Untitled - Premio Letterario "Federico Ghibaudo"
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo" anno 2009 - 15a edizione “L’INDICE” 1° premio poesia 2° premio poesia Giona Casiraghi Claudio Rendina 5a - H pag. 5a - B pag. 5 6 1° premio prosa 2° premio prosa Sveva Anchise Riccardo Galli 3a - A pag. 5a - F pag. 7 9 Premi giuria “ Davide Galbiati Emanuele Moioli Alessandro Boggiani Francesca Colombo Francesca Montanari 5a - G 5a - C 4a - B 4a - A 5a - A pag. pag. pag. pag. pag. 12 14 15 19 22 2a - F 1a - I 5a - F 2a - C 4a - H 5a - H 4a - H 3a - I 3a - I 3a - I 5a - G pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. 25 26 28 30 32 34 36 37 38 39 40 “ “ altri componimenti in ordine di presentazione: Beatrice Castellani Francesca Lucchese Fulvio Paleari Vanja Vasiljevic Marco Galli Massimiliano Corrubolo Lorenzo Raffaglio Fabio Grasso Igor Galbiati Giulio Vallone Michele Panzeri Premio Letterario "Federico Ghibaudo" anno 2009 - 15a edizione “ELENCO FINALISTI PRECEDENTI EDIZIONI” 1°Classificato 2° Classificato 3° Classificato 1995 Alexandra Bonfanti 2a F Loredana Lunadei 2a G Arianna Ferrario 1a G 1996 Martino Redaelli 4a A Elena Cattaneo 4a G Marika Pignatelli 3a C 1997 Niccolò Manzolini 4a A Matteo Pozzi 3a I Elena Cattaneo 5a G 1998 Lorenzo Piccolo 4a A Matteo Pozzi 4a I Lucia Gardenal 2a I 1999 Dacia dalla Libera 3a E Lorenzo Piccolo 5a D Vincenzo Calvaruso 3a H 2000 Giulia Pezzi 4a G Dacia dalla Libera 4a E Cristina Sanvito 4a D 2001 Tiziano Erriquez 4a D Giorgia di Tolle Chiara Grumelli 4a A 4a D 2002 1° Class. poesia 2° 1° Class. prosa 2° Alessandro Sala Federica Archieri Caterina Cenci Alessandro Dulbecco 4a H 5a L 4a H 3a C 2003 1° Class. poesia 2° 1° Class. prosa 2° Alesssandro Farsi Cristina Pozzi Alessandro Dulbecco Pietro Spinelli 5a E 3a D 4a C 4a B 2004 1° Class. poesia 2° 1° Class. prosa 2° Margherita Corradi Riccardo Tremolada Paola Molteni Pietro Spinelli 2a L 2a L 5a F 5a B 2005 1° Class. poesia 2° 1° Class. prosa 2° Margherita Corradi Paolo Marchiori Roberta Motter Veronica Merlo 3a G 2a F 3a G 3a G 2006 1° Class. poesia 2° 1° Class. prosa 2° Armando Petrella Andrea Guadagnino Veronica Merlo Gabriele Bambina 2a C 5a B 4a G 4a F 2007 1° Class. poesia 2° 1° Class. prosa 2° Gabriele Bambina Lorenzo Pasciutti Francesca Montanari Matteo Goggia 5a F 3a D 3a A 5a G 2008 1° Class. poesia 2° 1° Class. prosa 2° Lucca Cazzaniga Paolo Marchiori Lorenzo Pasciutti Alice Spreafico 5a E 5a F 4a D 5a H Concorso Letterario "Federico Ghibaudo" anno 2009 - 15a edizione “LA GIURIA” Lorenzo Pasciuti Federica Villa Chiara Bona Paolo Merati Stefano Sanfilippo Giacinto Lucarelli Elena Brambilla Marta Cassina Alberto Martinelli 5a - D 3a - C 3a - C 3a - A 4a - E 3a - E 5a - C 5a - C 5a - B “IL CONCORSO” Il concorso è riservato agli studenti del Liceo “Frisi” ed ha un grosso difetto, i vincitori ufficiali sono pochi, mentre ogni partecipante, che ha messo nero su bianco le sue idee, le sue esperienze, la sua fantasia, la sua anima, per farle conoscere agli altri, ogni partecipante, è un vincitore. Ma le regole consolidate per i concorsi, che sono poi le stesse che spingono a partecipare, richiedono una classifica che, per le innumerevoli varianti in campo, non potrà che essere imperfetta. I componimenti sono quelli originali, non è stato previsto nessun intervento sugli stessi da parte di nessuno, con l’obiettivo di non creare interferenze di nessun genere sulla spontaneità degli elaborati. Invitiamo pertanto ogni singolo lettore a trovare il SUO componimento preferito e a far suo lo stile ed il messaggio in esso contenuto. Questo concorso vuole infatti proporsi come punto di ritrovo, come un punto di confronto, una palestra per idee, sentimenti ed emozioni. “INTERNET” I testi di tutti i concorsi, dal primo fino all’attuale si possono trovare su internet al seguente indirizzo: http://www.premio-liceofrisi.it Concorso Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione “LA BIBLIOTECA” in biblioteca sono disponibili per la consultazione, i fascicoli delle precedenti edizioni del Concorso... ...oltre una copia dei seguenti libri premio: 1996 L’Alchimista Paulo Coelho - Bompiani 1997 Messaggio per un’aquila che si crede un pollo Istruzione di volo per aquile e polli Antony de Mello..-..Piemme 1998 Il viaggio di Theo Catherine Clèment - Longanesi 1999 Abbiate coraggio Francesco Alberini - 2000 Perchè credo in Colui che ha creato il mondo Antonio Zichicci - il Saggatore 2001 Il mondo di Sofia Jostein Gaarder - Longanesi 2002 Il tao della fisica Fritjof Capra - Adelphi 2003 L’universo in un guscio di noce Stephen Hawking - Mondadori 2004 Storia della Filosofia Moderna da Cartesio a Kant Luciano De Crescenzo - Mondadori 2005 Che cosa sappiamo della mente Vilayanur S.Ramachandran - Mondadori 2006 Menti curiose John Brockman - Codice Edizioni 2007 Alla ricerca delle coccole perdute Come diventare un buddha in cinque settimane 2008 Complessità 2009 L’io della mente Giulio Cesare Giacobbe - Ponte alle Grazie Morris Mitchell Waldrop - Instar Libri D.R.Hostadter e D.C.Dennet - Adelphi Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione Primo Classificato sez. poesia “SU UNA PANCHINA NEL PARCO” di Giona Casiraghi - 5a H Those who have crossed With direct eyes, to death’s other Kingdom Remember us –if at all- not as lost Violent souls, but only As the hollow men The stuffed men. Siediti Ora Apri gli occhi E osserva La vita Sfila fitta e Impacciata Camuffata Nell’uomo elegante Che sbraita composto Da un’auto ignara Di tutto Nascosta Nel volto contratto di Un bimbo che Grida A una vetrina Affranto Nella dama Sgargiante che Con mano Ferma Veloce Esperta Raccoglie La cacca del cane 5 Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione Secondo Classificato sez. poesia “MAUTHAUSEN, 6 MARZO 2009” di Claudio Rendina - 5a B Il Danubio in piena carico di lacrime li porta ancora Gli artigli protesi degli alberi chiedono ancora pietà per il troppo sangue Ancora li sentiamo nel silenzio di un gelo fitto che ci sommerge senza lamenti, non umani, sul lastricato di un’ultima doccia. Seduto su questa panchina spigolosa e fredda mi sento comodo e fortunato. Discant Viventes Mortuorum Sortem Nel campo di lavoro di Mauthausen furono ridotti in schiavitù e uccisi 103.000 individui. Le loro ceneri furono sparse nel Danubio, nei campi da concimare o utilizzate per fame sapone. 6 Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione Primo Classificato sez. prosa “PIETRA PIANGENTE” di Sveva Anchise - 3a A La notte era sempre più scura, meno sincera, più tetra e spaventosa. Ululati di cani in lontananza, fruscio di foglie schiacciate, lo sfrecciare veloce di macchine che vanno di fretta, luci di periferia che illuminano solo angoli lontani e lasciano che l’oscurità penetri in profondità, e lì solo il buio profondo. Inizialmente tutto quel distacco dal mondo esterno conferiva una certa pace, un senso di libertà, una sorta di privacy. Ma ora tutto mutava con una velocità tale da intimorire. L’esterno, l’estranio suscita angoscia, ansia, fobie incontrollate e insite nell’animo che mai si erano sospettate. Meno quattro gradi. Alle porte dell’inverno e già l’odore di freddo glaciale, di venti provenienti dal nord, il fumo che esce dalla bocca. Camminava lungo il ciglio della strada, a ridosso di un pallido muro di una villa ottocentesca; mp3 nelle orecchie, mani in tasca, cappuccio e sciarpa da coprire il viso, tuta e borsa da ginnastica. Irriconoscibile. Aveva tutte le sembianze di un giovanotto in età adolescenziale; peccato, che sotto i pesanti abiti si nascondeva una diciassettenne fragile, debole, carina e dagli occhioni grandi e verdi. Ignara del futuro, camminava a passo veloce in direzione nord; affannata, stanca, gote arrossate post partita, aveva solo il desiderio di buttarsi a capofitto in uno di quei piatti caldi del martedì sera a base di calorie. Si sentì stringere il collo, fu travolta da un senso di soffocamento: stava ansimando e aveva le lacrime agli occhi. Il secondo dopo fluttuava nell’aria, le mancò il terreno sotto i piedi: le braccia andavano a destra e sinistra, a penzoloni, come fosse una vecchia bambola. Aveva paura, una dannata paura. Le mancò la forza di gridare poiché la sciarpa di lana le bloccò le labbra. Spalancò gli occhi, non vedeva nient’altro che la strada scorrere veloce. Si trovò presso la porta buia d’entrata del parco cittadino quando riacquistò contatto con il suolo. Si voltò e guardò la paura in faccia: un ghigno maligno che la invitò a prestare silenzio, a non ribellarsi e ad ubbidire senza troppe storie; in tutto questo dalla tasca vide il luccichio di un coltello. Tacque. Camminava, piangeva, pregava il buon Dio di fare finire tutto in fretta. Si trovò a respirare l’umido fogliame senza rendersene conto. Una pietra grigia, dura. Un qualcosa di innaturale, ma che celava una propria forza: l’anima. Fu rivoltata; si trovò a guardare il cielo stellato. Poteva essere una bellissima sera, invece... Non riconobbe nulla, non distinse i tratti somatici del suo aggressore, ne ricordò solo l’odore e il sapore aspro. Era solita essere appoggio di anziani signori in passeggiata, coppiette innamorate che si scambiavano dolci effusioni; assumere le sembianze di un albero per i cani che correvano lungo il selciato, e invece ora era solo spettatrice. Una pessima spettatrice, poiché immobile e impossibilitata davanti alla scena. Chiuse gli occhi, sentì la zip del piumino scendere con foga. La zip della felpa scendere con più tranquillità; mani grandi e fredde insinuarsi sotto la sua maglietta rosea, accarezzarla con forza, stringerle i fianchi con avidità. La schiena le si ricoprì di brividi: 7 piangeva perché già sapeva. Le mani scesero, le slacciarono il fiocco dei pantaloni grandi e bluastri del fratello maggiore. Afferrò la terra, i sassi e il fogliame circostante e con forza lo scagliò davanti a sé. Ricevette in cambio uno schiaffo duro, deciso. Non ne aveva mai ricevuto uno neanche dai suoi genitori, era la prima volta. Era sempre stata protagonista, o almeno spalla di piacevoli scene; ricordava momenti felici. Portava sul dorso scritte di amicizie eterne, di amori infranti, di risa giovanili; conviveva con muschio e umido addosso, ma nulla l’aveva mai scossa. Ora era pietrificata, scandalizzata e obbligata ad osservare la scena che le si sviluppava davanti. Le mutandine pulite e candide toccarono il suolo ghiaioso e sassoso, si sporcarono. Aveva freddo, ma non era importante. I pantaloni le raggiunsero le caviglie e solo lì si rese veramente conto che stava per cambiare vita, essere segnata per sempre. Quello agiva con sicurezza, con fretta, soddisfazione, ansimava come fosse un lurido porco, forse lo era davvero, anzi, lo era. Era soddisfatto, ridacchiava cercando di non emettere troppi suoni. Le rivolse solo due parole: “Collabora, altrimenti...” Continuò a piangere; la frequenza delle lacrime che le solcavano le guance si intensificò; il collo era umidiccio, il sudore e la sua disperazione si unirono in un’unica sostanza. Contrariamente da quanto si era sempre sostenuto, anche lei aveva un’anima, una facoltà intellettiva, la capacità di intendere e volere, peccato che le mancasse il movimento; era vigile, pensante, realizzava quello che le accadeva intorno e se ne faceva un’idea. Ora era terrorizzata, si auto-colpevolizzava perché non poteva agire, intervenire, porre fine a questo strazio. Assorta nelle sue considerazioni su quello schifoso uomo che le si trovava di fronte, si accorse del mutamento di scena: la ragazza fu posta sopra la panchina, non si muoveva, era agghiacciata. Sentì il suo debole peso sul suo dorso, l’avrebbe voluta inglobare per non farle subire nulla di tutto ciò, ma non ci riuscì. L’uomo le strappò via l’intimo e con una fragorosa risata si slacciò i pantaloni, li calò fino alle ginocchia; guardò gli occhioni verdi gonfi di lacrime. Il buio celava la nota di sdegno e paura che avvolgeva il volto della ragazza; le sorrise. Abbassò anche i boxer; le si avvicinò, le annusò il collo, i loro odori si mischiarono; le diede uno sporco bacio sulle candide labbra. Sorrise e le cinse i fianchi con rabbia. Si dimenò, cercò di risparmiarsi tale orrore, tale pena; non voleva essere succube di un uomo che neanche conosceva, subirne l’abuso. Non poté fare nulla. Sebbene utilizzò tutta la forza che aveva nel corpo per scappare, lui le immobilizzò le mani e le diede un morso tra il lobo e la mascella. Gli puzzava l’alito. Le sussurrò all’orecchio di non muoversi nuovamente se no sapeva a cosa sarebbe andata in contro, e abusò di lei. Penetrò il suo sesso, si impossessò della sua verginità e le diede il ben servito lasciandola sconvolta su quella panchina. La fredda pietra ascoltò tutto senza poter opporre resistenza: sentì il dimenarsi continuo, vario, della ragazza; i suoi gemiti di dolore, le sue urla soffocate nel nulla, le sue unghie grattare sulla roccia ruvida. Udì i gemiti di piacere di quel porco, la sua soddisfazione. Sentì la ragazza caderle addosso stremata; assorbì le sue lacrime, sebbene tutti la considerassero impermeabile. Fece compagnia al respiro nervoso, poco scandito, troppo frequente dell’adolescente; sentì la sua mano digitare i tasti del cellulare, la sua disperazione penetrarle internamente. Assistette all’arrivo della madre, mentre lontano nell’ombra l’uomo si godeva la scena soddisfatta. Fu felice di essere il sostegno di un abbraccio materno, ma fu anche schifata di essere stata il luogo di una violenza, il suo punto di appoggio. Si ricredette sulla sua funzione positiva, a fine benefico. Esaminò che quella notte era stata solamente un oggetto che qualcuno avrebbe ricordato per sempre per il male che aveva subito. Si rese conto che sebbene fosse solo una panchina stava piangendo. 8 Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione Secondo Classificato sez. prosa “ALLE QUATTRO DA QUALCHE PARTE A LINCOLN PARK” di Riccardo Galli - 5a F Tutto il movimento è compiuto in sei passi, e il settimo porta il ritorno. Perché il sette è il numero della giovane luce, si forma quando l’oscurità viene aumentate di uno. Pink Floyd, Chapter 24 C’era una volta, a Lincoln Park, una panchina. A dir la verità, ce n’erano tante, ma era una sola quella cercavo. Affrettai il passo, le scarpe slittavano nel terriccio lubrificato dalle dolci piogge d’aprile, che penetrano la siccità alla radice. E la pazienza, anche: l’acqua pareva frugare ogni centimetro del mio pastrano stile Tenente Colombo; cercava uno spiraglio, un’apertura, una serratura nel tessuto impermeabile con curiosità, astuzia, paziente frenesia. Come un destriero aumenta la propria velocità ad ogni colpo di sprone, così ogni singola goccia allungava le mie falcate. Il sentiero era una ferita di terra battuta nel corpo della pineta. Le conifere, il verde dei loro mantelli reso cupo dal fitto tendaggio di nubi, si fondevano le une nelle altre al mio veloce passaggio; nella luce cinerina divenivano una volta che confinava il mio passare. L’acqua cadeva a piccole gocce e cantava quando incontrava il tetto d’aghi che copre la cattedrale silvana. La sua canzone parlava di fiori che nascono, alberi che vivono e inverni che muoiono, era un incantesimo che filtrava in ogni più remota fibra del mio corpo. Le gambe mi si fecero più leggere, il respiro più facile, mi scoprii a correre senza sapere quando avessi cominciato. Avrei potuto continuare per ore: gli aironi cavalcano il vento, i delfini cavalcano le onde, io cavalcavo la pioggia. La navata silvestre s’interruppe bruscamente quando giunsi ad un piccola radura dominata da un albero maestoso, vecchio forse tanto quanto la terra in cui affondava le sue radici. Al suo cospetto, l’acqua cambiò voce e l’incanto finì. Entrai nell’abbraccio verde scuro, schivando le dita nodose del vecchio pino.”Vecchio cieco! Non mi riconosci più dal mio passo? Hai bisogno di tastare la mia pelle con i tuoi polpastrelli, di passare le mie ossa sotto le tue mani? Sai che non posso permettertelo: il mio cappotto è nuovo di zecca.” Una sgangherata panchina di legno, vestita d’edera soltanto a metà, offriva ristoro ai pochi viandanti che s’avventurassero in quelle terre. Stava là, accoccolata tra i piedi del Pino come un cucciolo tra le zampe della madre. Parve chiamare il mio nome, e mi sedetti senza indugio. “Non mi riconosci dunque più, vecchio mio?” Dong! Il campanile della chiesa di S. Giovanni batté un colpo. Il rintocco, uno dei Quattro Araldi del Mezzo Pomeriggio, arrivò inaspettato, pellegrino giunto da lidi lontani molti e molti passi da quella contrada. “Quali nuove dalla Cattedrale, o Primo Araldo di Mezzo Pomeriggio? Forse ti manda Padre Tempo ad annunciare che il momento è giunto?” “Già sapete la risposta, messere. Presto arriveranno anche gli altri miei fratelli”. “Sono le quattro in punto, dunque. La mia bella dama senza pietà ancora non si vede. Forse teme che le carezze della pioggia siano troppo rudi? Forse che qualche Arcana Influenza la tiene segregata nelle sue stanze?” 9 “Ricordi almeno lei, vecchio pino? Di lei ti ricordi? Ricordi quando gli inverni passavano veloci e amavi indossare uno scialle di neve? Il sole correva nel segno dell’Acquario, e i merli non ti allietavano con i loro ritornelli, troppo impegnati a cercarsi un rifugio fra i comignoli. Era lei, lei sola che danzava per te in questa radura, e il suo riso bastava a dissetare il tuo cuore inaridito dal gelo e dagli anni. Allora ti riempisti avido gli occhi del bagliore falbo delle sue chiome, non vorrai dirmi che l’hai dimenticata?” “Taci, folle innamorato, non sai di che parli! Giusto è il nome che le hai dato, bella dama senza pietà! Bella è davvero, ma la sua stretta è forte, e non lascia scampo. Banshee la chiamo io: gaio è il suo riso, ma terribile e latore d’angoscia! Sventurato chi lo ascolta! Me misero! I secoli sono scivolati su questa mia antica corteccia senza intaccarla, ho visto la tua stolta razza strisciare nel fango per molte decadi prima che levasse il capo e sottomettesse noi, i Primogeniti. Molte asce si sono smussate cercando di ferirmi, e ora la mia dipartita è stata annunciata da una fanciulla!” La voce dell’Antico sorgeva ruvida, potente e minacciosa come il tuono. “Ma che vai dicendo, temo che tu...” Dong! Il Secondo degli Araldi rintoccò. “The time is nigh, milord”. “Quando il terzo dei Quattro Fratelli avrà bussato, Colei Che Tutto Miete verrà a prendermi. Zitto ora, già sento il suo passo. Devo vestirmi per il mio funerale.” L’aria si fece più cupa, come se un etere malvagio l’avesse appestata. Un’aura sacrilega emanava dalle fronde del pino, una ragnatela di emozioni profonde quanto le fondamenta del mondo. Dei fungacci biancastri che allignavano fra le forre più oscure delle radici dell’Antico s’accesero d’una luminescenza sinistra. Mi levai di scatto dalla panchina, le cui assi, malferme sui chiodi rosi dalla ruggine erano troppo simili ad un ghigno sgangherato. La poggia aveva smesso di cadere, e un sudario di fitta caligine vorticava attorno all’albero. I Lupi del Vento presero ad ululare tra i rami del pino, ma non sembravano capaci di scacciare la nebbia. Esitante, mi voltai a guardare il vecchio: quel poco di tronco che potevo vedere era nero come un obelisco di ossidiana, e i bassorilievi d’edera si erano brunite. Parevano rivoli di sangue rappreso. “Che fai vecchio?! Conosco la mia bella! Non è lei quella che temi! Presto verrà, e se l’accogli così, fuggirà via!” “Sciocco, allora ha ammaliato anche te! Io l’ho vista errare tra i miei fratelli alla luce delle stelle, e ogni volta che il suo riso echeggiava nel bosco, uno di loro mancava all’appello. Già troppe volte ha danzato per me: sono io il prossimo!” Un brivido camminò lento lungo tutta la mia schiena. Dong! Trasalii. Il terzo dei Quattro Fratelli giunse e passò, taciturno. Ebbi l’impulso di nascondermi, ma una volontà sconosciuta mi costrinse a torcere il collo. Fronteggiavo la nebbia, un esercito di fantasmi bianchi che inghiottivano ogni sospiro. Poi un canto come di sirena rimbalzò tra i vapori e approdò fino a me. Non potevo muovere un solo muscolo; i miei occhi erano spalancati e le mie orecchie tese. Sentivo ogni singolo ago fremere, mentre sfiorava il mio volto tremando d’impazienza e timore. La nebbia s’aperse lentamente come una conchiglia, e una figura si fece avanti. Era una donna, avvolta in candide vesti svolazzanti. Aveva capelli d’una luminosità abbagliante nel grigiore della radura, e il suo volto snello era la più bella perla ch’avessi mai visto. Eppure, qualcosa non andava. Me ne accorsi quando entrò nel cerchio tracciato dai rami del pino, passando attraverso le difese del vecchio come se nulla fosse. Il suo volto era troppo scarno, la pelle eburnea tirata oltremodo sul teschio affilato. “B-banshee...” M’inchiodò sul volto due occhi profondi e scuri come il cielo a mezzanotte. Sorrise un momento, annuì, poi mi oltrepassò. Tese la mano verso l’Antico, e fece scorrere l’indice in verticale sulla corteccia, dall’alto verso il basso. “Vieni amico, è il momento.” 10 “No! No. No...” “Tutta la tua vita hai desiderato vedere oltre quest’orizzonte. Per secoli hai invidiato gli effimeri umani, che nella loro miseria e nella loro follia potevano giungere anche più lontano dei tuoi aghi trascinati via dal vento dell’Est.” “Ma... io...” La voce del vecchio era già addolcita. “Ora saprai dove dorme il sole, berrai direttamente dal vaso l’acqua che finora ti è stata versata a piccole gocce, incontrerai le foglie di quercia trapassate in autunno e danzerai con loro. Vieni” L’ultima parola fu pronunciata come un comando, un ordine secco e dolce come il legno di salice. Dove la donna aveva posato il dito, s’apri una fessura nella corteccia. Ben presto s’allargò, divenendo uno stretto pertugio. Ne uscì una mano. La Dama in Bianco la prese con delicatezza, e tirando piano aiutò un vecchio ad uscire dal tronco del pino. Era ancora vigoroso, ma quel poco di volto che trapelava sotto una folta barba canuta era solcato da una trama di rughe, tessute da Padre Tempo in persona. I due si sorrisero, poi procedettero mano nella mano fino al limitare della nebbia. Lì la donna s’arrestò, mentre il vegliardo proseguì senza voltarsi. Dong! Il quarto Araldo giunse, portando con sé un raggio di sole. “Ecco il mio dono -disse- Il momento è passato”. Alla luce del Mezzo pomeriggio, la bruma si dissolse più in fretta che se fosse stata tenebra. La banshee si trasformò allora: il bagliore delle sue chiome da bianco accecante si fece dorato. Il colore tornò sulle sue guance. “Mia dama, finalmente sei giunta” “Puff... ho fatto una corsa... avevo la sciarpa che mi svolazzava dietro...” “Grazie per aver fatto coraggio al vecchio pino. Non ci sarei mai riuscito da me.” “Ma che dici? Non capisco, sono appena arrivata... E da quand’è che mi chiami dama? Meno male che c’è sta panchina, devo prendere fiato un attimo”. Sedutasi, rise forte, e spazzò via le ombre tra i rami del pino trapassato. I suoi occhi erano profondi e scuri come il cielo stellato a mezzanotte. Era bella come l’avevo spesso immaginata, come non l’avevo vista mai. 11 Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione Premio Speciale Giuria “LA GENTE CON LE GAMBE PIEGATE” di Davide Galbiati - 5a G Vedere passare, subire, osservare, Passiva Odissea presso un floreo mare. Racconti e pensieri di varie giornate Mi affidan la gente dalle gambe piegate. Parole d’amore, di rabbia e pazzia Oppure soltanto muta malinconia, O goliardiche scritte di effimera età lo scorgo e raccolgo con immobil maestà: - Il Corridore Ritmico suono di suole sportive Rompe il silenzio della rugiada; Si ferma, mi guarda, gambe già attive Per porsi al ciglio della solita strada. E dopo un sereno ma ratto ristoro Si alza e riparte col ritmico coro. -Il Vecchio Sospiro sommesso del parco attempato Richiama memorie di passato e presente, Del vispo nipote o di quand’ero assente, Di tutto il tempo che il Fato gli ha dato. Raccoglie il bastone, la schiena ancor china, Mi lascia e non sa se avrà un’altra mattina. -L’Impiegato Coll’Astro di Apollo, alto Pallone, Del cotto e fontina assaggio l’odore Sull’abito grigio, nervoso cotone, La vita racchiusa nella Ventiquattrore. Le briciole libere sento ormai sole, E’ tornato al dovere senza troppe parole. -La Coppietta Il caldo fogliame di querce autunnali Circonda l’amore con lieto rossore, Sognando e parlando di anelli speciali, Di figli, di vita, di dorate ore. Commossa io guardo la coppia di schiene, Fusione di parti e mielosa speme. -La Mamma e il Bambino La madre si siede e l’angelo gioca, Ad una gli affanni e l’altro il candore 12 Della prima metà del decennio migliore Dove “malvagio” è parola fioca. Poi se ne vanno e due son certezze: Lui le deve la vita e riceve carezze. -Gli Adolescenti Ombre vivaci, voci lascive, Azioni sconnesse ed alcoliche risa Si alternano a rabbia, occhiate furtive D’inquiete paure di vita concisa. Ceneri, sputi, rotte verdi bottiglie, Sera passata tra mere quisquilie. -Il Clochard L’amaro del mondo misto a vinaccia Tra il freddo del buio fiacco arranca; Il gelo nell’occhio, stanchezza nell’anca, Aspro devasto su pallida faccia. Notizie e problemi gli fan da coperta, lo scomodo letto in una camera aperta. Tavolozza d’idee, di sguardi, di sensi, Il tempo dipinge senza avere consensi. lo muto epicentro per miste persone, Pianeti pensanti in rivoluzione Lunga anche solo una corta giornata Che inizia da poco, da un’ombra calata. Proprio nel mentre il Barbone s’inquieta, Fra poco si alza, ritorna l’Atleta. 13 Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione Premio Speciale Giuria “L’IMPORTANZA DELLA PANCHINA LUNGA” di Emanuele Moioli - 5a C Centoventi partite in un lampo senza mai calcare il campo sempre seduto, sempre in panca, ma non muovere un muscolo stanca. L’ho domandato al mio allenatore, che mi ha risposto mal celando un pallore - vedrai, comunque tu la ponga, capirai l’importanza della panchina lunga-. Ero un giovane a cui piaceva giocare, proprio all’inter dovevo capitare! Finché un giorno -io non so comecaddi nella fossa dell’allenatore proprio lì ov’era la panca senza poter spostare la gamba. Allor mi sovvenne la parola di Dunga è forse questa l’importanza della panchina lunga? Subito fui portato, non a passo lento da un medico che dicevano essere un portento. Quello prescrisse: -ahi, ahi, caro giocatore questa frattura le procurerà un gran dolore, con un apposito strumento potrà tenere il gambone sollevato a suo piacerecosì finalmente, seppur il gesso ancor mi punga ho capito l’importanza della panchina lunga. 14 Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione Premio Speciale Giuria “SENZA” di Alessandro Boggiani - 4a B Perché non vedeva niente? Aveva sentito dire che quando si muore si rivede tutta la propria vita, come un film di cui sei stato regista inconsapevole. E invece nulla. Provò a rifletterci: forse era perché la storia dei suoi 75 anni di vita era stata una storia di nessuno, vuota, priva di significati, intrisa di stereotipi giovanili, di luoghi comuni adulti e di vecchia tv spazzatura. Era un film piuttosto bruttino, in effetti. Ma se lui era il regista, com’è che non poteva cambiare il fiale o l’inizio o tutto? Non poteva cancellare nemmeno cancellare la morte di suo padre, o il fatto di non aver mai chiesto a Cristina di sposarlo. Beh, ad ogni modo, ora il film stava finendo. Luce in sala! Non è giornata. Fu il primo pensiero dell’ispettore Calleri, quando sentì una sirena avvicinarsi e due colpi di clacson. Si affacciò. “Ispettore sono l’agente Boschi, per ordine del commissario la devo accompagnare in un paesino qua poco lontano” “C’è la fiera dell’agricoltura?” “No, veramente c’è stato un omicidio.” “Ma non potevate avvisare al telefono?” “Era staccato” “E tu non potevi citofonare? Ti sto urlando dal quarto piano, se non te sei accorto” “Temevo di disturbare” Calleri prese un pesante fermacarte in marmo e se lo girò pericolosamente tra le mani, calcolando a che velocità poteva arrivare sull’agente e quanti giorni di prognosi poteva riservargli. Si limitò ad un: “Arrivo”. Girandosi, inciampò sul gatto che schizzò via, rimbalzò sulla Stratocaster e atterrò su un cartone di pizza. Tutto ciò gli diede lo spunto per guardare il disfacimento in cui versava casa sua. Si chiese se dovesse mettere a posto e si diede la solita risposta, tratta dai Simpson: “Non può farlo qualcun altro?” Odiò immediatamente quel maledetto paesello. Erano le classiche quattro strade affacciate sulla provinciale, con case popolari, scuola elementare e frotte di adolescenti che al sabato sera prendevano i loro fottuti motorini e smarmittando andavano nel grosso centro urbano più vicino a sballarsi. Tristezza fu la prima parola che gli venne in mente. Gli agenti della mobile, già sul posto, lo accompagnarono al sesto piano. “La vittima abitava all’ultimo” Contò e ricontò, con la sua ottima memoria fotografica, i balconi della casa vista da fuori: “Il settimo è il piano fantasma?” “No, ma per un difetto di costruzione della casa, l’ascensore non ci arriva” “Ma, a proposito, perché ce ne occupiamo noi? Questo paese non ce l’ha una locale?” “Hanno chiuso il commissariato per mancanza di fondi. Al suo posto c’è un night club.” Osservò le scale che dal sesto raggiungevano l’ “attico”. Una chiazza scura si era formata e rappresa nel mini pianerottolo tra le rampe. Era una schifosa pozza nera e maleodorante che sembrava poter inghiottire tutto ciò che le passava vicino, compresi i suoni, le voci. Prima di fermarsi, il sangue aveva tracciato una sottile linea sui gradini, quasi segnando il passo. Come se il suo colore nero volesse stabilire la propria superiorità sul candore del marmo delle scale. Nero e bianco. Vita e morte. Ammirando questa dicotomia delle scale, Calleri rischiò di inciampare in un contrassegno della scientifica. Arrivò in cima alle scale e vide il corpo. 15 Accasciato. Supino. Una mano pendeva sul primo gradino. Lo sguardo era tetro, vacuo, rivolto verso il nulla in cui ora quell’uomo si trovava, eppure c’era una nota di delusione, come di aspettative infrante, di promesse non mantenute. Entrò nell’appartamento che, osservò con un leggero cinismo, riusciva ad essere più disordinato del suo, e vide gli uomini della scientifica al lavoro. Si soffermò con particolare attenzione sulla dott.ssa Mancucci che, approfittando della giornata calda, indossava un decolté da salti di gioia. Aveva sempre riso a vedere quei telefilm in cui sulla scena del crimine si lavorava il tute da Apollo 13, per poi assistere all’arrivo dell’eroico ispettore in jeans e maglietta che rovinava quel paradiso di igiene, toccando qualsiasi cosa. Si fece strada nel bilocale. Un grosso lampadario era a pelle di leone sul pavimento dell’ingresso, alla fine del quale, con un mortifero dislivello in cui Calleri rischiò gli incisivi, cominciava la moquette, ornata qua e là da gocce perIate. Sangue, probabilmente. Alla parete, una riproduzione della “Persistenza della memoria” di Dalì con sotto scritto Renè Magritte ed una libreria su cui troneggiava, fiero e solitario signore della polvere, un “I Promessi Sposi” che probabilmente non conosceva lettore alcuno da circa 50 anni. Nel corridoio quella che doveva essere una cassapanca era ridotta ad un cumulo di stuzzicadenti. Venne dissuaso dall’entrare in cucina dall’odore che ne fuoriusciva. Un misto acre di aglio, frutta andata a male, vino vecchio e detersivo per piatti che avrebbe potuto affrontare solo raggiungendo la pace spirituale di un monaco buddista. La parte più interessante era sicuramente il salotto. La televisione era accesa e mostrava un giornalista o presunto tale mentre spiegava che la crisi era colpa dei comunisti che non spendevano e si faceva bello con i dati di vendita del suo giornale, da cui i comunisti stavano fortunatamente alla larga. Spense istintivamente, quando quello iniziava a dire che gli immigrati andrebbero rimandati tutti al loro paese sui cammelli. Al collega della scientifica che lo accusò di aver inquinato la scena del crimine, tirò dietro il telecomando, che misteriosamente non si ruppe. I cassetti del mastodontico mobile sulla parete di fronte alla porta erano stati tutti aperti e frugati con cura. Lo dimostrava il fatto che per terra la moquette era coperta da qualsiasi oggetto si possa nelle ante di un mobile. Riviste, tappi, elastici, pile, forchette, fogli. Una micro cassaforte da due soldi era stata forzata ed era vuota, salvo qualche lettera ad una certa Cristina, e foto di una donna. Quella Cristina, evidentemente. C’erano anche, sparse sul pavimento, alcune azioni di una società fallita due anni prima, ma il cui amministratore, finanziere con l’hobby delle candidature, era stato giudicato innocente da un giudice poi misteriosamente entrato in politica dalla stessa parte dell’imputato, ed ora se la spassava chissà dove, con ancora in tasca i soldi di tutti quei piccoli risparmiatori che aveva truffato. Calleri si affacciò al finestrone principale, che non aveva balcone. Vide un altro classico topos di quei paesini della Brianza. Il giardinetto, dove i piccoli giocano, i giovani si atteggiano, gli adulti portano a spasso il cane e altre terrificanti banalità del genere, suddivise per classi di nascita. Quel giardinetto aveva una sola panchina. Verde, di legno, doveva avere qualche anno. Molto probabilmente era il luogo di ritrovo dei sopraccitati adolescenti, quando uscivano dalle loro case fatte di liti familiari, di computer-dipendenza e di reality shows. Ad ogni modo, la panchina, si vedeva dal settimo piano, aveva un’asse rotta. Questo fatto e l’improvviso arrivo della Polizia, che aveva destato quel paese dormiente dal suo menefreghistico torpore, facevano sì che al momento non ci fosse seduto nessuno. Quella vista lo incuriosì. Chissà quante storie aveva da raccontare quella panchina, chissà quante ne aveva sentite. Si riprese dai suoi pensieri e si tolse un sorrisetto ebete quando sentì un’angelica voce che lo chiamava dall’interno. “Ci sono molti segni di colluttazione, Fabio...” cominciò la Mancucci senza che lui riuscisse ad ascoltarla “...e la porta è stata forzata, riteniamo che la vittima abbia scoperto che un ladro si era introdotto...” era inutile, si distraeva troppo. Eppure le labbra si muovevano; “...ma ci sono un paio di grosse questioni da appurare...” “Due grosse questioni” ripeté lui meccanicamente, con lo sguardo fisso di chi non ha nulla da esprimere se non ammirazione. “Ma mi stai ascoltando?” “Eh? Ah sì, certo naturalmente. Come si chiamava la vittima?” 16 “Oliviero Mazzoleni, ex impiegato al catasto, ex soldato semplice nella seconda guerra mondiale, ex…” “Sì, ma adesso cosa faceva?” chiese l’ispettore alla solerte portinaia, che da come aveva cominciato sembrava sapere vita morte e miracoli di tutti gli abitanti della palazzina. “La vita del pensionato.” Espressione che alla lettera significava: un cazzo. “Cioè?” si informò Calleri. “Mah, le solite cose che fanno questi anziani. Si alzava presto la mattina, andava a comprare il pane e il giornale, commentava gli scavi. Certo che dopo i 70 anni la vita dev’essere noiosa” Lui la guardò come una mucca potrebbe fissare un Picasso. O li portava male o lei ne aveva più di ottanta. Decise di lasciar perdere. “Parenti? Amici?” “Era un solitario. Solo un cugino di terzo grado si presentava, ogni tanto. Una cosa strana c’era però.” Si sentì rasserenato. Tutti hanno qualcosa che non va, secondo qualcuno. Una persona normale a questo mondo sarebbe un evento. E bisognerebbe anche discutere sul concetto di normale. Lasciata perdere 2. “Ogni giorno, per almeno un paio d’ore negli ultimi dieci anni, si fermava su quella panchina lì fuori e le parlava” “A chi?” “Ma come a chi, ispettore? Alla panchina.” “Certo, scemo io a non pensarci.” “Come scusi?” “Niente, vada avanti...” sentenziò disperato. Si sentiva in una commedia di Ionesco, quelle dove capita di tutto, ma non succede assolutamente niente. “Le raccontava tutto quello che era successo, le sue lamentele, le sue speranze, i suoi sentimenti. Che gran ridere si facevano... Credo fosse anche convinto che la panchina gli rispondesse. Oggi però non è andato, la panchina è rotta. È per questo che è tornato a casa prima. Pensi che sfortuna: è la prima volta che si rompe in 20 anni che è lì.” Puoi anche alzarti presto, ma il tuo destino si è già svegliato un’ora prima. Filosofia da baraccone. La ramanzina che gli fece il commissario, sul fatto che quell’inchiesta andasse chiusa in fretta, fu inutile. Tre giorni dopo, arrestarono un certo Florian Sofianu, idraulico romeno di 22 anni. Non aveva certo un aspetto rassicurate, e il pugno che tirò alle pareti dello studio di Calleri entrandoci non deponeva a suo favore. Fece tra l’altro crollare un quadro con doppia foto di Tupac Shakur e Fabrizio De Andrè che l’ispettore teneva vicino a quella del Presidente della Repubblica, con sotto la scritta: “Poeti”. Ad ogni modo, l’assassino non era certo un animale. Era stato chiamato dal Mazzoleni perché il lavandino perdeva. Come confessò, aveva cercato di arrotondare lo stipendio da fame che gli dava la sua agenzia, arraffando qualcosa. Ma era stato sorpreso dal ritorno della vittima, che lo aveva aggredito, dandogli dello “Sporco zingaro”. L’ispettore non se ne stupì: “L’insulto razzista sta diventando la sport nazionale”. C’era stata una colluttazione, in cui lui aveva colpito il vecchietto, tutt’altro che indebolito dall’età, per difendersi. Ma aveva calcolato male la forza. Quello era barcollato fuori dall’appartamento, salvo poi crollare esanime. L’inchiesta era chiusa. Ma c’era da affrontare qualcosa di più difficile. Già quando avevano arrestato il colpevole, una folla inferocita aveva cercato di linciarlo, gridando di tutto, lanciando ombrelli, uova e minacce. L’ispettore e i suoi uomini avevano faticato non poco a tenere ferma la gente, che cercava in tutti i modi di raggiungere quel capro espiatorio. Probabilmente, nessuno di loro sapeva nemmeno che faccia avesse la vittima. Il giorno immediatamente successivo poi, colmo di sfiga. era il giorno di uscita dei più importanti settimanali di cronaca locale, che subito titolarono contro “Il mostro”, definendolo un sanguinario assassino, che sarebbe stato presto rimesso. in libertà dallo”scandaloso garantismo che si usa verso negri, ebrei, zingari o messicani”. Volgarissima citazione, tra l’altro, di Full Metal Jacket. Nell’originale, osservò Calleri, al posto di zingari c’era “italiani”. Chi era il mostro? Questo avrebbe voluto chiedere a tutte quelle persone. Era quel poveraccio, o il suo datore di lavoro, noto picchiatore di prostitute, che lo pagava due soldi? 17 Avrebbe avuto voglia di spaccare tutto. In momenti come quelli lo assaliva una rabbia primordiale. Viveva in un paese senza. Qualche giorno dopo, tornò sul luogo del delitto, per togliere i sigilli. Osservò la panchina, nel frattempo riparata. Ebbe un flash. Gli capitava ogni tanto di fermarsi su un oggetto e cominciare a pensare a 200 all’ora. Durante l’indagine, avevano scoperto l’identità di Cristina, la donna amata dal Mazzoleni. Era morta 10 anni prima. Ammazzata. E lui da 10 anni parlava con la panchina. Chissà, forse aveva letto della sua morte su quella panchina. Su quella aveva versato le ultime lacrime di una vita apatica e vuota, riempita da un amore, forse impossibile, sicuramente finito. E da allora aveva cercato di far rivivere l’immagine di lei, semplicemente ergendo la panchina a sacrario dell’amata, parlandole, pregandola. Le aveva confessato tutto, come tra veri innamorati. E allora forse la panchina gli rispondeva davvero. Nella sua testa ovviamente. O no? Chi lo sa forse la panchina, ogni volta che lui l’abbandonava, meditava di liberarsene per sempre. E allora, proprio quel giorno, aveva deciso di rompersi. Dopo 20 anni di onorato servizio. Una panchina vendicativa? Era una stronzata, ma Calleri si sorprese ad allontanarsi di qualche passo. Chissà cosa aveva pensato il povero Oliviero vedendo un altro amore spezzato. Tornato a casa, quando si era accorto che Sofianu aveva aperto la cassaforte, gli si era gettato addosso, per paura che portasse via gli ultimi ricordi del suo primo amore, rivissuto su una panchina. Calleri chiuse gli occhi dietro ai Ray Ban e si ripropose di cercare uno psicanalista sulle pagine gialle. E il folle mondo va avanti rotolando. 18 Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione Premio Speciale Giuria “LA PANCHINA” di Francesca Colombo - 4a A Arrivò, ed era una giornata umida, e uggiosa. C’era un’aria fredda, per essere il principio di primavera, e i nuvoloni grigi si stendevano sul cielo plumbeo come gomitoli di lana infagottati l’uno sull’altro. La vidi barcollare da lontano, un’enorme pachiderma dondolante sui fianchi, spalle strette, girovita enorme. Nemmeno l’abbigliamento era stato scelto con intelligenza: colori opachi e tessuti aderenti, l’assurda pretesa di uniformarsi alla moda corrente. Dentro di me, trattenni una risata sadica. La moda è fatta per gente in forma. Mentre si faceva più vicina, tuttavia, potevo scorgere il sorriso dipinto sulle labbra a canotto, di un rosso acceso, e provai un misto di tenerezza e comprensione, per quella piccola pachiderma che camminava felice. Si, era felice. Lo si notava dall’andatura serafica con cui procedeva, come se non avesse la minima fretta, il ritmo nell’oscillare le braccia, la testa alta e fiera, Lo si notava per come trascinava con fatica una borsa a tracolla che, appoggiata alla coscia informe, impediva il movimento più di quanto la notevole stazza non facesse già; eppure, c’era un tentativo di sinuosità in quella camminata, e anche da quello si vedeva che era felice. Non saprei dire che cosa mi facesse più pena: forse quella dentatura ingiallita e sbilenca, quel sudiciume sul collo, o i rotoloni di grasso che ballavano sul ventre, o quelle pustole brufolose che le macchiavano il viso. Ma più mi s’avvicinava e più mi riusciva difficile disprezzarla. Quando mi fu ormai vicinissima, percepivo anche il respiro affannato e irregolare di chi ha compiuto uno sforzo immane, invece aveva solo passeggiato per poche centinaia di metri, suppongo. Si fermò prima di sedersi per riprendere fiato. Un’enorme cerchio di sudore si estendeva a macchia d’olio sotto l’ascella, e ne ero certo, presto avrebbe iniziato a diffondersi un odore sgradevole; ma si vedeva che quella piccola donna, come sempre, era felice. Tenera. Non so cosa ci trovasse di bello nel venire tutti i giorni, alla stessa ora, nella stessa panchina scrostata di quell’angolo trascurato del parco, non so per quale ragione si sedesse a fissare alberi, prati, bambini che muovevano i primi passi sotto lo sguardo ansioso dei nonni che li rincorrevano, e leggesse per ore e ore in silenzio. Di solito si sedeva dalla parte sinistra, spalmando le sue chiappe lardose su di me e appoggiando la schiena ingobbita dal grasso che si portava dietro. Si agitava per qualche minuto in cerca della posizione più comoda, oscillava i glutei flaccidi, allargava le braccia, incrociava le gambe, le stendeva, le rannicchiava, finché tirava fuori l’ultimo romanzo commerciale (rosa, generalmente) e la sentivi sospirare per una buona mezz’ora, e si perdeva silenziosa nella lettura. Poi si stancava, chiudeva il libro, si guardava attorno, e così era tutti i giorni, tutte le settimane, tutti i mesi. Tempo permettendo, chiaramente. Non sapevo come si chiamasse. Non sapevo se avesse una famiglia (ma presumo, oggettivamente, di no), né sapevo da dove venisse. Nonostante questo, era la mia migliore amica. 19 Quel pomeriggio, tuttavia, avrei voluto urlarle di non sedersi a sinistra, se solo avesse potuto ascoltarmi non l’avrebbe fatto ed ero preoccupata, perché era ingenua e anche un po’ stupida, ma se avesse prestato attenzione l’avrebbe capito, ma non ero certa di questo e avrei voluto fermarla in tempo... Invece mi stupì. Dopo una breve occhiata, si sedette a destra, e tirai un sospiro di sollievo, quel pomeriggio di un’uggiosa giornata di inizio aprile. Così tirò fuori uno dei suoi stupidi romanzi d’amore e si immerse silenziosa nella lettura. Era passata una buona mezz’ora da quando si era seduta (evitando stranamente le sue mosse non proprio leggiadre) quand’ecco che vidi quell’uomo dirigersi verso di me a passo sicuro. Si muoveva con spavalderia, spalle aperte e viso disteso, l’esatto contrario della donna. Era agile e snello. Non era la prima volta che lo vedevo, anche se le sue visite erano rare e occasionali, però di lui mi ero fatta un’idea piuttosto precisa. Sapevo che era un illustre professore, noto ai più per il carattere burbero e saccente, che era sulla cinquantina, che aveva una bella famiglia, che aveva la pretesa di sentirsi un anticonformista, che si sentiva giovane, moderno, vitale e dinamico, e aveva un talento particolare per considerare una massa di imbecilli tutti quelli che, a differenza di lui, non conoscevano Hegel o Feynman. Mi infastidivano i suoi modi di fare, il suo vantarsi continuamente con chi incontrava, il suo immergersi in calcoli e studi proprio qui, su di me, su una scrostata panchina del parco; che ci vieni a fare, mi domandavo, a studiare ad alta voce, su una panchina scrostata del parco? In effetti, lo consideravo un idiota. Quando arrivò, lei sorrise. Il tizio si sedette, ignorando il tacito e amichevole saluto e invadendo l’aria con quel suo profumo dolciastro di tabacco e Calvin Klein, e dalla valigetta che si era portato appresso estrasse un fascicolo di compiti in classe e una penna. Diede via a un insopportabile show di risatine e sbuffi, apostrofando con acidità le risposte tentennanti, ricoprendo di epiteti sgradevoli quasi tutti gli alunni, e sapevo, io che non l’avevo mai dimenticato, che aveva adocchiato il libro della mia amica, che aveva scosso la testa con disgusto e che commentava a bassa voce le correzioni tanto per darsi un tono. Capii anche, dal modo in cui si muoveva su di me e da come sapevo funzionasse più o meno la sua mente, che era infastidito. Era infastidito dall’ingombrante massa di lei, e, potrei giurarlo, dopo l’ennesimo movimento mormorò “Stupida balena” e si concesse qualche espressione facciale non troppo cortese, che se la mia amica fosse stata più sveglia o meno assorta dalla trama avrebbe notato. Ma soprattutto, ne ero sicura, riteneva una totale perdita di tempo, per una mente brillante come la sua, dividere quella panchina scrostata con una grassa paesanotta di mezza età che perdeva il suo tempo a leggere romanzi rosa. Lui, il genio, l’orgoglio cittadino, la mente superiore, il difensore della cultura e della ragione, dividere quell’angolino con un’insulsa donnetta qualunque che non avrebbe capito mezza parola della più banale delle discussioni che avrebbe potuto iniziare con lei! Ma la donna era immobile, e tranquilla, e non mi dava fastidio, e mi sembrava quasi di non percepire le sue chiappe adipose. Ogni tanto si illuminava aprendosi in un sorriso o un sospiro sognante. Forse rimase per un’altra mezz’ora, e quando ormai era quasi buio e le luci dei lampioni iniziavano ad accendersi, allungò le gambe stiracchiandosi, prese la tracolla, mise il libro dentro e si alzò facendomi cigolare, e portando con sé l’odore sudato e terribile, prese a camminare verso l’uscita. 20 Ed era felice. Poco dopo, anche il tizio chiuse i compiti. « Balenottera da pochi soldi… leggere quella robaccia... e ci lamentiamo che il Paese va male... » borbottò, e iniziò una critica serrata contro la donna, e poi la cultura, che stava scomparendo, e d’altra parte i reality show facevano successo, e la superficialità popolare, e “per certi versi siamo ancora nel medioevo!”, e non c’era più nessuno ormai che provava interesse per le disequazioni esponenziali di grado superiore al secondo, a nessuno interessava più il principio di Heisemberg, nessuno s’innamorava più di Heidegger o Martinetti o Samuel Beckett... E continuò così finché non si fu allontanato, a dire cose sacrosante, innegabili, da applausi, se non che non ci feci troppo caso, presa com’ero a ridere per quella grande macchia di vernice verde scuro che gli macchiava il sedere. 21 Premio Letterario “Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione Premio Speciale Giuria “COME ADELAIDE DIVENNE UN ALBERO” di Francesca Montanari - 5a A Adelaide aspettava la vecchiaia. Quel pensiero le era venuto la prima volta a cinque anni, osservando gli adulti intorno a lei affannarsi mentre i vecchi stavano seduti a lamentarsi. Non facevano altro quei vecchi, si lamentavano. Non si può certo dire che Adelaide avesse avuto un’infanzia felice, ma questa è un’altra storia. Quello che sappiamo è che Adelaide un giorno si sedette e iniziò ad attendere. Io la conobbi quindicenne, una casa da mandare avanti, un fratello piccolo da gestire e la solita infinità di faccende. Però Adelaide era tranquilla, aveva sempre un sorriso per tutti. E non è mica un modo di dire! Adelaide rideva sempre e forse era solo un tic nervoso, però era piacevole. Questo vezzo aveva ispirato molto i compaesani, che, poco delicatamente, la chiamavano la Beata Adelaide, proprio lei che di beata non aveva nulla. Veniva ogni giorno nel mio negozio, dove comprava due panini stantii, ma non per risparmiare, glieli avrei anche regalati, perché, quasi pregustando quel tempo, diceva: “Un giorno non avrò più i denti per masticare il pane duro!”. Adelaide nonostante i suoi casini cresceva bene. A diciassette anni era tutta deliziose curvette e sorrisoni, parecchi nel paese pensavano che sarebbe stata una gran moglie. Coscienziosa, morigerata, sempre contenta, buona come solo la Beata Adelaide poteva essere. Però sembrava sempre troppo attiva, correva. Sempre. “Un giorno non potrò nemmeno camminare senza un bastone!” Poi venne un giorno si seppe che il fratello della Beata Adelaide era partito di notte in tutta fretta, e nessuno, ma proprio nessuno ne sapeva il perché. O almeno, nessuno di noi, che la Beata Adelaide certo ne era al corrente ma di dircelo nemmeno se lo sognava. Si iniziò a vederla sempre meno in paese, veniva solo a comprare il pane e qualche altra spesuccia, poi tornava dritta dritta a casa, senza chiacchierare con nessuno. “Un giorno avrò tutto il tempo di parlare, ora ho da fare!” Mi ricordo che era agosto, e c’era un caldo bestia, la Beata Adelaide era venuta a comprare il pane. La crocchia sfatta, le guance imperIate di sudore. Uscita dal mio negozio la vidi fare una cosa che non aveva mai fatto. Si sedette sulla panchina che sta proprio davanti al mio negozio. Una gran bella panchina con un solo difetto. Era proprio al sole. Non c’era mezzo albero intorno. Non c’era nemmeno un cespuglio. Era semplicemente una panchina sulla strada; dava 22 l’opportunità di scrutare i passanti e riposarsi nei giorni non troppo caldi, ma in pieno agosto o quando pioveva, era davvero una panchina di merda. Eppure se ne stava seduta lì, tutta tranquilla, come se gradisse molto avere il fondo schiena rovente, come appena uscito dal forno. Ferma, con quel suo solito sorriso bonario, guardava la strada, come inanime. E da quella volta, ogni giorno si andava a sedere lì, per un’ora, per due. A volte per l’intero pomeriggio. Aspettava il ritorno del fratello, dicevano alcuni, è diventata matta sostenevano altri, altri ancora che aspettava un marito per far la vita da signora, oppure semplicemente che Dio la chiamasse... Beata com’era! I paesi son fatti così, ognuno deve avere una sua teoria. Il fatto era diventato talmente curioso che nei bar gli uomini dicevano che la Beata Adelaide era una donna da marciapiede molto pigra, molti ragazzotti perdevano i pomeriggi a guardarla senza aver il coraggio di avvicinarsi, le comari facevano scommesse sulle ragioni di quel comportamento insolito, così che si arrivò a dire che l’insolita Adelaide aveva portato la corruzione nel paese. I paesani sono fatti così, danno sempre la colpa agli altri. La panchina era diventata la panchina dell’Adelaide e nessuno più ci si sedeva, quasi fosse diventata una panchina sacra e per questo inviolabile. A me la Beata era sempre stata simpatica, era una ragazzina così carina e sentir le voci di paese proprio nella mia bottega mi faceva diventar nervoso. Tutti davanti alla mia vetrina o dentro il mio negozio a parlottare, e mai che comprassero una mezza pagnotta. Così un giorno le andai a domandare direttamente la ragione del suo comportamento. “Oh, sono stanca e aspetto.” “E che aspetti Adelaide?” “Aspetto la vecchiaia. Sono stanca e ho sognato che verrà proprio dal fondo di questa via. Perciò aspetto”. Ed era strano sì che aspettasse la vecchiaia una ragazza ventenne! Chi diceva che era diventata matta vinse i soldi puntati e la storia di Adelaide divenne un capitolo chiuso. Nessuno ci faceva più caso. Ormai faceva parte della strada come la chiesa e i gatti randagi. Passavano i mesi e la bella Adelaide stava sempre seduta ad aspettare, quasi non tornava più a casa. Con la pioggia o col sole, col vento, di notte, di giorno... E quando fu Primavera notai che sembrava fiorire, ma quasi per davvero. Un giorno passando lì davanti c’erano dei petali sotto la panchina. E per tutta l’estate fili d’erba e api e farfalle e in autunno foglie rosse e gialle. Alla Adelaide qualcuno aveva detto che dava fastidio lì, seduta sulla panchina, che sembrava matta, e lei, buona com’era, si era alzata in piedi sorridente. 23 Continuava ad aspettare, in piedi di fianco alla sua panchina, la vecchiaia che però non arrivava. Una mattina la scoprimmo albero, un giovane albero con bellissime foglie, e di una specie sconosciuta con i fiori rosa e i rami protesi verso il fondo della via dalla quale la vecchiaia non sarebbe più arrivata. E la panchina della Adelaide divenne la panchina più ambita del paese. Ci si innamoravano i fidanzati, ci giocavano i bambini e le loro mamme quando li attendevano, ci scherzavano gli anziani ed un cieco riuscì perfino a leggerci un giornale, una panchina con un’ombra come quella, non s’era vista mai. 24 Premio Letterario”Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione “MAI DIRE PANCHINA” di Beatrice Castellani - 2a F È un vocabolo taboo. Tutti lo pensano, nessuno lo dice. I panchina-dipendenti aumentano a dismisura. Il presidente della repubblica: -non è vero- sostiene -io la panchina non so nemmeno cosa sia- Eppure le foto parlano chiaro: la stava guardando anche lui. Dilaga il panico: -i ragazzi diventano scemi- dichiara il ministro dell’istruzione -bisogna eliminare esempi del genere- I giovani sembrano gli unici ad ammetterlo: -a noi la panchina piace- dice l’87% degli adolescenti intervistati. -io non ho mai seguito la panchina- dice Eleonora, -ma qualche giorno fa mi sono ritrovata a guardarla anche io. Libera la mente,- ammette -non c’è bisogno di seguire- Così tra ragazze maggiorate, ballerini, comici ed apprendisti cantanti, ormai la panchina approda in ogni casa. -bisogna considerare- riflette il sociologo che il livello culturale del cittadino medio continua ad aumentare, e con esso una consapevolezza di sé e del mondo sempre maggiore. I pensieri del lavoratore- continua -non sono più concentrati esclusivamente sulla sopravvivenza della famiglia, ma spaziano ad una serie di problemi, dovuti ad una maggiore coscienza civica, che aumentano enormemente lo stress da sopportare- In questo modo secondo l’esperto, paradossalmente all’aumentare del bagaglio culturale personale, aumenta la necessità di uno sfogo che, a contrario, deve essere sempre più superficiale e disimpegnante per la mente. Non prendetevela dunque, la prossima volta che vostro figlio starà sbavando davanti al silicone di Cristina anziché studiare: è stressato. Così come, cari uomini, le vostre mogli sono stanche quando sul divano vanno in “fissa” sui capelli di Morgan chiedendosi come cavolo stiano su. Più facciamo carriera e più abbiamo da fare, più i nostri pensieri nel limitato tempo libero a disposizione si fanno demenziali. Forse allora c’è un po’ di ipocrisia nelle continue critiche alla panchina ed al suo poco spessore, se in fin dei conti dopo cena “Ale e Franz” fanno ridere anche noi. 25 Premio Letterario”Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione “27 DICEMBRE” di Francesca Lucchese - 1a L Un forte vento teneramente soffiava, cullando la cittadella che addormentata respirava la fredda aria invernale. Tutto taceva, il cielo spettrale era punteggiato da una tenue nebbia. Le persone, invisibili, si aggiravano per le vie innevate. Affondavano i loro scarponi in un soffice manto bianco e piano raggiungevano le loro destinazioni più o meno lontane. Per l’aria aleggiava un odore di brioche e cornetti appena sfornati. I ragazzi infreddoliti attendevano l’aspro suono della campanella. La neve continuava a fioccare. Gli alberi piangevano candide foglie e, lenti, si spogliavano delle loro un tempo folte chiome. Nascosta in un parco, stava una panchina. Le sue gambe stanche, dopo tanto tempo ricevevano riposo: da tanto, più nessuno si era appoggiato ad essa. Bianca, era coperta dai rami dello stanco albero che, come un vecchio, lasciava cadere le sue pesanti braccia; l’attendeva l’arrivo della tanto attesa primavera, ricordando con nostalgia i pomeriggi in cui accoglieva i corpi stanchi dei vecchi, o in cui faceva da nascondiglio a miriadi di giocosi bambini. La neve fitta continuava a scivolare dal cielo; si respirava aria frizzantina e ancora tutto taceva. L’intero corpo della panchina ora era coperto da un letto di neve che diveniva sempre più morbido e voluminoso. Quando, improvvisamente, si avvicinò la figura di uomo: i lineamenti marcati e la corporatura tozza. Con un leggero movimento di mano fece cadere una piccola quantità di neve dalla panchina quindi si sedette. Con occhi sognanti si guardava intorno e ammirava il paesaggio addormentato. Poi, scoprì la panchina che intirizzita attendeva di essere ricoperta. Sul suo corpo arrugginito vi erano delle incisioni e numerose scritte. L’uomo sorrise: era divertito dalle tante e diverse parole che quell’oggetto custodiva. Poi, i suoi occhi si soffermarono su un incisione: “Anna e Emilio 1960 –1975 27 dicembre” allora, i suoi pensieri iniziarono a viaggiare raggiungendo un altro tempo. Ricordò il tempo in cui viveva in quel paese sperduto tra i campi. Era adolescente quando con i suoi amici soleva giocare dinnanzi a quella panchina che sempre fu fotografa dei suoi più bei momenti. Improvvisamente la pioggia di neve cessò. Ancora silenzio. Ora, tra i rami bagnati si affacciavano i dolci raggi del sole, che iniziavano ad asciugare la cittadella dal lungo pianto delle nubi. L’uomo era ancora lì seduto. Chiuse gli occhi e respirò profondamente quell’aria di cui aveva sentito tanta mancanza negli ultimi anni. Ora lui, che da piccolo aveva abbandonato quel luogo per realizzare i suoi sogni, aveva sentito il bisogno di farvi ritorno e riassaporare l’odore della sua fanciullezza. 26 Il campanile batté le ore: era mezzogiorno. Quell’uomo era ancora lì seduto: aveva i pantaloni bagnati e le mani, immerse nella neve, congelate. Lì, fermo e immobile, scrutava quella panchina che era sopravissuta alle incurie del tempo quando, da lontano, si avvicinava la sagoma confusa di una donna che percorreva lo stretto sentiero conducente alla collinetta ove risiedeva la panchina. La donna pareva stupefatta da ciò che le appariva davanti. L’uomo allora si alzò. I due, come fanciulli intimoriti, si posero di fronte, sotto la chioma innevata dell’albero, davanti al corpo screpolato della panchina. Senza dire parola si osservarono rivolgendosi un amorevole sguardo. Finalmente quella promessa che come la panchina, era durata nel tempo, era stata mantenuta infatti, così come era scritto, quel giorno era il 27 dicembre 1975. 27 Premio Letterario”Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione “POMERIGGIO” di Fulvio Paleari - 5a F Le tre e dieci. Esco da scuola, dove è appena finita l’assemblea di classe. Non che fossimo una folla: eravamo solo quattro. Meno male che è venuto Marco, sennò sarei stato da solo con la Poli e la madre della Mari. Prima di entrare, avevo sbirciato nelle altre classi. Piene. No, non è vero: però quanto meno c’era un po’ di gente. E’ una bella giornata: mentre cammino sul marciapiede di fianco alla scuola, in direzione della macchina, sento la brezza gelida, ma il sole emana un certo calore e il cielo è sereno. Adesso devo andare a fare le fototessere e in biblioteca a vedere se hanno un film. Non è un paese per vecchi, dei fratelli Cohen. L’unico film che abbia mai visto dove la colonna sonora manca completamente; non che sia un male. Arrivo al punto in cui ho parcheggiato e vedo che lo spazio fra la strada e la mia macchina è occupato da un furgoncino in doppia fila con le quattro frecce accese. Ovvio. C’è un ometto, sopra la sessantina, che ha attraversato la strada ed è entrato in una calzoleria. E’ lui il proprietario del furgoncino. Beh, never mind. Non ho fretta. Lì vicino c’è una panchina: è occupata da una signora anziana e da una più giovane, forse la figlia che ha portato la madre a fare una passeggiata. Mi siedo su un’altra panchina, lì di fianco. Aspetto. Ogni tanto butto un occhio alla porta entro cui è sparito l’ometto. Dopo un po’ , tiro fuori le auricolari, le collego al lettore e metto su un po’ di musica. Aqualung, dei Jethro Tull Sitting on a park bench, Eyeing little girls with bad intent La tipo alla biblioteca ha controllato sul computer e ha visto che il film ce l’hanno a Desio. Arriverà fra qualche giorno. E naturalmente dal fotografo c’è gente. Una coppia anziana, e una madre con una bambina piccola. Ha compiuto tre anni e deve iscriversi all’asilo. Ma che bello signora, come sono contento. Esco e mi siedo ad aspettare su una panchina in piazza, davanti alla fontana. Comincia a fare freddo. In biblioteca ho visto un articoletto su un giornale. Diceva che il comune di Milano pensa di far sostituire le panchine nei parchi. Le nuove panchine avranno il piano di seduta diviso in tre parti da separatori metallici, come se fossero tre sedie con braccioli saldate fra loro. Dicono che è per evitare che i barboni ci si sdraino sopra per dormire. Beh... una volta ho avuto la febbre per due settimane: continuavo a prendere l’aspirina, che me l’abbassava. Ma poi risaliva. Questo perché curavo i sintomi non la malattia. La coppia di anziani sta uscendo: meglio che entri, prima che qualcuno si freghi il mio turno. Salgo in macchina e ovviamente, una volta accesa, mi accorgo che è finito il metano. Sta andando a benzina. Tanto vale andare a far rifornimento al distributore vicino allo stadio. Una volta arrivato, spengo il motore, scendo e mi siedo su una panchina ad aspettare mentre l’addetto inserisce il cavo del gas pressurizzato. Un pieno di metano richiede più tempo di uno di benzina. Il distributore è affollato: ci sono quattro o cinque vetture. Una donna, un uomo paffuto, un signore anziano che sembra annoiato e un ragazzo con occhiali da sole e aria strafottente da truzzo; faccio una smorfia e mi volto verso il viale a vedere le macchine sfrecciare. Il sole ormai ha cominciato ad abbassarsi sull’orizzonte e il freddo è intenso. Sono nove euro e sessantacinque; il metano costa poco. Mi dirigo a pagare. Alla cassa 28 c’è un tipo con i capelli lunghi, gli occhi chiari e un orecchino. Lo pago e lui mi ringrazia e mi saluta. Sono combattuto. In effetti sento l’impulso di fargli la domanda, anche se è una cosa stupida... beh, so già che non riuscirò a trattenermi. Tanto vale farlo con decenza, allora. Cerco di assumere l’aria più composta e distinta possibile. Gli do del tu o del lei? Attacco con un bello scusami e così ottengo la sua attenzione. Poi gli chiedo qual è, secondo lui, la struttura logica dell’inferenza scientifico-sperimentale. Mi guarda malissimo: sconcerto, incomprensione, ira, anche, perché lo sto prendendo per i fondelli; scappo via. Una volta in macchina, quando sto per andarmene, lo vedo parlare con un altro addetto del distributore: mi indica e ride (Ecco che mi guardano e ridono: e nel ridere mi odiano anche. V’è del gelo nel loro riso) ma io non me la prendo perché me la sono cercata. Verso est, l’indaco della notte; verso ovest, l’arancione rosato del tramonto. E sopra di me, beh... non so decidere quale parola è quella giusta per la sfumatura di colore che osservo. Su, oltre il cielo serotino, dove riposano gli dei defunti del passato, trapassati da innumerevoli raggi cosmici. La verità è che guardiamo il cielo perché non conosciamo la verità. La verità è che sappiamo che non conosceremo mai la verità. Su, su, nei cieli superni. La verità è che non troviamo il cielo che cerchiamo. Guido. Guido verso casa. Guido. Perché il mondo non va come voglio? Accendo il computer per farmi una partita a Dead Space. Carico il salvataggio e comincio a giocare. Almeno mi rilasso un po’ . Mi rilasserò sparando agli umani mutanti, smembrandoli, mutilandoli, facendo esplodere le loro teste. Adesso i giochi li fanno meglio: non c’è più soltanto il sangue; mettono anche i pezzi di organi. Si spargono in giro quando fai esplodere un mostro. Ciò che facciamo è insensato: impedire ad Aqualung e agli altri barboni come lui di sdraiarsi sulle panchine; questo non farà sparire i barboni. (Una lama laser orizzontale amputa le gambe di un mostro) Però, così, non li vedremmo più in giro tanto spesso. (Ma il mostro continua a trascinarsi verso di me a forza di braccia; allora gli corro incontro e gli spappolo la testa schiacciandola sotto il mio stivale d’acciaio) se non li vediamo, non ci sono. Come i vecchi dei che sono morti. (L’addome di un mostro viene dilaniato da una sega circolare; ma dallo squarcio escono tanti mostriciattoli che mi saltano addosso) Ma noi continuiamo a guardare il cielo. Lo facciamo perché i barboni ci sono lo stesso, non sono spariti. (Me ne libero, ma a fatica) Guardando il cielo, spesso non vediamo i barboni e tutte le altre cose che ci fa comodo ignorare; forse dovremmo guardarlo un po’ meno e abbassare gli occhi sulla terra. (Un altro mostro mi attacca: questo è grosso; lo rallento con una granata speciale e comincio a sparargli a un braccio, per staccarglielo dal corpo) Ogni illusione tende a sostituire il mondo vero nei nostri pensieri. (Credevo che senza braccia il mostro non potesse attaccarmi; invece mi lancia contro dei baccelli esplosivi) Così possiamo non vedere il mondo vero e non pensare a quanto è difficile. (Fermo un baccello a mezz’aria con la telecinesi e lo rispedisco contro il mostro, proprio nel punto vitale) Trovare un senso, dico. E’ fatta: ho macellato il mostro; frugando il cadavere trovo 5000 crediti. Perfetto: devo proprio passare al negozio a comprare nuove munizioni, altrimenti il plasma gun mi diventa inutilizzabile. 29 Premio Letterario”Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione “PANCHINA” di Vanja Vasiljevic - 2a C Il sole stava già sorgendo dietro all’ammasso disordinato di condomini della periferia, sbucava lentamente tra un’abitazione e l’altra, filtrava attraverso gli spazi più sottili, non dava scampo. Sembrava ridere della sua potenza, del fatto che nonostante tutto lui sarebbe sempre sorto, del fatto che ogni essere vivente dipendeva da lui. La luce che si stagliava intorno rendeva ogni immagine più tangibile del necessario, come a sottolineare l’ambiguità della vita notturna, come se fosse nel tentativo di cancellarne gli eventi. Ed era forse quello che tentava di fare anche lei. Nonostante fosse in piedi da un infinità di ore, Diana camminava spedita, guardando per terra. Si immaginava che le linee che separavano le mattonelle del marciapiede si prolungassero fino a intercettare i suoi passi e che lei non dovesse toccarli, altrimenti sarebbe successo qualcosa di irreparabile. Sentiva la zip della felpa tintinnare ritmicamente sulla fibbia della cintura e un brivido continuava a percorrerle le gambe addobbate solo di una gonnellina nera che pareva drammaticamente indecisa tra coprire e scoprire. Aveva uno spinello acceso in mano e con movimenti meccanici se lo portava alle labbra. Passava per vicoli sconosciuti seguendo un percorso impresso saldamente nella sua memoria, come marchiato a fuoco. Della musica nelle sue orecchie, un piano, una chitarra, una batteria, una voce da uomo che cantava di paradiso, di libertà e si chiedeva dove fosse lei quella notte. Le altre parole le risultavano incomprensibili e non le interessava saperne il significato, si faceva solo cullare dalla melodia malinconica prodotta da quelle note. E semplicemente non si ricordava nulla. L’ultima cosa che aveva visto Diana era una collana a forma di serpente. Ora la sua mente era piena di esseri striscianti che si avvinghiavano, sibilavano. Aveva più volte visto un serpente, su vari documentari, ma mai dal vivo. Le loro digestioni duravano settimane e per tutto quel periodo non mettevano in bocca altro; certo, Davide non sarebbe mai stato un serpente: lui mangiava di tutto a qualsiasi ora del giorno. Inoltre per la fortuna di essere ragazzo non ingrassava neanche di un chilo. Davide. La sera che era successo lei non era con lui, aveva preferito stare a casa anziché uscire col gruppo. Forse, forse gli avrebbe impedito di salire su quella moto, o magari, magari lo avrebbe obbligato a mette casco, oppure... ogni congettura vana. Finalmente giunse la panchina della pensilina del pullman, la solita, quella vicino alla stazione, ci passavano il 202 e il 201. C’era un ragazzo seduto a gambe incrociate che sembrava fissare il vuoto. Diana spense l’i-pod per evitare figure ridicole in caso che lui le avesse rivolto la parola, cosa che le era capitata una marea di volte; è che se non l’ascolti senza sentire altro non è musica. Si sedette di fianco a lui che sapeva di patatine fritte. Non sentì alcun bisogno di isolarsi come le accadeva in queste situazioni, solitamente odiava sedersi su una panchina se c’era già qualcuno. Sentiva di dar fastidio e aveva bisogno di occupare il suo spazio, un suo piccolo regno temporaneo che per almeno cinque minuti sarebbe appartenuto solo a lei. Invece adesso voleva condividere qualcosa. “Sai che è una cosa davvero strana?” Fu come se la ragazza si aspettasse che lui le dicesse qualcosa, come se fosse tutto programmato, come se fossero stati su un palco e lei non aspettasse altro che la sua battuta per iniziare il dialogo. “Guarda che tutto è strano, insomma,” fece un tiro “se esistesse il normale potremmo dire che è una cosa strana, ma non esistendo il normale...”. Lasciò la frase in sospeso, era palese quello che intendeva dire. Lo faceva 30 spesso questo giochino, anche nelle interrogazioni: insomma se il concetto è chiaro è inutile continuare. Lui le rivolse uno sguardo di ghiaccio, uno sguardo cosciente, come se conoscesse da anni la persona che gli stava di fronte. “Lo sai cosa intendo dire. Siamo io e te. Tu non sai chi sono io e io non so chi sei tu. In questo momento siamo legati solo da questa pensilina e ognuno di noi potrebbe stare nel suo brodo, fare finta di rispondere a un messaggio che aspettava ma in realtà non è mai arrivato; ascoltare musica ad altissimo volume per non sentire il mondo che lo circonda; stare in piedi, come a rappresentare il ribrezzo provato nel sedersi di fianco a una persona sconosciuta.” “Il fatto è che la gente ha paura, potrebbe sempre capitarti di fronte un maniaco, o altro.” “Come potrebbe capitarti di fronte una persona che ha pensieri e sogni bellissimi.” Diana chiuse gli occhi ridendo. Aveva un canino che sporgeva rispetto agli altri denti e pareva volersi distinguere dal gruppo. Fece un tiro. Era come in un treno: una cabina piena di persone che non si conoscono. Un’infinità di possibilità di incontrare, capire, conoscere. Un muro, sì come un muro che separa, ma nel contempo unisce. Scegliere, tutto qua. “Guarda che non è colpa tua.” “Lo so.” Quando Diana aprì gli occhi si sentiva leggera. Sapeva che lui ormai non era più lì, sentiva la mancanza della sua presenza. Prese un respiro profondo e si alzò in piedi per salire sul 202 che stava per arrivare alla fermata. 31 Premio Letterario”Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione “LA PANCHINA ROSSA” di Marco Galli - 4a H Regalarle una panchina per San Valentino gli sembrava un’idea decisamente buona considerando che su Una Panchina si era dichiarato con tanto imbarazzo e su Una Panchina avevano passato ore e ore assieme. Ma soprattutto gli piaceva l’idea che quando la Sua Amata sarebbe tornata dal viaggio di tre lunghissimamente interminabili mesi in Scozia per imparare bene l’inglese avrebbe trovato una sorpresa che avrebbe sicuramente gradito molto. (E in ciò dovette ammettere che la data di ritorno della Sua Amata coincidente con San Valentino era una vera fortuna.) Eppure non sapeva se l’avrebbe ottenuta dal Comune tanto facilmente, e difatti fu un’impresa ardua impossessarsene. La prima difficoltà fu quella di sconfiggere il drago posto a guardia dei favolosi tesori nascosti nella caverna nella foresta delle streghe albine mangiatrici di radici di olmi in cima al monte fatato in mezzo alla valle delle sabbie dorate nel paese dei cavalcatori delle nuvole nere. Poi una volta raggiunto l’interno della caverna e raggiunto lo sportello (al quinto piano, e senza ascensore!) dove venivano sbrigati certi lavori dovette leggere, firmare o siglare una serie impressionante di moduli senza senso. Decine e decine di sigle e numerini messi l’uno dopo l’altro come se avessero avuto veramente un senso! Per il Nostro però tutte quelle sigle non ce l’avevano proprio per niente un senso. Un po’ come le sette righe precedenti. E di sette o otto o nove righe di buon legno di un buon pino aveva bisogno il Nostro, ma il Comune non concedeva tanto facilmente il permesso (“chissà perché!” pensava il Nostro a ragion veduta). Ovviamente la parte del drago posto a guardia dei favolosi tesori nascosti nella caverna nella foresta delle streghe albine mangiatrici di radici di olmi in cima al monte fatato in mezzo alla valle delle sabbie dorate nel paese dei cavalcatori delle nuvole nere non è mai avvenuta, se non nella sua mente. Però avrebbe volentieri voluto raccontarla alla Sua Amata, come tante altre cose che le aveva raccontato proprio su Una Panchina per farla innamorare di sé. Aveva già in mente dove l’avrebbe fatta installare, rivolta verso il mare (“ovviamente”), e di quale colore (“un bel rosso, il suo preferito!”). Il problema era il Comune che per inspiegabili motivi ritardava con motivazioni quanto mai ridicole l’installazione della panca tanto desiderata. Poi però notò una cosa che lo sconvolse abbastanza da indagare fino in fondo sulle cause delle misteriose sparizioni/rimozioni di alcune panchine nella Ridente Cittadella. Perché di questo si trattava, sparizioni apparentemente inspiegabili delle panche in alcuni dei punti dall’atmosfera più -per così direromanticizzante. Attraverso giri di conoscenze, amicizie, parentele e voci di corridoio venne a sapere che in seguito all’infelice divorzio del Signor Sindaco dalla Signora Moglie Del Signor Sindaco, il primo aveva deciso di rimuovere le panchine perché anch’egli era stato a suo tempo vittima di quella quasi magica influenza che le panchine hanno su tutte le coppiette, e di conseguenza le aveva fatte togliere perché queste gli facevano tornare in mente i bei momenti passati assieme alla ormai ex-moglie. Per una sorta di ripicca quindi non voleva che altre coppie potessero godere della felicità di cui lui era stato privato. Mal comune mezzo gaudio! Mal in Comune, mal di tutti! No, no, doveva trovare una soluzione a quel problema di cuori... Ma sapeva che anche questa si sarebbe rivelata un’impresa di non poco conto, visto e considerato il fatto che non aveva la minima idea del punto da cui partire. Opzioni: trovare una Nuova Compagna 32 Per Il Signor Sindaco; far dimenticare al Signor Sindaco la Signora Moglie Del Signor Sindaco o infine aspettare le prossime elezioni comunali nella speranza che il Neo Signor Sindaco risulti più comprensivo nei confronti del Nostro; ma nessuna di queste sembrava attuabile. Doveva provare qualcosa. E doveva fallire -aggiunse pessimisticamente fra sé e sé- La situazione iniziava a farsi drammatica. Non voleva cambiare regalo, voleva quella Panchina Rossa Volta Verso Il Mare! Ma non poteva averla. Accese un paio di ceri in chiesa. Avrebbe fatto un bel pellegrinaggio a Lourdes ma non ne aveva il tempo. Poi all’improvviso l’ossessione del Signor Sindaco per le panchine prese una piega indecorosamente ossessiva: ora tutte le panchine (a parte una che per un curioso caso giudiziario era diventata la “casa” per un uomo agli arresti domiciliari sulla panchina stessa perché cacciato dalla famiglia in seguito agli ennesimi guai con la Giustizia) della Ridente Cittadella erano sparite. O meglio erano state sequestrate e portate in un capannone di proprietà, manco a dirlo, del Signor Sindaco. Ma non era finita: nel capannone le panchine non erano semplicemente stipate a prendere polvere, ma erano state quasi tutte smontate (quelle smantellabili) per dare vita a una inverosimile e decisamente grezza statua lignea dalle sembianze della Signora Moglie Del Signor Sindaco. Il Signor Sindaco fu rinchiuso in un ottimo manicomio, il migliore che si potesse desiderare (per quanto desiderabile possa essere un manicomio... ). Senza ormai alcun ostacolo a intralciare la realizzazione del suo sogno il Nostro ottenne la Panchina Rossa Volta Verso Il Mare. Fece apporre una targhetta d’oro recante il suo nome e quello della Sua Amata e su quella panchina le fece in seguito la dichiarazione di matrimonio. Si sposarono. Ebbero figli che giocarono su quella stessa panchina. Il Signor Sindaco poi guarì dalla malattia e trovò una Nuova Compagna Per Il Signor Sindaco (una infermiera del manicomio... Banale, però sono felici, non disturbiamoli oltre... ). E infine il Neo Signor Sindaco non fu colpito dalla malattia del suo predecessore. Fine. 33 Premio Letterario”Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione “VITA DI UNA PANCHINA” di Massimiliano Corrubolo - 5a H Nascita: Un albero cresce, viene tagliato e poi ulteriormente diviso in listarelle più piccole. Le giovani listarelle incontrano per la prima volta uno smalto: quello verde, che le accompagnerà per molto tempo fino al momento del cartello “vernice fresca”. Infanzia: Le listarelle fanno conoscenza con gli amici pezzi di acciaio e viti e bulloni: un forte legame li terrà così uniti per tutto il corso della loro vita. La panchina ormai vera e propria passa squallidi momenti in un furgoncino per arrivare a casa: il parchetto del quartiere. Degli energumeni molto grezzi la maneggiano manescamente per montarla. Ora è finalmente a casa! Giovinezza: I primi sfregi, i primi atti vandalici, le prime scritte con Uniposca, sbianchetti e taglierini. La panchina impara un linguaggio interessante ma inutile: tvb, tat, tv 1 mdb, tutte sigle che hanno senso ma non hanno effettivamente alcun significato... Tuttavia è felice di scoprire che non tutti i giovani sono come i suoi “maestri”. Pubertà: “Vernice fresca”. Eccoci al primo momento veramente importante della sua vita! Il primo di una lunga serie di cartelli che la renderanno celebre fra gli amanti degli scherzi da bricconi! Da verde si passa al bianco, poi ancora al verde, e infine ancora al bianco, ogni tanto si varia con un poco credibile rosso... La sua è una vita piena di sorprese e veramente emozionante! Adolescenza: I primi amori, le prime coppie che si ritrovano sulla panchina a tubare teneramente tutto il pomeriggio! E alla sera le prime trasgressioni con le prime birre rovesciate, i tappi stappati sulle parti ferrose che sembrano create apposta per quello scopo. E poi le prime bruciature di sigaretta: buchini neri che qua e là la rendono teneramente lentigginosa... E le prime bruciature di cose che non sono propriamente sigarette... Età adulta: La panchina ormai è frequentata dagli anziani che, anzi, ormai ne sono i veri padroni. I ragazzi che la usavano anni prima come punto di ritrovo le sere d’estate ormai hanno il motorino o la patente e hanno posti migliori in cui trovarsi. La panchina scopre lo sport! Il calcio, il ciclismo, la formula 1! E poi conosce il mondo della politica, con tutto il giostrarsi di luoghi comuni che le gira attorno... Ma questo non la interessa molto, tanto non vota! 34 Vecchiaia: Ormai solo gli anziani si recano regolarmente a trovarla. Gli anziani e i piccioni: gli anziani che danno da mangiare ai piccioni e i piccioni che lasciano poco educatamente le loro cacchine sulle listarelle ormai mezze bianche e mezze verdi, mezze scritte e mezze bruciacchiate. Morte: Il momento più brutto della vita della panchina. E anche il più triste, perché il parchetto del quartiere verrà sostituito da un parcheggio per un supermercato... Gli ultimissimi momenti la panchina li passa a guardare il cantiere all’opera, vede i primi abbozzi di una costruzione che per lei rimarrà solo una serie di piloni di cemento armato e poco più. Infine ancora in uno squallido furgone viene postata al cimitero delle panchine. Tutto sommato è soddisfatta della sua vita: poco rimpiange di non aver fatto, e per nulla si pente di quanto invece ha vissuto; ci lascia con un sorriso. 35 Premio Letterario”Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione “PANCHINA” di Lorenzo Raffaglio - 4a H NON SEDERSI VERNICE FRESCA 36 Premio Letterario”Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione “PESCATORE” di Fabio Grasso - 3a I perché stai li fermo su quella panchina consunta a contemplare il sole che cala lento nella sua bellezza? alzati sulle tue gambe stanche rimetti in acqua la rete umida. ritirala in barca con le tue mani rovinate e poi, fallo di nuovo e di nuovo ancora avrai tutto ciò che vorrai i soldi, si sa, comprano la felicità. veloce, e in breve non avrai più preoccupazioni più impegni e potrai stare li fermo su quella panchina consunta a contemplare il sole che cala lento nella sua bellezza. 37 Premio Letterario”Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione “LE VOCI CONOSCIUTE DEI RAGAZZI” di Igor Galbiati - 3a I Le voci conosciute dei ragazzi riecheggiano nel parco, le rumorose risate alleviano la tensione del gioco. Una donna, cinquant’anni, abito lungo, occhiali da sole, cammina svelta e sicura: anche oggi non nota che la sto fissando. Una vecchina cammina zoppicando, una mano stringe il guinzaglio, mi chiede un fazzoletto, e conosce in anticipo la mia risposta. Poco distante da qui una coppia di giovani innamorati, la signora li guarda mentre si baciano, pensa ai vecchi tempi; asciuga la superficie di legno della panchina, resa umida dalla rugiada, poi getta a terra incurante il fazzoletto, che si unisce agli altri. Passano due giovani, corpo slanciato e capelli al vento, corrono a passo sostenuto, rispondono al mio saluto. I miei occhi seguono un uomo che parla al telefonino, sento solo qualche parola, c’è del disappunto nella sua voce. Abbasso lo sguardo sul giornale che tengo sulle gambe, leggo frettoloso qualche titolo, ma subito torno a guardarmi intorno. E osservo, osservo la monotonia di questa vita, rifugiato su quella mia panchina, timoroso del mondo. 38 Premio Letterario”Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione “PANCHINA INGANNEVOLE” di Giulio Vallone - 3a I Come la dolce melodia di una sirena attira il viaggiatore ovunque mena, cosi il silenzio di una panchina semplice come il sorriso di una bambina inganna il corridore affranto, mentre tutto il mondo accanto corre e non si ferma ad aspettare che egli abbia il tempo di riposare, un attimo soltanto in cui scopre pensando che dalla panchina ammaliato ha perso tutto quello per cui aveva lottato. 39 Premio Letterario”Federico Ghibaudo” anno 2009 - 15a edizione “IL TRENO DELLA GUERRA” di Michele Panzeri - 5a G L’attesa peggiore è di chi resta. …………………….. Chi parte vivrà il cambiamento la novità allevia il tormento. Sarà il primo a sapere se morirà. L’attesa peggiore è di chi torna. …………………….. Rincontrare un sogno nostalgico è come uccidere quanto ha di magico. Il corpo dei compagni sta ancora là. L’attesa migliore è di chi non attende--------------------------------------------------- di chi vive ogni istante al massimo-----------------------------------------------------------------qualsiasi svolta rappresenti il prossimo-----------------------------------------------------------------------e sopporta il peso-----------------------------------------------------------------------della facilità.-------- La lunga esperienza della panchina è lacrime di madri e fidanzate sulla banchina, dall’emozion piegate. 40