IL PALAllO DUCALE DI SAN CESARIO DI LECCE

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IL PALAllO DUCALE DI SAN CESARIO DI LECCE
IL PALAllO DUCALE DI SAN CESARIO DI LECCE
« REALTA' E FANTASIA »
L'edificio, il « personaggio » più notevole di San Cesario, il « Notabile » per antonomasia, è il Palazzo Ducale dei Marulli che da tre secoli
domina la piazza grande (Piazza Garibaldi) della cittadina con la sua
mole imponente ed aggraziata. Ad essa sono destinate queste note, legate al « passato remoto » ante prima guerra mondiale, intessute di
realtà e di fantasia, evocate in gran parte dalla memoria, dalla indefinibile nostalgia per le cose lontane.
Primi approcci
Le prime sensazioni davanti al più insigne monumento cittadino,
quelle provate durante le duemila e più volte che, chi scrive, mattina
e pomeriggio, veniva invitato dalla campana « della scuola » a varcare
il solenne portale del palazzo, nei cinque anni delle « elementari », non
occupano un posto notevole nel bagaglio dei ricordi.
Si sarebbero potute paragonare a quelle del carducciano - « asin
bigio, rosicchiando un cardo rosso e turchino ». Carducci, però, non era
ancora tra le conoscenze personali di quello scolaro, ed i paragoni asinini non gli avrebbero fatto né caldo né freddo. Forse alzava il naso
un po' più in sù del normale e « degnava d'un guardo » il « grande notabile » solo il primo e l'ultimo giorno di scuola. Il primo, col timore
reverenziale verso l'ignoto che stava per affrontare, e l'ultimo, con la
compiaciuta sufficienza di « avercela fatta » ottenendo la promozione alla
classe successiva.
Nient'altro di più.
La mole
Le impressioni più concrete che, in ordine di tempo, quel ragazzo
poté registrare nella « piazza grande », ebbero per oggetto le due grandi
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moli del Palazzo Ducale e della Chiesa Madre, poste di fronte l'una all'altra ed un po' di sghembo, quasi in segno di contrasto e di sfida.
Erano tempi di liberalismo, massoneria ed anticlericalismo imperanti, palesemente od occultamente, in alto ed in basso loco. Se avessero
sventolato insieme i labari verdi delle « Loggie », le bandiere rosse delle
« Camere del Lavoro » ed i vessilli tricolori dei « Benpensanti », avrebbero soverchiato il bianco e giallo degli stendardi papalini in una girandola colorata da inceppare la « memoria » anche ad un moderno calcolatore elettronico.
Il Palazzo ducale di San Cesario, com'era nel 1912
Fortunatamente, questa concomitanza, non si verificava mai. A San
Cesario, di bandiere, ce n'erano due, tre al massimo; di fatti nuovi ed
importanti non se ne verificavano quasi mai, di idee, i paesani, non ne
avevano molte e, tanto per non sbagliare e pregiudicarsi un eventuale
« buon posto » nell'aldilà, erano tutti, almeno in apparenza, di un conformismo religioso da intenerire e confondere le idee anche al più
esperto ed intelligente arciprete.
Quanto a quel ragazzo, era allora assurdo pensare a delle idee proprie politico religiose; un innato agnosticismo non gli faceva attribuire
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troppa importanza al caleidoscopio politico religioso dianzi accennato;
si atteneva al sodo, a quello clic i suoi occhi e la sua fantasia « vedevano » sui nobili « volti di pietra » del Palazzo Ducale e della Chiesa
Madre. Quei due colossi simboleggiavano, il primo: il limitato, labile,
mutevole potere civile; il secondo: l'immenso, immutabile eterno potere religioso.
Non si può attribuire ad una aberrazione del suo apparato visivo
se osservava essere più grande il palazzo che la chiesa, se, insomma, il
finito superava l'infinito. Non si può credere ad un suo precoce senso
di critica d'arte se preferiva il barocco « vero » del palazzo ducale a
quello « finto » della Chiesa Madre; come non si può diagnosticare tale
preferenza ad una indigestione di laicismo propinatogli a colazione,
pranzo e cena, in casa e fuori, da suo padre perché, le sue indigestioni,
allora, erano di tutt'altra specie e venivano curate con l'olio di ricino.
Sia come si sa, le sue predilezioni, con rispetto della Santa Chiesa,
erano per il palazzo ducale e per la sua mole « laica » più grossa di
quella religiosa. Predilezione giovanile per il grandioso che, raccontata
ora, può sembrare una illusione ottica, un fenomeno non spiegato in
nessun trattato di fisica che ingrandisce tutto ciò che si riesce a « mettere a fuoco » a distanza di spazio e di tempo. Il recente libro di Calvesi e Manieri Elia. sul Barocco Leccese conferma che, effettivamente,
...« il palazzo ducale è di grandiose dimensioni in rapporto alla piazza »...
I colori
Alle impressioni intorno alla « mole » seguirono, col passare degli
anni, quelle circa il « colore », anzi, i « colori » del palazzo.
Parlare di « colore » dei monumenti salentini è piuttosto improprio
perché, la grigio dorata uniformità cromatica della pietra leccese, unica
componente della edilizia locale, è animata solo dai chiaroscuri delle
caratteristiche e spesso pletoriche decorazioni del « barocco leccese »,
dalle luci e dalle ombre determinate dall'orientamento ed ubicazione
topografico-urbanistica del manufatto, e non da altri elementi pittorici.
Eppure, di colori, il palazzo ducale, a quei tempi, ne aveva tanti che si
stentava a catalogarli e che ora forse non si riuscirà a ricordarli tutti.
C'era il « grigio azzurro » colore mattutino, quando, l'ombra incombente su tutta la piazza vi disegnava un grande rettangolo, poi una
« elle » maiuscola con le due zampe di dimensioni ed intensità cromatiche sempre variabili, quasi a formare un sottofondo musicale alla « sinfonia in blu » della grande facciata tutta in ombra.
Scena di breve durata perché, i raggi solari, scavalcando il fabbricato del Circolo Cittadino, allora ad un solo piano, cominciavano a disegnare sulla nobile faccia del monumento le prime ombre lunghe, ombre
man mano sempre più corte, sempre più decise che, per contrasto, fa-
lo
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cevano risaltare sempre più i particolari decorativi e vivificare il colore
paglierino, oro vecchio delle sue pietre.
C'era poi il trionfale « bronzo dorato » dei pomeriggi di sole, quando le statue, le nicchie, le decorazioni, la liscia muraglia assumevano
gli aspetti di una brillante ed impetuosa composizione pittorica alla
Salvator Rosa. Colorazione che toccava il parossismo nei pomeriggi
della lunga estate salentina, durante il solleone, quando le curve terrazze delle basse case del paese rassomigliavano alle groppe di un gregge
che cercasse di stringersi sempre di più l'una a fianco all'altra per offrire
sempre meno bersaglio ai dardi del sole.
Le pietre del palazzo, dietro la nebbiolina dell'afa vaporante dal
suolo, pareva vacillassero, trasformarsi in una colata lavica, in una
massa metallica incandescente sul punto di liquefarsi e traboccare da
un immenso crogiolo. Luce, calore e colore abbacinanti che inducevano
a desiderare la metamorfosi della piazza deserta in una grande cisterna,
uno stagno, una insenatura marina per vedere, da un momento all'altro,
le quattro statue belle e pronte lassù in costume da bagno, fare un ardito tuffo dal « trampolino » di dieci metri delle loro nicchie. Facevano
pensare ancora ai poveretti ed indefessi concittadini « notabili », che,
dentro gli alti stanzoni del palazzo, sudavano non metaforicamente le
sette camicie per il governo della cosa pubblica, per il bene della comunità. Idea sballata perché, a quell'ora, nel palazzo, non c'era anima viva.
Era l'ora della « contr'ora » e forse, pure i topi, padroni indisturbati
dell'ultimo piano del palazzo, osservavano tale salutare consuetudine.
Se veramente ci fosse stato qualche funzionario di alta o bassa gradazione o qualche semplice « messo » od inserviente, si sarebbe potuto
scommettere che non stava sudando le tradizionali sette camicie per
encomiabile zelo professionale o per evangelico slancio pro « res publica », ma stava lassù, più comodamente e più al fresco di casa propria,
a schiacciare un sonnellino. Considerazioni e supposizioni, queste, di
carattere generale valevoli per l'altrui e per la nostra burocrazia, ieri,
oggi e domani, e di carattere particolare per la ragione che, i saloni
del palazzo, protetti dallo spessore grande delle muraglie, erano effettivamente freschi e riposanti durante la canicola.
Dopo l'orgia cromatica estiva c'era il colore di « acciaio brunito »,
lucido, severo dell'autunno e dell'inverno quando, il libeccio o lo scirocco rovesciavano, di faccia o di striscio, le loro valanghe d'acqua sulla
grande facciata. Acqua che, dopo aver lavato la faccia alle statue, tolto
la polvere ai ghirigori delle decorazioni, ingrandito le macchie nerastre
di muffa delle pietre, pulito la piazza, si avviava, impetuosa e l i macciosa, lungo la strada a fianco della Chiesa e dell'Ospedale, fino al baratro
della « ora » sulla strada di Lequile.
Acqua che, secondo la mentalità « sitibonda » dei pugliesi di allora,
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sarebbe stato più utile averla a disposizione abbondante, fresca e filtrata
ei mesi della lunga siccità.
Quell'acqua, invece, serviva a dare al palazzo un colore ferrigno,
tetro, come di un ritorno alla sua antica funzione feudale di freddo e
sinistro dominio. Fantasia sballata anche questa, perché il palazzo ducale dei Marulli, da sempre, ha avuto l'impronta di dimora gentilizia
e mai la grinta guerriera. Un aspetto vagamente militaresco lo avevano
i busti dei tanti valentuomini appollaiati, o meglio appostati sopra le
finestre ed entro le nicchie come dalle bertesche e feritoie di un antico
maniero. Però, a pensarci bene, se quei pupazzi — che in dialetto chiamavano « mammocci » — avessero dovuto « menare le mani », sarebbe
stato un bel guaio perché erano tutti senza braccia. La grinta guerriera
l'avevano i due colossi virili, i mitici protagonisti di tante gesta di forza
e di violenza. Ma erano, come è noto, in « costume da bagno », e in
quell'abbigliamento, non guerreggiavano nemmeno gli eroi omerici.
Al tramonto, il grande cielo salentino, dava spettacolo. Grande perché, in pianura e sul mare, occupa quasi tutto il panorama.
Da grande gioielliere esponeva il suo più fulgido diadema di rubini,
topazi, smeraldi, ametiste, opali; da gran pittore tirava fuori dalla tavolozza i rossi, gli arancione, i gialli, i verdi, i turchese più vivi e brillanti. Spettacolo consueto, ma sempre bello e variato che si poteva ammirare in piazza grande solo per quel tanto che la scura mole del Duomo permetteva si disegnasse sulla facciata del palazzo ducale.
La piazza e tutto il pianterreno del palazzo erano immersi in un'ombra sempre crescente impastata di viola e di turchino sempre più scuri.
Il primo piano, col suo rosso vivo, arancione, ocra, terra di Siena bruciata, metteva sangue nelle vene delle statue che, nel gioco rapido dell'ombra incombente, pareva si movessero. Poi era il blasone dei Marulli
a prendere la foggia e la colorazione di un regale baldacchino cremisi
sormontato dalla sua grande corona ad altorilievo. Infine, il piano attico, era segnato da un rettangolo, poi da una striscia, infine da una linea
giallo oro sospesa tra il bruno cupo del palazzo tutto in ombra e l'opalino del cielo crepuscolare.
Era questione di pochi minuti. Come in una valle dolomitica, tutto
si trasformava in un violetto sempre più intenso, in un turchino sempre
più scuro. Passava il solerte lampionaio; tre, quattro piccoli aloni giallastri punteggiavano il bruno del palazzo e della piazza; i vetri di qualche finestra lasciavano filtrare la luce delle lampade a petrolio ed indicavano che era ora di trasferire tra le pareti domestiche la « vita cittadina». I capannelli si scioglievano, gli amici si salutavano; le chiacchiere,
le speranze, i progetti si rimandavano al prossimo convegno, si tornava
a casa nell'oscurità pressoché completa.
L'indomani sarebbe stato un altro giorno.
In paese, pochi potevano dire di aver visto la grande mole del paProvincf2di Lecce - Mediateca - Progetto EDIESSE (Emeroteca Digitale Salentina)
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lazzo ducale biancheggiare sotto la luna, e le decorazioni e le statue
prendere i riflessi grigio argento simili a quelli del busto del Santo Patrono quando veniva portato in processione. 11 palazzo è orientato a
ponente, e per essere illuminato dalla luna, occorreva attendere le ore
piccole.
San Cesario, all'epoca in cui sono ambientati questi vecchi ricordi,
non era città da nottambuli; si andava a nanna con le galline od al
massimo all'ora canonica delle dieci di sera. Forse avranno potuto ammirare il solenne spettacolo i soci del Circolo Cittadino quando se ne
tornavano a casa a tarda notte dopo le consuete interminabili partite a
carte. C'è da mettere in dubbio però che, specialmente coloro ai quali
era stata avversa la fortuna al gioco, avessero avuto per la testa simili
romanticherie.
Durante le feste patronali e le rare occasioni solenni in cui tutta
la popolazione stava in piedi fino a tarda notte, il palazzo ducale, con
o senza la luna, non aveva nessun colore proprio; ma solo quello riflesso
dal caleidoscopico baluginamento delle luminarie ad olio, e solo fino
all'altezza del pianterreno perchè, il primo piano e l'attico, si confondevano col buio cupo del cielo.
E per finire, collegate in un certo senso con la luna e con la notte,
ci sono sempre state, sul conto dei vecchi manieri, le storie, le leggende
vicine e lontane di fantasmi, di prigioni, di catene, di trabocchetti, di
eventi più o meno truci o soprannaturali tanto cari ai favolisti d'ogni
tempo e paese. Il palazzo di San Cesario, però, non offre il destro a
racconti né gialli né giallorosa.
Per questi racconti occorre risalire ai « secoli bui », a quelli dei Comuni, delle Crociate, del Rinascimento. Il « nostro » è troppo giovane,
ha appena tre secoli di vita ed ha visto passare nelle sue stanze di dimora gentilizia solo le tre ultime Casate feudali di San Cesario: i Guarini,
i Vaaz de Andrade, i Marulli.
I GUARINI, grandi protagonisti di storia medioevale e moderna sin
dal tempo dei Normanni, non saranno stati tutti esemplari di virtù
come il « padrone di casa » di San Francesco d'Assisi, il « tutore » di
Maria d'Enghien od il « Presidente del Concistorium » di Ferdinando I
d'Aragona. Qualche « sgarro » lo avranno certamente commesso; ma,
altrettanto sicuramente, non nel palazzo di San Cesario che costruirono
intorno al 1626 e non se lo poterono nemmeno godere perchè glielo
venderono all'asta nel 1635.
I VAAZ DE ANDRADE, di sangue ebraico portoghese, mercantinobili per virtù, opere e... capienza delle proprie casseforti, possederono
il palazzo dal 1635 al 1671. Lo comperarono per ducati 37.600 e Io rivenderono per ducati 31.000. Fatto notevole che getta una luce comica sulla sagacia mercantile dei suddetti discendenti di Abramo.
Durante quel periodo avvenne un saccheggio nel Casale di San Ce3
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Il portale del Palazzo ducale di San Cesario nel 1912
sario in cui — dicono i cronisti — non furono lasciati nemmeno i chiodi
alle porte. Non parlano però di truci vendette o misfatti degni di nota.
Ai Vaaz de Andrade successero i MARULLI, nobile ed antica famiglia che si ritiene originaria di Grecia, la cui prima memoria, in Andria
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e Barletta, risale al Trecento e che, nel Quattrocento, diede origine al
ramo dei Duchi d'Ascoli o Conti Marulli ed al ramo dei Duchi di San
Cesario.
I Marulli, forse per seguire la moda, od in ossequio agli editti del
famigerato Don Diego Velez y Tassis de Guevara, Conte d'Ognate, Viceré
che voleva, dopo la rivolta di Masaniello, tutta la
dal 1643 al 1653
Nobiltà concentrata a Napoli — si trasferirono all'ombra della Reggia,
dove, le loro Dame e Cavalieri, per quasi tre secoli, fino al fatidico 1860,
eccelsero per beltà, grazia, eleganza, valore, sapere, virtù, non lasciarono
né nel loro palazzo di San Cesario né in quello grandioso di Lecce ombre o ricordi di tragedie. Lo stesso, insomma, delle due altre Casate
precedenti.
I loro Amministratori ed Intendenti restati « in loco » a governare
il feudo avranno al massimo commesso qualche marachella, qualche
prevaricazione, come quelle che avranno forse commesso, dopo di loro,
da novant'anni a questa parte, i nuovi padroni del palazzo: i più o meno
solerti e più o meno probi « padri coscritti » paesani. Roba consuetudinaria in ogni tempo ed in ogni luogo e non certo meritevole dell'attenzione di un Edgar Allan Poe, di un'Agata Christie o di qualcuno
dei tanti loro epigoni.
Sull'argomento « Fantasmi nei manieri di Puglia », in un misto di
realtà e fantasia condito di scanzonato umorismo, ha scritto (estate
1967) una serie di articoli, Francobaldo Chiocci, sulla terza pagina di
un importante giornale romano. Ha fatto parlare i Castellani, i custodi,
i « ruderi » delle antiche dimore baronali, dalla Capitanata al Capo di
Leuca. Ci ha messo tutta la brillantezza di una osservazione agile e
viva ed ha ottenuto qualche « pezzo » di notevole effetto. L'ultimo suo
racconto si chiude al Castello di Otranto. Di San Cesario e del suo palazzo feudale, nessuna traccia.
Peccato!
Un racconto « del brivido » sul « sacco » del Casale di San Cesario,
per esempio, avrebbe aggiunto un bel « giallo itterizia » al campionario
di colori del palazzo sciorinato in queste pagine. Campionario dal quale
manca il « verde cupo » degli alberelli piantati torno torno al palazzo
in questi ultimi anni.
Verde « pubblico e decorativo » di cui, San Cesario, all'epoca in cui
sono ambientati questi vecchi ricordi, immerso come era nel divino
silenzio verde « privato ed utilitario » degli orti, degli aranceti, delle
« masserie » della pianura salentina, non ne aveva avuto, fino allora, né
il desiderio, né il bisogno.
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«COM'ERA E COME' »
Dopo le impressioni coloristiche tra realtà e fantasia delle pagine
precedenti, eccone delle altre, più impegnative, sulle « fattezze » architettoniche del palazzo.
La facciata
La facciata è tutta in pietra leccese a filari di blocchi squadrati e
levigati di altezza costante (un palmo), che come una scala metrica sui
generis, permette di « misurare » altimetricamente l'edificio. I detti blocchi sono messi in opera a « faccia vista », senza intonaco esterno, come
tutte le facciate in pietra leccese, e si possono quindi agevolmente contare, pazienza e vista buona permettendo.
La facciata, lunga trentasei metri, ha le classiche proporzioni di due
in orizzontale per uno in verticale. Si compone essenzialmente di due
ali e di una parte centrale delimitate da quattro lesene o paraste verticali, e di due piani: piano terreno e primo piano nobile, delimitati da
due fasce orizzontali. La parte centrale ha un secondo piano « attico ».
Le quattro lesene verticali sono lisce, nastriformi, larghe due palmi
(una cinquantina di centimetri); hanno lieve aggetto e nessuna pretesa
decorativa. Nascono da terra con un leggero plinto e terminano in alto
inserendosi nel cornicione con un risvolto lievemente aggettante. Unico
elemento decorativo di esse è il mascherone-grondaia scolpito a tutto
tondo all'altezza del fregio di coronamento sotto il cornicione.
Le due lesene centrali proseguono oltre il cornicione per inquadrare il piano attico ed hanno anch'esse il loro mascherone-grondaia.
La prima fascia orizzontale si trova a circa trenta filari da terra, è
alta due filari, è posta all'altezza del fregio della trabeazione del portale centrale di cui continua la semplice linearità. La fascia, incrociando le paraste verticali, forma con esse un lieve risvolto aggettante.
La seconda fascia orizzontale si trova a trentasette filari sopra la
prima e segna l'inizio del motivo strutturale e decorativo del coronamento dell'edificio. Questa fascia, liscia e di dimensioni ed aggetto uguali alla sottostante, è inferiormente decorata da una fila di archetti pensili di semplice fattura; motivo caratteristico dell'architettura pugliese,
dal medioevo in poi. Lo stesso motivo, infatti, con leggerissime varianti,
si trova nella parte antica della Chiesa dei Santi Nicolò e Cataldo, nel
fregio della Chiesetta di San. Marco dei Veneziani e nella facciata inferiore di Santa Croce a Lecce. Tanto per citare tre notissimi esempi
della zona.
Sopra la detta seconda fascia vi sono i tre filari del fregio terminale
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dell'edificio, sormontato dal cornicione di limitato aggetto, arricchito
da modiglioni e sagomato secondo modelli barocchi.
Il piano terreno è di una studiata semplicità atta a dar risalto, a
far da « contrappunto » al motivo centrale del portale ed al fiorito complesso del piano nobile. Esso ha infatti quattro finestre lievemente accennate, racchiuse entro semplici cornici a forma di « quadro con orecchiette », sormontate da nicchie ad arco a tutto sesto ed a mezzo incavo,
i cui architravi vanno a toccare la prima fascia orizzontale.
Dentro le nicchie vi sono delle sculture: mezzi busti in pietra leccese, brutte copie di modelli classici. A fianco di una di queste finestre
spicca il candore marmoreo della lapide a Garibaldi, di nessuna importanza artistica, ma che mise molto subbuglio in paese quando venne
« inaugurata » di sorpresa dai « compagni » socialisti un 1° maggio di
tanti anni fa.
Sul lato destro si trova la « Cappella di Palazzo » dedicata a San
Giuseppe. Ha la porta con stipiti ed architrave sagomati, due mensole
di linea classica, un fregio con targa, e la cornice con timpano spezzato
per dar luogo ad una nicchia un pò più grande delle altre entro cui è
allogata una scultura rappresentante San Giuseppe. Ai lati vi sono due
finestrelle che illuminano la cappella.
Davanti alla chiesetta si accendevano, un tempo, le caratteristiche
tridici focare » (tredici falò), la sera della festa di San Cesario,
d'inverno.
Il portale
Il portale è il principale elemento strutturale decorativo del piano
terreno. E' di stile rinascimentale liberamente ispirato a classici modelli
ed alle norme e proporzioni codificate da Giacomo Barozzi da Vignola
nel suo celebre trattato sui « cinque ordini di architettura ».
Ha il basamento disegnato secondo i canoni vignoleschi, alto sette
moduli e col plinto a bugna incassata. (Il modulo è il raggio della colonna). Ai primi di questo secolo, i tarli della pietra leccese avevano
lavorato con accanimento degno di miglior causa, riducendo i detti piedestalli ad informi dadi butterati e bucherellati. Gli Edili comunali, poi,
quando costruirono il marciapiede intorno al palazzo, se ne infischiarono del Vignola ed interrarono una fetta dei basamenti alterandone le
originarie proporzioni.
Tarli ed Edili contro pietra leccese e Vignola: due a zero.
Le quattro colonne sono a tutto tondo, distaccate lievemente dal
muro dove hanno, in corrispondenza, i rispettivi pilastri a bassorilievo.
Sono « binate formando, due a due, un intercolonnio « icnostilo »
— cioè ad interasse di tre moduli — circa. Le colonne, dalla classica
fattura e dalle classiche proporzioni — alte venti moduli — sono clas17
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sicamente scanalate nei due terzi superiori del fusto e baroccamente
« cannella te » nel terzo inferiore. I capitelli sono corinzi e di squisita
fa t tura.
Sui capitelli poggia la trabeazione — alta sette moduli — che parte
con quattro blocchi distinti, colonna per colonna, composti dal classico
« architrave » sagomato, dal dado del « fregio » liscio (come la prima
fascia orizzontale del fabbricato della quale prosegue l'allineamento).
Sul fregio si staglia, classicamente bella e di forte effetto chiaroscurale,
la « cornice ». Gli elementi sagomati e decorati di questa, giunti con le
varie modanature al livello della fila degli « ovoli », si fondono, due a
due, per formare le linee dei modiglioni, del gocciolatoio, del piano, li-
La volta a botte, le lunette sfaccettate ed i festoni dell'ambone del palazzo ducale
stelli e gola, fino a terminare con la gola dritta intagliata e scandita da
teste di leone e col listello a becco di civetta che regge la grande lastra
basamentale (di calpestio) del balcone.
Tra i due intercolunni si apre il portale ad arco a tutto sesto la
cui altezza, leggermente inferiore ai « due diametri » codificati dal Vignola, conferisce maggiore solennità al vano. L'arco ha i due piedritti
svelti e lisci sui quali, nell'ottocento, sono stati infissi due caratteristici
lampioni. La cornice orizzontale d'imposta dell'arco è leggermente saProvincia di Lecce - Mediateca - Progetto EDIESSE (Emeroteca Digitale Salentina)
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gomata, forma l'architrave del portone ed inquadra i quattro pilastri
corinzi a filo muro. La cornice dell'arco è a varie membrature ben proporzionate, vi sono due eleganti rosette nei pennacchi scorniciati, e al
centro, la « chiave » ad « S » fortemente aggettante decorata dalla solita
testa di leone.
Sopra la chiave si staglia dal muro un plinto, un elemento di trabeazione analogo a quelli delle colonne, creando un originale motivo
che sorregge e decora la parte centrale del balcone: un « cesto fiorito »
di pietra, di proporzioni perfette, di ottimo gusto e di esatta funzione
statica. Al centro di questo elemento strutturale-decorativo, in alto, si
nota un piccolo bassorilievo eroso dal tempo rappresentante un putto
a braccia alzate in atto di « sorreggere » l'enorme lastra del balcone.
Motivo qui appena accennato e poco convincente di mensola o decorazione antropomorfa che poi si vedrà, ripetuto e « corretto », nella serraglia del portale del palazzo Palmieri a Lecce, e portato alla perfezione
ed al parossismo nelle Chiese di Santa Croce, Sant'Angelo, Santa Chiara
ed altre.
Dal portale si accede al grande e ben proporzionato androne carrozzabile, la cui volta a botte fortemente lunettata, è un modello di statica
e di eleganza. Sono cinque lunette archiacute impostate su quattro peducci interi e due mezzi. Hanno forma sfaccettata a 45 gradi che ne
addolcisce il chiaroscuro. I peducci partono da un leggero finto capitello-mensola sormontato dalla trabeazione e da una decorazione di foglie d'acanto, simile a quella dell'interno di Santa Croce in Lecce, ove
tale motivo è doppio.
In cima alle lunette ed al centro della volta corrono tre file di festoni floreali stilizzati barocchi di tipo analogo a quelli delle volte di
Santa Croce. Il loro compito, oltre che decorativo, è anche statico perché indicano le linee delle « reni » e della « chiave » della volta.
Alcune porte incorniciate ed architravate, più o meno in buono stato, il solenne scalone a due rampe dai gradini consunti e dalla elegante
arcatura a giorno completano l'androne che immette in un disadorno
cortile, oltre il quale, un tempo, c'era un orto recintato da muro sulle
Vie Russo e Roma.
Primo piano
Il piano nobile mostra una nuova faccia, un cambiamento di stile,
quasi di mano; analogamente a quanto è dato vedere tra la facciata
inferiore e quella superiore di Santa Croce in Lecce: trasformazioni avvenute pressoché contemporaneamente. A Lecce, è noto, alla mano di
Gabriele Riccardi si sostituirono quelle dello Zimbalo e del Penna. A
San Cesario, tale cambiamento, non è documentato, anzi si può affermare, che la mano e la fantasia del medesimo architetto del piano ter19
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reno, si siano sbizzarrite per dare al piano nobile quella leggiadria e
quel risalto necessari alla stia funzione.
Si può vedere così, alle semplici sagome rinascimentali, alle superfici piane che contornano il portale e le finestre del piano terreno, succedere, nel primo piano, alcuni elementi barocchi, la cui armonica scansione dei pieni e dei vuoti si fa più serrata dalle ali verso il centro; le
cui decorazioni si infittiscono, le sagome si movimentano ed inturgidiscono, senza cadere nel trito e nel superfluo.
Cominciando dalle critiche si può vedere, nel balcone centrale, la
grande lastra del piano di calpestio, malgrado le scanalature a forma
di triglifo in essa praticate, e le ventotto rosette ad otto foglie scolpite
sulla fascia sovrastante, essere pesante e togliere respiro agli elementi
di trabeazione elegantemente sbocciati dalle colonne e dalla serraglia
centrale dell'arco. I balaustri della balconata sono pressappoco rinascimentali, piuttosto tozzi; mentre i cinque « acroteri » (pilastrini di ripartizione) sono di sagoma prettamente barocca. Qualora il complesso
della balaustrata fosse stato più leggero e situato in posizione lievemente più arretrata, si sarebbe avuto un effetto molto migliore: uno dei più
bei balconi su uno dei più bei portali d'Italia. Ma, la perfezione, si sa,
non è di questo mondo.
Il « neo » della balaustrata viene ampiamente compensato dal brillante motivo delle nicchie e delle finestre poste ai lati del balcone centrale. Sono quattro grandi nicchie ad arco a tutto sesto e ad incavo
semicircolare, di differente altezza, poggianti su pseudo capitelli a rilievo il cui abaco è il prosieguo della cornice di parapetto del balcone.
Tra le nicchie vi è una porta finestra con parapetto a filo muro formato da cinque balaustri di tipo analogo a quelli del balcone centrale;
motivo inquadrato dalle cornici d'imposta e di parapetto e da due finti
modiglioni ad « S ».
Il complesso di questi tre elementi architettonici differenti: nicchiafinestra-nicchia, strettamente accostati, dagli stipiti ed architravi sagomati in maniera più decisa di quelli del piano terra, dai fregi con targhe
e rosette, dalle cornici con modiglioncini ed intagli; sfalzate in altezza
con ritmo crescente verso il centro; il tutto, dalla linea rinascimentale
e di sapore barocco, forma un insieme strutturale-decorativo notevole
per finezza e buon gusto e quasi unico nel suo genere.
Entro le nicchie: quattro statue in pietra leccese di intonazione
classicheggiante. La prima a destra è una copia riveduta e... scorretta
del celeberrimo « Ercole Far. nese » del Museo Nazionale di Napoli che,
come è noto, è attribuita allo scultore ateniese Glycon, e raffigura un
Ercole stanco per le molte fatiche, la testa piccola e reclinata, lo sguardo vitreo per la incipiente follia, il possente corpo muscoloso quasi
abbandonato sul fido sostegno della grande clava adorna della pelle
del leone nemeo.
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L'Ercole di San Cesario, invece, ripropone senza eccessive pretese
artistiche e correttezze anatomiche, un Eroe saldamente in piedi, tra
una fatica e l'altra, dalla testa possente, crinita e barbuta, dallo sguardo
sereno e severo di semidìo, sottobraccio ad una clava alta quanto lui.
Nella nicchia di sinistra fa simmetrico e degno riscontro un'altra
grande statua virile: quella del biblico Sansone, barbuto e « capellone »,
in fiero atteggiamento di sfida contro « i Filistei tutti e le loro colonne »,
ad una delle quali appoggia il gomito sinistro e protende il braccio
destro in una stretta minacciosa.
Nelle due nicchie estreme, più piccole, vi sono due figure muliebri:
Minerva e Venere in atteggiamento « naturale e disinvolto di perfette
spogliarelliste ».
La materia in cui le quattro statue sono scolpite: la pietra leccese,
non può rivaleggiare con gli effetti luministici e le finezze plastiche del
marmo (tutta la statuaria salentina in pietra locale lo dimostra). Le
statue di San Cesario, però, se fossero state di marmo, avrebbero avuto
funzione puramente decorativa, sarebbero state un più o meno prezioso
superfluo » anziché una modesta ed insostituibile « necessità ». Esse si
immedesimano, coloristicamente e volumetricamente con le loro nicchie, vivono insieme all'intera composizione architettonica del primo
piano, sono così bene « mimetizzate » con esso che è difficile a prima
vista rilevare i difetti anatomici delle sculture.
Purtuttavia attirarono, molti anni fa, l'attenzione delle « Sante
Missioni » in una loro visita a San Cesario. I buoni Padri Missionari,
infervorati da uno zelo puritano forse eccessivo, tanto tuonarono dal
pulpito, tanto susurrarono dal confessionale che riuscirono a strappare
alle « Autorità competenti » il decreto di « vestizione » delle statue. Uno
zelante « Brachettone » locale confezionò degli « indumenti » di stucco,
materiale desueto nel regno della pietra leccese. Il suo sanfedismo non
dovette essere minore di quello dei buoni Padri Missionari perché, in
luogo degli ariosi e movimentati panneggi in un certo senso consoni
alle statue seicentesche, modellò su di esse i due « cilizi » e le due
« cinture di castità » che ora è dato vedere.
L'operazione suscitò non poche frecciate umoristiche (a dir poco)
in epoca di riviviscente paganesimo carducciano e di edonistico dannunzianesimo. « Vedrete — si diceva in paese — che un giorno o l'altro
non si contenteranno delle sole brache e imiteranno la tartufesca pudicizia delle dame inglesi che fanno coprire di stoffa le « gambe » dei
tavolini e dei pianoforti per non vedere « nudità », oppure faranno come i gallipolini che tengono vestiti di tutto punto i loro « Buon Ladrone » e « Mal Ladrone » a fianco del Redentore in croce nella Chiesa di
San Francesco »... Su questo punto c'era chi era pronto a scommettere
che la parte di « Mal Ladrone » (quella cioè di « stracciarsi » miracolo21
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samente i vesti ti ogni anno) sarebbe toccata alla signora Venere; e sarebbe stato un bel vedere.
Non si conosce il nome del Daniele da Vol terra in sedicesimo che,
a San Cesario, ebbe partita vinta. Poco male, la Storia dell'Arte non
ne scapita.
I suddetti motivi architettonici e scultorici del primo piano inquadrano la grande porta finestra del balcone centrale. Essa ha i piedritti
a doppia serie di cornici: quella interna come stipite ed architrave di
classiche sagome e proporzioni, quella esterna si innesta alla linea
delle mensole barocche dal concavo scanalato e dal dorso a foglie d'alloro, riccio, gocce ecc. Tra le mensole spicca il fregio centrale con targa e rosette sormontato da una elegante ed originale cornice baroccamente sagomata ed intagliata.
Sulla cornice poggia la grande nicchia a lieve incavo dentro cui
è allogato lo scudo araldico dei Marulli: « il leone illeopardito sotto la
Croce di Malta », contornato da festoni e cartigli ad altorilievo, sormontato dalla grande corona ducale, cimiero e lambrecchino di forte
effetto chiaroscurale e di gusto prettamente barocco. Questa nicchia
ed il suo scudo sono gli unici elementi architettonico-decorativi che si
permettono di interrompere la elegante fila degli archetti pensili e di
invadere una parte della fascia terminale. Noblesse oblige. Anomalia
architettonica che denota l'applicazione del fastoso emblema gentilizio
in epoca posteriore alla costruzione del palazzo. Ma di questo si
parlerà in appresso.
Lo stesso motivo dello scudo araldico sormontato da una grande
corona a tutto tondo o ad altorilievo si può vedere, a Lecce, in Santa
Croce, Santa Chiara, San Matteo, Santi Nicolò e Cataldo ed altri monumenti dell'età barocca.
Per completare la descrizione della parte centrale si nota che il
piano attico del palazzo, alto appena una diecina di filari, è conchiuso
tra le due paraste verticali centrali già note ed è sormontato da una
cornice di lieve aggetto. Ha tre finestre basse incorniciate da stipiti
ed architravi di eguale sagoma, nel cui centro campeggia una conchiglia di pretto gusto barocco.
Sempre al primo piano, le due ali dell'edificio, hanno due grandi
balconi di fattura analoga a quello centrale, ma poggianti ciascuno
su sei robusti mensoloni di pietra intagliata. Su ogni balcone si affacciano due porte finestre, delineate e decorate come le altre a fianco.
AI di sopra del loro architrave, e sulle due porte finestre della parte
centrale, si vedono sei nicchiette a tutto tondo ed a mezzo incavo adornate dai soliti busti di dimensioni un pò maggiori e di fattura un pò
più accurata di quelli del piano terreno.
Il risvolto del corpo di fabbrica su Via A. Russo ha un altro balcone e due porte finestre, nicchie e busti come i precedentemente deProvincii Lecce - Mediateca - Progetto EDIESSE (Emeroteca Digitale Salentina)
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scritti. Si conclude con due porte finestre dalla balaustrata a filo muro,
simili alle altre due tra le grandi nicchie.
Una fila di « ammorzature » di pietra preludevano le intenzioni di
continuare quell'ala del fabbricato. Idea tradotta in pratica nel secondo decennio di questo secolo con la costruzione dell'edificio scolastico:
un ben triste e democratico « vicino » alla nobile casa dei Marulli.
Dissonanze
E' stato descritto il « volto » del più monumentale « personaggio »
di San Cesario « com'era » ai primi del novecento. Per giustificare il
titolo di questo capitolo occorre aggiungere, al « com'era », il « com'è »,
accennare cioè ai cambiamenti non dovuti all'ala del tempo perché,
per simili personaggi, cinquanta, sessant'anni non sono nulla; ma all'opera degli uomini, i piccoli-grandi « padroni del vapore » che, per
necessità, per moda, per malinteso senso artistico ed estetico, si arrogano il diritto di « cambiare i connotati » alle cose antiche, di propinar
loro delle non richieste « cure di bellezza ».
Per il nostro « personaggio », grazie a Dio, le cure di bellezza si
sono limitate a ben poco. Eccone un elenco incompleto compilato nella
speranza che possa essere letto da chi « sa », da chi « deve » e da chi
« può » rimediare.
— Bene: gli alberelli sempreverdi ed il Monumento ai Caduti che
abbelliscono Piazza Garibaldi, il Sagrato, la Via Russo, un tempo dominio incontrastato del sole, della polvere e del vento; ma che limitano l'integra visione del palazzo ed impediscono l'accensione dei tradizionali tredici falò (tridici focare) la sera di San Cesario, d'inverno.
— Bene: i quattro piedestalli delle colonne del portale, un tempo
ridotti dai tarli a degli informi parallelepipedi, ed ora interamente
rifatti.
— Bene: la abolizione della orribile custodia metallica per linee
telegrafiche e telefoniche che, anni fa, sfregiava come una sciabolata
la lesena centrale della facciata a lato della lapide di Garibaldi. Occorrerebbe completare l'opera togliendo anche le mensole di sostegno delle linee elettriche e gli altri spuntoni metallici.
Di fronte a questi lati positivi eccone alcuni negativi:
— La non necessaria trasformazione del lato inferiore sinistro della facciata, con la obliterazione delle due antiche eleganti finestre, per
ricavare una discutibile simmetria col lato destro, cioè con la porta
della « Cappella Palatina » di San Giuseppe; porta che, in una fotografia Alinari del 1912, risulta malamente trasformata a finestra: indice
della sconsacrazione della Cappellina.
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Nella grande limetta dell'arco del portale fa brutta mostra di
se un'insegna ovale con la scritta « Palazzo Comunale » in torno al democratico emblema della Repubblica Italiana. E' una contaminazione
peggiore di quella perpetrata a Sternatia ai danni del caratteristico
portale del Palazzo Comunale. Danno maggiore perché il portale di
Sternatia non può competere con quello di San Cesario.
In merito a questa « contaminazione » occorre fare alcune considerazioni.
Gli stemmi, è noto, sono la trasposizione araldica degli scudi militari, e come tali, possono avere forma circolare, ovale, rettangolare,
mistilinea (nel gotico e nel barocco), a punte, orecchiette ecc.; ma sempre disegnati, dipinti, incisi, scolpiti e messi in opera « in piedi », cioè
con l'asse maggiore verticale e mai « coricati » come è dato vedere sul
bel portale di San Cesario dove, lo stemma, così posto, sembra più
un'insegna d'osteria che un emblema civico. Si trascura qualsiasi esemplificazione in proposito perché troppo ovvia.
Gli stemmi sono spesso « necessari » per distinguere, nel mare
magnum della edilizia cittadina, sia gli edifici pubblici civili e militari
che quelli religiosi di speciale destinazione (Chiese Cardinalizie e Vescovili). Sono quasi sempre « inutili » su edifici monumentali di grande
notorietà; come sarebbero detestabili se applicati, per esempio, a San
Marco a Venezia, al Duomo di Milano, a San Pietro, al Campidoglio, al
Quirinale, a Palazzo Farnese a Roma; come è assolutamente inutile la
« tabella » applicata sull'unico palazzo monumentale di San Cesario.
Qualora non si volesse proprio fare a meno di una indicazione, si
potrebbero mettere sull'architrave del portone, in dignitose lettere in
bronzo, la parola « MUNICIPIO » e, per carità, senza prendere a modello quelle di Sternatia.
— Sempre nel portale, occorrerebbe togliere la schermatura in legno che tampona la lunetta dell'arco, ne immiserisce la linea ed impedisce la visione del gioco delle volte dell'androne, interessante ed originale quanto la facciata del palazzo. Nella fotografia Alinari del 1912,
detta schermatura non c'era ed il portale si stagliava integro e libero
in tutta la sua maestosa bellezza. Ora i tempi sono cambiati e tutti sono
diventati insofferenti del caldo d'estate e del freddo d'inverno e del
vento, il caro vento di Puglia « ch'intender non lo può chi non lo prova ».
I Padri Coscritti di San Cesario, col lodevole intento di proteggere e di
proteggersi dalle intemperie, hanno escogitato il sistema di tamponare
l'arco. Avrebbero potuto ottenere lo stesso scopo con una lunetta trasparente.
— Passando al primo piano c'è il problema delle « brache » appiccicate alle statue. La... stoffa con cui, a suo tempo, furono confezionate
comincia a... tarlarsi. Lo stucco, meno durevole della non eccessivamen24
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te longeva pietra leccese, si sta accartocciando e scrostando. Sarebbe
questa l'occasione propizia, ad Amministratori Comunali e Sovrinten
denti ai Monumenti, per riparare il torto fatto all'Arte dai loro prede«
cessori rimettere in pristino l'armonia scultorica ed anatomica delle
statue.
— Ancora più su, sempre confrontando la foto Alinari del 1912, di
)en più importante rilievo è il problema della « sopraelevazione abusiva » che spunta sopra il cornicione. Sono appena tre filari di pietra e
due finestrelle che, malgrado abbiano l'aria di non volersi far notare,
e
Interno della Chiesa di Santa Croce in Lecce - Particolare delle volte
deturpano la linea del palazzo. I solerti Edili Comunali avevano imboc.
cato la strada giusta demolendo l'ala destra aggiunta del palazzo; poi,
forse per la legge dei compensi, quel che hanno tolto a destra (ed hanno
fatto bene), hanno aggiunto in alto (ed hanno fatto male, malissimo).
Questo, almeno, è quanto è dato vedere da lontano con interessa.
mento ed espressione di viva nostalgica simpatia.
G Fumo
LAUDI SA
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