Untitled - Premio Letterario "Federico Ghibaudo"

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Untitled - Premio Letterario "Federico Ghibaudo"
Premio Letterario "Federico Ghibaudo"
anno 2009 - 15a edizione
“L’INDICE”
1° premio poesia
2° premio poesia
Giona Casiraghi
Claudio Rendina
5a - H pag.
5a - B pag.
5
6
1° premio prosa
2° premio prosa
Sveva Anchise
Riccardo Galli
3a - A pag.
5a - F pag.
7
9
Premi giuria
“
Davide Galbiati
Emanuele Moioli
Alessandro Boggiani
Francesca Colombo
Francesca Montanari
5a - G
5a - C
4a - B
4a - A
5a - A
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
12
14
15
19
22
2a - F
1a - I
5a - F
2a - C
4a - H
5a - H
4a - H
3a - I
3a - I
3a - I
5a - G
pag.
pag.
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40
“
“
altri componimenti
in ordine di presentazione:
Beatrice Castellani
Francesca Lucchese
Fulvio Paleari
Vanja Vasiljevic
Marco Galli
Massimiliano Corrubolo
Lorenzo Raffaglio
Fabio Grasso
Igor Galbiati
Giulio Vallone
Michele Panzeri
Premio Letterario "Federico Ghibaudo"
anno 2009 - 15a edizione
“ELENCO FINALISTI PRECEDENTI EDIZIONI”
1°Classificato
2° Classificato
3° Classificato
1995 Alexandra Bonfanti 2a F
Loredana Lunadei 2a G
Arianna Ferrario
1a G
1996 Martino Redaelli
4a A
Elena Cattaneo
4a G
Marika Pignatelli
3a C
1997 Niccolò Manzolini
4a A
Matteo Pozzi
3a I
Elena Cattaneo
5a G
1998 Lorenzo Piccolo
4a A
Matteo Pozzi
4a I
Lucia Gardenal
2a I
1999 Dacia dalla Libera
3a E
Lorenzo Piccolo
5a D
Vincenzo Calvaruso 3a H
2000 Giulia Pezzi
4a G
Dacia dalla Libera 4a E
Cristina Sanvito
4a D
2001 Tiziano Erriquez
4a D
Giorgia di Tolle
Chiara Grumelli
4a A
4a D
2002
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Alessandro Sala
Federica Archieri
Caterina Cenci
Alessandro Dulbecco
4a H
5a L
4a H
3a C
2003
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Alesssandro Farsi
Cristina Pozzi
Alessandro Dulbecco
Pietro Spinelli
5a E
3a D
4a C
4a B
2004
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Margherita Corradi
Riccardo Tremolada
Paola Molteni
Pietro Spinelli
2a L
2a L
5a F
5a B
2005
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Margherita Corradi
Paolo Marchiori
Roberta Motter
Veronica Merlo
3a G
2a F
3a G
3a G
2006
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Armando Petrella
Andrea Guadagnino
Veronica Merlo
Gabriele Bambina
2a C
5a B
4a G
4a F
2007
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Gabriele Bambina
Lorenzo Pasciutti
Francesca Montanari
Matteo Goggia
5a F
3a D
3a A
5a G
2008
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Lucca Cazzaniga
Paolo Marchiori
Lorenzo Pasciutti
Alice Spreafico
5a E
5a F
4a D
5a H
Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"
anno 2009 - 15a edizione
“LA GIURIA”
Lorenzo Pasciuti
Federica Villa
Chiara Bona
Paolo Merati
Stefano Sanfilippo
Giacinto Lucarelli
Elena Brambilla
Marta Cassina
Alberto Martinelli
5a - D
3a - C
3a - C
3a - A
4a - E
3a - E
5a - C
5a - C
5a - B
“IL CONCORSO”
Il concorso è riservato agli studenti del Liceo “Frisi” ed ha
un grosso difetto, i vincitori ufficiali sono pochi, mentre ogni
partecipante, che ha messo nero su bianco le sue idee, le sue
esperienze, la sua fantasia, la sua anima, per farle conoscere
agli altri, ogni partecipante, è un vincitore.
Ma le regole consolidate per i concorsi, che sono poi le
stesse che spingono a partecipare, richiedono una classifica
che, per le innumerevoli varianti in campo, non potrà che
essere imperfetta.
I componimenti sono quelli originali, non è stato previsto
nessun intervento sugli stessi da parte di nessuno, con
l’obiettivo di non creare interferenze di nessun genere sulla
spontaneità degli elaborati.
Invitiamo pertanto ogni singolo lettore a trovare il SUO
componimento preferito e a far suo lo stile ed il messaggio in
esso contenuto. Questo concorso vuole infatti proporsi come
punto di ritrovo, come un punto di confronto, una palestra
per idee, sentimenti ed emozioni.
“INTERNET”
I testi di tutti i concorsi, dal primo fino all’attuale
si possono trovare su internet al seguente indirizzo:
http://www.premio-liceofrisi.it
Concorso Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
“LA BIBLIOTECA”
in biblioteca sono disponibili
per la consultazione,
i fascicoli delle precedenti edizioni del Concorso...
...oltre una copia dei seguenti libri premio:
1996
L’Alchimista
Paulo Coelho - Bompiani
1997
Messaggio per un’aquila che si crede un pollo
Istruzione di volo per aquile e polli
Antony de Mello..-..Piemme
1998
Il viaggio di Theo
Catherine Clèment - Longanesi
1999
Abbiate coraggio
Francesco Alberini -
2000
Perchè credo in Colui che ha creato il mondo
Antonio Zichicci - il Saggatore
2001
Il mondo di Sofia
Jostein Gaarder - Longanesi
2002
Il tao della fisica
Fritjof Capra - Adelphi
2003
L’universo in un guscio di noce
Stephen Hawking - Mondadori
2004
Storia della Filosofia Moderna da Cartesio a Kant
Luciano De Crescenzo - Mondadori
2005
Che cosa sappiamo della mente
Vilayanur S.Ramachandran - Mondadori
2006
Menti curiose
John Brockman - Codice Edizioni
2007
Alla ricerca delle coccole perdute
Come diventare un buddha in cinque settimane
2008
Complessità
2009
L’io della mente
Giulio Cesare Giacobbe - Ponte alle Grazie
Morris Mitchell Waldrop - Instar Libri
D.R.Hostadter e D.C.Dennet - Adelphi
Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
Primo Classificato sez. poesia
“SU UNA PANCHINA NEL PARCO”
di Giona Casiraghi - 5a H
Those who have crossed
With direct eyes, to death’s other Kingdom
Remember us –if at all- not as lost
Violent souls, but only
As the hollow men
The stuffed men.
Siediti
Ora
Apri gli occhi
E osserva
La vita
Sfila fitta e
Impacciata
Camuffata
Nell’uomo elegante
Che sbraita composto
Da un’auto ignara
Di tutto
Nascosta
Nel volto contratto di
Un bimbo che
Grida
A una vetrina
Affranto
Nella dama
Sgargiante che
Con mano
Ferma
Veloce
Esperta
Raccoglie
La cacca del cane
5
Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
Secondo Classificato sez. poesia
“MAUTHAUSEN, 6 MARZO 2009”
di Claudio Rendina - 5a B
Il Danubio in piena
carico di lacrime
li porta ancora
Gli artigli protesi
degli alberi
chiedono ancora pietà
per il troppo
sangue
Ancora li sentiamo
nel silenzio
di un gelo fitto
che ci sommerge
senza lamenti,
non umani,
sul lastricato
di un’ultima
doccia.
Seduto
su questa panchina spigolosa
e fredda
mi sento comodo
e fortunato.
Discant Viventes
Mortuorum Sortem
Nel campo di lavoro di Mauthausen furono ridotti in schiavitù e uccisi 103.000 individui.
Le loro ceneri furono sparse nel Danubio, nei campi da concimare o utilizzate per fame sapone.
6
Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
Primo Classificato sez. prosa
“PIETRA PIANGENTE”
di Sveva Anchise - 3a A
La notte era sempre più scura, meno sincera, più tetra e spaventosa. Ululati di cani in
lontananza, fruscio di foglie schiacciate, lo sfrecciare veloce di macchine che vanno di
fretta, luci di periferia che illuminano solo angoli lontani e lasciano che l’oscurità penetri
in profondità, e lì solo il buio profondo.
Inizialmente tutto quel distacco dal mondo esterno conferiva una certa pace, un senso di
libertà, una sorta di privacy. Ma ora tutto mutava con una velocità tale da intimorire.
L’esterno, l’estranio suscita angoscia, ansia, fobie incontrollate e insite nell’animo che
mai si erano sospettate.
Meno quattro gradi. Alle porte dell’inverno e già l’odore di freddo glaciale, di venti
provenienti dal nord, il fumo che esce dalla bocca. Camminava lungo il ciglio della
strada, a ridosso di un pallido muro di una villa ottocentesca; mp3 nelle orecchie, mani
in tasca, cappuccio e sciarpa da coprire il viso, tuta e borsa da ginnastica. Irriconoscibile.
Aveva tutte le sembianze di un giovanotto in età adolescenziale; peccato, che sotto i
pesanti abiti si nascondeva una diciassettenne fragile, debole, carina e dagli occhioni
grandi e verdi. Ignara del futuro, camminava a passo veloce in direzione nord; affannata,
stanca, gote arrossate post partita, aveva solo il desiderio di buttarsi a capofitto in uno di
quei piatti caldi del martedì sera a base di calorie.
Si sentì stringere il collo, fu travolta da un senso di soffocamento: stava ansimando e
aveva le lacrime agli occhi. Il secondo dopo fluttuava nell’aria, le mancò il terreno sotto i
piedi: le braccia andavano a destra e sinistra, a penzoloni, come fosse una vecchia
bambola. Aveva paura, una dannata paura. Le mancò la forza di gridare poiché la sciarpa
di lana le bloccò le labbra. Spalancò gli occhi, non vedeva nient’altro che la strada
scorrere veloce. Si trovò presso la porta buia d’entrata del parco cittadino quando
riacquistò contatto con il suolo. Si voltò e guardò la paura in faccia: un ghigno maligno
che la invitò a prestare silenzio, a non ribellarsi e ad ubbidire senza troppe storie; in
tutto questo dalla tasca vide il luccichio di un coltello. Tacque. Camminava, piangeva,
pregava il buon Dio di fare finire tutto in fretta.
Si trovò a respirare l’umido fogliame senza rendersene conto.
Una pietra grigia, dura. Un qualcosa di innaturale, ma che celava una propria forza:
l’anima.
Fu rivoltata; si trovò a guardare il cielo stellato. Poteva essere una bellissima sera,
invece...
Non riconobbe nulla, non distinse i tratti somatici del suo aggressore, ne ricordò solo
l’odore e il sapore aspro.
Era solita essere appoggio di anziani signori in passeggiata, coppiette innamorate che si
scambiavano dolci effusioni; assumere le sembianze di un albero per i cani che correvano
lungo il selciato, e invece ora era solo spettatrice. Una pessima spettatrice, poiché
immobile e impossibilitata davanti alla scena.
Chiuse gli occhi, sentì la zip del piumino scendere con foga. La zip della felpa scendere
con più tranquillità; mani grandi e fredde insinuarsi sotto la sua maglietta rosea,
accarezzarla con forza, stringerle i fianchi con avidità. La schiena le si ricoprì di brividi:
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piangeva perché già sapeva. Le mani scesero, le slacciarono il fiocco dei pantaloni grandi
e bluastri del fratello maggiore. Afferrò la terra, i sassi e il fogliame circostante e con
forza lo scagliò davanti a sé. Ricevette in cambio uno schiaffo duro, deciso. Non ne aveva
mai ricevuto uno neanche dai suoi genitori, era la prima volta.
Era sempre stata protagonista, o almeno spalla di piacevoli scene; ricordava momenti
felici. Portava sul dorso scritte di amicizie eterne, di amori infranti, di risa giovanili;
conviveva con muschio e umido addosso, ma nulla l’aveva mai scossa. Ora era
pietrificata, scandalizzata e obbligata ad osservare la scena che le si sviluppava davanti.
Le mutandine pulite e candide toccarono il suolo ghiaioso e sassoso, si sporcarono. Aveva
freddo, ma non era importante. I pantaloni le raggiunsero le caviglie e solo lì si rese
veramente conto che stava per cambiare vita, essere segnata per sempre. Quello agiva
con sicurezza, con fretta, soddisfazione, ansimava come fosse un lurido porco, forse lo
era davvero, anzi, lo era. Era soddisfatto, ridacchiava cercando di non emettere troppi
suoni. Le rivolse solo due parole: “Collabora, altrimenti...”
Continuò a piangere; la frequenza delle lacrime che le solcavano le guance si intensificò;
il collo era umidiccio, il sudore e la sua disperazione si unirono in un’unica sostanza.
Contrariamente da quanto si era sempre sostenuto, anche lei aveva un’anima, una
facoltà intellettiva, la capacità di intendere e volere, peccato che le mancasse il
movimento; era vigile, pensante, realizzava quello che le accadeva intorno e se ne faceva
un’idea. Ora era terrorizzata, si auto-colpevolizzava perché non poteva agire, intervenire,
porre fine a questo strazio. Assorta nelle sue considerazioni su quello schifoso uomo che
le si trovava di fronte, si accorse del mutamento di scena: la ragazza fu posta sopra la
panchina, non si muoveva, era agghiacciata. Sentì il suo debole peso sul suo dorso,
l’avrebbe voluta inglobare per non farle subire nulla di tutto ciò, ma non ci riuscì.
L’uomo le strappò via l’intimo e con una fragorosa risata si slacciò i pantaloni, li calò fino
alle ginocchia; guardò gli occhioni verdi gonfi di lacrime. Il buio celava la nota di sdegno
e paura che avvolgeva il volto della ragazza; le sorrise. Abbassò anche i boxer; le si
avvicinò, le annusò il collo, i loro odori si mischiarono; le diede uno sporco bacio sulle
candide labbra. Sorrise e le cinse i fianchi con rabbia.
Si dimenò, cercò di risparmiarsi tale orrore, tale pena; non voleva essere succube di un
uomo che neanche conosceva, subirne l’abuso. Non poté fare nulla. Sebbene utilizzò
tutta la forza che aveva nel corpo per scappare, lui le immobilizzò le mani e le diede un
morso tra il lobo e la mascella. Gli puzzava l’alito. Le sussurrò all’orecchio di non
muoversi nuovamente se no sapeva a cosa sarebbe andata in contro, e abusò di lei.
Penetrò il suo sesso, si impossessò della sua verginità e le diede il ben servito lasciandola
sconvolta su quella panchina.
La fredda pietra ascoltò tutto senza poter opporre resistenza: sentì il dimenarsi continuo,
vario, della ragazza; i suoi gemiti di dolore, le sue urla soffocate nel nulla, le sue unghie
grattare sulla roccia ruvida. Udì i gemiti di piacere di quel porco, la sua soddisfazione.
Sentì la ragazza caderle addosso stremata; assorbì le sue lacrime, sebbene tutti la
considerassero impermeabile. Fece compagnia al respiro nervoso, poco scandito, troppo
frequente dell’adolescente; sentì la sua mano digitare i tasti del cellulare, la sua
disperazione penetrarle internamente. Assistette all’arrivo della madre, mentre lontano
nell’ombra l’uomo si godeva la scena soddisfatta. Fu felice di essere il sostegno di un
abbraccio materno, ma fu anche schifata di essere stata il luogo di una violenza, il suo
punto di appoggio. Si ricredette sulla sua funzione positiva, a fine benefico. Esaminò che
quella notte era stata solamente un oggetto che qualcuno avrebbe ricordato per sempre
per il male che aveva subito. Si rese conto che sebbene fosse solo una panchina stava
piangendo.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
Secondo Classificato sez. prosa
“ALLE QUATTRO DA QUALCHE PARTE A LINCOLN PARK”
di Riccardo Galli - 5a F
Tutto il movimento è compiuto in sei passi,
e il settimo porta il ritorno.
Perché il sette è il numero della giovane luce,
si forma quando l’oscurità viene aumentate di uno.
Pink Floyd, Chapter 24
C’era una volta, a Lincoln Park, una panchina. A dir la verità, ce n’erano tante, ma era
una sola quella cercavo.
Affrettai il passo, le scarpe slittavano nel terriccio lubrificato dalle dolci piogge d’aprile,
che penetrano la siccità alla radice. E la pazienza, anche: l’acqua pareva frugare ogni
centimetro del mio pastrano stile Tenente Colombo; cercava uno spiraglio, un’apertura,
una serratura nel tessuto impermeabile con curiosità, astuzia, paziente frenesia. Come
un destriero aumenta la propria velocità ad ogni colpo di sprone, così ogni singola
goccia allungava le mie falcate.
Il sentiero era una ferita di terra battuta nel corpo della pineta. Le conifere, il verde dei
loro mantelli reso cupo dal fitto tendaggio di nubi, si fondevano le une nelle altre al
mio veloce passaggio; nella luce cinerina divenivano una volta che confinava il mio
passare. L’acqua cadeva a piccole gocce e cantava quando incontrava il tetto d’aghi che
copre la cattedrale silvana. La sua canzone parlava di fiori che nascono, alberi che
vivono e inverni che muoiono, era un incantesimo che filtrava in ogni più remota fibra
del mio corpo. Le gambe mi si fecero più leggere, il respiro più facile, mi scoprii a
correre senza sapere quando avessi cominciato. Avrei potuto continuare per ore: gli
aironi cavalcano il vento, i delfini cavalcano le onde, io cavalcavo la pioggia.
La navata silvestre s’interruppe bruscamente quando giunsi ad un piccola radura
dominata da un albero maestoso, vecchio forse tanto quanto la terra in cui affondava le
sue radici. Al suo cospetto, l’acqua cambiò voce e l’incanto finì. Entrai nell’abbraccio
verde scuro, schivando le dita nodose del vecchio pino.”Vecchio cieco! Non mi riconosci
più dal mio passo? Hai bisogno di tastare la mia pelle con i tuoi polpastrelli, di passare
le mie ossa sotto le tue mani? Sai che non posso permettertelo: il mio cappotto è nuovo
di zecca.”
Una sgangherata panchina di legno, vestita d’edera soltanto a metà, offriva ristoro ai
pochi viandanti che s’avventurassero in quelle terre. Stava là, accoccolata tra i piedi del
Pino come un cucciolo tra le zampe della madre. Parve chiamare il mio nome, e mi
sedetti senza indugio. “Non mi riconosci dunque più, vecchio mio?” Dong!
Il campanile della chiesa di S. Giovanni batté un colpo. Il rintocco, uno dei Quattro
Araldi del Mezzo Pomeriggio, arrivò inaspettato, pellegrino giunto da lidi lontani molti
e molti passi da quella contrada.
“Quali nuove dalla Cattedrale, o Primo Araldo di Mezzo Pomeriggio? Forse ti manda
Padre Tempo ad annunciare che il momento è giunto?”
“Già sapete la risposta, messere. Presto arriveranno anche gli altri miei fratelli”.
“Sono le quattro in punto, dunque. La mia bella dama senza pietà ancora non si vede.
Forse teme che le carezze della pioggia siano troppo rudi? Forse che qualche Arcana
Influenza la tiene segregata nelle sue stanze?”
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“Ricordi almeno lei, vecchio pino? Di lei ti ricordi? Ricordi quando gli inverni passavano
veloci e amavi indossare uno scialle di neve? Il sole correva nel segno dell’Acquario, e i
merli non ti allietavano con i loro ritornelli, troppo impegnati a cercarsi un rifugio fra i
comignoli. Era lei, lei sola che danzava per te in questa radura, e il suo riso bastava a
dissetare il tuo cuore inaridito dal gelo e dagli anni. Allora ti riempisti avido gli occhi
del bagliore falbo delle sue chiome, non vorrai dirmi che l’hai dimenticata?”
“Taci, folle innamorato, non sai di che parli! Giusto è il nome che le hai dato, bella
dama senza pietà! Bella è davvero, ma la sua stretta è forte, e non lascia scampo.
Banshee la chiamo io: gaio è il suo riso, ma terribile e latore d’angoscia! Sventurato chi
lo ascolta! Me misero! I secoli sono scivolati su questa mia antica corteccia senza
intaccarla, ho visto la tua stolta razza strisciare nel fango per molte decadi prima che
levasse il capo e sottomettesse noi, i Primogeniti. Molte asce si sono smussate cercando
di ferirmi, e ora la mia dipartita è stata annunciata da una fanciulla!”
La voce dell’Antico sorgeva ruvida, potente e minacciosa come il tuono.
“Ma che vai dicendo, temo che tu...” Dong! Il Secondo degli Araldi rintoccò. “The time
is nigh, milord”.
“Quando il terzo dei Quattro Fratelli avrà bussato, Colei Che Tutto Miete verrà a
prendermi. Zitto ora, già sento il suo passo. Devo vestirmi per il mio funerale.”
L’aria si fece più cupa, come se un etere malvagio l’avesse appestata. Un’aura sacrilega
emanava dalle fronde del pino, una ragnatela di emozioni profonde quanto le
fondamenta del mondo. Dei fungacci biancastri che allignavano fra le forre più oscure
delle radici dell’Antico s’accesero d’una luminescenza sinistra. Mi levai di scatto dalla
panchina, le cui assi, malferme sui chiodi rosi dalla ruggine erano troppo simili ad un
ghigno sgangherato. La poggia aveva smesso di cadere, e un sudario di fitta caligine
vorticava attorno all’albero. I Lupi del Vento presero ad ululare tra i rami del pino, ma
non sembravano capaci di scacciare la nebbia.
Esitante, mi voltai a guardare il vecchio: quel poco di tronco che potevo vedere era
nero come un obelisco di ossidiana, e i bassorilievi d’edera si erano brunite. Parevano
rivoli di sangue rappreso. “Che fai vecchio?! Conosco la mia bella! Non è lei quella che
temi! Presto verrà, e se l’accogli così, fuggirà via!”
“Sciocco, allora ha ammaliato anche te! Io l’ho vista errare tra i miei fratelli alla luce
delle stelle, e ogni volta che il suo riso echeggiava nel bosco, uno di loro mancava
all’appello. Già troppe volte ha danzato per me: sono io il prossimo!”
Un brivido camminò lento lungo tutta la mia schiena.
Dong!
Trasalii. Il terzo dei Quattro Fratelli giunse e passò, taciturno.
Ebbi l’impulso di nascondermi, ma una volontà sconosciuta mi costrinse a torcere il
collo.
Fronteggiavo la nebbia, un esercito di fantasmi bianchi che inghiottivano ogni sospiro.
Poi un canto come di sirena rimbalzò tra i vapori e approdò fino a me.
Non potevo muovere un solo muscolo; i miei occhi erano spalancati e le mie orecchie
tese.
Sentivo ogni singolo ago fremere, mentre sfiorava il mio volto tremando d’impazienza e
timore.
La nebbia s’aperse lentamente come una conchiglia, e una figura si fece avanti. Era una
donna, avvolta in candide vesti svolazzanti. Aveva capelli d’una luminosità abbagliante
nel grigiore della radura, e il suo volto snello era la più bella perla ch’avessi mai visto.
Eppure, qualcosa non andava. Me ne accorsi quando entrò nel cerchio tracciato dai
rami del pino, passando attraverso le difese del vecchio come se nulla fosse. Il suo volto
era troppo scarno, la pelle eburnea tirata oltremodo sul teschio affilato.
“B-banshee...”
M’inchiodò sul volto due occhi profondi e scuri come il cielo a mezzanotte.
Sorrise un momento, annuì, poi mi oltrepassò. Tese la mano verso l’Antico, e fece
scorrere l’indice in verticale sulla corteccia, dall’alto verso il basso.
“Vieni amico, è il momento.”
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“No! No. No...”
“Tutta la tua vita hai desiderato vedere oltre quest’orizzonte. Per secoli hai invidiato gli
effimeri umani, che nella loro miseria e nella loro follia potevano giungere anche più
lontano dei tuoi aghi trascinati via dal vento dell’Est.”
“Ma... io...” La voce del vecchio era già addolcita.
“Ora saprai dove dorme il sole, berrai direttamente dal vaso l’acqua che finora ti è stata
versata a piccole gocce, incontrerai le foglie di quercia trapassate in autunno e danzerai
con loro. Vieni”
L’ultima parola fu pronunciata come un comando, un ordine secco e dolce come il
legno di salice. Dove la donna aveva posato il dito, s’apri una fessura nella corteccia.
Ben presto s’allargò, divenendo uno stretto pertugio. Ne uscì una mano. La Dama in
Bianco la prese con delicatezza, e tirando piano aiutò un vecchio ad uscire dal tronco
del pino. Era ancora vigoroso, ma quel poco di volto che trapelava sotto una folta barba
canuta era solcato da una trama di rughe, tessute da Padre Tempo in persona. I due si
sorrisero, poi procedettero mano nella mano fino al limitare della nebbia. Lì la donna
s’arrestò, mentre il vegliardo proseguì senza voltarsi.
Dong! Il quarto Araldo giunse, portando con sé un raggio di sole. “Ecco il mio dono
-disse- Il momento è passato”.
Alla luce del Mezzo pomeriggio, la bruma si dissolse più in fretta che se fosse stata
tenebra.
La banshee si trasformò allora: il bagliore delle sue chiome da bianco accecante si fece
dorato. Il colore tornò sulle sue guance.
“Mia dama, finalmente sei giunta”
“Puff... ho fatto una corsa... avevo la sciarpa che mi svolazzava dietro...”
“Grazie per aver fatto coraggio al vecchio pino. Non ci sarei mai riuscito da me.”
“Ma che dici? Non capisco, sono appena arrivata... E da quand’è che mi chiami dama?
Meno male che c’è sta panchina, devo prendere fiato un attimo”.
Sedutasi, rise forte, e spazzò via le ombre tra i rami del pino trapassato. I suoi occhi
erano profondi e scuri come il cielo stellato a mezzanotte.
Era bella come l’avevo spesso immaginata, come non l’avevo vista mai.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
Premio Speciale Giuria
“LA GENTE CON LE GAMBE PIEGATE”
di Davide Galbiati - 5a G
Vedere passare, subire, osservare,
Passiva Odissea presso un floreo mare.
Racconti e pensieri di varie giornate
Mi affidan la gente dalle gambe piegate.
Parole d’amore, di rabbia e pazzia
Oppure soltanto muta malinconia,
O goliardiche scritte di effimera età
lo scorgo e raccolgo con immobil maestà:
- Il Corridore
Ritmico suono di suole sportive
Rompe il silenzio della rugiada;
Si ferma, mi guarda, gambe già attive
Per porsi al ciglio della solita strada.
E dopo un sereno ma ratto ristoro
Si alza e riparte col ritmico coro.
-Il Vecchio
Sospiro sommesso del parco attempato
Richiama memorie di passato e presente,
Del vispo nipote o di quand’ero assente,
Di tutto il tempo che il Fato gli ha dato.
Raccoglie il bastone, la schiena ancor china,
Mi lascia e non sa se avrà un’altra mattina.
-L’Impiegato
Coll’Astro di Apollo, alto Pallone,
Del cotto e fontina assaggio l’odore
Sull’abito grigio, nervoso cotone,
La vita racchiusa nella Ventiquattrore.
Le briciole libere sento ormai sole,
E’ tornato al dovere senza troppe parole.
-La Coppietta
Il caldo fogliame di querce autunnali
Circonda l’amore con lieto rossore,
Sognando e parlando di anelli speciali,
Di figli, di vita, di dorate ore.
Commossa io guardo la coppia di schiene,
Fusione di parti e mielosa speme.
-La Mamma e il Bambino
La madre si siede e l’angelo gioca,
Ad una gli affanni e l’altro il candore
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Della prima metà del decennio migliore
Dove “malvagio” è parola fioca.
Poi se ne vanno e due son certezze:
Lui le deve la vita e riceve carezze.
-Gli Adolescenti
Ombre vivaci, voci lascive,
Azioni sconnesse ed alcoliche risa
Si alternano a rabbia, occhiate furtive
D’inquiete paure di vita concisa.
Ceneri, sputi, rotte verdi bottiglie,
Sera passata tra mere quisquilie.
-Il Clochard
L’amaro del mondo misto a vinaccia
Tra il freddo del buio fiacco arranca;
Il gelo nell’occhio, stanchezza nell’anca,
Aspro devasto su pallida faccia.
Notizie e problemi gli fan da coperta,
lo scomodo letto in una camera aperta.
Tavolozza d’idee, di sguardi, di sensi,
Il tempo dipinge senza avere consensi.
lo muto epicentro per miste persone,
Pianeti pensanti in rivoluzione
Lunga anche solo una corta giornata
Che inizia da poco, da un’ombra calata.
Proprio nel mentre il Barbone s’inquieta,
Fra poco si alza, ritorna l’Atleta.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
Premio Speciale Giuria
“L’IMPORTANZA DELLA PANCHINA LUNGA”
di Emanuele Moioli - 5a C
Centoventi partite in un lampo
senza mai calcare il campo
sempre seduto, sempre in panca,
ma non muovere un muscolo stanca.
L’ho domandato al mio allenatore,
che mi ha risposto mal celando un pallore
- vedrai, comunque tu la ponga,
capirai l’importanza della panchina lunga-.
Ero un giovane a cui piaceva giocare,
proprio all’inter dovevo capitare!
Finché un giorno -io non so comecaddi nella fossa dell’allenatore
proprio lì ov’era la panca
senza poter spostare la gamba.
Allor mi sovvenne la parola di Dunga
è forse questa l’importanza della panchina lunga?
Subito fui portato, non a passo lento
da un medico che dicevano essere un portento.
Quello prescrisse: -ahi, ahi, caro giocatore
questa frattura le procurerà un gran dolore,
con un apposito strumento potrà tenere
il gambone sollevato a suo piacerecosì finalmente, seppur il gesso ancor mi punga
ho capito l’importanza della panchina lunga.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
Premio Speciale Giuria
“SENZA”
di Alessandro Boggiani - 4a B
Perché non vedeva niente? Aveva sentito dire che quando si muore si rivede tutta la propria
vita, come un film di cui sei stato regista inconsapevole. E invece nulla. Provò a rifletterci:
forse era perché la storia dei suoi 75 anni di vita era stata una storia di nessuno, vuota, priva
di significati, intrisa di stereotipi giovanili, di luoghi comuni adulti e di vecchia tv spazzatura.
Era un film piuttosto bruttino, in effetti. Ma se lui era il regista, com’è che non poteva
cambiare il fiale o l’inizio o tutto? Non poteva cancellare nemmeno cancellare la morte di suo
padre, o il fatto di non aver mai chiesto a Cristina di sposarlo. Beh, ad ogni modo, ora il film
stava finendo. Luce in sala!
Non è giornata. Fu il primo pensiero dell’ispettore Calleri, quando sentì una sirena avvicinarsi
e due colpi di clacson. Si affacciò.
“Ispettore sono l’agente Boschi, per ordine del commissario la devo accompagnare in un
paesino qua poco lontano”
“C’è la fiera dell’agricoltura?”
“No, veramente c’è stato un omicidio.”
“Ma non potevate avvisare al telefono?”
“Era staccato”
“E tu non potevi citofonare? Ti sto urlando dal quarto piano, se non te sei accorto”
“Temevo di disturbare”
Calleri prese un pesante fermacarte in marmo e se lo girò pericolosamente tra le mani,
calcolando a che velocità poteva arrivare sull’agente e quanti giorni di prognosi poteva
riservargli. Si limitò ad un: “Arrivo”.
Girandosi, inciampò sul gatto che schizzò via, rimbalzò sulla Stratocaster e atterrò su un
cartone di pizza. Tutto ciò gli diede lo spunto per guardare il disfacimento in cui versava casa
sua. Si chiese se dovesse mettere a posto e si diede la solita risposta, tratta dai Simpson: “Non
può farlo qualcun altro?”
Odiò immediatamente quel maledetto paesello. Erano le classiche quattro strade affacciate
sulla provinciale, con case popolari, scuola elementare e frotte di adolescenti che al sabato
sera prendevano i loro fottuti motorini e smarmittando andavano nel grosso centro urbano
più vicino a sballarsi. Tristezza fu la prima parola che gli venne in mente.
Gli agenti della mobile, già sul posto, lo accompagnarono al sesto piano. “La vittima abitava
all’ultimo” Contò e ricontò, con la sua ottima memoria fotografica, i balconi della casa vista da
fuori:
“Il settimo è il piano fantasma?”
“No, ma per un difetto di costruzione della casa, l’ascensore non ci arriva”
“Ma, a proposito, perché ce ne occupiamo noi? Questo paese non ce l’ha una locale?”
“Hanno chiuso il commissariato per mancanza di fondi. Al suo posto c’è un night club.”
Osservò le scale che dal sesto raggiungevano l’ “attico”. Una chiazza scura si era formata e
rappresa nel mini pianerottolo tra le rampe. Era una schifosa pozza nera e maleodorante che
sembrava poter inghiottire tutto ciò che le passava vicino, compresi i suoni, le voci. Prima di
fermarsi, il sangue aveva tracciato una sottile linea sui gradini, quasi segnando il passo. Come
se il suo colore nero volesse stabilire la propria superiorità sul candore del marmo delle scale.
Nero e bianco. Vita e morte. Ammirando questa dicotomia delle scale, Calleri rischiò di
inciampare in un contrassegno della scientifica. Arrivò in cima alle scale e vide il corpo.
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Accasciato. Supino. Una mano pendeva sul primo gradino. Lo sguardo era tetro, vacuo, rivolto
verso il nulla in cui ora quell’uomo si trovava, eppure c’era una nota di delusione, come di
aspettative infrante, di promesse non mantenute. Entrò nell’appartamento che, osservò con un
leggero cinismo, riusciva ad essere più disordinato del suo, e vide gli uomini della scientifica
al lavoro. Si soffermò con particolare attenzione sulla dott.ssa Mancucci che, approfittando
della giornata calda, indossava un decolté da salti di gioia. Aveva sempre riso a vedere quei
telefilm in cui sulla scena del crimine si lavorava il tute da Apollo 13, per poi assistere
all’arrivo dell’eroico ispettore in jeans e maglietta che rovinava quel paradiso di igiene,
toccando qualsiasi cosa. Si fece strada nel bilocale. Un grosso lampadario era a pelle di leone
sul pavimento dell’ingresso, alla fine del quale, con un mortifero dislivello in cui Calleri rischiò
gli incisivi, cominciava la moquette, ornata qua e là da gocce perIate. Sangue, probabilmente.
Alla parete, una riproduzione della “Persistenza della memoria” di Dalì con sotto scritto Renè
Magritte ed una libreria su cui troneggiava, fiero e solitario signore della polvere, un “I
Promessi Sposi” che probabilmente non conosceva lettore alcuno da circa 50 anni. Nel
corridoio quella che doveva essere una cassapanca era ridotta ad un cumulo di stuzzicadenti.
Venne dissuaso dall’entrare in cucina dall’odore che ne fuoriusciva. Un misto acre di aglio,
frutta andata a male, vino vecchio e detersivo per piatti che avrebbe potuto affrontare solo
raggiungendo la pace spirituale di un monaco buddista. La parte più interessante era
sicuramente il salotto. La televisione era accesa e mostrava un giornalista o presunto tale
mentre spiegava che la crisi era colpa dei comunisti che non spendevano e si faceva bello con i
dati di vendita del suo giornale, da cui i comunisti stavano fortunatamente alla larga. Spense
istintivamente, quando quello iniziava a dire che gli immigrati andrebbero rimandati tutti al
loro paese sui cammelli. Al collega della scientifica che lo accusò di aver inquinato la scena del
crimine, tirò dietro il telecomando, che misteriosamente non si ruppe.
I cassetti del mastodontico mobile sulla parete di fronte alla porta erano stati tutti aperti e
frugati con cura. Lo dimostrava il fatto che per terra la moquette era coperta da qualsiasi
oggetto si possa nelle ante di un mobile. Riviste, tappi, elastici, pile, forchette, fogli. Una
micro cassaforte da due soldi era stata forzata ed era vuota, salvo qualche lettera ad una certa
Cristina, e foto di una donna. Quella Cristina, evidentemente. C’erano anche, sparse sul
pavimento, alcune azioni di una società fallita due anni prima, ma il cui amministratore,
finanziere con l’hobby delle candidature, era stato giudicato innocente da un giudice poi
misteriosamente entrato in politica dalla stessa parte dell’imputato, ed ora se la spassava
chissà dove, con ancora in tasca i soldi di tutti quei piccoli risparmiatori che aveva truffato.
Calleri si affacciò al finestrone principale, che non aveva balcone. Vide un altro classico topos
di quei paesini della Brianza. Il giardinetto, dove i piccoli giocano, i giovani si atteggiano, gli
adulti portano a spasso il cane e altre terrificanti banalità del genere, suddivise per classi di
nascita. Quel giardinetto aveva una sola panchina. Verde, di legno, doveva avere qualche
anno. Molto probabilmente era il luogo di ritrovo dei sopraccitati adolescenti, quando
uscivano dalle loro case fatte di liti familiari, di computer-dipendenza e di reality shows. Ad
ogni modo, la panchina, si vedeva dal settimo piano, aveva un’asse rotta. Questo fatto e
l’improvviso arrivo della Polizia, che aveva destato quel paese dormiente dal suo
menefreghistico torpore, facevano sì che al momento non ci fosse seduto nessuno. Quella vista
lo incuriosì. Chissà quante storie aveva da raccontare quella panchina, chissà quante ne aveva
sentite. Si riprese dai suoi pensieri e si tolse un sorrisetto ebete quando sentì un’angelica voce
che lo chiamava dall’interno.
“Ci sono molti segni di colluttazione, Fabio...” cominciò la Mancucci senza che lui riuscisse ad
ascoltarla “...e la porta è stata forzata, riteniamo che la vittima abbia scoperto che un ladro si
era introdotto...” era inutile, si distraeva troppo. Eppure le labbra si muovevano; “...ma ci sono
un paio di grosse questioni da appurare...”
“Due grosse questioni” ripeté lui meccanicamente, con lo sguardo fisso di chi non ha nulla da
esprimere se non ammirazione.
“Ma mi stai ascoltando?”
“Eh? Ah sì, certo naturalmente. Come si chiamava la vittima?”
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“Oliviero Mazzoleni, ex impiegato al catasto, ex soldato semplice nella seconda guerra
mondiale, ex…”
“Sì, ma adesso cosa faceva?” chiese l’ispettore alla solerte portinaia, che da come aveva
cominciato sembrava sapere vita morte e miracoli di tutti gli abitanti della palazzina.
“La vita del pensionato.”
Espressione che alla lettera significava: un cazzo.
“Cioè?” si informò Calleri.
“Mah, le solite cose che fanno questi anziani. Si alzava presto la mattina, andava a comprare il
pane e il giornale, commentava gli scavi. Certo che dopo i 70 anni la vita dev’essere noiosa”
Lui la guardò come una mucca potrebbe fissare un Picasso. O li portava male o lei ne aveva
più di ottanta. Decise di lasciar perdere.
“Parenti? Amici?”
“Era un solitario. Solo un cugino di terzo grado si presentava, ogni tanto. Una cosa strana
c’era però.” Si sentì rasserenato. Tutti hanno qualcosa che non va, secondo qualcuno. Una
persona normale a questo mondo sarebbe un evento. E bisognerebbe anche discutere sul
concetto di normale. Lasciata perdere 2.
“Ogni giorno, per almeno un paio d’ore negli ultimi dieci anni, si fermava su quella panchina lì
fuori e le parlava”
“A chi?”
“Ma come a chi, ispettore? Alla panchina.”
“Certo, scemo io a non pensarci.”
“Come scusi?”
“Niente, vada avanti...” sentenziò disperato. Si sentiva in una commedia di Ionesco, quelle
dove capita di tutto, ma non succede assolutamente niente.
“Le raccontava tutto quello che era successo, le sue lamentele, le sue speranze, i suoi
sentimenti. Che gran ridere si facevano... Credo fosse anche convinto che la panchina gli
rispondesse. Oggi però non è andato, la panchina è rotta. È per questo che è tornato a casa
prima. Pensi che sfortuna: è la prima volta che si rompe in 20 anni che è lì.” Puoi anche alzarti
presto, ma il tuo destino si è già svegliato un’ora prima. Filosofia da baraccone.
La ramanzina che gli fece il commissario, sul fatto che quell’inchiesta andasse chiusa in fretta,
fu inutile. Tre giorni dopo, arrestarono un certo Florian Sofianu, idraulico romeno di 22 anni.
Non aveva certo un aspetto rassicurate, e il pugno che tirò alle pareti dello studio di Calleri
entrandoci non deponeva a suo favore. Fece tra l’altro crollare un quadro con doppia foto di
Tupac Shakur e Fabrizio De Andrè che l’ispettore teneva vicino a quella del Presidente della
Repubblica, con sotto la scritta: “Poeti”. Ad ogni modo, l’assassino non era certo un animale.
Era stato chiamato dal Mazzoleni perché il lavandino perdeva. Come confessò, aveva cercato
di arrotondare lo stipendio da fame che gli dava la sua agenzia, arraffando qualcosa. Ma era
stato sorpreso dal ritorno della vittima, che lo aveva aggredito, dandogli dello “Sporco
zingaro”. L’ispettore non se ne stupì: “L’insulto razzista sta diventando la sport nazionale”.
C’era stata una colluttazione, in cui lui aveva colpito il vecchietto, tutt’altro che indebolito
dall’età, per difendersi. Ma aveva calcolato male la forza. Quello era barcollato fuori
dall’appartamento, salvo poi crollare esanime. L’inchiesta era chiusa. Ma c’era da affrontare
qualcosa di più difficile. Già quando avevano arrestato il colpevole, una folla inferocita aveva
cercato di linciarlo, gridando di tutto, lanciando ombrelli, uova e minacce. L’ispettore e i suoi
uomini avevano faticato non poco a tenere ferma la gente, che cercava in tutti i modi di
raggiungere quel capro espiatorio. Probabilmente, nessuno di loro sapeva nemmeno che faccia
avesse la vittima. Il giorno immediatamente successivo poi, colmo di sfiga. era il giorno di
uscita dei più importanti settimanali di cronaca locale, che subito titolarono contro “Il
mostro”, definendolo un sanguinario assassino, che sarebbe stato presto rimesso. in libertà
dallo”scandaloso garantismo che si usa verso negri, ebrei, zingari o messicani”. Volgarissima
citazione, tra l’altro, di Full Metal Jacket. Nell’originale, osservò Calleri, al posto di zingari
c’era “italiani”. Chi era il mostro? Questo avrebbe voluto chiedere a tutte quelle persone. Era
quel poveraccio, o il suo datore di lavoro, noto picchiatore di prostitute, che lo pagava due
soldi?
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Avrebbe avuto voglia di spaccare tutto. In momenti come quelli lo assaliva una rabbia
primordiale. Viveva in un paese senza.
Qualche giorno dopo, tornò sul luogo del delitto, per togliere i sigilli. Osservò la panchina, nel
frattempo riparata. Ebbe un flash. Gli capitava ogni tanto di fermarsi su un oggetto e
cominciare a pensare a 200 all’ora. Durante l’indagine, avevano scoperto l’identità di Cristina,
la donna amata dal Mazzoleni. Era morta 10 anni prima. Ammazzata. E lui da 10 anni parlava
con la panchina. Chissà, forse aveva letto della sua morte su quella panchina. Su quella aveva
versato le ultime lacrime di una vita apatica e vuota, riempita da un amore, forse impossibile,
sicuramente finito. E da allora aveva cercato di far rivivere l’immagine di lei, semplicemente
ergendo la panchina a sacrario dell’amata, parlandole, pregandola. Le aveva confessato tutto,
come tra veri innamorati. E allora forse la panchina gli rispondeva davvero. Nella sua testa
ovviamente. O no? Chi lo sa forse la panchina, ogni volta che lui l’abbandonava, meditava di
liberarsene per sempre. E allora, proprio quel giorno, aveva deciso di rompersi. Dopo 20 anni
di onorato servizio. Una panchina vendicativa? Era una stronzata, ma Calleri si sorprese ad
allontanarsi di qualche passo. Chissà cosa aveva pensato il povero Oliviero vedendo un altro
amore spezzato. Tornato a casa, quando si era accorto che Sofianu aveva aperto la cassaforte,
gli si era gettato addosso, per paura che portasse via gli ultimi ricordi del suo primo amore,
rivissuto su una panchina. Calleri chiuse gli occhi dietro ai Ray Ban e si ripropose di cercare
uno psicanalista sulle pagine gialle.
E il folle mondo va avanti rotolando.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
Premio Speciale Giuria
“LA PANCHINA”
di Francesca Colombo - 4a A
Arrivò, ed era una giornata umida, e uggiosa.
C’era un’aria fredda, per essere il principio di primavera, e i nuvoloni grigi si
stendevano sul cielo plumbeo come gomitoli di lana infagottati l’uno sull’altro. La vidi
barcollare da lontano, un’enorme pachiderma dondolante sui fianchi, spalle strette,
girovita enorme.
Nemmeno l’abbigliamento era stato scelto con intelligenza: colori opachi e tessuti
aderenti, l’assurda pretesa di uniformarsi alla moda corrente.
Dentro di me, trattenni una risata sadica. La moda è fatta per gente in forma. Mentre si
faceva più vicina, tuttavia, potevo scorgere il sorriso dipinto sulle labbra a canotto, di
un rosso acceso, e provai un misto di tenerezza e comprensione, per quella piccola
pachiderma che camminava felice.
Si, era felice.
Lo si notava dall’andatura serafica con cui procedeva, come se non avesse la minima
fretta, il ritmo nell’oscillare le braccia, la testa alta e fiera,
Lo si notava per come trascinava con fatica una borsa a tracolla che, appoggiata alla
coscia informe, impediva il movimento più di quanto la notevole stazza non facesse già;
eppure, c’era un tentativo di sinuosità in quella camminata, e anche da quello si vedeva
che era felice.
Non saprei dire che cosa mi facesse più pena: forse quella dentatura ingiallita e
sbilenca, quel sudiciume sul collo, o i rotoloni di grasso che ballavano sul ventre, o
quelle pustole brufolose che le macchiavano il viso.
Ma più mi s’avvicinava e più mi riusciva difficile disprezzarla.
Quando mi fu ormai vicinissima, percepivo anche il respiro affannato e irregolare di chi
ha compiuto uno sforzo immane, invece aveva solo passeggiato per poche centinaia di
metri, suppongo.
Si fermò prima di sedersi per riprendere fiato.
Un’enorme cerchio di sudore si estendeva a macchia d’olio sotto l’ascella, e ne ero
certo, presto avrebbe iniziato a diffondersi un odore sgradevole; ma si vedeva che
quella piccola donna, come sempre, era felice. Tenera.
Non so cosa ci trovasse di bello nel venire tutti i giorni, alla stessa ora, nella stessa
panchina scrostata di quell’angolo trascurato del parco, non so per quale ragione si
sedesse a fissare alberi, prati, bambini che muovevano i primi passi sotto lo sguardo
ansioso dei nonni che li rincorrevano, e leggesse per ore e ore in silenzio. Di solito si
sedeva dalla parte sinistra, spalmando le sue chiappe lardose su di me e appoggiando la
schiena ingobbita dal grasso che si portava dietro.
Si agitava per qualche minuto in cerca della posizione più comoda, oscillava i glutei
flaccidi, allargava le braccia, incrociava le gambe, le stendeva, le rannicchiava, finché
tirava fuori l’ultimo romanzo commerciale (rosa, generalmente) e la sentivi sospirare
per una buona mezz’ora, e si perdeva silenziosa nella lettura.
Poi si stancava, chiudeva il libro, si guardava attorno, e così era tutti i giorni, tutte le
settimane, tutti i mesi. Tempo permettendo, chiaramente.
Non sapevo come si chiamasse. Non sapevo se avesse una famiglia (ma presumo,
oggettivamente, di no), né sapevo da dove venisse.
Nonostante questo, era la mia migliore amica.
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Quel pomeriggio, tuttavia, avrei voluto urlarle di non sedersi a sinistra, se solo avesse
potuto ascoltarmi non l’avrebbe fatto ed ero preoccupata, perché era ingenua e anche
un po’ stupida, ma se avesse prestato attenzione l’avrebbe capito, ma non ero certa di
questo e avrei voluto fermarla in tempo...
Invece mi stupì. Dopo una breve occhiata, si sedette a destra, e tirai un sospiro di
sollievo, quel pomeriggio di un’uggiosa giornata di inizio aprile.
Così tirò fuori uno dei suoi stupidi romanzi d’amore e si immerse silenziosa nella
lettura.
Era passata una buona mezz’ora da quando si era seduta (evitando stranamente le sue
mosse non proprio leggiadre) quand’ecco che vidi quell’uomo dirigersi verso di me a
passo sicuro.
Si muoveva con spavalderia, spalle aperte e viso disteso, l’esatto contrario della donna.
Era agile e snello.
Non era la prima volta che lo vedevo, anche se le sue visite erano rare e occasionali,
però di lui mi ero fatta un’idea piuttosto precisa.
Sapevo che era un illustre professore, noto ai più per il carattere burbero e saccente,
che era sulla cinquantina, che aveva una bella famiglia, che aveva la pretesa di sentirsi
un anticonformista, che si sentiva giovane, moderno, vitale e dinamico, e aveva un
talento particolare per considerare una massa di imbecilli tutti quelli che, a differenza
di lui, non conoscevano Hegel o Feynman.
Mi infastidivano i suoi modi di fare, il suo vantarsi continuamente con chi incontrava, il
suo immergersi in calcoli e studi proprio qui, su di me, su una scrostata panchina del
parco; che ci vieni a fare, mi domandavo, a studiare ad alta voce, su una panchina
scrostata del parco?
In effetti, lo consideravo un idiota.
Quando arrivò, lei sorrise.
Il tizio si sedette, ignorando il tacito e amichevole saluto e invadendo l’aria con quel suo
profumo dolciastro di tabacco e Calvin Klein, e dalla valigetta che si era portato
appresso estrasse un fascicolo di compiti in classe e una penna.
Diede via a un insopportabile show di risatine e sbuffi, apostrofando con acidità le
risposte tentennanti, ricoprendo di epiteti sgradevoli quasi tutti gli alunni, e sapevo, io
che non l’avevo mai dimenticato, che aveva adocchiato il libro della mia amica, che
aveva scosso la testa con disgusto e che commentava a bassa voce le correzioni tanto
per darsi un tono.
Capii anche, dal modo in cui si muoveva su di me e da come sapevo funzionasse più o
meno la sua mente, che era infastidito.
Era infastidito dall’ingombrante massa di lei, e, potrei giurarlo, dopo l’ennesimo
movimento mormorò “Stupida balena” e si concesse qualche espressione facciale non
troppo cortese, che se la mia amica fosse stata più sveglia o meno assorta dalla trama
avrebbe notato.
Ma soprattutto, ne ero sicura, riteneva una totale perdita di tempo, per una mente
brillante come la sua, dividere quella panchina scrostata con una grassa paesanotta di
mezza età che perdeva il suo tempo a leggere romanzi rosa.
Lui, il genio, l’orgoglio cittadino, la mente superiore, il difensore della cultura e della
ragione, dividere quell’angolino con un’insulsa donnetta qualunque che non avrebbe
capito mezza parola della più banale delle discussioni che avrebbe potuto iniziare con
lei!
Ma la donna era immobile, e tranquilla, e non mi dava fastidio, e mi sembrava quasi di
non percepire le sue chiappe adipose.
Ogni tanto si illuminava aprendosi in un sorriso o un sospiro sognante.
Forse rimase per un’altra mezz’ora, e quando ormai era quasi buio e le luci dei lampioni
iniziavano ad accendersi, allungò le gambe stiracchiandosi, prese la tracolla, mise il
libro dentro e si alzò facendomi cigolare, e portando con sé l’odore sudato e terribile,
prese a camminare verso l’uscita.
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Ed era felice.
Poco dopo, anche il tizio chiuse i compiti.
« Balenottera da pochi soldi… leggere quella robaccia... e ci lamentiamo che il Paese va
male... » borbottò, e iniziò una critica serrata contro la donna, e poi la cultura, che
stava scomparendo, e d’altra parte i reality show facevano successo, e la superficialità
popolare, e “per certi versi siamo ancora nel medioevo!”, e non c’era più nessuno ormai
che provava interesse per le disequazioni esponenziali di grado superiore al secondo, a
nessuno interessava più il principio di Heisemberg, nessuno s’innamorava più di
Heidegger o Martinetti o Samuel Beckett...
E continuò così finché non si fu allontanato, a dire cose sacrosante, innegabili, da
applausi, se non che non ci feci troppo caso, presa com’ero a ridere per quella grande
macchia di vernice verde scuro che gli macchiava il sedere.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
Premio Speciale Giuria
“COME ADELAIDE DIVENNE UN ALBERO”
di Francesca Montanari - 5a A
Adelaide aspettava la vecchiaia.
Quel pensiero le era venuto la prima volta a cinque anni, osservando gli adulti
intorno a lei affannarsi mentre i vecchi stavano seduti a lamentarsi. Non
facevano altro quei vecchi, si lamentavano.
Non si può certo dire che Adelaide avesse avuto un’infanzia felice, ma questa è
un’altra storia. Quello che sappiamo è che Adelaide un giorno si sedette e iniziò
ad attendere.
Io la conobbi quindicenne, una casa da mandare avanti, un fratello piccolo da
gestire e la solita infinità di faccende. Però Adelaide era tranquilla, aveva sempre
un sorriso per tutti. E non è mica un modo di dire! Adelaide rideva sempre e
forse era solo un tic nervoso, però era piacevole. Questo vezzo aveva ispirato
molto i compaesani, che, poco delicatamente, la chiamavano la Beata Adelaide,
proprio lei che di beata non aveva nulla.
Veniva ogni giorno nel mio negozio, dove comprava due panini stantii, ma non
per risparmiare, glieli avrei anche regalati, perché, quasi pregustando quel
tempo, diceva: “Un giorno non avrò più i denti per masticare il pane duro!”.
Adelaide nonostante i suoi casini cresceva bene.
A diciassette anni era tutta deliziose curvette e sorrisoni, parecchi nel paese
pensavano che sarebbe stata una gran moglie. Coscienziosa, morigerata, sempre
contenta, buona come solo la Beata Adelaide poteva essere. Però sembrava
sempre troppo attiva, correva. Sempre.
“Un giorno non potrò nemmeno camminare senza un bastone!”
Poi venne un giorno si seppe che il fratello della Beata Adelaide era partito di
notte in tutta fretta, e nessuno, ma proprio nessuno ne sapeva il perché. O
almeno, nessuno di noi, che la Beata Adelaide certo ne era al corrente ma di
dircelo nemmeno se lo sognava. Si iniziò a vederla sempre meno in paese, veniva
solo a comprare il pane e qualche altra spesuccia, poi tornava dritta dritta a casa,
senza chiacchierare con nessuno.
“Un giorno avrò tutto il tempo di parlare, ora ho da fare!”
Mi ricordo che era agosto, e c’era un caldo bestia, la Beata Adelaide era venuta a
comprare il pane. La crocchia sfatta, le guance imperIate di sudore. Uscita dal
mio negozio la vidi fare una cosa che non aveva mai fatto. Si sedette sulla
panchina che sta proprio davanti al mio negozio. Una gran bella panchina con un
solo difetto. Era proprio al sole. Non c’era mezzo albero intorno. Non c’era
nemmeno un cespuglio. Era semplicemente una panchina sulla strada; dava
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l’opportunità di scrutare i passanti e riposarsi nei giorni non troppo caldi, ma in
pieno agosto o quando pioveva, era davvero una panchina di merda.
Eppure se ne stava seduta lì, tutta tranquilla, come se gradisse molto avere il
fondo schiena rovente, come appena uscito dal forno. Ferma, con quel suo solito
sorriso bonario, guardava la strada, come inanime.
E da quella volta, ogni giorno si andava a sedere lì, per un’ora, per due. A volte
per l’intero pomeriggio.
Aspettava il ritorno del fratello, dicevano alcuni, è diventata matta sostenevano
altri, altri ancora che aspettava un marito per far la vita da signora, oppure
semplicemente che Dio la chiamasse... Beata com’era! I paesi son fatti così,
ognuno deve avere una sua teoria.
Il fatto era diventato talmente curioso che nei bar gli uomini dicevano che la
Beata Adelaide era una donna da marciapiede molto pigra, molti ragazzotti
perdevano i pomeriggi a guardarla senza aver il coraggio di avvicinarsi, le comari
facevano scommesse sulle ragioni di quel comportamento insolito, così che si
arrivò a dire che l’insolita Adelaide aveva portato la corruzione nel paese. I
paesani sono fatti così, danno sempre la colpa agli altri.
La panchina era diventata la panchina dell’Adelaide e nessuno più ci si sedeva,
quasi fosse diventata una panchina sacra e per questo inviolabile.
A me la Beata era sempre stata simpatica, era una ragazzina così carina e sentir
le voci di paese proprio nella mia bottega mi faceva diventar nervoso. Tutti
davanti alla mia vetrina o dentro il mio negozio a parlottare, e mai che
comprassero una mezza pagnotta.
Così un giorno le andai a domandare direttamente la ragione del suo
comportamento.
“Oh, sono stanca e aspetto.”
“E che aspetti Adelaide?”
“Aspetto la vecchiaia. Sono stanca e ho sognato che verrà proprio dal fondo di
questa via. Perciò aspetto”.
Ed era strano sì che aspettasse la vecchiaia una ragazza ventenne! Chi diceva che
era diventata matta vinse i soldi puntati e la storia di Adelaide divenne un
capitolo chiuso. Nessuno ci faceva più caso. Ormai faceva parte della strada come
la chiesa e i gatti randagi.
Passavano i mesi e la bella Adelaide stava sempre seduta ad aspettare, quasi non
tornava più a casa. Con la pioggia o col sole, col vento, di notte, di giorno...
E quando fu Primavera notai che sembrava fiorire, ma quasi per davvero. Un
giorno passando lì davanti c’erano dei petali sotto la panchina.
E per tutta l’estate fili d’erba e api e farfalle e in autunno foglie rosse e gialle.
Alla Adelaide qualcuno aveva detto che dava fastidio lì, seduta sulla panchina,
che sembrava matta, e lei, buona com’era, si era alzata in piedi sorridente.
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Continuava ad aspettare, in piedi di fianco alla sua panchina, la vecchiaia che
però non arrivava.
Una mattina la scoprimmo albero, un giovane albero con bellissime foglie, e di
una specie sconosciuta con i fiori rosa e i rami protesi verso il fondo della via
dalla quale la vecchiaia non sarebbe più arrivata.
E la panchina della Adelaide divenne la panchina più ambita del paese. Ci si
innamoravano i fidanzati, ci giocavano i bambini e le loro mamme quando li
attendevano, ci scherzavano gli anziani ed un cieco riuscì perfino a leggerci un
giornale, una panchina con un’ombra come quella, non s’era vista mai.
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Premio Letterario”Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
“MAI DIRE PANCHINA”
di Beatrice Castellani - 2a F
È un vocabolo taboo. Tutti lo pensano, nessuno lo dice. I panchina-dipendenti
aumentano a dismisura. Il presidente della repubblica: -non è vero- sostiene -io
la panchina non so nemmeno cosa sia- Eppure le foto parlano chiaro: la stava
guardando anche lui. Dilaga il panico: -i ragazzi diventano scemi- dichiara il
ministro dell’istruzione -bisogna eliminare esempi del genere- I giovani sembrano
gli unici ad ammetterlo: -a noi la panchina piace- dice l’87% degli adolescenti
intervistati. -io non ho mai seguito la panchina- dice Eleonora, -ma qualche
giorno fa mi sono ritrovata a guardarla anche io. Libera la mente,- ammette -non
c’è bisogno di seguire- Così tra ragazze maggiorate, ballerini, comici ed
apprendisti cantanti, ormai la panchina approda in ogni casa. -bisogna
considerare- riflette il sociologo che il livello culturale del cittadino medio
continua ad aumentare, e con esso una consapevolezza di sé e del mondo sempre
maggiore. I pensieri del lavoratore- continua -non sono più concentrati
esclusivamente sulla sopravvivenza della famiglia, ma spaziano ad una serie di
problemi, dovuti ad una maggiore coscienza civica, che aumentano
enormemente lo stress da sopportare- In questo modo secondo l’esperto,
paradossalmente all’aumentare del bagaglio culturale personale, aumenta la
necessità di uno sfogo che, a contrario, deve essere sempre più superficiale e
disimpegnante per la mente. Non prendetevela dunque, la prossima volta che
vostro figlio starà sbavando davanti al silicone di Cristina anziché studiare: è
stressato. Così come, cari uomini, le vostre mogli sono stanche quando sul divano
vanno in “fissa” sui capelli di Morgan chiedendosi come cavolo stiano su. Più
facciamo carriera e più abbiamo da fare, più i nostri pensieri nel limitato tempo
libero a disposizione si fanno demenziali. Forse allora c’è un po’ di ipocrisia nelle
continue critiche alla panchina ed al suo poco spessore, se in fin dei conti dopo
cena “Ale e Franz” fanno ridere anche noi.
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Premio Letterario”Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
“27 DICEMBRE”
di Francesca Lucchese - 1a L
Un forte vento teneramente soffiava, cullando la cittadella che addormentata
respirava la fredda aria invernale.
Tutto taceva, il cielo spettrale era punteggiato da una tenue nebbia.
Le persone, invisibili, si aggiravano per le vie innevate.
Affondavano i loro scarponi in un soffice manto bianco e piano raggiungevano le
loro destinazioni più o meno lontane.
Per l’aria aleggiava un odore di brioche e cornetti appena sfornati.
I ragazzi infreddoliti attendevano l’aspro suono della campanella.
La neve continuava a fioccare.
Gli alberi piangevano candide foglie e, lenti, si spogliavano delle loro un tempo
folte chiome.
Nascosta in un parco, stava una panchina.
Le sue gambe stanche, dopo tanto tempo ricevevano riposo: da tanto, più
nessuno si era appoggiato ad essa.
Bianca, era coperta dai rami dello stanco albero che, come un vecchio, lasciava
cadere le sue pesanti braccia; l’attendeva l’arrivo della tanto attesa primavera,
ricordando con nostalgia i pomeriggi in cui accoglieva i corpi stanchi dei vecchi,
o in cui faceva da nascondiglio a miriadi di giocosi bambini.
La neve fitta continuava a scivolare dal cielo; si respirava aria frizzantina e
ancora tutto taceva.
L’intero corpo della panchina ora era coperto da un letto di neve che diveniva
sempre più morbido e voluminoso.
Quando, improvvisamente, si avvicinò la figura di uomo: i lineamenti marcati e
la corporatura tozza. Con un leggero movimento di mano fece cadere una piccola
quantità di neve dalla panchina quindi si sedette.
Con occhi sognanti si guardava intorno e ammirava il paesaggio addormentato.
Poi, scoprì la panchina che intirizzita attendeva di essere ricoperta.
Sul suo corpo arrugginito vi erano delle incisioni e numerose scritte.
L’uomo sorrise: era divertito dalle tante e diverse parole che quell’oggetto
custodiva.
Poi, i suoi occhi si soffermarono su un incisione: “Anna e Emilio 1960 –1975 27 dicembre” allora, i suoi pensieri iniziarono a viaggiare raggiungendo un altro
tempo.
Ricordò il tempo in cui viveva in quel paese sperduto tra i campi.
Era adolescente quando con i suoi amici soleva giocare dinnanzi a quella
panchina che sempre fu fotografa dei suoi più bei momenti.
Improvvisamente la pioggia di neve cessò.
Ancora silenzio.
Ora, tra i rami bagnati si affacciavano i dolci raggi del sole, che iniziavano ad
asciugare la cittadella dal lungo pianto delle nubi.
L’uomo era ancora lì seduto.
Chiuse gli occhi e respirò profondamente quell’aria di cui aveva sentito tanta
mancanza negli ultimi anni.
Ora lui, che da piccolo aveva abbandonato quel luogo per realizzare i suoi sogni,
aveva sentito il bisogno di farvi ritorno e riassaporare l’odore della sua
fanciullezza.
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Il campanile batté le ore: era mezzogiorno.
Quell’uomo era ancora lì seduto: aveva i pantaloni bagnati e le mani, immerse
nella neve, congelate. Lì, fermo e immobile, scrutava quella panchina che era
sopravissuta alle incurie del tempo quando, da lontano, si avvicinava la sagoma
confusa di una donna che percorreva lo stretto sentiero conducente alla
collinetta ove risiedeva la panchina.
La donna pareva stupefatta da ciò che le appariva davanti.
L’uomo allora si alzò.
I due, come fanciulli intimoriti, si posero di fronte, sotto la chioma innevata
dell’albero, davanti al corpo screpolato della panchina.
Senza dire parola si osservarono rivolgendosi un amorevole sguardo.
Finalmente quella promessa che come la panchina, era durata nel tempo, era
stata mantenuta infatti, così come era scritto, quel giorno era il 27 dicembre
1975.
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Premio Letterario”Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
“POMERIGGIO”
di Fulvio Paleari - 5a F
Le tre e dieci. Esco da scuola, dove è appena finita l’assemblea di classe. Non che
fossimo una folla: eravamo solo quattro. Meno male che è venuto Marco, sennò sarei
stato da solo con la Poli e la madre della Mari. Prima di entrare, avevo sbirciato nelle
altre classi. Piene. No, non è vero: però quanto meno c’era un po’ di gente. E’ una bella
giornata: mentre cammino sul marciapiede di fianco alla scuola, in direzione della
macchina, sento la brezza gelida, ma il sole emana un certo calore e il cielo è sereno.
Adesso devo andare a fare le fototessere e in biblioteca a vedere se hanno un film. Non
è un paese per vecchi, dei fratelli Cohen. L’unico film che abbia mai visto dove la
colonna sonora manca completamente; non che sia un male. Arrivo al punto in cui ho
parcheggiato e vedo che lo spazio fra la strada e la mia macchina è occupato da un
furgoncino in doppia fila con le quattro frecce accese. Ovvio. C’è un ometto, sopra la
sessantina, che ha attraversato la strada ed è entrato in una calzoleria. E’ lui il
proprietario del furgoncino. Beh, never mind. Non ho fretta. Lì vicino c’è una panchina:
è occupata da una signora anziana e da una più giovane, forse la figlia che ha portato la
madre a fare una passeggiata. Mi siedo su un’altra panchina, lì di fianco. Aspetto. Ogni
tanto butto un occhio alla porta entro cui è sparito l’ometto. Dopo un po’ , tiro fuori le
auricolari, le collego al lettore e metto su un po’ di musica. Aqualung, dei Jethro Tull
Sitting on a park bench,
Eyeing little girls with bad intent
La tipo alla biblioteca ha controllato sul computer e ha visto che il film ce l’hanno a
Desio. Arriverà fra qualche giorno. E naturalmente dal fotografo c’è gente. Una coppia
anziana, e una madre con una bambina piccola. Ha compiuto tre anni e deve iscriversi
all’asilo. Ma che bello signora, come sono contento. Esco e mi siedo ad aspettare su una
panchina in piazza, davanti alla fontana. Comincia a fare freddo. In biblioteca ho visto
un articoletto su un giornale. Diceva che il comune di Milano pensa di far sostituire le
panchine nei parchi. Le nuove panchine avranno il piano di seduta diviso in tre parti da
separatori metallici, come se fossero tre sedie con braccioli saldate fra loro. Dicono che
è per evitare che i barboni ci si sdraino sopra per dormire. Beh... una volta ho avuto la
febbre per due settimane: continuavo a prendere l’aspirina, che me l’abbassava. Ma poi
risaliva. Questo perché curavo i sintomi non la malattia.
La coppia di anziani sta uscendo: meglio che entri, prima che qualcuno si freghi il mio
turno.
Salgo in macchina e ovviamente, una volta accesa, mi accorgo che è finito il metano.
Sta andando a benzina. Tanto vale andare a far rifornimento al distributore vicino allo
stadio.
Una volta arrivato, spengo il motore, scendo e mi siedo su una panchina ad aspettare
mentre l’addetto inserisce il cavo del gas pressurizzato. Un pieno di metano richiede più
tempo di uno di benzina. Il distributore è affollato: ci sono quattro o cinque vetture.
Una donna, un uomo paffuto, un signore anziano che sembra annoiato e un ragazzo
con occhiali da sole e aria strafottente da truzzo; faccio una smorfia e mi volto verso il
viale a vedere le macchine sfrecciare. Il sole ormai ha cominciato ad abbassarsi
sull’orizzonte e il freddo è intenso.
Sono nove euro e sessantacinque; il metano costa poco. Mi dirigo a pagare. Alla cassa
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c’è un tipo con i capelli lunghi, gli occhi chiari e un orecchino. Lo pago e lui mi
ringrazia e mi saluta. Sono combattuto. In effetti sento l’impulso di fargli la domanda,
anche se è una cosa stupida...
beh, so già che non riuscirò a trattenermi. Tanto vale farlo con decenza, allora. Cerco di
assumere l’aria più composta e distinta possibile. Gli do del tu o del lei? Attacco con un
bello scusami e così ottengo la sua attenzione. Poi gli chiedo qual è, secondo lui, la
struttura logica dell’inferenza scientifico-sperimentale. Mi guarda malissimo: sconcerto,
incomprensione, ira, anche, perché lo sto prendendo per i fondelli; scappo via. Una
volta in macchina, quando sto per andarmene, lo vedo parlare con un altro addetto del
distributore: mi indica e ride (Ecco che mi guardano e ridono: e nel ridere mi odiano
anche. V’è del gelo nel loro riso) ma io non me la prendo perché me la sono cercata.
Verso est, l’indaco della notte; verso ovest, l’arancione rosato del tramonto. E sopra di
me, beh... non so decidere quale parola è quella giusta per la sfumatura di colore che
osservo.
Su, oltre il cielo serotino, dove riposano gli dei defunti del passato, trapassati da
innumerevoli raggi cosmici.
La verità è che guardiamo il cielo perché non conosciamo la verità. La verità è che
sappiamo che non conosceremo mai la verità.
Su, su, nei cieli superni.
La verità è che non troviamo il cielo che cerchiamo.
Guido.
Guido verso casa. Guido.
Perché il mondo non va come voglio?
Accendo il computer per farmi una partita a Dead Space. Carico il salvataggio e
comincio a giocare. Almeno mi rilasso un po’ . Mi rilasserò sparando agli umani
mutanti, smembrandoli, mutilandoli, facendo esplodere le loro teste. Adesso i giochi li
fanno meglio: non c’è più soltanto il sangue; mettono anche i pezzi di organi. Si
spargono in giro quando fai esplodere un mostro.
Ciò che facciamo è insensato: impedire ad Aqualung e agli altri barboni come lui di
sdraiarsi sulle panchine; questo non farà sparire i barboni. (Una lama laser orizzontale
amputa le gambe di un mostro) Però, così, non li vedremmo più in giro tanto spesso.
(Ma il mostro continua a trascinarsi verso di me a forza di braccia; allora gli corro
incontro e gli spappolo la testa schiacciandola sotto il mio stivale d’acciaio) se non li
vediamo, non ci sono. Come i vecchi dei che sono morti. (L’addome di un mostro viene
dilaniato da una sega circolare; ma dallo squarcio escono tanti mostriciattoli che mi
saltano addosso) Ma noi continuiamo a guardare il cielo. Lo facciamo perché i barboni
ci sono lo stesso, non sono spariti. (Me ne libero, ma a fatica) Guardando il cielo,
spesso non vediamo i barboni e tutte le altre cose che ci fa comodo ignorare; forse
dovremmo guardarlo un po’ meno e abbassare gli occhi sulla terra. (Un altro mostro mi
attacca: questo è grosso; lo rallento con una granata speciale e comincio a sparargli a
un braccio, per staccarglielo dal corpo) Ogni illusione tende a sostituire il mondo vero
nei nostri pensieri. (Credevo che senza braccia il mostro non potesse attaccarmi; invece
mi lancia contro dei baccelli esplosivi) Così possiamo non vedere il mondo vero e non
pensare a quanto è difficile. (Fermo un baccello a mezz’aria con la telecinesi e lo
rispedisco contro il mostro, proprio nel punto vitale) Trovare un senso, dico.
E’ fatta: ho macellato il mostro; frugando il cadavere trovo 5000 crediti. Perfetto: devo
proprio passare al negozio a comprare nuove munizioni, altrimenti il plasma gun mi
diventa inutilizzabile.
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Premio Letterario”Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
“PANCHINA”
di Vanja Vasiljevic - 2a C
Il sole stava già sorgendo dietro all’ammasso disordinato di condomini della periferia,
sbucava lentamente tra un’abitazione e l’altra, filtrava attraverso gli spazi più sottili,
non dava scampo. Sembrava ridere della sua potenza, del fatto che nonostante tutto lui
sarebbe sempre sorto, del fatto che ogni essere vivente dipendeva da lui. La luce che si
stagliava intorno rendeva ogni immagine più tangibile del necessario, come a
sottolineare l’ambiguità della vita notturna, come se fosse nel tentativo di cancellarne
gli eventi.
Ed era forse quello che tentava di fare anche lei. Nonostante fosse in piedi da un
infinità di ore, Diana camminava spedita, guardando per terra. Si immaginava che le
linee che separavano le mattonelle del marciapiede si prolungassero fino a intercettare i
suoi passi e che lei non dovesse toccarli, altrimenti sarebbe successo qualcosa di
irreparabile. Sentiva la zip della felpa tintinnare ritmicamente sulla fibbia della cintura
e un brivido continuava a percorrerle le gambe addobbate solo di una gonnellina nera
che pareva drammaticamente indecisa tra coprire e scoprire. Aveva uno spinello acceso
in mano e con movimenti meccanici se lo portava alle labbra. Passava per vicoli
sconosciuti seguendo un percorso impresso saldamente nella sua memoria, come
marchiato a fuoco. Della musica nelle sue orecchie, un piano, una chitarra, una
batteria, una voce da uomo che cantava di paradiso, di libertà e si chiedeva dove fosse
lei quella notte. Le altre parole le risultavano incomprensibili e non le interessava
saperne il significato, si faceva solo cullare dalla melodia malinconica prodotta da
quelle note. E semplicemente non si ricordava nulla.
L’ultima cosa che aveva visto Diana era una collana a forma di serpente. Ora la sua
mente era piena di esseri striscianti che si avvinghiavano, sibilavano. Aveva più volte
visto un serpente, su vari documentari, ma mai dal vivo. Le loro digestioni duravano
settimane e per tutto quel periodo non mettevano in bocca altro; certo, Davide non
sarebbe mai stato un serpente: lui mangiava di tutto a qualsiasi ora del giorno. Inoltre
per la fortuna di essere ragazzo non ingrassava neanche di un chilo. Davide. La sera che
era successo lei non era con lui, aveva preferito stare a casa anziché uscire col gruppo.
Forse, forse gli avrebbe impedito di salire su quella moto, o magari, magari lo avrebbe
obbligato a mette casco, oppure... ogni congettura vana.
Finalmente giunse la panchina della pensilina del pullman, la solita, quella vicino alla
stazione, ci passavano il 202 e il 201. C’era un ragazzo seduto a gambe incrociate che
sembrava fissare il vuoto. Diana spense l’i-pod per evitare figure ridicole in caso che lui
le avesse rivolto la parola, cosa che le era capitata una marea di volte; è che se non
l’ascolti senza sentire altro non è musica. Si sedette di fianco a lui che sapeva di
patatine fritte. Non sentì alcun bisogno di isolarsi come le accadeva in queste situazioni,
solitamente odiava sedersi su una panchina se c’era già qualcuno. Sentiva di dar
fastidio e aveva bisogno di occupare il suo spazio, un suo piccolo regno temporaneo che
per almeno cinque minuti sarebbe appartenuto solo a lei. Invece adesso voleva
condividere qualcosa.
“Sai che è una cosa davvero strana?”
Fu come se la ragazza si aspettasse che lui le dicesse qualcosa, come se fosse tutto
programmato, come se fossero stati su un palco e lei non aspettasse altro che la sua
battuta per iniziare il dialogo. “Guarda che tutto è strano, insomma,” fece un tiro “se
esistesse il normale potremmo dire che è una cosa strana, ma non esistendo il
normale...”. Lasciò la frase in sospeso, era palese quello che intendeva dire. Lo faceva
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spesso questo giochino, anche nelle interrogazioni: insomma se il concetto è chiaro è
inutile continuare.
Lui le rivolse uno sguardo di ghiaccio, uno sguardo cosciente, come se conoscesse da
anni la persona che gli stava di fronte.
“Lo sai cosa intendo dire. Siamo io e te. Tu non sai chi sono io e io non so chi sei tu. In
questo momento siamo legati solo da questa pensilina e ognuno di noi potrebbe stare
nel suo brodo, fare finta di rispondere a un messaggio che aspettava ma in realtà non è
mai arrivato; ascoltare musica ad altissimo volume per non sentire il mondo che lo
circonda; stare in piedi, come a rappresentare il ribrezzo provato nel sedersi di fianco a
una persona sconosciuta.”
“Il fatto è che la gente ha paura, potrebbe sempre capitarti di fronte un maniaco, o
altro.”
“Come potrebbe capitarti di fronte una persona che ha pensieri e sogni bellissimi.”
Diana chiuse gli occhi ridendo. Aveva un canino che sporgeva rispetto agli altri denti e
pareva volersi distinguere dal gruppo. Fece un tiro. Era come in un treno: una cabina
piena di persone che non si conoscono. Un’infinità di possibilità di incontrare, capire,
conoscere. Un muro, sì come un muro che separa, ma nel contempo unisce. Scegliere,
tutto qua.
“Guarda che non è colpa tua.”
“Lo so.”
Quando Diana aprì gli occhi si sentiva leggera. Sapeva che lui ormai non era più lì,
sentiva la mancanza della sua presenza. Prese un respiro profondo e si alzò in piedi per
salire sul 202 che stava per arrivare alla fermata.
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Premio Letterario”Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
“LA PANCHINA ROSSA”
di Marco Galli - 4a H
Regalarle una panchina per San Valentino gli sembrava un’idea decisamente
buona considerando che su Una Panchina si era dichiarato con tanto imbarazzo e
su Una Panchina avevano passato ore e ore assieme. Ma soprattutto gli piaceva
l’idea che quando la Sua Amata sarebbe tornata dal viaggio di tre
lunghissimamente interminabili mesi in Scozia per imparare bene l’inglese
avrebbe trovato una sorpresa che avrebbe sicuramente gradito molto. (E in ciò
dovette ammettere che la data di ritorno della Sua Amata coincidente con San
Valentino era una vera fortuna.) Eppure non sapeva se l’avrebbe ottenuta dal
Comune tanto facilmente, e difatti fu un’impresa ardua impossessarsene. La
prima difficoltà fu quella di sconfiggere il drago posto a guardia dei favolosi
tesori nascosti nella caverna nella foresta delle streghe albine mangiatrici di
radici di olmi in cima al monte fatato in mezzo alla valle delle sabbie dorate nel
paese dei cavalcatori delle nuvole nere. Poi una volta raggiunto l’interno della
caverna e raggiunto lo sportello (al quinto piano, e senza ascensore!) dove
venivano sbrigati certi lavori dovette leggere, firmare o siglare una serie
impressionante di moduli senza senso. Decine e decine di sigle e numerini messi
l’uno dopo l’altro come se avessero avuto veramente un senso! Per il Nostro però
tutte quelle sigle non ce l’avevano proprio per niente un senso. Un po’ come le
sette righe precedenti. E di sette o otto o nove righe di buon legno di un buon
pino aveva bisogno il Nostro, ma il Comune non concedeva tanto facilmente il
permesso (“chissà perché!” pensava il Nostro a ragion veduta). Ovviamente la
parte del drago posto a guardia dei favolosi tesori nascosti nella caverna nella
foresta delle streghe albine mangiatrici di radici di olmi in cima al monte fatato
in mezzo alla valle delle sabbie dorate nel paese dei cavalcatori delle nuvole nere
non è mai avvenuta, se non nella sua mente. Però avrebbe volentieri voluto
raccontarla alla Sua Amata, come tante altre cose che le aveva raccontato
proprio su Una Panchina per farla innamorare di sé. Aveva già in mente dove
l’avrebbe fatta installare, rivolta verso il mare (“ovviamente”), e di quale colore
(“un bel rosso, il suo preferito!”). Il problema era il Comune che per inspiegabili
motivi ritardava con motivazioni quanto mai ridicole l’installazione della panca
tanto desiderata. Poi però notò una cosa che lo sconvolse abbastanza da indagare
fino in fondo sulle cause delle misteriose sparizioni/rimozioni di alcune panchine
nella Ridente Cittadella. Perché di questo si trattava, sparizioni apparentemente
inspiegabili delle panche in alcuni dei punti dall’atmosfera più -per così direromanticizzante. Attraverso giri di conoscenze, amicizie, parentele e voci di
corridoio venne a sapere che in seguito all’infelice divorzio del Signor Sindaco
dalla Signora Moglie Del Signor Sindaco, il primo aveva deciso di rimuovere le
panchine perché anch’egli era stato a suo tempo vittima di quella quasi magica
influenza che le panchine hanno su tutte le coppiette, e di conseguenza le aveva
fatte togliere perché queste gli facevano tornare in mente i bei momenti passati
assieme alla ormai ex-moglie. Per una sorta di ripicca quindi non voleva che altre
coppie potessero godere della felicità di cui lui era stato privato. Mal comune
mezzo gaudio! Mal in Comune, mal di tutti! No, no, doveva trovare una
soluzione a quel problema di cuori... Ma sapeva che anche questa si sarebbe
rivelata un’impresa di non poco conto, visto e considerato il fatto che non aveva
la minima idea del punto da cui partire. Opzioni: trovare una Nuova Compagna
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Per Il Signor Sindaco; far dimenticare al Signor Sindaco la Signora Moglie Del
Signor Sindaco o infine aspettare le prossime elezioni comunali nella speranza
che il Neo Signor Sindaco risulti più comprensivo nei confronti del Nostro; ma
nessuna di queste sembrava attuabile. Doveva provare qualcosa. E doveva fallire
-aggiunse pessimisticamente fra sé e sé- La situazione iniziava a farsi
drammatica. Non voleva cambiare regalo, voleva quella Panchina Rossa Volta
Verso Il Mare! Ma non poteva averla. Accese un paio di ceri in chiesa. Avrebbe
fatto un bel pellegrinaggio a Lourdes ma non ne aveva il tempo. Poi
all’improvviso l’ossessione del Signor Sindaco per le panchine prese una piega
indecorosamente ossessiva: ora tutte le panchine (a parte una che per un curioso
caso giudiziario era diventata la “casa” per un uomo agli arresti domiciliari sulla
panchina stessa perché cacciato dalla famiglia in seguito agli ennesimi guai con
la Giustizia) della Ridente Cittadella erano sparite. O meglio erano state
sequestrate e portate in un capannone di proprietà, manco a dirlo, del Signor
Sindaco. Ma non era finita: nel capannone le panchine non erano semplicemente
stipate a prendere polvere, ma erano state quasi tutte smontate (quelle
smantellabili) per dare vita a una inverosimile e decisamente grezza statua lignea
dalle sembianze della Signora Moglie Del Signor Sindaco. Il Signor Sindaco fu
rinchiuso in un ottimo manicomio, il migliore che si potesse desiderare (per
quanto desiderabile possa essere un manicomio... ). Senza ormai alcun ostacolo a
intralciare la realizzazione del suo sogno il Nostro ottenne la Panchina Rossa
Volta Verso Il Mare. Fece apporre una targhetta d’oro recante il suo nome e
quello della Sua Amata e su quella panchina le fece in seguito la dichiarazione di
matrimonio. Si sposarono. Ebbero figli che giocarono su quella stessa panchina.
Il Signor Sindaco poi guarì dalla malattia e trovò una Nuova Compagna Per Il
Signor Sindaco (una infermiera del manicomio... Banale, però sono felici, non
disturbiamoli oltre... ). E infine il Neo Signor Sindaco non fu colpito dalla
malattia del suo predecessore. Fine.
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Premio Letterario”Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
“VITA DI UNA PANCHINA”
di Massimiliano Corrubolo - 5a H
Nascita:
Un albero cresce, viene tagliato e poi ulteriormente diviso in listarelle più
piccole. Le giovani listarelle incontrano per la prima volta uno smalto:
quello verde, che le accompagnerà per molto tempo fino al momento del
cartello “vernice fresca”.
Infanzia:
Le listarelle fanno conoscenza con gli amici pezzi di acciaio e viti e bulloni:
un forte legame li terrà così uniti per tutto il corso della loro vita. La
panchina ormai vera e propria passa squallidi momenti in un furgoncino
per arrivare a casa: il parchetto del quartiere. Degli energumeni molto
grezzi la maneggiano manescamente per montarla. Ora è finalmente a
casa!
Giovinezza:
I primi sfregi, i primi atti vandalici, le prime scritte con Uniposca,
sbianchetti e taglierini. La panchina impara un linguaggio interessante ma
inutile: tvb, tat, tv 1 mdb, tutte sigle che hanno senso ma non hanno
effettivamente alcun significato... Tuttavia è felice di scoprire che non tutti
i giovani sono come i suoi “maestri”.
Pubertà:
“Vernice fresca”. Eccoci al primo momento veramente importante della
sua vita! Il primo di una lunga serie di cartelli che la renderanno celebre
fra gli amanti degli scherzi da bricconi! Da verde si passa al bianco, poi
ancora al verde, e infine ancora al bianco, ogni tanto si varia con un poco
credibile rosso... La sua è una vita piena di sorprese e veramente
emozionante!
Adolescenza:
I primi amori, le prime coppie che si ritrovano sulla panchina a tubare
teneramente tutto il pomeriggio! E alla sera le prime trasgressioni con le
prime birre rovesciate, i tappi stappati sulle parti ferrose che sembrano
create apposta per quello scopo. E poi le prime bruciature di sigaretta:
buchini neri che qua e là la rendono teneramente lentigginosa... E le prime
bruciature di cose che non sono propriamente sigarette...
Età adulta:
La panchina ormai è frequentata dagli anziani che, anzi, ormai ne sono i
veri padroni. I ragazzi che la usavano anni prima come punto di ritrovo le
sere d’estate ormai hanno il motorino o la patente e hanno posti migliori
in cui trovarsi. La panchina scopre lo sport! Il calcio, il ciclismo, la formula
1! E poi conosce il mondo della politica, con tutto il giostrarsi di luoghi
comuni che le gira attorno... Ma questo non la interessa molto, tanto non
vota!
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Vecchiaia:
Ormai solo gli anziani si recano regolarmente a trovarla. Gli anziani e i
piccioni: gli anziani che danno da mangiare ai piccioni e i piccioni che
lasciano poco educatamente le loro cacchine sulle listarelle ormai mezze
bianche e mezze verdi, mezze scritte e mezze bruciacchiate.
Morte:
Il momento più brutto della vita della panchina. E anche il più triste,
perché il parchetto del quartiere verrà sostituito da un parcheggio per un
supermercato... Gli ultimissimi momenti la panchina li passa a guardare il
cantiere all’opera, vede i primi abbozzi di una costruzione che per lei
rimarrà solo una serie di piloni di cemento armato e poco più. Infine
ancora in uno squallido furgone viene postata al cimitero delle panchine.
Tutto sommato è soddisfatta della sua vita: poco rimpiange di non aver
fatto, e per nulla si pente di quanto invece ha vissuto; ci lascia con un
sorriso.
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Premio Letterario”Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
“PANCHINA”
di Lorenzo Raffaglio - 4a H
NON SEDERSI
VERNICE FRESCA
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Premio Letterario”Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
“PESCATORE”
di Fabio Grasso - 3a I
perché stai li fermo
su quella panchina consunta
a contemplare il sole che cala
lento nella sua bellezza?
alzati sulle tue gambe stanche
rimetti in acqua la rete umida.
ritirala in barca con le tue mani rovinate
e poi, fallo di nuovo
e di nuovo ancora
avrai tutto ciò che vorrai
i soldi, si sa, comprano la felicità.
veloce, e in breve
non avrai più preoccupazioni
più impegni
e potrai stare li fermo
su quella panchina consunta
a contemplare il sole che cala
lento nella sua bellezza.
37
Premio Letterario”Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
“LE VOCI CONOSCIUTE DEI RAGAZZI”
di Igor Galbiati - 3a I
Le voci conosciute dei ragazzi riecheggiano nel parco,
le rumorose risate alleviano la tensione del gioco.
Una donna, cinquant’anni, abito lungo, occhiali da sole,
cammina svelta e sicura: anche oggi non nota che la sto fissando.
Una vecchina cammina zoppicando, una mano stringe il guinzaglio,
mi chiede un fazzoletto, e conosce in anticipo la mia risposta.
Poco distante da qui una coppia di giovani innamorati,
la signora li guarda mentre si baciano, pensa ai vecchi tempi;
asciuga la superficie di legno della panchina, resa umida dalla rugiada,
poi getta a terra incurante il fazzoletto, che si unisce agli altri.
Passano due giovani, corpo slanciato e capelli al vento,
corrono a passo sostenuto, rispondono al mio saluto.
I miei occhi seguono un uomo che parla al telefonino,
sento solo qualche parola, c’è del disappunto nella sua voce.
Abbasso lo sguardo sul giornale che tengo sulle gambe,
leggo frettoloso qualche titolo, ma subito torno a guardarmi intorno.
E osservo, osservo la monotonia di questa vita,
rifugiato su quella mia panchina, timoroso del mondo.
38
Premio Letterario”Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
“PANCHINA INGANNEVOLE”
di Giulio Vallone - 3a I
Come la dolce melodia di una sirena
attira il viaggiatore ovunque mena,
cosi il silenzio di una panchina
semplice come il sorriso di una bambina
inganna il corridore affranto,
mentre tutto il mondo accanto
corre e non si ferma ad aspettare
che egli abbia il tempo di riposare,
un attimo soltanto
in cui scopre pensando
che dalla panchina ammaliato
ha perso tutto quello per cui aveva lottato.
39
Premio Letterario”Federico Ghibaudo”
anno 2009 - 15a edizione
“IL TRENO DELLA GUERRA”
di Michele Panzeri - 5a G
L’attesa peggiore è di chi resta.
……………………..
Chi parte vivrà il cambiamento
la novità allevia il tormento.
Sarà il primo a sapere
se morirà.
L’attesa peggiore è di chi torna.
……………………..
Rincontrare un sogno nostalgico
è come uccidere quanto ha di magico.
Il corpo dei compagni
sta ancora là.
L’attesa migliore è di chi non attende--------------------------------------------------- di chi vive ogni istante al massimo-----------------------------------------------------------------qualsiasi svolta rappresenti il prossimo-----------------------------------------------------------------------e sopporta il peso-----------------------------------------------------------------------della facilità.--------
La lunga esperienza della panchina
è lacrime di madri e fidanzate
sulla banchina, dall’emozion piegate.
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