocca che
ripetevo e ripetevo all’infinito e faceva più o meno così:
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“..tanto non guarirai mai, tanto non guarirai mai…tanto non guarirai
mai… tanto non guarirai mai..”
Con il passare degli anni le mie manifestazioni di dissenso,
disapprovazione verso certe categorie divennero più miti, più pacate,
dovevo pur sempre comportarmi da Signora, anche se ogni tanto mi
accadeva per così dire di “scivolare”.
Ettore il ritardato andava in ufficio in bicicletta, mi capitava di
incrociarlo mentre con la mia bmw nera serie 6 coupè percorrevo lo
stradone che portava all’azienda.
Nei giorni di pioggia, e qui cazzo piove molto spesso, mi divertivo a
fare gran turismo, arrivando lanciatissima sullo stradone sfiorando
la ruota posteriore della bici di Ettore facendogli perdere
leggermente l’equilibrio, proseguire poi per qualche metro fino ad
incontrare una grossa pozza di acqua e melma, qualche manovra
azzardata, ed ecco Ettore ruzzolarvici dentro rovinosamente.
Ero dopottutto una donna di classe, io gli proponevo la lotta nel
fango non un semplice pompino.
Mi godevo poi la scena dallo specchietto retrovisore dando ogni tanto
una controllata ai miei denti bianchissimi.
Adoravo iniziare la giornata in questo modo.
Più tardi, in quella deliziosa mattinata mi arrivò un'altra lieta
notizia, Civolani in pensione ormai da anni, era morto.
Il bastardo aveva finalmente tirato le cuoia, un bell’infarto e uallà
in un soffio (al cuore) non c’era più.
Me lo ricordo ancora il vecchio porco quando appena assunta iniziavo
a muovere i primi passi gattonando per la Rivetto Enterprice, cercava
di ostacolarmi in ogni modo, umiliandomi e mettendomi il bastone tra
le ruote non appena poteva.
Ma non sapeva con chi aveva a che fare.
Cosparsi di polverina irritante tutta la sua sedia imbottita, e passò
giorni a grattarsi il culo a mano piena, scorticandosi sicuramente
l’ano.
Coalizzandomi con altri stronzetti come me appena assunti e
bistrattati, decidemmo a turno di fargli continuamente squillare il
telefono e non appena il porco si accingeva a rispondere chiudevamo
la comunicazione, Civolani stava impazzendo, e convinto che il suo
apparecchio fosse guasto chiamava tutti i giorni la manutenzione.
Lo stavamo guidando verso la follia.
Ricordo che il sudicio maiale fingendo un galateo d’altri tempi mi
faceva sempre passare per prima sia che si trattasse di entrare in
18
Le mie donne
ascensore piuttosto che in qualche altra parte dell’azienda.
Patetica scusa per riuscire a guardarmi il culo, e a vent’anni
credetemi avevo davvero un gran bel culo da far invidia a Britney
Sperm.
Era finalmente schiattato all’età di circa settant’anni, solo come un
cane, la moglie l’aveva mollato decenni prima e le figlie non gli
rivolgevano la parola da anni.
Civolani, il suino schifoso, misogino, maschilista, figlio di puttana
era schiattato e tutto ciò meritava un festeggiamento.
Avevo ancora un paio di persone in cima alla mia lista, stile Kill
Bill, alle quali dovevo presentare il conto, occorreva molta cura,
dovevo essere meticolosa prima di tessere la mia migliore vendetta,
senza alcun sconto, senza alcuna salvezza per nessuno.
Nella vita bisognava avere sempre una lista con delle priorità.
Mi eccitava essere così diabolica, mi dava forza e onnipotenza.
Avrei fatto fuori qualche altro bastardo abbattendolo sull’asfalto
prima di infilzargli il cuore con il mio tacco 12 con un bel colpo
secco.
Uno schizzo di sangue mi avrebbe poi inzaccherato il polpaccio, ma
non importava poi molto, giustizia era stata fatta.
Andai al solito bistrot fuori dall’ufficio per bermi una spremuta,
sorrisi al giovane barista in modo provocatorio, passandomi poi la
lingua
sulle
labbra
rosse,
mordicchiandomele
un
po’,
gambe
accavallate, e la camicetta slacciata per un generoso decolté.
Il piccolo tamarro guardandomi, iniziava a sudare freddo e il suo
piccolo membro iniziava probabilmente a crescere, e allora io l’avrei
ulteriormente provocato.
Ero seduta al banco del bar, il giovane Carlos si avvicinò per
prendere due caffè da portare ai tavoli, gli sfiorai il cazzo con il
ginocchio accavallato, e gli dissi che era molto sexy.
Andai poi in bagno, e strizzandogli l’occhio lo invitai a seguirmi,
Carlos si guardò prima intorno e poi mi raggiunse subito.
Chiusa la porta alle spalle, lo iniziai a baciare nel modo più
sensuale che conoscevo, eccitandolo da morire, gli accarezzai il
pacco; due giri di lingua, e il tamarro eiaculò.
Venne così, in patta come uno stronzo, gli dissi che non avevo
bisogno di un coniglio e che avrebbe dovuto cambiarsi il grembiulino
ormai imbrattato di sperma appiccicoso.
Uscendo dal bagno gli calpestai intenzionalmente il piede, zona
mignolo.
Tornai nel mio ufficio, e feci chiamare dalla mia assistente la
pompinara di Samatha V., con la quale avrei dovuto fare quattro
19
Le mie donne
chiacchiere prima di consegnarle la lettera di richiamo.
Le dissi che era una vergogna per l’azienda, che il suo comportamento
disdicevole aveva causato imbarazzo alla compagnia, che la nostra era
un ditta dove bisognava condividere tutto, andare avanti nei momenti
duri, celebrare i successi e gioire nei momenti di forza,
fidelizzazione, lo sforzo collettivo di tutti i dipendenti per la
causa aziendale, lavoratori con una propria etica e con una morale di
ferro, l’esercito dei cosiddetti “soldatini del bene”.
Le dissi che era solo una donnaccia, e che se voleva garantirsi
almeno un minimo di entrate, i marciapiedi della zona sud di notte
facevano proprio al caso suo.
Samantha stava per piangere, l’avevo scossa, forse ero stata troppo
dura.
Replicò dicendomi che aveva ancora le rate della Mini Cooper da
pagare, che il suo chirurgo plastico doveva eseguire un intervento
correttivo al seno sinistro visibilmente diverso da quello destro, e
che il suo ultimo boyfriend le aveva rubato la carta di credito per
andare a Sharm con due escort croate.
Mi fece molta tenerezza, in fondo avevo anch’io avevo un cuore, e le
bionde si sa, sanno fare solo una cosa.
Le dissi di inginocchiarsi sotto la mia scrivania, spalancai le gambe
e mi accesi una sigaretta.
Sam divenne la mia assistente personale durante il periodo di
maternità di Piera, le regalai un paio di ginocchiere per stare più
comoda.
Ero per la par condicio, per un azienda unita e competitiva, ero
buona, e lei con la lingua ci sapeva davvero fare.
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Le mie donne
Asia Stardust
Dalla mia scrivania non potevo far altro che rendermi conto di quello
che non volevo fare e di ciò che non desideravo essere, anche se una
resina appiccicosa accumulata con il tempo sembrava volermi tenere
incollata a quelle sicure incertezze.
Davanti a me c’era Josephine o Joe, qualsiasi cosa fosse stato o
fosse diventato era di poco conto, puzzava di sigaretta e di
dozzinale acqua di colonia, un pour pourri di tabacco e fiori marci
prendeva sempre più fiato nell’open space adibito alla mia nuova
posizione nell’azienda.
Dalla mia finestra vedevo i soliti aerei che continuavano ad
atterrare, quasi sempre in orario.
I telefoni suonavano, Josephine sbraitava tentando di nascondere il
timbro della sua voce, eccessivamente maschile, con qualche colpetto
di tosse alla nicotina.
Anche come uomo era disgustosa.
Le
sue
mani
venose
afferravano
la
cornetta
con
potenza,
autorevolezza, decisione e non so per quale motivo quando la
osservavo mi veniva naturale immaginarla stringere fortemente il suo
membro nell’atto di penetrare qualche personaggio ambiguo come lei.
Non so perché mi venne di pensare a certe cose, sta di fatto che per
l’ennesima volta mi estraniai dalla realtà che avevo intorno, dal
lavoro di uomo radar vicino alla pista di atterraggio e dalla puzza
di Josephine. Mi alzai dalla sedia in a direzione dell’enorme
finestra alle mie spalle.
Dovevano lavare i vetri che trasudavano gocce di impurità, con lo
sguardo e non solo mi spinsi oltre la parete di sporcizia, e
raggiunsi il paradiso del ricordo immaginario che ossigenava ancora
parte del mio cervello.
Asia Stardust era una cara amica di Angela, e non era una via di
mezzo tra Asia Argento e Ziggy Stardust, era un essere strano,
rasata, con molti piercing sul viso, quasi tutta la superficie del
suo corpo era tatuata, inquietantemente, uno sguardo triste e dolce,
pericoloso a volte.
“Giò, ti presento Asia”
“Asia ti presento Giò”
21
Le mie donne
Io le strinsi la mano lei l’afferrò con poca convinzione, e non mi
guardò.
Non mi fece un ottima impressione anche se, come sempre in certi
momenti, l’ ambiguità, l’essere torbidi, a tratti anche sgradevoli,
esercitavano su di me un fascino forte e malsano.
Angela mi raccontò di alcune estreme perversioni sessuali che
volevano lei e Stardust come attrici principali, mi disse che
comunque non riuscì ad assecondare tutti i desideri di Asia, si
addormentò nuda con una bottiglia di whisky in mezzo alle gambe, che
le sembrò molto meglio un quel momento di una fredda mazza da golf.
Non sapevo quanto di vero ci fosse nelle parole di Angela, e non mi
interessava neanche, fino a quando non andai con loro in un locale
che frequentavano da un po’.
Il protocollo seguito era il solito; stordimento generale, pensieri
sottili, parole taglienti, sorrisi alterati in un loop crescente di
sbandamento musicale.
Electro clash danzato da gambe troppo magre, volti pallidi e divise
nere, il battito del cuore a ritmo libero.
Eravamo appoggiate al bancone del bar, non capivo un cazzo di quello
che Angela stava dicendo, Asia mi guardava e sorrideva, e io facevo
finta di aver afferrato tutto il discorso.
Certamente da quella sera presi coscienza del fatto che certe volte
forse è meglio chiedere di ripetere piuttosto che fingere di capire.
Nel locale la musica cadde in un dark al quale il mio stato mentale
non era preparato, un Dave Gahan d’annata, che ero felice di aver
lasciato nella polvere da vinile da un po’ mi entrava con violenza
nei canali uditivi.
Asia mi prese le mani guardandomi negli occhi e avvicinandosi
pericolosamente verso il mio viso cantando “Master and Servant”.
Il cocktail di Angela iniziava a entrarmi in circolo, cazzo lo sapevo
c’ero cascata di nuovo.
Strinsi le mani di Stardust, le mie dita avevano una percezione
strana, il palmo era sudato, umido.
Mi sfiorò le labbra e mi disse che voleva essere la mia puttana, che
il suo corpo desiderava il mio.
Io la guardavo e i Frankie goes to Holliwood remixati da Paul
Oakenfold non aiutavano per niente.
Sentii la sua lingua fresca passare sulle mie labbra mentre
prendendomi per mano, stringendomele per non farle scivolare via dal
troppo sudore, mi condusse verso il corridoio buio dei bagni.
Iniziammo a baciarci a lungo, aveva una lingua molto calda e
avvolgente.
22
Le mie donne
Quella strana creatura tatuata, una donna che si sentiva uomo, un
efebo più che un uomo, il suo corpo da leggere, le sue parole mi
sezionavano il cuore anche se le sentivo a malapena
Sapevo che era una strada buia che forse non dovevo percorrere, ma il
fascino del diverso, la mia curiosità, la sua ambiguità, l’andare
oltre, mi spinsero verso lei, e lei mi spinse contro il lavandino,
forse del vomito all’interno e delle gocce di sangue sul bordo
cancellate poi via dai miei jeans.
A Stardust il sangue dava eccitazione.
Chiuse la porta del bagno e mi disse che voleva scoparmi, per bene,
come solo un uomo sa fare, che sapeva che io lo desideravo.
Mi slacciò i pantaloni mentre io ansimavo, la sua lingua non mi dava
tregua.
“Lo so che ti piace troia, è inutile che lo neghi. Vero che ti piace?
Dai su dimmelo…”
“sì mi piace ti prego, penetrami ti voglio sentir muovere dentro di
me..”
Asia indossava una di quelle cinture falliche, il cazzo di gomma era
nero, grosso, largo, e si fece strada facilmente dentro di me.
Ero seduta sopra il lavandino a gambe larghe per farla entrare
meglio, la sentivo in gola, i jeans erano calati su una gamba,
appoggiati per terra sulla scacchiera del pavimento appiccicoso.
Sentivo ora i suoni distorti degli Atari Teen Age Riot sapientemente
suonati dal dj pirata dalla mano uncinata.
“Godi puttana, senti come ti scopo”
Io gemevo supplicandola di scoparmi con sempre più foga.
Improvvisamente estrasse da me il cazzo colante e mi spinse giù in
basso, in ginocchio verso sé.
“Succhialo ora”.
Con le ginocchia nude sul pavimento iniziai a succhiare il cazzo di
gomma umido.
“Dai continua troia, fammi venire, succhia … dai..”
La sentii gemere e qualcosa di caldo mi scivolava dai lati della
bocca.
Mi rimisi i jeans, la camicia era strappata, e lei mi disse che da me
voleva solo incontri fugaci all’insegna del peccato.
23
Le mie donne
Volevo andare a casa ma ordinai un margarita.
Vidi Angela ballare ed Emily, appena sbarcata da New York, vomitare
sul bracciolo di una poltroncina in velluto fucsia. “Impeach my
Bush”.
Cercavo Stardust.
Mi aveva detto che era una puttana come sua madre, e questo mi colpì.
Che non dovevo aspettarmi nulla, che non dovevo cercarla.
Poche ore più tardi la trovai nella mia auto con Angela.
Stardust era seduta al posto di guida, Angela china sulle sue gambe,
stava succhiando un cazzo di gomma nero e nel frattempo si strusciava
con le gambe aperte sopra alla leva del cambio, i suoi pantaloni
erano sul marciapiede bagnato.
Cazzo avevo appena portato la macchina in autolavaggio, ma questo fu
solo un secondo pensiero atto a distrarmi.
Non dissi nulla intravedendo la scena dai finestrini appannati.
Mi diressi nuovamente verso il locale, anche i Daft Punk sembravano
sbeffeggiarmi.
Megalòmen cantava:
“..One more time
We gonna celebrate
Oh yeah,
all right
Don't stop dancing…
…One more time
Music's got me feeling so free
We gonna celebrate
Celebrate and dance are free
One more time
Music's got me feeling so free
We gonna celebrate
Celebrate and dance are free
One more time…..””
Una giovane ragazza bionda si avvicino e mi offrì da bere dal suo
bicchiere.
L’estate era vicina ma tutto qui intorno sembrava non voler vedere la
luce, gotici robots ancheggiavano al fianco del mio corpo esausto,
Asia Stardust avrebbe sentito il mio fremito altre volte, la musica
24
Le mie donne
mi faceva camminare.
Seppi più tardi che Asia dopo essere uscita dalla mia auto ed aver
abbandonato Angela con il naso rotto in un una pozzanghera di sangue
e sperma, si diresse verso la sua bicicletta.
Vi trovò seduto sopra un barbone, lo prese di peso per i capelli, e
gli urlò di andarsene.
Tutti videro ma nessuno disse nulla.
Mi slacciai i primi bottoni della camicia e mi tirai su le maniche,
avevo caldo, in ufficio l’aria condizionata dava sempre qualche
problema.
25
Le mie donne
Agente Speciale Molko
L’agente speciale Molko avrebbe fatto sicuramente carriera nell’arma
della polizia, ma a causa della sua estrema pigrizia, del suo
assenteismo, del vizio del gioco, della sua dipendenza da droga e
alcol e dalla sua passione per le donne, ciò rappresentava un
traguardo quasi irraggiungibile.
L’agente Molko era stata programmata per uccidere, infiltrarsi, non
avere scrupoli, solo incarichi ad alto rischio, traffico d’armi,
spionaggio, terrorismo internazionale.
Ai tempi dell’Accademia era stata un allieva molto promettente, la
migliore del suo corso, fredda, cinica, tenace, spietata.
Anche se onestamente non ci parlai mai più di tanto, mi sembrava una
persona poco brillante, chiusa, fredda, come la canna della pistola
che aveva sempre addosso.
Conobbi Molko per caso, in un locale dal pavimento umido e dai muri
bagnati, dove ogni genere di essere umano era libero di dare sfogo ad
ogni impulso.
Lap dancers, troie comuni, ereditiere ribelli, managers rampanti,
urbani artistoidi animavano il sottobosco del locale, dove la qualità
della musica dipendeva dal dj, e sempre più spesso mi capitava di non
ascoltare nulla di decente.
Bevevo vodka stinger, la mano destra tremava leggermente nel gesto di
portarmi la sigaretta alle labbra, mentre mi sentivo addosso gli
occhi di qualcuno, mi girai e vidi Molko, le sorrisi prima di andare
a chiedere notizie su di lei.
Correva voce che frequentasse una spogliarellista psicolabile e che
fosse una sbirra.
Dentro di me scattò qualcosa, qualcosa di molto stupido, come tutto
ciò che accadde in quel periodo; ebbene sì volevo dimostrare di avere
più sex appeal di una entreneuse da bordello e volevo anche riuscire
a superare il pregiudizio che avevo nei confronti di chiunque
indossasse una divisa.
Il pensiero che Molko lavorasse per lo Stato mi faceva accapponare la
pelle, ma d’altronde sapevo benissimo che molto spesso certi
individui non hanno altra scelta se non quella di arruolarsi.
Ma Molko era un Agente Speciale ed ero sicura che mi avrebbe sedotta,
affascinata e scopata e non fu difficile farmi portare fuori per un
aperitivo.
Prima del nostro primo appuntamento la incrociai un paio di volte
ancora al bar del locale, qualche sorriso,
un drink veloce e lo
scambio scontato dei rispettivi numeri di telefono.
26
Le mie donne
Sapevo che l’indomani avrei trovato un messaggio.
Beebeeep beebeeep
Fuckin’ Nokia standard tune.
Assonnata ma felice di udire quel suono, presi il cellulare e divorai
il messaggio di Molko.
Cercai di non fare notare a chi mi dormiva di fianco e il mio
eccessivo entusiasmo, non mi avrebbe capita e non avrebbe sicuramente
gradito uno dei miei ennesimi ma pur sempre sporadici episodi di
infedeltà.
Il tradimento è difficilmente tollerato e Molko lo sapeva benissimo.
La incontrai al Mom per un aperitivo, io presi un calice di
Valpolicella, lei un cuba libre.
La guardai in faccia e vidi alcune piccole cicatrici attorno alla
bocca, e notai sulle braccia dei graffi e dei piccoli lividi.
Le chiesi come se li fosse procurati e lei mi rispose tirando fuori
dal portafoglio un bigliettino da visita che mi mostrò con un certo
orgoglio; accanto alla foto di un puttanone qualunque compariva la
scritta “Daisy lapdancer” con tanto di numero di cellulare.
Mi raccontò
della gelosia di Daisy e della loro storia; mi chiesi
che cosa lei avesse in più di me e trovai abbastanza umiliante e
degradante dover competere con una spogliarellista di quart’ordine, e
questo forse mi diede la spinta giusta.
Feci comunque finta di nulla, trangugiando il mio vinello.
Il mio Agente Speciale aveva perso dei punti, decisi quindi di
farglieli riguadagnare in qualche modo; gli domandai del suo lavoro
speranzosa di udire storie malavitose dove lei era la mia eroina
metropolitana.
Mi disse che stava attraversando un periodo in cui certi valori non
avevano più il peso che avevano una volta, che non se la sentiva più
di rischiare la vita per pochi soldi.
Mentre mi spiegava i suoi perché mi accorsi dell’uso improprio che
faceva dei congiuntivi, e un brivido gelato mi corse lungo la
schiena.
Ordinammo un altro drink e andammo nel parchetto davanti al locale,
c’erano altre persone, ragazzi che fumavano sulle panchine, due
marocchini che giocavano a carte e cani che portavano a spasso i loro
padroni.
Mi disse che ora lavorava in carcere, che apriva e chiudeva i
cancelli nei corridoi dei reparti, che aveva un mazzo di chiavi
27
Le mie donne
pesantissimo che spesso gli rompeva il passante dei pantaloni, e che
da brava lesbica non sapeva poi rammendare.
Mi disse che la spoglierellista era molto gelosa e che spesso e
volentieri l’aggrediva in preda ad attacchi isterici graffiandola con
unghie da predatore felino.
I segni c’erano tutti, non vi erano dubbi.
Mi disse che probabilmente si prostituiva, l’aveva accompagnata a
casa di persone facoltose e l’aveva poi aspettata in auto per ore.
Spesso.
Daisy poi ritornava puntualmente in disordine, sorridente e con
parecchi soldi per comprare tanta cocaina.
Guardai Molko e le dissi che io avevo chiuso con certe storie.
Cercai di non andare ulteriormente a fondo nella discussione, non era
il caso, mentre sedute sulla panchina pian piano ci avvicinavamo per
tapparci vicendevolmente la bocca, forse perchè davvero non c’era più
nulla da dire.
Mi prese il viso tra le mani e mi infilò la lingua in bocca,
cercandomi.
Ricambiai il bacio, lento ma non troppo, dopo un po’ mi sussurrò
languidamente nell’orecchio se ero d’accordo sull’andare in auto.
Una proposta del genere non la sentivo più dai tempi del liceo, ma fa
niente, era servita almeno a farmi ritornare indietro nel tempo e a
sentirmi ancora giovane e spensierata.
Entrammo nella sua auto e continuammo a baciarci, fino a quando mi
trovai la sua mano prima sul seno e un attimo dopo che scivolava
dentro i miei jeans.
Come sempre non avevo considerato certe dinamiche, se così vogliamo
poi chiamarle, insomma avevo le mestruazioni, e ovviamente a pieno
regime.
Già, la solita fortuna che mi pioveva addosso sottoforma di o.b.
super.
Con un certo pudico imbarazzo le tolsi la mano, volendo farle credere
che comunque come ai tempi del liceo non ero una che la dava via
facilmente.
Io, ero una ragazza seria!
Certamente, non diciamo stronzate, avevo una voglia da paura.
Un po’ delusa Molko mi offrii una riga di cocaina purissima che non
rifiutai, dicendomi che gli sbirri hanno i giri giusti e dopodiché mi
riaccompagnò a casa.
Nei giorni successivi cercai di non contattarla in caso che la
psicopatica Daisy intercettasse qualcosa, non avevo proprio voglia di
correre dei rischi inutili; anch’io avevo una vita privata da
preservare e non intendevo assolutamente avere problemi.
28
Le mie donne
Il mio entusiasmo per quello che era rimasto dell’Agente Speciale
Molko era sceso a picco come l’indice Dow Jones immediatamente dopo
il crollo delle torri gemelle, ma avevo deciso che ci sarei andata a
letto ugualmente, pertanto feci in modo che tutto ciò accadesse.
Un giorno mi disse che tra gli altri vizi aveva anche quello del
gioco, andava spesso al casinò perdendo il suo stipendio e giocando
poi
quello
delle
pubbliche
prestazioni
della
sua
amata
spogliarellista.
Presi atto del fatto che non era più necessario conoscere per forza
certe cose, come mi convinsi subito che finita questa parentesi della
mia vita avrei dovuto sottopormi a degli esami del sangue specifici
ed accurati.
Era novembre e la nebbia su Bollate era molto umida, come ciò che
c’era nei miei slip di pizzo indossati per l’occasione.
Molko non pensava ancora di andare ad abitare in un appartamento
proprio, viveva nel perimetro dell’area del carcere; mi fece strada
ed entrammo in una palazzina adibita a dormitorio per gli agenti.
Era una struttura a cinque o sei piani, ora non ricordo, e ad ogni
piano vi erano delle camere dotate di bagno e alcune, mi disse, pure
di angolo cottura.
La sua stanza ne era sprovvista ed io avevo fame.
Una cosa che faccio spesso in qualunque posto vada è osservare la
vista dalla finestra, cercando poi di capire lo stato d’animo che
proverei se tutti i giorni mi trovassi davanti quel panorama.
Ho lasciato amanti per la visuale che avevo dalle loro finestre, e
accanto ad ogni nome che ho amato e goduto ricordo la panoramica
dalla loro stanza da letto; un giorno
potrei scrivere qualcosa a
riguardo.
Spostando leggermente la tenda dalla finestra di Molko vidi dinanzi a
me le celle del reparto femminile, le sbarre avvolte dalla nebbia in
un grigio triste e decadente.
Oltre l’edificio un fazzoletto d’erba con una piccola giostra, uno
scivolo e delle panchine per le visite dei bambini alle mamme
detenute.
I miei occhi non avrebbero più guardato da quella finestra.
Sentii le mani di Molko sui miei fianchi che mi giravano con forza
verso di lei.
Iniziò a baciarmi con impeto, buttandomi su una brandina arruffata,
il suo corpo era tonico, cesellato da ore e ore di palestra.
Le sue mani erano ovunque, l’orgasmo fu velocemente raggiunto.
29
Le mie donne
Non si fece toccare da me, e quando si alzò si avvolse in un lenzuolo
dicendomi che non le piaceva essere guardata.
Niente di spettacolare, niente di fantasmagorico, un orgasmo veloce,
animalesco ma relativamente pacato.
Pensai a quanta tristezza c’era in Molko, e a quanto io ne fossi
stata ora contagiata; mi chiesi per quale ragione mi fossi
invischiata in una vicenda che non mi interessava neanche più di
tanto.
Forse perchè nella mia testa mi ero costruita lo stereotipo del mio
Agente Speciale, che tra puttane e criminali trovava il tempo per
scoparmi alla grande facendomi sentire la donna più appagata del
pianeta.
L’Agente Speciale che mi punta la pistola al cuore, e che passa poi
la canna gelida sul mio clitoride vogliosamente allo spasmo.
Molko cadetta prescelta per le grandi operazioni, eroina lesbica con
i controcoglioni.
Ero sempre alla ricerca del mio super eroe nel quale immedesimarmi o
al quale abbandonarmi così senza remore, senza dignità.
Quello che successe dopo il baratto di corpi nel carcere di Bollate
non è rilevante saperlo, niente di che, nulla di particolare da
segnare sul diario.
Lesbica,
cocainomane,
giocatrice
d’azzardo
incallita
che
si
accompagnava
nei
peggiori
locali
con
una
puttana
pseudo
spogliarellista: ecco chi era il mio Agente Speciale, e ne rimasi
delusa.
Daisy aveva uno yorkshire che chiamava con il suo nome, forse per
paura di dimenticarselo.
Psicopatica, puttana, violenta e pure stupida.
Ogni tanto mi succede di pensare ancora a quel periodo con un velo di
malinconia, nebbioso e sporco, e a volte sorrido con ironia alle
stranezze della vita.
Mi è capitato di rivedere l’agente Molko in giro,
difficilmente ci
si guarda, furtivamente un saluto, molto più spesso ci si ignora
soprattutto se capita a novembre.
Ho saputo in giro che Daisy è rinchiusa in una comunità nascosta di
riabilitazione, che è stata sfregiata da degli albanesi e che Molko
in quel frangente avrebbe rischiato grosso.
L’agente Molko è ora alla caffetteria del carcere a servire cappucci
e brioches; aveva chiesto di essere spostata al centralino ma non
essendo simpatica alla direttrice dell’istituto, la sua richiesta
venne respinta.
Già, il mio Agente Speciale Molko, sì perchè era fottutamente uguale
a lui, non sapendo nemmeno chi fosse, aveva i capelli come lui, si
30
Le mie donne
vestiva come lui, si muoveva come lui, ma probabilmente tutto questo
non era bastato a fare di lei il mio Agente Speciale.
31
Le mie donne
Unique (G-SKY)
Mi ritrovo così, di nuovo a pensare a te.
Mi capita spesso sai, da anni.
Sere di tante estati fa, quando di notte su una terrazza sul mare
ascoltando una canzone, mi venivano gli occhi lucidi soltanto a
pensarti.
Mi capita di cercarti e poi fuggire.
Mi capita di chiamarti e poi di nascondermi dietro la colonna delle
mie paure, del mio sgomento, del mio rimorso.
Penso spesso alle tue mani su di me, alle tue parole sussurrate
piano, ai miei fremiti e ai miei gemiti.
Saremo sempre farfalle che si rincorrono, mescolando i colori delle
loro ali in cerca del fiore perfetto.
A volte però non esistono i capolavori, devo iniziare a prenderne
atto.
Ho i brividi a pensarti nel mio orgasmo mentre le mia mani afferrano
i tuoi capelli per spingerti oltre me, oltre noi.
Stringerti le mani e non volerle più lasciare, con la consapevolezza
che il nostro futuro non ci sarà.
C’è il mio futuro. Il tuo futuro.
Gli anni passano veloci, me lo dici sempre, passano via gli amori e
gli amanti, tu resti.
Sempre.
Non avrei mai immaginato di bagnarti con le mie lacrime. Non avrei
mai voluto. Credimi.
Mi guardi negli occhi, mi tocchi le labbra e mi tiri fuori la cicca
dalla bocca, non sopporti come mastico, me lo dici da sempre.
Non ti chiamo perchè ho paura,
timore che l’ansia abbia il
sopravvento su di noi.
Che io non abbia più la forza di circoscriverti ad un letto pieno di
piacere.
Potrebbe mancarmi il respiro, potrei sentire la testa scoppiare,
potrei piangere lacrime che mi solcherebbero il cuore.
Annientare i cattivi pensieri.
Perdermi nel tuo sapore sarebbe la soluzione migliore.
Tu che ne pensi?
32
Le mie donne
Amiche, amanti e conoscenti
che mi ossessiona)
(la solita storia
La città sembrava troppo piccola per contenere tutta la mia ansia,
più usciva fuori come un uragano più mi veniva riscagliata addosso
con violenza, lasciandomi intontita alla guida della mia macchina
sportiva.
Stavo guidando di notte per le strade deserte, quasi tutti i miei
amici, i conoscenti, gli occasionali drinking partners avevano
prospettive migliori che quella di farsi divorare da attacchi di
panico e da zanzare affamate.
Io non avevo concluso molto lavorativamente parlando durante tutto il
corso dell’anno, e ora come ai tempi della scuola dovevo scontare
tutto il mio mal vissuto.
Avevo cantato a squarciagola come una cicala una canzone diversa in
ogni stagione, ma ora non avevo più fiato, i pensieri erano lontani,
parlavo spesso da sola, e non riuscivo a condividere con nessuno i
miei annebbiati punti di vista.
Sono convinta che certi attimi devono essere assaporati fino in fondo
nel momento stesso in cui li vivi, perché comunque non sai mai quanto
possano durare e soprattutto se ritorneranno.
Quindi mi perdevo spesso a ripensare alla mia infanzia, alle persone
che mi avevano voluto bene, come se comunque non ce ne sarebbero mai
più state altre.
L’inconsapevolezza di essere amati, i ricordi splendidi di mia mamma,
e quanto ora mi sento in rosso sul conto corrente dell’affetto nei
confronti di ogni cosa.
Avevo paura di Lupo Ezechiele, che mi mangiasse, e di essere io il
quarto porcellino.
L’omino di legno visto nella vetrina del colorificio era il
protagonista indiscusso dei miei incubi, il piccolo fantoccio di
legno dal volto senza occhi usciva fuori dal pavimento mentre io
dormivo sul divano, mi prendeva la mano e cercavo di portarmi giù.
In un bagno di sudore dopo aver urlato c’era qualcuno che mi
tranquillizzava in un abbraccio, anche per questo mi ritenevo
fortunata, e continuavo a dormire sicura che avrei sconfitto l’omino
di legno.
Già, un altro problema che scaccio via, mandando un messaggio ad un
amico per rimediare compagnia in un susseguirsi di scuse, rimpianti,
risate e pensieri a notte fonda, mentre sudata ti rigiri insonne tra
le lenzuola appiccicate al rimorso di non aver mai dato abbastanza.
33
Le mie donne
Chiesi ad Angela che cosa ne pensasse, non mi rispose subito,
sorrise, prese tempo per accendersi una sigaretta, mi guardò
sorridendo
nuovamente,
ricordo
che
era
di
una
bellezza
indimenticabile:
“Sai, tutto quello che è successo, le cazzate, l’amore… certo,
l’amore, gli sbagli, i successi. E’ tutto parte dell’immenso bagaglio
che ti fa camminare curva. Pensi troppo lo dice anche tua madre. Io
non rimpiango assolutamente il passato, ma non comprometto il futuro
che già di per sé può sembrare incerto, comunque non limpido.”
Fu una delle poche frasi di Angela sulla quale continuo a soffermarmi
da anni, in genere tendeva a farmi capire le cose con sguardi, gesti,
con le sue uscite involontariamente teatrali, con i suoi disarmanti
cambiamenti, e la sua vita imprevedibilmente sfuggente.
Angela odiava Joe, o per meglio Josephine, non la sopportava proprio.
Fu lei a chiamarla per la prima volta “tabachera”, nomignolo
ovviamente dettato dalla totale dipendenza di Joe dalla nicotina.
Io e Angela avevamo deciso di mia iniziativa di fare qualcosa di sano
durante la settimana; andare in palestra, fare spinning, e perché no
anche qualche tuffo in piscina.
Stavamo realmente mettendo a prova il nostro cuore, e questa volta
non per le solite malsane abitudini, ma Angela era convinta che con
la forza della mente, della volontà avremmo superato in velocità Ben
Johnson.
Il centro fitness era uno dei soliti ritrovi di quelli che vogliono
far
vedere
che
sono
belli,
ricchi,
in
forma,
fotocopie
incartapecorite di un baywatch nostrano, fuori moda e patetico.
In quell’estate del cazzo decisi che fare un corso di tango, creato a
doc per la stagione sarebbe stata un ottima idea.
Sì perché comunque l’idea di unirmi carnalmente con Juan l’insegnante
di salsa, merengue, e tango ovviamente, mi faceva venir voglia di
calzare le scarpette rosse e ballare tutta notte ad un ritmo di un
flamenco infuocato.
Mentre mi immaginavo uno stallone madrileno più arrapante di
Banderas che mi possedeva selvaggiamente in una arena con spettatori
in delirio, una balena che frequentava il mio stesso corso di
spinning mi porto alla realtà dicendomi che metà degli altri cetacei
del fitness club avevano avuto, diciamo, lezioni di latino
americ(ANO) molto ravvicinate.
Iniziai a pedalare più forte mentre una versione mixata da Rubens il
tamarro di Radio Zarria mi faceva perdere quei fastidiosi chili in
34
Le mie donne
più.
Bebe era lesbica? Io dico di sì.
“ Voy a volverme como el fuego
voy a quemar tu puño de acero
y del morao de mis mejillas saldrá el valor
para cobrarme las heridas.
Malo, malo, malo eres
no se daña quien se quiere, no
tonto, tonto, tonto eres
no te pienses mejor que las mujeres
Malo, malo, malo eres
no se daña quien se quiere, no
tonto, tonto, tonto eres
no te pienses mejor que las mujeres.."
Almeno lo credevo, certo mi stava per venire un infarto a pedalare su
quella cazzo di bicicletta.
Finita la lezione, sudata e puzzolente, ebbi come sempre la brillante
idea del giorno.
Volevo dare un immagine di me stessa della "dura che fa sport", mi
ricordai quindi di avere nella borsa una sigaretta.
Sì, l’avevo rubata a Josephine, la tabachera, così per farle un
dispetto, uno scherzo, per dimostrarmi che se volevo potevo essere
lesta, lei si girò goffa e lenta ed io senza sforzi ne timori
estrassi neanche tanto rapidamente lo zampirone dal pacchetto sulla
sua scrivania.
Rimase nella mi borsa per mesi, e ora che stavo per fumarla mi
sembrava che non possedessi più nulla di lei dopo il suo decesso.
(Conserverò le cose delle persone a cui tengo per tutta la vita, sono
parte di me. E’ ciò che mi rimane di coloro che amo e che mi hanno
lasciato qui, quando li raggiungerò non ne avrò più bisogno, ma ora
mi danno la forza di vivere nel loro struggente ricordo).
Accesi la sigaretta nel giardino, vicino al campetto da calcio,
guardando adoni palestrati, finte bionde, e menti sintetiche in corpi
sintetizzati.
Tirai forte, a fondo, per aspirare l’ultimo respiro della tabachera,
volendo così riviverla, ricordarla, omaggiarla con questo rito a lei
tanto caro. Fumare, fumare e fumare.
Angela era sparita, e Barbara mi richiamò all’ordine dicendomi che
dovevamo
finire
l’allenamento
con
qualche
esercizio
per
gli
35
Le mie donne
addominali che senza dubbio erano stati trascurati.
Mi disse di sbrigarmi, di muovere il culo che dovevamo fare in fretta
e che lei comunque non aveva intenzione di passare tutto il tempo in
palestra.
Nell’affanno dell’inseguire Barbara, prima di realizzare che mi stava
per mancare il respiro caddi per terra senza fiato, come se qualcuno
mi avesse risucchiato dall’esterno i polmoni.
Non riuscivo a dire nulla, le parole non venivano fuori e tutto
iniziava a perdere forma e colore.
Che cazzo avevo fumato?
Che cosa aveva fumato per anni la collega Tabachera?
E il fumo passivo che io avevo inalato per anni?
Cazzo, quanti pensieri e io non riuscivo più a respirare.
Barbara iniziò a praticarmi una respirazione a bocca a bocca davanti
ai clienti inorriditi del fitness center.
Già, vedere una donna di due metri con una tutina fucsia che
apparentemente metteva la lingua in bocca ad un altra per terra con
gli addominali da rivedere, era motivo di banale curiosità da parte
del volgo bramoso di sparlare.
Mi ripresi subito, e girandomi vidi Angela che mi guardava, questa
volta capii che forse era gelosa, preoccupata, osservava Barbara, un
colpo di tosse mi fece sputare del sangue.
Inizia a comprendere meglio il perché della morte di Josephine.
Continuai a non fumare sigarette e a considerarlo un vizio stupido ed
inutile e nono stante tutto tornai a casa fischiettando gli Smiths.
“ … Good times for a change
See, the luck I've had
Can make a good man
Turn bad
So please please please
Let me, let me, let me
Let me get what I want
This time”.
Quella sera non contenta telefonai ad Asia per vedere se aveva voglia
di vedermi, mi disse di andare nel suo tugurio umido e odoroso e che
avrebbe poi deciso il da farsi.
Percorsi il corridoio che conduceva ad Asia, facendo attenzione a
dove mettevo i piedi, avevo paura di calpestare qualche scarafaggio o
peggio ancora imbattermi in qualche ratto di cantina.
La porta era socchiusa, entrai cercando di vedere qualcosa tra il
luccichio di bastoncini di incenso, intravidi Asia sulla sua
36
Le mie donne
poltrona, nella posizione che adorava di più.
Le gambe larghe, spalancate, i piedi appoggiati sopra i braccioli, un
fallo enorme in una mano, nero, il suo colore preferito, nell’altra
impugnava un pesante martello.
Il fallo fungeva da scalpello su quella scultura di carne e
perversione.
Diede due martellate ben piazzate, non udii alcun suono provenire
dall’interno, forse perché nel corridoio si sentiva della musica
provenire da qualche altro scantinato, probabilmente qualche studente
squattrinato.
Chiusi la porta senza scappare, nella testa “Rhythym is a dancer”
degli SNAP mi faceva sorridere pensando al fatto che Asia aveva
davvero il senso del ritmo.
Il ritmo era l’opposto del mio costante squilibrio emotivo.
Asia però non sapeva ballare sui vetri, io sì.
Asia sapeva usare il martello, e io avevo bisogno di aiuto per
mettere dei chiodi, giusto per avere dei punti di riferimento.
L’unica cosa certa era il biglietto del concerto delle Sleater
kinney che avevo nella tasca dei miei jeans troppo larghi.
Avrebbero suonato in un piccolo club per pochi intimi, avrei visto
Leonardo e qualche altro conoscente, mi sarei distratta e forse
distrutta e avrei momentaneamente dimenticato la morte della
Tabachera, il lavoro arretrato e tutte le mie paure sarebbero sparite
al primo riff delle chitarre incazzate.
Ne ero certa.
“ I spend the afternoon in cars , I sit in traffic jams for hours
Don't push me
I am not OK
The sky is blue most every day
The lemons grow like tumors they are tiny suns infused with sour
Lonely as a cloud In the Golden State
"The coldest winter that I ever saw was the summer that I spent..."
The only substance is the fog
And it hides all that has gone wrong
Can't see a thing inside the maze
………
Be still this old heart , Be still this old skin , Drink your last
drink Sin your last sin , Sing your last song about the beginning
Sing your song loud so the people can hear
Let's Go
Be still this sad day , Be still this sad year, Hope your last hope
fear you last fear
37
Le mie donne
Your not the only one
Let's Go …………..
I took the taxi to the gate I will not go to school again
Four seconds was the longest wait”
Jumpers – Sleater Kinney
38
Le mie donne
Vulva Volant e Mr. Gucci (La Vie En Rose)
Incolpavo la città per il mio disagio, ma era solo l’ennesima scusa
per giustificare il fatto che non potevo andare in spiaggia perchè
non c’era il mare.
Il tempo era orribile per la maggior parte dell’anno; troppo caldo e
freddo eccessivo, brevi e sporadici sprazzi di serenità momentanea.
Bevevo una tazza di thè per intiepidirmi l’anima mentre bisognava
riavviare il motore scaldandolo, guardare le notizie, fare qualche
telefonata, organizzare la mia settimana.
Pianificare un colpo.
La sera prima mi ero masturbata davanti alla televisione in una
domenica noiosa e guarda caso umida, decisi quindi di sintonizzarmi
nuovamente sullo stesso canale per ottenere un risultato decente; non
si trattava di un film porno bensì di un cartone animato intitolato
“Stripperella” un eroina tutta tette che doveva sconfiggere la
perfida Lilli Clitoris.
Era così demenziale che non ci credevo neppure io, ma riuscii lo
stesso a raggiungere un orgasmo multiplo mentre Stripparella duettava
con Kid Rock.
Banale e patinato quasi imbarazzante, ma l’importante era il
raggiungimento del piacere, sempre.
Dovevo consegnare delle bozze su una storia del cazzo in tempi brevi,
ma nel frattempo non riuscivo ad evitare di mettere nero su bianco
quello che mi era accaduto, così mi misi a scrivere di Vulva Volant
la quale assomigliava in modo imbarazzante a Lilli Clitoris, motivo
per i l quale mi appassionai alla serie cartoon “Stripperella”.
Continuavo a sorseggiare thè davanti al PC desiderando però una birra
ghiacciata, mentre vedevo Vulva Volant uscire definitivamente da
google talk, probabilmente per evitare sgradevoli scocciature.
Mi mancava di già.
Sapeva di avere un notevole sex appeal in generale, soprattutto sui
maschi, sì quegli esseri che lei descriveva come creature con tanti
peli e dall’odore strano, quelli che pensano sempre di aver quel
qualcosa in più giusto perchè hanno un pezzo di carne penzolante tra
le cosce, quell’extra che lei non aveva comunque mai tollerato,
nemmeno su di sé.
Vulva Volant si divertiva con questi omuncoli, perlopiù codardi,
evidentemente non abbastanza appagati dalla propria vita sentimentale
39
Le mie donne
costruita dentro a castelli di carta.
A lei interessava testarne la già evidente, dubbia integrità morale,
sapendo poi che una volta che il suo frutto fosse stato assaggiato ne
sarebbero rimasti deliziati, e puntualmente non sarebbe più riuscita
a scrollarsi di dosso quei fastidiosi parassiti.
Liquidarli era una regola, li ignorava non rispondendo al telefono,
negandosi in ogni occasione, dimostrando comunque loro che aveva sì
gradito il pezzo di carne, ma che comunque la polpa era reperibile
ovunque, e anche di qualità migliore.
Vulva Volant prendeva gli uomini, li usava a suo piacimento, e poi li
restituiva al mittente.
Dovevano rimanere lì solo il tempo necessario per l’amplesso, nessuna
perdita di tempo, nessuna parola inutile, orgasmo rapido e al
comando, e una volta raggiunto era solita dire:
“Fuori, il tempo è scaduto. Si certo, ci sentiamo.”
Rispedendoli a casa dalla loro mogliettina devota, che avrebbero poi
salutato baciandola sulle labbra, le loro, ancora umide dei sapori di
Miss Vulva.
Questo era almeno quello che pensavo all’inizio prima di perdere la
testa e molto di più per Vulva.
Quando entravano nel suo appartamento, lei era già nuda e i clienti
dovevano solo calarsi i pantaloni e fare quanto dovuto e spesso già
concordato precedentemente in sede di offerta.
Odiava lo sperma che tutto appiccicava e anche le morbose ossessioni
di certi uomini diventati clienti abituali.
Non capisco ancora come mai mi innamorai di lei.
Un giorno dal nulla spuntò fuori un certo Mr. Gucci, e fra tutti
quanti Vulva fece cadere la sua attenzione proprio su di lui; un uomo
giovane, mediterraneo, belloccio, stupido, che teoricamente sapeva
anche appagarla sessualmente se non le guastava prima l’umore
facendosi sfuggire insulse frasi banali.
Mr. Gucci (soprannominato così a causa della sua devozione verso La
Maison, che rappresentava la totalità del suo guardaroba), si era
sposato da poco con un ereditiera; un pezzente che era riuscito a
sedurre una riccastra un po’ ebete e ad infinocchiarne poi la
famiglia, convolando poi a suntuose nozze.
E guardando da diverse angolazioni questa faccenda mi domandavo chi
fosse realmente stupido; la bionda e la sua famiglia altolocata
avrebbero forse dovuto stare un po’ più attenta dinanzi ad una guapo
40
Le mie donne
dalla pelle troppo scura e dai modi invadenti. Forse Mr. Gucci non
era poi così stupido come si pensava.
Vulva sapeva che lui doveva per forza salvaguardare il suo status da
arricchito e per questo motivo non le avrebbe mai esercitato
Pressione.
Ma la pressione che Vulva doveva aver esercitato sui suoi genitali
doveva esser stata abbastanza significativa, Mr. Gucci continuava a
bersagliarla di lettere, fiori, regali, messaggi, tantoché Vulva
aveva ormai intenzione di licenziarlo.
Quando un pezzo di carne vuole uscire dal suo costume e prendere
parola esprimendo il proprio volere, è il momento in cui il gioco
finisce.
Vulva non voleva implicazioni di alcun genere, nessun tipo di
complicità, e quando si accorse che immancabilmente all’indomani dei
loro incontri Mr. Gucci le scriveva che voleva rivederla per farla
godere come non mai, seccata dall’ennesima e invadente violazione del
suo territorio, si rendeva conto che così non poteva continuare.
Solitamente non rispondeva, sosteneva che l’indifferenza era l’arma
migliore oltre ad essere quella meno costosa, con tutti i soldi che
stava già spillando alla frigida ereditiera, Mr. Gucci non si
meritava un centesimo da lei!
All’ennesimo messaggio ricevuto nei giorni successivi al loro ultimo
amplesso esausta di tutto quello spam proveniente da uno zingaro, lo
invitò a togliere il disturbo con parole brusche.
Leggendo l’ultimo messaggio si rese conto di quanto Mr. Gucci
necessitasse di un insegnante per imparare la grammatica del nostro
paese, evitando così vergognosi errori di ortografia e sintassi.
La frigida mogliettina non aveva ancora provveduto ad istruirlo per
bene prima di vestirlo da damerino e portarlo a palazzo?
Non credo.
E Vulva non sopportava molte cose, l’ignoranza e l’ipocrisia erano al
primo posto, e mi domandavo come mai non si fosse ancora stancata di
me.
Doveva solo scopare e tacere, e farsi vivo solo quando lo decideva
lei.
Erano amanti dopotutto, e se solo tra loro ci fosse stato un
documentato ed effettivo passaggio di denaro dalla mano di uno a
quella dell’altro, non sarebbe stato difficile pensare ad un
situazione mercenaria.
Considerando quest’ipotesi Vulva iniziò a farsi pagare per ogni
prestazione, dimenticandosi del resto, di me e del discorso in
41
Le mie donne
generale, che cadde lì così, come un prigioniero abbattuto da una
fucilata.
Vulva sempre più insofferente verso ciò che quest’uomo rappresentava,
decise di non dargli più retta e di trovare un nuovo alveare dove
diventare incondizionatamente l’ape regina, senza il ronzio di
frigide mosche e la vista di cenciosi scarafaggi, sarebbe riuscita ad
allargare il giro dei suoi clienti mentre io rimanevo a guardare.
A seguito di un violento rapporto orale, dove Mr. Gucci gli spinse il
cazzo talmente in gola da farle mancare prima il fiato, quasi
soffocandola, causandole poi un paio di conati di vomito, Vulva si
convinse definitivamente di doverlo eliminare dal libro dei suoi
clienti.
Perchè
trasgrediva
con
Vulva
Volant
e
non
con
la
frigida
principessina?
E se appunto era frigida per quale ragione l’aveva sposata?
Per il suo cospicuo patrimonio famigliare? Domanda superflua. Ovvio.
Mr. Gucci era andato oltre, le aveva sporcato il divano in alcantara
schizzando di sperma anche il povero Poldo, gatto persiano che in
quel momento passeggiava vicino alla zona calda; le aveva provocato
conati di vomito a causa di rapporti orali troppo violenti; iniziava
a parlare troppo, a chiedere incontri troppo ravvicinati tra loro, e
mai un soldo in più, la sua ignoranza e la sua stupidità erano
intollerabili.
Avrebbe dovuto solo rimanere un pezzo di carne da macellare a suo
piacimento, un muscolo ludico per momenti spensierati; non aveva
richiesto altre funzioni, ma il pezzo di carne aveva voluto prendere
parola.
Bisognava infliggere una punizione esemplare,
Mr. Gucci era una persona misera e per prima cosa Vulva voleva
proprio umiliarlo come l’ultimo dei pezzenti.
Vulva per riflettere meglio sul da farsi andò a bere qualcosa a casa
della sua amica Cassandra Utero Infuocato che le servì un Negroni
bello carico nel suo salotto, mentre Plinio il babbuino maggiordomo
era indaffarato con lo shaker.
Cassandra si prodigò nel dispensare utili consigli a Vulva, la quale
a dire il vero non era del tutto attenta e pronta a recepirli,
parlarono a lungo e si accorsero che confrontando episodi e
personaggi si sapeva sempre tutto di tutti.
Possedevo tante notizie dettagliate ma frammentarie sull’esistenza di
persone che non conoscevo, ero al corrente di particolari personali
appartenenti a sconosciuti, questo mi sorprese e mi diede fastidio.
42
Le mie donne
Ordinatamente nel caos ritornai a pensare a Vulva.
Vulva aveva due mani e nove dita, credo che quello mancante fosse
l’anulare, apparentemente perso durante una battuta di caccia quando
le scoppiò in mano la canna del fucile, mi chiesi se
si trattasse
veramente della caccia alla volpe; Miss Vulva Volant era una
cacciatrice, ovvio, non poteva essere altrimenti.
Il mio cellulare squillò vidi un numero conosciuto, il suo, quindi
risposi:
-
“Ciao Vulva!”
“Ti devo vedere”
“.. bhe sai ora sono da un amica…”
“Sbrigati. Vieni subito. Ti aspetto da Cassandra”.
Riagganciò.
Rimasì lì così, stordita, incazzata, e mi fiondai in macchina,
speranzosa di rivedere il danaro che le avevo
prestato tanto tempo
fa.
In quell’occasione mi disse che i soldi le sarebbero serviti per
acquistare un apribottiglie in oro bianco con uno smeraldo al centro,
che era uno sfizio che voleva togliersi.
Seppi poi in seguito che un suo amante fu trovato assassinato a colpi
di cavatappi, quelli con la punta tipo coda di porcellino, che
penetrano per bene nel sughero; accanto al corpo uno smeraldo. Il
colpevole non fu mai trovato.
In uno strano delirio ero a casa mia, mi stavo facendo una doccia
prima di uscire, prima di andare di corsa da Cassandra Utero
Infuocato, dove Vulva mi stava aspettando.
Mentre mi facevo uno shampoo chinai la testa per massaggiarla meglio,
sentivo la schiuma tra le dita, ebbi un mancamento per qualche
secondo, con la testa abbassata inizia a vomitarmi sui piedi mentre
mi risciacquavo.
Schiuma Calvin Klein mischiata a confettura gastro intestinale sotto
un getto di acqua tiepida.
Avevo avuto una pessima idea; per riprendermi dagli eccessi della
sera prima e per sopperire ad un momento di ipoglicemia che mi
rendeva molto debole decisi di fare colazione con coca cola light
ghiacciata e gelato alla stracciatella, cosa che non feci mai più.
Arrivai a casa di Vulva, sul tavolo vidi tre banconote da 500 euro,
43
Le mie donne
ne presi una e l’arrotolai, istintivamente, Vulva mi disse che erano
parte dei soldi che le avevo prestato e che non c’era cocaina in
casa.
Mi rimproverò per le mie cattive abitudini, e mi disse che voleva far
fuori una persona, un uomo che l’aveva ferita, probabilmente anche la
moglie di quest’ultimo, sostenendo che una donna stupida non ha
ragione di vivere.
Mi chiesi che cosa vivessi a fare, misi le banconote in tasca chiamai
il pusher e non ci pensai più.
Lo stronzo era fuori città con il suo BMW nuovo di pacca a
spassarsela con i miei soldi e con quelli di altri coglioni come me.
Vulva mi disse che quei soldi sarebbero serviti per farmi tacere, ci
sarebbe stato un compenso per il mio silenzio, dovevo dichiararmi
estranea a tutto.
Mi chiese di seguirla e accettai senza alcuna esitazione.
Non so perché accettai passivamente tutta questa storia, bastava che
guardassi Vulva per un secondo e le mie difese cadevano miseramente.
Mi sentivo inerme dinanzi a lei, l’ammiravo, la stimavo, non la
comprendevo, la seguivo, e avevo iniziato inconsciamente ad amarla.
Vulva indossò una specie di palandrana, si coprì con quel vestito
nero, vedevo solo i suoi occhi pieni di odio brillare, una luce che
non prometteva nulla di buono.
So per certo che nascose qualcosa che non dovevo vedere sotto
quell’odioso lenzuolaccio nero; forse un coltello, forse una pistola,
magari un oggetto contundente, o forse una borsa che conteneva tutto
ciò che aveva bisogno.
Vulva mi disse che dead man walking alias Mr. Gucci una volta
violentò una donna islamica cavandole poi gli occhi, avvolgendola nel
suo telo nero e buttandola poi giù da un dirupo in un fiume.
Le chiesi come faceva a saperlo e come mai Mr. Gucci fosse ancora in
circolazione, non sentendo alcuna risposta e vista la situazione
abbastanza tesa decisi di non ripetere la domanda.
Ricordo ancora quando all’alba fui folgorata dallo sguardo di una
talebana, e sicura che questo episodio non fosse fine a se stesso,
vidi molte cose riflesse in quella luce, la mia anima fu trafitta in
un momento, ero impotente, di nuovo, come sempre, in bilico tra la
paura dell’ignoto e il desiderio di comprendere.
In seguito seppi che fu lapidata in diretta su una tv satellitare, ma
in quello sguardo rubato io l’avevo vista coperta da un telo, avvolta
come un salame prima di essere gettata in un burrone.
44
Le mie donne
Non stavo impazzendo, e Vulva lo sapeva.
Plinio il babbuino stava giocando con il mio cellulare.
Vulva raggiunse Mr. Gucci nel locale dove erano soliti incontrarsi,
un bar squallido, sporco, sembrava un saloon, con delle puttane da
quattro soldi sopra un palco di legno scricchiolante che ad ogni
cenno del pianista alzavano la loro gonna mostrando deretani ben
pasciuti.
Non che Vulva si aspettasse le fanciulle del Coyote Ugly, e tra
l’altro
nemmeno io, ma in quel momento sapevo ciò che stava
accadendo ora che le stavo coprendo le spalle.
Prese la prima bottiglia che trovò dinanzi a sè, uno scotch
abbastanza scadente, si alzò in piedi e seguì Mr. Gucci a sua
insaputa, senza farsi notare, lungo il buio corridoio che conduceva
ai bagni e a due squallide stanze per le ballerine e i loro clienti.
Mi augurai di non finire per sbaglio in nessuna di quelle camere.
Prima di imboccare il corridoio Vulva impugnò saldamente la bottiglia
per il collo per poi spaccarla contro lo spigolo, l’arma era pronta
anche se io speravo che non fosse come pensavo.
Sentendo il rumore di vetri rotti, Mr. Gucci si girò verso Vulva che
incurante avanzava dritta verso di lui.
Sono sicura che Mr. Gucci in quel momento prima di pregarla di non
farlo fuori, vide tutta la sua vita scorrergli davanti come in un
film, una pellicola di serie B, come del resto era stata tutta la sua
fottuta esistenza.
Vulva fu implacabile impugnando il collo della bottiglia la cui
sagoma tagliente disegnava una regolare e appuntita linea a zig zag,
lo spinse
tra le gambe di Mr. Gucci, fino a quando non trovò un
qualche ostacolo di carne che bloccò la corsa della mano destra,
quella con quattro dita.
Penso che il termine più appropriato per indicare ciò che Vulva stava
facendo fosse “evirare”. Già, il malcapitato fu evirato come il
peggiore dei bastardi, ma forse in fondo se lo meritava.
Come dei fiori del male i suoi testicoli furono recisi insieme ad
altri brandelli di carne, Mr. Gucci si ripiegò su sé stesso mentre
Vulva non mollava la presa, girò più volte il collo di bottiglia tra
le maglie ormai slabbrate del cotone dei suoi costosissimi Jeans, le
mutande dorate, e quel che era rimasto dei genitali del malcapitato.
Dal quel corpo che si stava accasciando non uscì alcun suono se non
un sordo tonfo di morte quando ci fu l’impatto sul parque.
In quella specie di saloon tra ballerine senza sottane, ladri e
45
Le mie donne
ubriaconi Vulva si fece strada tra brindisi, risate e bestemmie.
Una mantide religiosa stava indicando a Vulva la strada per scappare
via, si sentiva appagata, un surrogato di un Robin Hood cattivo.
Non me la sentivo di accettare questo incarico, ero spavalda ma non
sapevo muovermi con i pesci grossi, ero un leader tra i balordi, i
pescicani mi avrebbero dilaniato.
Dissi a Vulva di andare a comprare un fumetto se aveva bisogno di un
supereroe, la mia vita non era in vendita, e la situazione era troppo
torbida anche per ,me.
Ma forse stavo bleffando, era il mio incarico e stavo improvvisando
una commedia penosa.
Pensai che ognuno dimostra l’affetto in modo di verso, e forse lui mi
voleva bene a modo suo, mentre lei mi aveva sempre adorato, come del
resto i miei genitori.
Cazzo!!! Farfugliavo frasi senza senso, la lucidità iniziava a
mancarmi, dovevo assolutamente riposare.
Non avevamo decisamente bisogno di eroi, avevamo gia versato troppo
sangue, lacrime e liquidi organici.
Il trucco dell’alchimista che si fingeva eroe era quello di tirare
fuori la medicina dal veleno ingurgitato. L’antidoto.
Vulva mi aveva insegnato così.
Scappai da tutto, da Vulva e dai miei sentimenti dimostrando ancora
una volta soprattutto a me stessa di essere un incredibile codarda.
Mi ricordai di Vulva soltanto qualche anno dopo, quando rilasciò un
intervista televisiva dicendo che era single e che cercava l’amore,
quello vero, quello che ti fa tremare le gambe e ti toglie
l’appetito,
sentendo
quelle
parole
ebbi
un
sussulto.
Dovevo
conquistarla, non c’era più differenza tra sesso, io non pensavo a
lei come ad una donna ma non vedevo dinanzi a me neanche un uomo. E
sognante come un bimbo sapevo che la dichiarazione rilasciata era per
me. Dimenticai la vicenda del saloon, le amicizie sbagliate, i letti
mai rifatti, le armi, i cavatappi, e tutto ciò che poteva offuscare
l’immagine della mia principessa.
Vedevo la persona com’era giusto che fosse, bhè c’erano delle cose da
chiarire, da sistemare, come ad esempio la questione del sesso, che
onestamente non avevo considerato.
Ma l’avremmo affrontato dopo, in seguito.
Portavo con me una fotografia di Vulva con un foulard annodato sotto
il collo e gli occhiali da sole, sorrideva, io l’abbracciavo, poi per
46
Le mie donne
varie vicissitudini lei sparì dalla mia vita.
Lei decise di concedersi, innamorarsi, sbagliarsi con dubbi omuncoli
dai muscoli pompati mentre io la guardavo allontanarsi da me, sapendo
che mi amava e che mi avrebbe rimpianto.
Volevo vederla, proteggerla, anche se vista la sua stazza sarebbe
stato più logico il contrario, non potevo lasciare quella creatura in
pasto al mondo, dovevo alzarmi e correre da lei, divincolarmi dal
peso di questa bassa nuvolaglia e correre da lei, aveva bisogno di me
e soprattutto io di lei.
Delle sue grandi braccia, dei suoi piedi un po’ sgraziati, della sua
voce a volte un po’ troppo bassa, delle sue critiche sul mio modo di
vestire.
C’è chi dice che ci fossero state delle piume tutt’intorno quando lo
trovarono senz’anima a lato del marciapiede.
La luce del giorno che percepivo entrare nell’angusta stanza fece si
che mi alzassi da quella branda madida di sudore prendessi una
asciugamano e andassi a continuare il mio delirio sulla spiaggia.
Mi buttai sulla sdraio, non avevo chiuso occhio e il peso delle
nuvole pesanti e degli incubi mi aveva stancato.
Iniziai a sfogliare il mio libro, lo aprii alla pagina dove Vulva la
mia eroina scannava letteralmente l’apparato genitale di un uomo che
non si meritava nulla; superai quel capitolo e arrivai in quella
stanza che dava sull’oceano, dove ballavamo e cantavamo ubriache La
Vie En Rose interpretata da Grace Jones.
Ma la bellezza di quel momento troppo struggente, mi fece voltare
nuovamente pagina, ma credo che l’’avesse fatto il vento che non
voleva vedermi piangere per l’uomo (?), per la persona che non avrei
mai comunque potuto avere.
Lei non poteva appartenermi, d’altronde il senso del possesso era un
desiderio troppo primordiale per noi che aspiravamo alla felicità
estrema ed incondizionata.
Come al solito eravamo andate oltre.
Le pagine continuavano a scorrere, un po’ girate dalle mia mano
tremante e un po’ dal vento, vidi un'altra immagine di Vulva con gli
occhiali scuri e grandi da diva, come piacevano a lei, una parrucca
rossa forse un po’ troppo appariscente, ma questo era il suo stile,
la borsetta di coccodrillo da dove si intravedeva luccicare l’acciaio
della canna della sua pistola, un bacio breve, mi chiese come stesse
con quel rossetto.
47
Le mie donne
Le dissi che stava benissimo, che avrebbe dovuto correggere un po’ la
sua camminata oppure evitare di calzare scarpe con tacchi un po’
troppo azzardati, anche perché se si fosse trovata nei pasticci
avrebbe avuto qualche difficoltà nel correre via dal pericolo e
tornare da me.
E io non volevo altro; che lei ritornasse da me, qui sulla spiaggia a
sfogliare il nostro diario e a guardare le fotografie.
La persi di vista per molto tempo, ma sapevo che il colpevole di
alcuni omicidi consumati in torbidi ambienti, maturati nelle
frequentazioni di dark room appiccicose, non fu mai individuato,
quindi ero quasi certa che lei fosse viva.
Il mio cuore cercava Vulva.
Un giorno camminando senza meta con il sole negli occhi per le strade
del centro, vidi un manifesto, la donna che mi sorrideva dal muro era
Vulva; era in città, era diventata un attrice, e il suo debutto
sarebbe stato proprio quella sera.
Mi fermai dinanzi alla locandina forse più per riprendere fiato e
forze che per soffermarmi su ciò che veniva proposto; non sapevo se
piangere, svenire o correre da lei.
Andai al mercato dei fiori e ordinai un enorme mazzo di rose rosse,
chiesi le più belle e le più profumate; decisi di fargliele
recapitare dopo lo spettacolo.
La mia presunzione mi fece pensare che se Vulva le avesse ricevute
prima del debutto si sarebbe emozionata e sarebbe corsa in platea a
cercarmi, abbandonando lo spettacolo, soffocandomi in un abbraccio un
po’ troppo virile per non lasciarmi mai più.
La commedia interpretata da Vulva era divertente se comparata alle
nostre vite, lei era ormai una donna fatta e finita e io la solita
inguaribile bastarda a caccia di sogni e di farfalle; non seguii
molto lo spettacolo perché la mia mente viaggiava dentro di lei, mi
distraevo nel suo sguardo, nella piega dei suoi abiti, nel suo
sorriso, nei suoi movimenti ora così incredibilmente femminili.
Chissà se Vulva mi stava cercando mentre recitava la storia della
nostra vita?
Diventare attrice di teatro era sempre stato un sogno di Vulva, e
credo che la nostra relazione breve, fugace, ambigua le avesse dato
molti spunti creativi.
Mi assicurai che le rose fossero consegnate a fine spettacolo insieme
ad un biglietto dove scrissi che le regalavo tutto ciò che ancora
possedevo, anche se non era poi molto; un cuore allo sbando, un
48
Le mie donne
cervello impazzito e poco altro.
La stessa sera andammo cena in un ristorante la cui terrazza dava sul
mare, faceva ancora un po’ fresco ma le lacrime che continuavano a
scendere sui nostri volti ci scaldavano le labbra amare, sempre che
poi ce ne fosse stato bisogno di renderle umide.
Mi ritrovai di nuovo abbracciata a lei, stupenda anche se avvolta in
un abito da sera leggermente stretto per le sue forme un po’ troppo
atletiche, le sue mani avvolgevano le mie come un guanto ma di
qualche misura più grande, il suo profumo mi cullava.
Ci alzammo dal tavolo e iniziammo a ballare davanti all’oceano mentre
un pianista suonava.
Non eravamo più nei locali di quart’ordine e forse avevamo fatto
piazza pulita di tutta la merda, degli gli errori, dello schifo, che
forse ci eravamo costruite intorno, io e lei con i nostri pregi,
difetti, segreti nascosti e attributi mai rivelati.
Come uno svantaggiato Hompfrey Bogart in Casablanca dissi al pianista
di suonare la nostra canzone preferita, e tornando verso il tavolo
dove lei mi aspettava in tutto il suo splendore con le braccia tese
verso me, la scoprii canticchiare “la vie en rose”.
In una danza infinita verso il mare, una strada di note e petali di
rosa mi prese in braccio e mi portò via; io e Vulva per sempre.
49
Le mie donne
Una cena (la presa della Bastiglia)
Era il compleanno di una persona molto importante oltre ad essere
l’ennesimo anniversario della presa della Bastiglia; la città era in
fiamme ed eravamo nascoste in un ristorante intimo, la cucina era
ottima ed il vino decisamente amabile.
Mi sono sempre piaciute certe coincidenze.
All’interno della calda taverna i pochi avventori sussurravano parole
di rivolta, mentre una donna si dirigeva verso il mio tavolo
interrompendo la mia cena chiedendomi se per caso mi ricordavo di
lei.
Tra un boccone e l’imbarazzo ricordavo sì il suo viso, ma doveva
essere stato collocato in qualche gradino insulso della mia memoria,
così insipido da non ricordarne il sapore.
Mi disse il suo nome, e di essere la compagna di chissà chi dovevo
per forza conoscere, precisando poi che lo sarebbe stata ancora per
poco.
Le presentai la donna seduta al mio fianco, giusto per mitigare
l’imbarazzo, e per una decina di minuti la sconosciuta tentò di
riaccendermi i ricordi ed i pensieri di quel periodo, ormai rimossi
dalla mia labile memoria.
Mi disse poi, mentre l’oste mi serviva un talamo di panna montata
ricoperto di sciroppo al lampone, che Stan, sì il mio Stan, stava per
diventare papà.
Un colpo di baionetta dritto nello stomaco.
La sedia su cui ero seduta sembrò traballare, ed io, chissà poi
perché, non assaggiai il mio delizioso dessert; ordinai la prima di
molte altre grappe di moscato, morbido sapore per digerire
delicatamente anche il boccone più indigesto.
Sciogliendolo.
Come quel filetto di tonno servito con finocchi, che raggiungeva il
palato slegandosi in un idillio di gustosità estrema.
Avevo detto addio a Stan all'epoca della presa della Bastiglia,
durante una vera e propria rivoluzione dei valori e dei sapori, e lui
finì quasi decapitato sotto la ghigliottina.
Ora a distanza di qualche guerra e di molte battaglie, mi giunge la
notizia che avrà un erede, e che non sarà mio figlio.
Spero di non incontrarlo, odierei fargli le congratulazioni per
qualcosa che effettivamente non mi rallegra più di tanto.
Quattordici Luglio chiede il conto all’oste, non lasciamo la mancia e
50
Le mie donne
andiamo via in sella ad un seicento da strada mentre intravediamo da
lontano i primi fuochi davanti alle barricate.
Indossiamo entrambe pantaloni bianchi, centinaia di moscerini si
schiantano sulle nostre ginocchia durante il tragitto verso il
Rivetto Lounge.
Voglio rinfrescarmi il palato viziato con una birra ghiacciata.
51
Le mie donne
Barbara, la Tabachera e la mia povera Testa
L’aria condizionata non funzionava benissimo, e la moquette sembrava
sprigionare ancora più calore di quello già esistente.
Josephine era insopportabile, e non riuscivo a capire se il mio astio
nei suoi riguardi fosse solo dettato dal suo terribile aspetto
fisico, oppure anche dal tono impastato delle sue parole banali,
piuttosto che dal suo sesso indefinito, dalle sue sgradevoli
sigarette, o da altro. Avevo un ampia scelta.
A fine mese sarebbe stata trasferita forse nel magazzino della
compagnia, a passare gli ultimi anni della sua vita lavorativa
scaricando bancali con magrebini pagati a cottimo.
Forse il suo trasferimento era stato dettato dalla sua presenza
disgustosa, decisamente peggiorata negli anni, che comunque era pur
sempre un danno per l’immagine della Compagnia, forse era stata
declassata poichè aveva bleffato una vita fingendosi Josephine invece
era Joe.
Ma non me ne importava più nulla, se ne andava e io sarei stata
meglio.
Al posto di quelle orribili ballerine con strass che disegnavano una
specie di pavone sulla punta di quei piedi sgraziati, Josephine
avrebbe calzato delle più consone scarpe antinfortunistiche.
Mentre
io
tentavo
di
climatizzare
l’ufficio
alzando
l’aria
condizionata e cercando di tenere la porta chiusa, tirando le tende
per non fare entrare i caldi raggi del sole; Josephine con la sua
sigaretta zampirone sempre accesa, andava avanti e indietro lasciando
spalancata la porta a vetro.
Andai in bagno visto che avevo una leggera nausea, tornando vidi che
aveva aperto le tende da me precedentemente chiuse, e smanettava
nervosamente con le sue mani tozze e pesanti sulle manopole della
regolazione dell’aria condizionata.
Avrei voluto tirarle un calcio nel culo ben piazzato, come se avessi
dovuto segnare su punizione al derby del cuore.
Mi controllai anche dal prenderla a brutte parole ripensando al fatto
che comunque ero una donna di una certa posizione, e che dovevo pur
sempre mantenere immagine e stile.
Angela l’avrebbe presa a calci, Asia probabilmente le avrebbe
strappato i capelli con le sue mani.
Barbara il travestito l’avrebbe trovata degna compagna di gioco,
forse, prima di rendersi conto di essere una lesbica asessuata.
52
Le mie donne
Pensando a Barbara mi domandai che senso avesse per una persona
geneticamente uomo affrontare un simile percorso, sia da un punto
ormonale, fisiologico che ovviamente psicologico per poi scoprirsi
lesbica e per di più asessuata.
Mah.
Conobbi Barbara casualmente ad una festa a casa di qualche
sconosciuto dove mi intrufolai con Nashua.
C’erano molte persone per lo più rampolli di ceto medio borghese, e
mi sorgeva spontaneo chiedermi cosa ci facesse Barbara ad una festa
così, e soprattutto cosa ci facessi io; mi accorsi subito che avrei
dovuto rinnovare il guardaroba.
Quella sera stessa mi resi nuovamente conto che il degrado umano non
esisteva solo negli ambienti cupi delle dark room, ne tanto meno
nelle droghe sintetiche consumate nei club con i soliti sconosciuti,
e nemmeno nel farmi sfondare ogni valico da Asia Stardust.
Leonardo
che
riusciva
ad
infiltrarsi
ad
ogni
festa,
stava
improvvisando un dj set in salotto, mixava “no excuse” dei Soulwax
con un brano di David Holmes.
Io ero molto ubriaca, pensavo di reggere di più.
Dal salotto vidi un ragazzo handicappato, doveva essere paralizzato
dalla vita in giù, era su una sedia a rotelle, parlava a vuoto e io
come sempre non capivo nulla di ciò che veniva detto.
Mentre tentavo di salire le scale per andare in bagno, evitai per
poco di inciampare nella ruota della poltrona mobile del paralitico,
il cesso era al secondo piano, subito dopo l’ultimo gradino delle
scale che portavano su.
Non so perché il ragazzo si trovasse lì solo in quel momento, con un
bicchiere di carta in mano, proprio vicino alla porta d’ingresso e
all’inizio della rampa di scale; mi scusai per averlo urtato e mi
diressi verso il bagno.
Ovviamente era occupato e io mi stavo pisciando addosso, oltre al
fatto che l’alcol iniziava a farmi strani effetti, vedevo doppio e
sfuocato.
Dovevo cambiare le lenti a contatto e bere di meno. Decisamente.
Cercavo anche di non farmi salire il vomito mentre il solito mal di
testa non mi lasciava mai sola.
Dopo qualche minuto di attesa, che mi sembrò interminabile, bussai
spazientita alla porta.
Forse bussai con troppa enfasi ma voglio pensare che la porta fosse
già stata precendente scardinata, in quanto cadde verso l’interno
sbattendo con un gran boato contro la vasca da bagno.
53
Le mie donne
Lì vidi una figura, che poi scoprii essere Barbara, piegata a novanta
gradi verso la finestra, aggrappata con le mani al lavandino, che
veniva inculata da un biondino palestrato niente male, che Angela si
scopò qualche sera dopo.
Il fatto che la porta fosse stata scardinata, il rumore del tonfo e
la mia presenza non turbarono ne Barbara e neppure il biondo Adone.
Mister Fitness tirò fuori dalla tasca posteriore dei jeans appena
calati sotto il cazzo una busta di cocaina, Barbara era sempre
piegata con la testa verso il lavandino, il tipo buttò l’intero
contenuto della busta tra le sue natiche, lo riordinò usando una
tessera di blockbuster, si girò verso di me passandomi una banconota
arrotolata offrendomene un po’.
Senza farmelo ripetere, accettai, mentre inalavo la mia parte l’ano
di Barbara mi faceva l’occhiolino tipo “peeping tom”.
Il culo di Barbara era un immensa autostrada innevata.
Il biondino finì ciò che c’era ancora da sniffare tra le chiappe di
Barbara, per non perdere nulla mi disse di afferrarle le natiche e di
aprirle quanto più potevo.
Mi rifiutai.
Incurante della mia presenza, e delle mie mani, gli spinse dentro il
cazzo duro.
Barbara che non aveva ancora emesso un suono, si risvegliò e iniziò a
gemere.
Io non avevo ancora pisciato, avevo sfondato la porta di un cesso,
ero
riuscita
a
drogarmi,
e
a
vivere
anche
da
spettatrice
co-protagonista una scena da film porno tra un frocio e un travestito
e nonostante questo la mia vescica doveva ancora svuotarsi.
“..Dai, fuori dalle palle, vai a pisciare fuori…”
Il finocchio palestrato mi liquidò così.
Ci rimasi male, feci per chiudere una porta che non c’era più, a
questo punto e in queste condizioni inciampai in una borsetta, molto
simile a tante altre, poteva essere mia come di Barbara, come di
qualsiasi altro stronzo che era lì quella sera.
Ma temo proprio che fosse di Angela.
Caddi giù dalla scale facendo un paio di capriole e planando
rovinosamente contro il ragazzo sulla sedia a rotelle.
La ruota della sedia rotelle lasciò l’impronta dei raggi sul mio
cuore, sul mio costato, la mia testa andò a sbattere contro il
54
Le mie donne
corrimano delle scale.
Un pomello spigoloso mi riaprii una ferita che mi ero procurata in un
altra insolita occasione.
Rincoglionita dalla botta mi girai, il ragazzo rideva e mi rovesciò
in testa il bicchiere di Fanta che aveva in mano continuando a
sghignazzare sempre più forte.
In quella caduta riuscii a salvare la bottiglia di Bacardi Breezer al
pompelmo rosa, e feci un brindisi con il ragazzo che oramai aveva il
bicchiere vuoto.
La fronte mi sanguinava e dai miei capelli gocciolava dell’aranciata
amara, gli augurai buon proseguimento di serata e andai finalmente a
pisciare in giardino.
“….This is the excuse that we're making we're making
This is the excuse that we're making (we're making)
Is it good enough for what you're paying (you're paying)?
I've been shout
I said I've been shout
You don't have to shout
Oh okay, well stop making me then
Hey, hey
I'm getting loud with you
This is the excuse that we're making (we're making)
Is it good enough for what you're paying (you're paying)?
This is the excuse
This is the excuse that we're making (we're making) “
Soulwax – “no excuse”
Leonardo era preso al mixer.
Alla fine anche quella sera riuscii a schizzarmi le scarpe di urina,
ed era una cosa che odiavo.
Mi accesi una sigaretta mentre con un fazzolettino sporco di saliva
cercavo di tirar via dalla fronte il sangue secco.
Sentii sbattere la porta alle mie spalle, era Barbara, due metri di
uomo insaccato in un abito nero, un boa di struzzo fucsia al collo,
trucco pesante ormai sbavato.
Mi chiese da accendere, e mi accorsi che era una banale scusa per
attaccare bottone.
Mi disse che le stavo simpatica e dopo poco tempo che ero la sua
migliore amica.
55
Le mie donne
Mi chiedevo se l’assunzione di troppi ormoni potesse turbare la
psiche, volevo pensare il contrario, e probabilmente dovevo cercare
di abbattere quella merda di muro di pregiudizi che cattivi maestri
mi avevano fatto costruire.
Parlai a lungo con Barbara, le feci domande su cose che non avevo mai
conosciuto, bevemmo ancora del Bacardi Breezer sorseggiando dalla
stessa bottiglia.
Arrivò l’alba, e l’effetto della sbronza aveva generato una pesante
emicrania, parlai a Barbara di Angela, di quanto ero affezionata a
lei e di quanto mi sarebbe mancata.
Gli occhi di Barbara diventarono lucidi, e vidi delle lacrime rigare
il suo volto, lasciando delle tracce di torrenti in secca su una
superficie scavata da troppo fondotinta.
Barbara mi raccontò di Angela, della quale si innamorò anni prima, mi
disse che un figlio l’avrebbe resa sicuramente migliore.
Angela rimase incinta di Barbara quando quest’ultima, ovviamente, non
aveva ancora iniziato il trattamento ormonale, e Barbara avrebbe
tanto desiderato quel figlio.
Angela se ne sbarazzò, negandole l’unica possibilità che aveva,
l’unica forma di riscatto, ma non credo se ne rese conto, era troppo
presa dai suoi viaggi.
Una canzone di molti anni fa mi rimbalzava nelle orecchie per
distrarmi e farmi sorridere, perché ne avevo bisogno.
Era Elton John con Ru Paul, "dont go breaking my heart".
Barbara piangeva, e io le chiesi che cosa le mancasse, lei mi rispose
semplicemente dicendo: “Un figlio!”.
Mandai giù l’ultimo sorso rendendomi conto della mia stupida domanda,
e mi accesi l’ennesima sigaretta, Dio mio stavo diventando peggio di
Joe.
Si oggi ero Joe, Barbara era con me. Josephine l’avevo mandata a
farsi fottere.
L’accompagnai a casa, la cercai a volte in giro, per strada, sui
giornali, in televisione, nei locali, ma non la incontrai mai più.
Andai in ufficio con un pesante mal di testa, avevo dei graffi sul
corpo e sulle mani, e Josephine era insopportabile quasi quanto l’afa
che attanagliava la città
Josephine fu trasferita nel seminterrato del grande palazzo a vetri,
rimasi sola in quell’ufficio per un po’.
Decisamente la persi di vista per qualche mese, l’ufficio non puzzava
più di fumo e i miei capelli avevano ritrovato il loro odore.
Dalla contentezza di essere finalmente sola nell’open space
mi
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Le mie donne
ritrovavo spesso a girare tra armadi e scrivanie vuote in piedi sulla
sedia; a volte dandomi una bella spinta puntando i piedi riuscivo a
fare qualche metro in velocità prima di bloccare tempestivamente le
rotelle per evitare qualche possibile impatto con eventuali ostacoli.
A volte invece prendevo la bacchetta magica e con in testa il
cappello di carta a forma di cono, rimanevo seduta a guardare gli
aerei; non avevano nessun altra destinazione migliore per atterrare?
Mi sentivo come Dave Gahan nel video di “Enjoy the silence”, mi
mancava solo il mantello, la corona e la collina da dove dominare il
mondo.
Dei piccoli dettagli e poi sarei diventata regina sentendomi forse
sola, ma pur sempre regale.
Ci fu una cena d’addio per il trasferimento di Josephine, alla quale
controvoglia dovetti partecipare.
Queste formalità del cazzo mi facevano innervosire, ma ahimè facevano
purtroppo parte del gioco.
A fine serata dopo aver bevuto parecchio, e non avendo quindi per
l’ennesima volta mantenuto le promesse fatte, scendendo dalla
macchina di qualche sconosciuto, caddi nuovamente rispaccandomi la
testa, sempre nel medesimo fottuto e maledetto punto.
Quel cazzo di marciapiede!
A seguito della dipartita di Josephine, non ci fu nulla di speciale,
niente di esagerato, e dopo qualche mese mi chiesi che fine avesse
fatto.
Seppi poi da un manovale marocchino che lavorava nel palazzo che
Josephine fu trovata morta nel cesso del magazzino di lunedì, in una
mattinata uggiosa come lei, per terra accanto a sé furono rinvenuti
tre pacchetti accartocciati di sigarette ad alto concentrato di
nicotina.
Il cadavere rimase nel cesso per quasi tre giorni, il decesso venne
fatto risalire al venerdì, ma nonostante questo l’odore di nicotina
era nettamente più forte di quello della carcassa.
La leggenda della Tabachera vuole che sia riuscita a fumare circa
novanta sigarette in poco più di un ora per abbandonare questa arida
vita terrena e spirare via nel girone dei fumatori incalliti, avvolta
in una densa nube di fumo.
Morì per il troppo condensato e la grande di quantità di nicotina
inalata dopo aver accidentalmente appreso che suo marito era gay e
che non disdegnava la compagnia, rigorosamente a pagamento di
travestiti dalla vita un po’ insolita.
57
Le mie donne
Affianco agli ottanta mozziconi rinvenuti sul pavimento fu trovata
una foto di Barbara, che evidentemente non era sparita come pensavo.
Altri dieci monconi di sigaretta furono ritrovati galleggiare nel
water.
Declinai l’invito di Mark Renton direttamente da Trainspotting a
tuffarmici dentro; avrei di certo sbattuto nuovamente la mia povera
testa, e questa volta sull’asse del cesso, sicuramente sporca.
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Le mie donne
Stardust Sodomy (bang bang you're dead)
Stardust viveva in una cantina buia con un forte odore di erba e
incenso, c’erano molte candele in giro.
Vidi parecchia oggettistica fetish, ho anche ragione di credere che
si prostituisse.
Quello stesso giorno mi disse che l’eccitavo parecchio, ma che però
voleva godere senza toccarmi.
Mi chiesi quale fosse il mio ruolo.
Mi offrì una bottiglia di birra ghiacciata, che buttai giù in poche
sorsate.
Stardust era seduta su una poltrona di pelle nera, sgualcita in più
parti, mi guardava nuda, di profilo dinanzi a me, con le gambe
divaricate sopra i braccioli, la stanza era molto buia, intravedevo
la sua figura ma non i dettagli.
Sorseggiava dalla sua bottiglia, l’aveva quasi terminata, lo capivo
dal rumore che il liquido faceva dal fondo verso le sue labbra, più
lungo era il rumore del percorso, meno contenuto restava per
dissetarsi.
Accese un cero da cimitero, di quelli lunghi, con l’involucro rosso,
mentre si strusciava la bottiglia vuota in mezzo alle gambe.
Sempre di profilo l'osservai inarcare le spalle e buttare la testa
lucida all’indietro con una movenza felina, le sue gambe erano
piegate, il polpaccio destro era decorato con un tatuaggio
polinesiano, le cosce erano magre.
Ad un certo punto non vidi più la bottiglia.
Suppongo che l’Heinenken da 33 cl fosse stata inglobata dal suo
utero.
Sì, ne sono quasi completamente certa, Stardust era riuscita non so
come visto che avevo troppe domande senza risposta, ad infilarsi una
bottiglia di birra su, per intero, dentro le sue viscere.
Scappai.
Non volevo sapere più nulla.
Perché dovevo sempre fuggire?
Le gambe mi facevano male, erano gonfie.
Non sapevo dove scappare, mi bruciavano gli occhi.
Presi un tram al volo, non so dove mi stessi dirigendo.
Nel frattempo Josephine continuava a distrarmi dai miei pensieri, dai
miei ricordi, dal mio immaginario, e in più mi sembrava di ricevere
costantemente sguardi di disapprovazione pronti ad infilarsi nella
carne come delle larve in putrefazione, e non solo dai suoi occhi
59
Le mie donne
eccessivamente fuori misura, quasi fosse trasparente
perdersi in orizzonti più consoni alla mia percezione.
Ma questo era solo il mio distorto punto di vista.
il
doveroso
Guardando giù dalla mia finestra vedevo omini incravattati dirigersi
ordinatamente armati di badge di riconoscimento verso varchi troppo
sofisticati per i loro cervelli, infatti spesso sbattevano le loro
teste ben pettinate contro le porte a vetro.
Le ore scorrevano liete tra le curate aiuole di plastica e cambiare
scenario era per me un esigenza.
Ritornai quindi con la mente a Stardust, e a quel giorno quando mi
sodomizzò brutalmente con un fallo abbastanza massiccio, venoso, da
uomo bianco.
Accadde tutto molto velocemente nel suo cupo tugurio.
Mi aveva portato a casa sua dopo aver ballato per quasi tutta la
notte.
Sentii il rumore del profilattico che, una volta estratto dal suo
involucro veniva frettolosamente srotolato sul cazzo.
Mi accorsi che stava sputando, speravo che fosse un gesto per
lubrificarmi, invece credo che dovesse solo liberarsi di un mio
capello che gli era capitato in bocca.
A quattro zampe sul letto, con il volto verso il comodino, con una
cannuccia d’argento feci un tiro di cocaina al cherosene.
Contemporaneamente sentii la punta del cazzo farsi strada e in un
paio di colpi entrarmi nel culo, completamente.
Violentemente, Stardust pompava e sapevo che era in estasi.
Mi teneva per i fianchi e ritmicamente mi scopava.
Per qualche secondo non vidi più nulla, un dolore antico mi bruciava
dentro, la sentivo dentro nei miei intestini, la sentivo in pancia.
Iniziai a godere e ad accompagnare i suoi movimenti, in modo che il
cazzo non uscisse se non millimetricamente.
Ora seguivo il suo ritmo.
“…. You get me closer to God
You get me closer to God
I want to fuck you like an animal
I want to fuck you like an animal
.........
You let me violate you
You let me desecrate you
60
Le mie donne
You
You
You
You
You
You
I
I
I
I
let
let
let
let
let
let
want
want
want
want
me
me
me
me
me
me
to
to
to
to
penetrate you
complicate you
violate you
desecrate you
penetrate you
complicate you
fuck
fuck
fuck
fuck
you
you
you
you
like
like
like
like
an
an
an
an
animal
animal
animal
animal….”
“Closer” –Nine Inch Nails
Asia usava sempre il preservativo per motivi di igiene, sosteneva
inoltre che certi materiali potevano fare più male che bene.
Certo, spaccarmi il culo con un fallo in lattice, ma coperto da un
preservativo era sublime.
Si continuavo a godere, le pinzette di acciaio strette sui capezzoli
riflettevano la mia narice sanguinante.
Stardust continuava a pomparmi il culo, come se stesse gonfiando la
gomma di un furgone.
“Dai godi, piccola, ti piace… dimmelo”
No riuscivo a parlare, emettevo gemiti di dolore, di piacere, non
potevo rispondere ero oltre, non c’erano più verbi, frasi, ma solo
sensazioni di avere varcato la soglia.
Mi stava scopando come un animale, era dentro me, sentivo che mi
mordeva il collo emettendo suoni gutturali.
Godevo, e sanguinavo, sentii un liquido caldo passarmi in mezzo alle
natiche mentre il pezzo dei Dirty Pretty Things accompagnava il mio
sfacelo.
“ ...... Oh what did you expect?
Oh tell me what did you expect?
To lay it on my head
So is it all upon my head?
Bang bang you're dead
Oh Im so easily lead
Bang bang you're dead
61
Le mie donne
Put all the rumours to bed
Bang bang you're dead..."
Estrasse il cazzo dal mio corpo con un movimento secco buttandosi
all’indietro, dal contraccolpo caddi di faccia sul comodino,
naturalmente lo spigolo mi fece un buco nella fronte, fortunatamente
non molto profondo subito cicatrizzato dalla polvere rimasta, quella
non inalata.
Il riff della canzone sembrava dirmi che nonostante tutto ero ancora
viva.
Andai in bagno, anche questo illuminato con dei candelabri in ottone,
vi era una teca con struttura a matrioska, più parallelepipedi
incastonati uno dentro l’altro, con delle vedove nere e altri ragni
pelosi che si accoppiavano nervosamente.
Intravidi il mio volto nello specchio, che sembrava non essere il
mio, feci per urinare e un bruciore troppo doloroso mi fece quasi
svenire.
Sciacquai quindi le mie parti intime facendo scorrere sopra
dell’acqua gelata, quasi a voler bloccare il dolore.
Nella serata avrei dovuto andare a teatro con un paio di amiche, ma
il pensiero di dover stare seduta per più di due ore su quelle dure
poltroncine non era molto allettante.
Non avevo denaro contante, e dovevo andare in farmacia a comprare una
crema per emorroidi, sapendo che non avrei mai avuto nemmeno il
coraggio di chiederla, lo stesso timore che mi ha sempre impedito di
comprare i preservativi.
Ripensai nuovamente a Stardust ed entrai in un fornitissimo dildo
store.
Quella sera decisi che avrei ANALizzato nuovamente la situazione.
62
Le mie donne
63
Le mie donne
64
Le mie donne
indice
Il concerto di Sierra & Bianca (Everybody Wants To Go To
Japan)
5
Lady Ansia
13
Samantha V.
16
Asia Stardust
21
Agente Speciale Molko
26
Unique (G-SKY)
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Amiche, amanti e conoscenti
ossessiona)
(la solita storia che mi
33
Vulva Volant e Mr. Gucci (La Vie En Rose)
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Una cena (la presa della Bastiglia)
50
Barbara, la Tabachera e la mia povera Testa
52
Stardust Sodomy (bang bang you're dead)
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rumori dal fondo
contrappunto fiorito di gorgoglii intestinali
una boccata d' aria lunare
mulini a vento in fondo al mare
tappeti rossi al centro del sahara
impercettibili boati di essenza
scrivere qualcosa di sensato è arduo,
invece scrivere cose completamente prive di senso è arduo.
upstaris - inutili completamente storie
www.upstaris.org nasce nel duemilasei dalle mura di un
vecchio cantiere nautico ristrutturato per l'occasione.
diventa un condominio dove scrittori e non, possono
pubblicare i loro pensieri mettendoli sotto gli occhi di
tutti. senza vergogna.