Promotio Iustitiae no. 122

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Promotio Iustitiae no. 122
N. 122, 2016/2
Promotio Iustitiae
Vivere insieme ai musulmani
Un viaggio all’incontro con l’altro
Cristiani d’Oriente in terra d’Islam
Victor Assouad, sj
Un itinerario: Belgio, Egitto, Turchia
Jean-Marc Balhan, sj
Vivere insieme ai musulmani in Indonesia
JB. Heru Prakosa, sj
Collaborare con alcuni musulmani in un’opera educativa
in Algeria
Lucien Descoffres, sj
Fare società insieme
Jérôme Gué, sj
Mvslim.com
Johan Verschueren, sj
Dialogo interreligioso alla frontiera
Esteban Velázquez, sj
Vivere insieme ai musulmani a Tower Hamlets, Londra
Damian Howard, sj
Segretariato per la Giustizia Sociale
e l’Ecologia
Promotio Iustitiae 122, 2016/2
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Editore:
Patxi Álvarez sj
Coordinamento:
Concetta Negri
Promotio Iustitiae viene pubblicato dal Segretariato per la Giustizia Sociale e l’Ecologia della
Curia Generalizia della Compagnia di Gesù (Roma) in italiano, inglese, francese e spagnolo,
ed è disponibile su internet all’indirizzo: www.sjweb.info/sjs da cui si possono scaricare tutte
le pubblicazioni dall’anno 1992.
Se c’è qualche articolo che vi ha colpito e volete mandarci un breve commento lo prenderemo
volentieri in considerazione. Chi desideri inviare una lettera a Promotio Iustitiae, perché sia
pubblicata in uno dei prossimi numeri, è pregato di farla pervenire via posta, e-mail o fax al
recapito indicato sul retro della copertina.
Se desiderate utilizzare gli articoli pubblicati nella nostra rivista, vi preghiamo di indicare
Promotio Iustitiae come fonte, precisandone l’indirizzo e inviandoci una copia della
pubblicazione. Grazie!
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Segretariato per la Giustizia Sociale e l’Ecologia
Indice
Editoriale .................................................................................................................................. 5
Patxi Álvarez, sj
Cristiani d’Oriente in terra d’Islam .................................................................................... 6
Victor Assouad, sj
Un itinerario fisico: Belgio, Egitto, Turchia ...................................................................... 8
Jean-Marc Balhan sj
Vivere insieme ai musulmani in Indonesia .................................................................... 13
JB. Heru Prakosa, sj
Collaborare con alcuni musulmani in un’opera educativa in Algeria....................... 18
Lucien Descoffres, sj
Fare società insieme ............................................................................................................. 22
Jérome Gué, sj
Mvslim.com ........................................................................................................................... 26
Johan Verschueren, sj
Dialogo interreligioso alla frontiera ................................................................................. 30
Esteban Velázquez, sj
Vivere insieme ai musulmani a Tower Hamlets, Londra............................................. 34
Damian Howard, sj
Promotio Iustitiae 122, 2016/2
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Segretariato per la Giustizia Sociale e l’Ecologia
Promotio Iustitiae, n. 122, 2016/2
Editoriale
Patxi Álvarez, sj
La convivenza tra cristiani e musulmani è stata costante a partire dalla nascita dell’Islam. Non
sempre è stata una coesistenza facile. Fin dalla sua comparsa, e nel corso dei secoli, l’Islam ha
conteso con i regni cristiani le frontiere della sua estensione – sia all’interno dell’Europa
Orientale, sia all’interno dell’Europea Occidentale – arrivando a occupare molti dei loro
territori. Nonostante entrambi i credo religiosi professino il monoteismo, gli scontri sono stati
numerosi. Alcuni episodi, come le Crociate e la Prima Guerra Mondiale, con il conseguente
crollo dell’Impero Ottomano, e l’occupazione della regione da parte delle potenze occidentali,
hanno lasciato aperte molte ferite, alcune delle quali non si sono ancora rimarginate. A
seconda dei momenti storici, o degli spazi geografici, è potuta prevalere la tolleranza, o al
contrario, il rifiuto, che, in molti casi, ha portato a reciproche espulsioni. Ad ogni modo,
oggigiorno, in diversi luoghi del mondo, sopravvive un’estesa convivenza di comunità
cristiane e musulmane, che si è venuta ampliando per via della crescente diversità culturale
prodotta dall’attuale fenomeno delle migrazioni.
La situazione è diventata più complessa negli ultimi decenni. Da una parte, un profondo ed
esteso malessere, presente all’interno dello stesso Islam, sta portando alcuni gruppi
radicalizzati a compiere atti di violenza. Si stima che, oggigiorno, l’85% delle vittime di questa
violenza – in gran parte della stampa definita come jihadista – sono persone che professano la
fede di Maometto. Dall’altra parte, gli attentati terroristici contro obiettivi occidentali
compiuti da gruppi jihadisti hanno esacerbato una particolare interpretazione della realtà,
secondo cui esisterebbe un conflitto tra il mondo musulmano e il mondo occidentale. Tutto
ciò sta rendendo estremamente complicate, e riempiendo di sospetti, le relazioni con le
comunità musulmane.
Vi sono gesuiti che convivono con comunità musulmane in molti paesi del mondo, a volte in
condizione di maggioranza sociale, altre volte in situazione di minoranza. In alcuni casi, si
tratta di una realtà storica radicata e matura, come in alcuni paesi arabi, dove la convivenza
va avanti ormai da secoli. In altri casi, si tratta, invece, di una realtà più recente, come avviene
nei paesi europei.
In questo numero di Promotio Iustitiae, alcuni gesuiti che vivono fianco a fianco con comunità
musulmane, in diversi luoghi del mondo, descrivono la loro esperienza di vita condivisa
insieme a persone di fede islamica, in circostanze molto diverse tra loro. Questi gesuiti ci
parlano delle sfide e delle opportunità che il dialogo con queste comunità presenta nella vita
quotidiana. Ci descrivono ciò che hanno appreso, e come questo incontro li abbia arricchiti. E
compiono una riflessione su ciò che tutti noi, cristiani e musulmani, possiamo offrire insieme,
in questo mondo complesso nel quale viviamo. La nostra speranza è che queste pagine
possano aiutarci a porci meglio di fronte alla sfida della convivenza tra cristiani e musulmani.
Originale spagnolo
Traduzione Filippo Duranti
Promotio Iustitiae 122, 2016/2
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Promotio Iustitiae, n. 122, 2016/2
Cristiani d’Oriente in terra d’Islam
Victor Assouad, sj
Beirut, Libano
Sono quello che si definisce un “cristiano d’Oriente”, uno di quei cristiani che praticamente
fin dalla nascita dell’Islam vivono tra i musulmani nel mondo arabo. In quasi 14 secoli, si sono
verificate tutte le situazioni – dalle più conflittuali alle più pacifiche –, che però hanno dato
vita a una cultura ricca di saggezza, di conoscenza reciproca, nata da lunga convivialità ed
esperienza.
Attualmente, in quanto gesuita, vivo in Libano, dove quasi il 30% della popolazione è
cristiana; ma sono nato in Siria dove oggi i cristiani non superano il 5%, e ho trascorso una
decina di anni in Egitto dove invece i cristiani copti rappresentano tra l’8 e il 10 % della
popolazione del paese.
Da qualche anno, l’Islam radicale sembra essere la componente dominante dell’Islam. Con gli
avvenimenti che hanno luogo sia nel mondo arabo sia in altre parti del mondo, e che vengono
riportati e orchestrati dai media, tutti i musulmani sembrano essere sospettati di terrorismo.
Quando vengono alla ribalta i gruppi fondamentalisti (come Al Qaïda o lo Stato Islamico, EI)
bisognerebbe peraltro analizzare come e perché vengono fuori – è tutta la popolazione, quindi
in primo luogo la maggioranza musulmana, che ne patisce e subisce le conseguenze. È vero
che questi gruppi impongono una visione radicale della Legge musulmana o Shari’a, che costi
quel che costi deve essere applicata in modo unanime. Chi non obbedisce subisce una
repressione violenta, e le pene sono senza appello. In questo contesto, la presenza dei cristiani
che vivono insieme a questa popolazione diventa molto problematica e rischiosa:
generalmente sono spinti a convertirsi all’Islam, o a scappare in tutta fretta, talvolta
condannati all’esecuzione sommaria; oppure sono costretti ad acquisire lo status di dhimmis
(ovvero sottoposti a un “patto di protezione”) che li costringe a pagare una tassa particolare
e a seguire un codice comportamentale molto restrittivo e preciso.
Ma il fondamentalismo riflette la vera natura dell’Islam e dei musulmani? Dobbiamo
innanzitutto riconoscere che tutte le religioni e le ideologie possono essere tentate, in alcuni
momenti della loro storia, dal fondamentalismo e soccombervi. Non è solo appannaggio della
religione musulmana. Possiamo inoltre affermare che il radicalismo non riflette in nulla la
vera natura dell’Islam o dei musulmani. Questa religione si è sempre autodefinita come una
religione di pace, concetto che del resto è contenuto nell’etimologia della parola Islam. Tutte
le sure del Corano cominciano con questo versetto: “Nel nome di Allah, il Compassionevole,
il Misericordioso”. Praticare l’Islam, equivale a praticare la sottomissione a Dio e la pace con
il prossimo. D’altronde, l’Islam vuole essere la religione della “moderazione” per eccellenza.
La legge dell’Islam o Shari’a è una legge che cerca l’equilibrio e l’adattamento alle possibilità
umane riconosciute come limitate e fragili. La preghiera, il digiuno, l’elemosina, le leggi del
matrimonio… vogliono trovare il “giusto mezzo” che consenta al musulmano di vivere la
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propria esistenza in un equilibrio che gli procura felicità, e assicurare la pace sociale. Per i
musulmani, sono soprattutto i precetti del cristianesimo a essere troppo esigenti e non
sufficientemente adatti alla natura umana. Anche se sembrano loro ammirevoli, come si riesce
a porgere la guancia sinistra a chi vi colpisce quella destra? Come predicare l’amore per i
nemici? Come ammettere che un essere umano viva e professi la continenza per tutta la vita?
Per quanto riguarda i rapporti che i musulmani hanno con i cristiani, se i primi hanno dei
pregiudizi nei confronti del dogma cristiano, soprattutto quello della Trinità, – che tacciano
di “associazionismo” (forma di politeismo) –, oppure quello dell’incarnazione (che non
possono concepire, e che secondo loro nega la trascendenza di Dio), sono invece molto
sensibili ai valori cristiani. Sono toccati dalle virtù cristiane della fede, della speranza e della
carità, e manifestano molta stima e rispetto nei confronti dei comportamenti dei buoni
cristiani e delle loro pratiche. Cercano in particolare di frequentare le loro istituzioni –
ambulatori, ospedali, scuole e università – ed è per loro motivo di vanto avervi avuto accesso.
Hanno in particolare profonda stima delle persone consacrate – religiosi e religiose – di cui
hanno una fiducia senza limiti e che definiscono volentieri persone angeliche.
Infatti, se nel mondo arabo cristiani e musulmani sono potuti vivere in rapporti di buon
vicinato per lunghi periodi di tempo, è perché avevano entrambi un’identità ben definita.
Potevano lavorare insieme, diventare amici, fare progetti in comune; ma conoscevano anche i
propri limiti (definiti generalmente ed essenzialmente dallo “status personale” legato al
matrimonio, alla famiglia e al retaggio personale). Tra di loro, non vige il principio di
assimilazione quale che sia, né di pratiche del tipo melting-pot, bensì quello del rispetto e
della stima per le identità reciproche. Nel frequentarsi, sono rimessi alla propria identità, per
trarne il meglio. Nel contatto vicendevole, i musulmani diventano migliori musulmani e i
cristiani migliori cristiani.
Una delle qualità essenziali del musulmano, probabilmente generata dall’ambiente desertico
in cui è nato l’Islam, è l’ospitalità. Per il musulmano, l’ospitalità è un dovere sacro. Un
musulmano non potrà mai rifiutare alloggio e cibo all’ospite di passaggio. Ecco perché
accogliendolo lo si conquista senza ombra di dubbio; è molto sensibile alle attenzioni e al
rispetto di cui gli si dà prova, e per contro non ammette la diffidenza e il rifiuto. Da questo
punto di vista, ciò che sta succedendo in Europa nei confronti dei musulmani che vi cercano
rifugio perché in fuga dal loro paese in guerra è molto emblematico. Se il musulmano si sente
accolto, riconosciuto, rispettato per ciò che è, ne conserverà una riconoscenza e una fedeltà
senza limiti.
Oggi l’Occidente sta mostrando nei confronti dell’Islam paura e sospetto, ma bisogna capire
che questo è innanzitutto quello dell’Islam nei confronti dell’Occidente. Infatti, davanti alla
formidabile avanzata tecnologica del mondo occidentale, l’Islam avverte uno scarto di civiltà
che non riesce a superare. Di fronte all’Occidente, prova fascino e rifiuto al tempo stesso.
Vorrebbe approfittare di questa avanzata, ma teme al contempo di perdere la propria anima,
soprattutto di fronte alla dissoluzione morale che vede in Occidente. È il motivo per cui spesso
si irrigidisce, sembra voler imporre il proprio modello, o si lascia tentare dal radicalismo.
Spetta dunque in primo luogo agli occidentali adottare un atteggiamento meno arrogante.
Aiutare l’Islam e i musulmani a ritrovare il meglio della loro eredità, riattivare il loro
potenziale civilizzatore, rilanciare la loro creatività, potrebbe aiutarli molto a ritrovare fiducia
in se stessi per proseguire così il cammino insieme agli altri.
Originale francese
Traduzione Simonetta Russo
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Un itinerario: Belgio, Egitto, Turchia
Jean-Marc Balhan, sj
Ankara, Turchia
Il povero
Belga di origine, ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza a Verviers, città vicina alla frontiera
con la Germania e i Paesi Bassi. Centro importante dell’industria laniera fino agli anni
sessanta, questa città borghese ha conosciuto nei decenni successivi un declino economico e
una progressiva presenza di persone di origine straniera. Tra queste, i musulmani sono
soprattutto di origine marocchina e turca. Hanno cominciato ad arrivare negli anni sessanta,
invitati dal Belgio come manodopera per l’industria. Attualmente sono presenti un po’
ovunque nel centro città, nelle attività commerciali come nelle scuole, ma non era così quando
ero più giovane.
Da bambino, negli anni settanta e ottanta, per me essere musulmano significava essere
“arabo” e far parte di una popolazione povera, socialmente emarginata e con la quale non
avevo, tra l’altro, alcun contatto. Erano confinati in alcuni quartieri nei quali andavo
raramente. “Arabo” era per me sinonimo di ladro, o di delinquente. A quell’epoca, la
barzelletta più comune su di loro era: “Che differenza passa tra la strada X e il Canale di Suez?
Risposta: nel Canale di Suez, gli arabi sono solo su un lato…”. È con queste immagini e questi
pregiudizi che sono cresciuto, e parallelamente con un immaginario romantico dell’ “Oriente”
perché, come il nostro eroe nazionale Tintin, in effetti ho sempre desiderato “partire”…
Nel 1984, arrivato all’università, a Bruxelles, ho stretto amicizia con uno studente iraniano con
cui discutevo dei benefici della rivoluzione islamica. Ma a quell’epoca, durante il primo ciclo
di studi di medicina, mi interessavo soprattutto a quello che allora si definiva “il Terzo
Mondo”, sognavo di partire con “Medici senza Frontiere”, e ho fatto uno stage nel Congo.
Rientrato nella Compagnia nel 1987, ho cominciato a interessarmi ai musulmani che sono nel
mio paese, con l’intento di avvicinarmi a una popolazione svantaggiata, e di conoscere una
cultura diversa. Ma avrei dovuto aspettare il magistero per incontrare l’Islam.
L’Islam
“Vuoi andare in Africa? Ti mando in Egitto”. È con queste parole che il mio Provinciale
dell’epoca mi ha mandato a insegnare per due anni al Collège de la Sainte Famille al Cairo,
un’esperienza che nella mia vita è stata un vero giro di volta e uno choc culturale tanto più
benefico perché già da prima della partenza la mia fede stava attraversando un momento di
crisi ed ero alla ricerca di un “Dio più grande” di quello che allora pensavo non fosse che una
proiezione della figura genitoriale.
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Quando adesso mi rivolgo ai dei musulmani in occasione di conferenze interreligiose,
comincio sempre dicendo che se in quel momento mi trovo davanti a loro come religioso e
sacerdote cattolico, è perché l’Islam di cui sono portatori e che ho incontrato in Egitto durante
il magistero ha sostenuto la mia ricerca di allora di un Dio “più grande”. Non c’è proprio
modo di sfuggire a quel richiamo che risuona cinque volte al giorno: Allahu akbar. Ashhadu
an la ilaha illa Allah. «Dio è più grande. Testimonio che non c’è dio, all’infuori di Dio ». Dio è
più grande di qualsiasi idolo. Non c’è dio, all’infuori di Dio: ma chi è, e dove posso trovarlo?
In una grande moschea vuota che mi invita a cercarlo sempre “oltre”? O in una chiesa in cui
figura un Dio che allora pensavo “troppo vicino” per essere vero, “umano, troppo umano”?
Sarà questo l’inizio di una lotta che non avrà termine che tanti anni dopo, con la riscoperta del
Dio trinitario e dell’amore come dono di sé.
Sono stato molto colpito anche dalla fiducia che il musulmano ripone in Dio e dalla
gratitudine che gli porta, quali che siano le circostanze in cui si trova a vivere. Quando in
Egitto chiedete a qualcuno come stia, la maggior parte delle volte non vi risponde né che va
bene, né che va male, semplicemente al-hamdu li-llah, “Dio sia lodato”. Il musulmano sembra
essere in pace nelle mani di Dio, mentre il cristiano occidentale (e io per primo!) appare
sempre in lotta contro ciò che viene percepito come privo di senso. Ho invidiato a lungo
questa fiducia prima di cominciare a trovarla in questi ultimi anni nella preghiera di
abbandono.
In Egitto ho anche scoperto l’islam politico che, nonostante le sue inavvedutezze, aveva i
colori di una “teologia della liberazione” in un universo post coloniale in cui il presidente
raccoglieva il 99% dei “voti”. La cosa che più mi metteva in difficoltà era ciò che avvertivo
come povertà intellettuale di questo islam che, pur radicandosi in una tradizione gloriosa, mi
appariva sulla difensiva, paralizzato dal conservatorismo e la paura di rimettersi in questione.
In Egitto, “pensare” era pericoloso. Chi ci provava rischiava la vita.
Dopo il magistero al Cairo è giunto il momento degli studi di teologia, in cui ho cercato non
soltanto di purificare la mia fede, ma mi sono anche preso il tempo per cercare l’origine degli
archetipi antimusulmani e dei meccanismi di proiezione che operano nello spirito degli
europei quando si tratta di “Oriente”. Ne ritroverò di simili in seguito, nel dibattito sull’
“ingresso della Turchia in Europa”.
Ricevuta, alla fine di quegli studi, una missione nel “dialogo interreligioso”, mi sono ritrovato
in Egitto, e poi al PISAI a Roma, per studiare arabo e islamistica, durante i quali ho
approfondito in modo particolare l’ermeneutica coranica e la teologia della rivelazione,
cercando di “capire” dall’interno e lasciarmi toccare da ciò che per i musulmani è l’unico
miracolo, quello del Qur’an “inimitabile”, imparando a memoria le belle sure, alcune delle
quali ispirano ancora oggi talvolta la mia preghiera.
Il musulmano
Mentre mi apprestavo a tornare nel mio paese di origine, speravo di poter fare prima la
conoscenza di un islam che non conoscevo e che sarebbe stato presente dove avrei lavorato:
l’islam turco. Alla fine del millennio, ho avuto la fortuna di poter trascorrere due settimane
nella periferia di Istanbul con alcuni studenti che facevano parte di un movimento neo-sufista
molto comune in Turchia. Avevo già incontrato alcuni poveri, oltre a una grande tradizione
religiosa: adesso incontravo davvero per la prima volta dei musulmani credenti, intelligenti e
a loro agio nella propria pelle, in grado di parlare in prima persona e in tutta onestà della
propria fede, del proprio cammino e della loro ricerca di senso.
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Per la prima volta nella mia vita “dialogavo” e avevo la possibilità di entrare da pari,
dall’esterno e in modo talvolta un po’ romantico, nell’universo di un "altro" concreto, e non
soltanto in una tradizione. E qui si tratta di un universo sconcertante, in cui le “leggi spirituali”
sono diverse, e in cui si vedono anche le proprie convinzioni messe sotto pressione da
qualcuno di particolarmente simpatico, che parla in prima persona del suo rapporto con Dio
in una relazione di fiducia: un’esperienza di alterità. Un giorno in cui parlavamo dei “bei
nomi” di Dio, sono rimasto colpito dal fatto che mentre chiedevo a questi studenti quale di
essi preferissero, la maggior parte di loro ne indicava due: uno che noi definiremmo
spontaneamente “positivo”, come “Colui che perdona”, e un altro “negativo”, come “Colui
che domina”, o “Colui che punisce”, entrambi percepiti come condizione indispensabile di
una vita spirituale autentica. Uno dei giovani si è spinto fino a tracciare un grafico con la
“paura” sul piano delle ascisse, e il “successo” su quello delle ordinate; poi, tracciando una
curva gaussiana, mi ha spiegato che per riuscire nella vita non ci voleva né troppa, né troppo
poca paura, ma un equilibrio sapiente! Poiché questo è il desiderio profondo del musulmano
credente: riuscire nella vita, arrivare alla felicità nella vita presente, ma soprattutto in quella
futura. Vi viene invitato nel corso della chiamata alla preghiera: hayya ‘ala al-falah,
letteralmente “venite al successo”. Vi arriverà se segue “la retta via”, come chiede recitando
la Fatiha, la sura di apertura del Qur’an. Il Qur'an è caratterizzato da esigenze molto concrete
che richiedono una disciplina di vita cui questi giovani si applicavano, che si tratti della
preghiera rituale cinque volte al giorno, delle regole di purezza o di quelle legate
all’alimentazione, per non parlare di un’imitazione pia della vita del profeta.
Nel momento in cui la Compagnia ha avuto in animo di aprire una nuova residenza ad
Ankara che fosse al servizio del dialogo interreligioso e dell’unica parrocchia cattolica della
capitale turca, vi sono stato inviato in qualità di co-fondatore alla fine del 2001, e ci sono ancora
oggi.
L’uomo
Se i miei studi di arabo e islamistica mi hanno appassionato, mi sono anche sembrati
rappresentare l'essenza di una tradizione vissuta in modo così diverso da persone così
differenti. La mia transizione nel mondo arabo, nello specifico egiziano e in quello turco,
insieme a quasi quindici anni di presenza in quest'ultimo paese, mi hanno dato una coscienza
acuta della diversità degli islam, e soprattutto del fatto che “il Musulmano” è innanzitutto un
essere umano comune, con le sue gioie e le sue pene, la sua vita familiare e professionale
radicata in una società segnata da una storia e una cultura che fanno di lui ciò che è, e per il
quale la religione non è che una delle numerose dimensioni della sua vita. In rapporto intimo
con il suo contesto.
È per questo motivo che ripeto spesso in modo un po’ provocatorio che “l’Islam non esiste”.
Perché in effetti si incarna in società, storie, culture e lingue molto diverse. Il mondo arabo, in
cui spesso esiste un desiderio di fusione tra religione, lingua, cultura e società, e che ha
conosciuto la colonizzazione, non ha molto in comune con un mondo turco che non conosce
l’arabo; che originario dell’Asia centrale ha attraversato l’Iran, ha integrato altre tradizioni ed
è segnato dal sufismo; in cui l’Islam è stato amministrato da un impero, erede dell’Impero
bizantino, che non ha mai conosciuto il giogo del colonialismo, ma semmai una sorta di
esplosione sotto la pressione dei nazionalismi, quindi delle riforme laicizzanti di Atatürk e di
una centralizzazione e un controllo stretto dopo l’avvento della Repubblica nel 1923. In queste
società, anche il posto di chi non è musulmano è molto diverso, nel senso che assume un
aspetto molto più marcatamente nazionalista in Turchia, dove il cristiano è visto innanzitutto
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come straniero – spesso greco o armeno – portandosi dietro il peso della storia legato a queste
“nazionalità”.
Le mie permanenze in altre aree del mondo come l’India e il Senegal, in occasione delle
riunioni del gruppo dei Jesuits Among Muslims e gli incontri con compagni di tutto il mondo
in questo quadro, non hanno fatto che confermare ai miei occhi questa diversità irriducibile
in seno all’ “Islam” e tra i musulmani. Detto questo, Turchia a parte, “l’Islam” è vissuto in
modi estremamente diversi, anche se lo Stato cerca di controllare e unificare tutto sotto la
propria egida. Nel mondo universitario che merita un discorso a sé, talvolta c’è poco in
comune tra i quadri della facoltà di teologia di Ankara, modernista, in cui molti giovani
insegnanti hanno studiato all’estero, anche in facoltà di teologia cristiana, e per i quali la
filosofia del linguaggio e le teorie ermeneutiche contemporanee non hanno più molti segreti,
e quelli delle nuove facoltà istituite di recente in svariate città di provincia. A fianco a questi
mondi ufficiali, ci sono quelli delle comunità sufiste e neo-sufiste che mostrano anche
un’estrema differenza di sensibilità, a partire dai “pietisti” come il movimento cui
appartenevano i giovani di cui ho scritto prima, fino ai naqshbandi che sono all’origine
dell’islam politico in Turchia. Quanto a Rumi, fondatore dei “dervisci rotanti”, è diventato
quasi un eroe nazionale, sia per credenti di diversa natura, sia per i musulmani postmoderni,
laici in cerca di spiritualità.
Il musulmano: potenziale terrorista o fratello in umanità?
Quando passo di nuovo per Verviers, a trent’anni di distanza, non riconosco più la piccola
città tranquilla della mia infanzia. Vedo una popolazione piena di colori, insegne di negozi e
manifesti in lingua turca, sento un adolescente della mia famiglia dire: “A scuola, come
seconda lingua, ho scelto il tedesco, per stare insieme ai bianchi”; e mi hanno chiesto di tenere
una conferenza per condividere la mia esperienza e “aiutare a vivere insieme”. Da parte loro,
le moschee organizzano giornate a porte aperte per “superare i pregiudizi e rafforzare i
legami”, in una città che ora ospita il più grande Centro islamico del Belgio. Questa piccola
città di provincia è anche legata, suo malgrado, alla macrostoria: nel gennaio del 2015, è stata
teatro di un’operazione antiterrorismo nel corso della quale hanno perso la vita due persone
appena rientrate dalla Siria, che preparavano un attentato.
Quando poco prima stavo organizzando una conferenza in una città vicina insieme a un
professore di religione islamica di origine marocchina, questi mi confidava quanto fosse
difficile per lui vivere in Belgio da musulmano, perché si sentiva sempre sulla difensiva, quasi
fosse costretto a rispondere di tutti i fatti e i gesti compiuti dai musulmani nel mondo,
soprattutto quelli più violenti. La guerra e il terrorismo toccano numerose aree del globo, ma
il loro humus è spesso locale, e le vittime sono per la maggior parte musulmane, anche se in
molti media il peso dato alla morte delle vittime musulmane e
quelle non musulmane è
spesso assai diverso. È una realtà, questa, che esige un’analisi differenziata a seconda delle
aree coinvolte, che consenta di comprendere quali siano le dinamiche locali che generano la
violenza a fronte di chi, quale sia la sua appartenenza, cerca di semplificare in modo eccessivo
i fenomeni in corso.
Ciò non impedisce che, invece di infilare la testa sotto la sabbia e dire “questo non è il vero
Islam”, i pensatori e gli uomini politici musulmani trovino il coraggio di guardare la
situazione in faccia e fare un esame di coscienza; perché, lo vogliano o no, “l’islam è anche
questo”. Possa la situazione attuale far nascere un “mai più” che si radichi in istituzioni giuste
per tutti e per tutte, e un pensiero rinnovato. Peraltro, chi vive con i musulmani, soprattutto
nei paesi in cui è minoritario, è chiamato a superare la paura, il disprezzo e le generalizzazioni
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ingiuste, per incontrarli come uomini e donne che, in modo diverso a seconda delle aree del
mondo, soffrono spesso più di loro della situazione che nel momento in cui scrivo è al centro
della cronaca; senza, per questo, negare la sofferenza vissuta dai non musulmani in altri paesi
intrappolati in conflitti più grandi di loro e che li cancellano di fatto da intere aree del mondo.
Originale francese
Traduzione Simonetta Russo
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Vivere insieme ai musulmani in Indonesia
JB. Heru Prakosa, sj
Yogyakarta, Indonesia
Contesto
L’Indonesia è un arcipelago situato tra l’Asia e l’Australia, l’Oceano Pacifico e quello Indiano.
Secondo il censimento nazionale del 2013, la popolazione indonesiana raggiunge i 250 milioni
di individui; e, sulla base dei dati diffusi, nel 2000, dall’Indonesian Central Bureau of Statistics,
l’88,22% degli abitanti si professa di religione musulmana, l’8,92% dice di essere di fede
cristiana (protestante e cattolica), mentre il resto della popolazione si dichiara hindu,
buddista, o afferma di appartenere ad altre fedi.
Vi è un ampio dibattito tra gli studiosi in merito a ciò che possa rendere l’Indonesia patria
della più grande popolazione musulmana al mondo 1. Una delle questioni riguarda il ruolo
dei Sufi, in particolare, le opere dei wali musulmani a Java. Il processo di conversione all’Islam
è stato favorito dall’atmosfera di armonia presente all’interno della società giavanese, dove
l’adozione della nuova religione è potuta avvenire senza conflitti, per via della convinzione
secondo cui la nuova religione potesse accedere a risorse energetiche e sviluppare poteri
sovrannaturali.
La storia delle relazioni tra cristiani e musulmani in Indonesia è in qualche modo molto
complessa. Le relazioni sono, a volte, influenzate da interessi sociali ed economici. A volte,
inoltre, sono connesse con interessi religiosi e politici. I missionari cristiani, infatti, sono giunti
in Indonesia nei periodi del colonialismo, quando sono stati inviati sull’arcipelago
indonesiano per prendersi cura delle esigenze degli Spagnoli, dei Portoghesi e degli Olandesi,
concernenti le questioni religiose. Di conseguenza, il Cristianesimo viene stigmatizzato come
una religione proveniente da un prodotto coloniale. Bisogna, tuttavia, ricordare che, a causa
della lotta per l’indipendenza, cristiani e musulmani indonesiani hanno potuto cooperare gli
uni con gli altri. Ciò è avvenuto anche durante l’occupazione giapponese. I leader delle
comunità islamiche e cristiane, così come i padri fondatori dell’Indonesia, hanno lavorato
insieme per plasmare il paese, e mantenere l’Indonesia come la casa comune di tutte le persone
che vivono sull’arcipelago.
La lotta è in gran parte sostenuta dall’idea di fare di Pancasila una piattaforma per l’Indonesia.
Il pensiero filosofico del Pancasila – che significa ‘I cinque principi base’, vale a dire: Fede
nell’unico e solo Dio; Giustizia e civiltà umana; Unità dell’Indonesia; Democrazia guidata
dalla saggezza interiore; e Giustizia Sociale per tutto il popolo indonesiano – è stato scelto
come base per la Costituzione. Il primo principio riconosce il ruolo della religione nella vita
pubblica, ma ciò non significa che lo stato riconosce una determinata religione – neanche
l’Islam, che è la religione della maggior parte degli indonesiani – come religione di stato. La
1
Ricklefs, M.C., A History of Modern Indonesia since c.1300, 2nd Edition, London: MacMillan, 1991, 3.
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libertà di ogni cittadino di praticare la propria fede è garantita dalla costituzione indonesiana,
il cui articolo 29 recita espressamente: ‘Lo stato garantisce a tutti i cittadini la libertà di culto,
secondo la propria religione o il proprio credo’.
Io stesso sono nato e vivo a Java. La maggior parte della popolazione giavanese è di religione
musulmana; pertanto i miei vicini, quando ancora vivevo con i miei genitori, e perfino alcuni
membri della mia famiglia allargata, sono musulmani. La mia formazione in Studi Islamici,
mi ha portato, oggi, a insegnare presso il Dipartimento di Teologia della Sanata Dharma
University, un’università gesuita, e a gestire alcuni programmi formativi concernenti il
dialogo interreligioso, in particolare, l’incontro tra cristiani e musulmani. Sono stato, inoltre,
invitato a dare delle lezioni, e a tenere una serie di conferenze, o seminari, in un’università
statale, e in un’università islamica, dove trovo, e mi incontro, con diversi studenti musulmani.
In varie occasioni, ho, poi, istituito un programma intensivo, rivolto a scolastici gesuiti e a
seminaristi, così come a studenti cristiani, che permette loro di vivere per qualche tempo in
una comunità musulmana.
Preoccupazioni
Molti colleghi musulmani, ivi compresi studenti musulmani, che incontro nel dialogo
interreligioso, si mostrano rispettosi verso coloro che appartengono ad altre fedi religiose.
Tuttavia, ciò non significa che non vi siano dei problemi nella costruzione delle relazioni tra
cristiani e musulmani in Indonesia. Le difficoltà nascono, in parte, a causa di un determinato
gruppo presente tra i musulmani indonesiani. Una categoria costituita da un certo numero di
studiosi delle figure chiave e dei leader musulmani indonesiani ci mostra alcuni gruppi, come:
i razionalisti, i neomodernisti, gli attivisti a favore di una trasformazione sociale ed
economica, i formalisti influenzati dalla dottrina wahabita, i sostantivisti, gli indigenisti, ‘i
fondamentalisti’ o ‘i radicalisti’ o ‘i revivalisti’. L’ultimo gruppo ora citato ha infatti creato
grandi difficoltà, non solo per i non musulmani, ma anche per i musulmani stessi.
Abdurrahman Wahid – ex presidente della Repubblica, ed ex capo della più grande
organizzazione islamica del mondo, chiamata, Nahdatul Ulama – una volta ha detto a gran
voce: ‘Abbiamo bisogno di musulmani ospitali (ramah), non di musulmani furiosi (marah)!”
La crescita dei movimenti fondamentalisti in Indonesia è stata provocata da un profondo
interesse verso un ritorno ai principi fondanti della religione, oltre che dalla lotta contro
qualsiasi cultura laica moderna, e contro il conflitto di interessi. Oggi, questo fenomeno
diventa, per noi, davvero fonte di grande preoccupazione. Nel contesto indonesiano, tutto ciò
si evince dagli incidenti che hanno avuto luogo a causa di una serie di violenti scontri, come
la tragedia di Ambon, nell’arcipelago delle Molucche, e il massacro di Poso, nella provincia
del Sulawesi Centrale, alla fine del regime del Nuovo Ordine, negli anni 2000, e a causa di
alcuni attacchi terroristici, come quelli perpetrati a Bali (nel 2002 e nel 2005), e intorno a
Giakarta (nel 2003 e nel 2004). Tuttavia, il pericolo del fondamentalismo si può trovare in ogni
religione, ivi compresa quella cristiana2. Un esempio di ciò è dato dall’incidente avvenuto a
Tolikara, nella provincia indonesiana di Papua, venerdì 17 luglio 2015, quando un gruppo di
persone, che si ritiene essere cristiani appartenenti alla Chiesa Evangelica di Indonesia, hanno
attaccato alcuni musulmani che stavano recitando le preghiere per la festa dell’Eid al-Fitr.
L’aspetto più problematico per noi indonesiani è ben descritto dai risultati del sondaggio
condotto nel 2008 dal Center for Islamic and Society Studies della State Islamic University of
Cfr. “Il discorso di Giovanni Paolo II ai rappresentanti delle Chiese cristiane e comunità ecclesiali e
delle religioni del mondo”, tenuto nella Basilica di San Francesco, il 27 ottobre 1986.
2
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Segretariato per la Giustizia Sociale e l’Ecologia
Syarif Hidayatullah, di Giakarta. Il sondaggio, che ha coinvolto 500 insegnanti di educazione
religiosa islamica in tutta l’isola di Giava, mostra che la maggior parte degli insegnanti delle
scuole pubbliche e private di Giava sono contrari al pluralismo. “Solo il 3% degli insegnanti
intervistati ha dichiarato di sentire il dovere di produrre studenti tolleranti... Moderazione e
pluralismo sono abbracciati solo dalle loro élite…”, spiega il direttore del centro3. Inoltre, il
67,4% degli intervistati dice di sentirsi più musulmano che indonesiano. La cittadinanza è,
quindi, eclissata dall’identità religiosa. Il sondaggio indica, inoltre, che gli indonesiani
sembrano essere disposti a vivere insieme ad altri soggetti di diversa cultura o etnia, ma hanno
difficoltà ad associarsi con persone che hanno un diverso background religioso.
Sfortunatamente, per gli indonesiani, l’appartenenza etnica e la religione spesso vanno di pari
passo. Il problema diventa più complicato a causa del fatto che alcuni indonesiani provenienti
dalla stessa comunità di fedeli possono ora combattersi l’un l’altro. Anche se provenienti dalla
stessa comunità di fedeli, alcuni penseranno che le loro dottrine religiose siano più ‘pure’ o
più ‘ortodosse’ rispetto a quelle dei loro fratelli.
Sfide e opportunità
Vi sono alcune aree all’interno delle quali, oggi, ci troviamo a dover affrontare delle sfide nelle
relazioni tra cristiani e musulmani. La prima è nel campo della riflessione teologica. L’incontro
con le nostre sorelle e con i nostri fratelli che appartengono ad altre fedi, o ad altri credo
religiosi, costituirà per noi uno stimolo a costruire una riflessione di fede che corrisponda al
processo e al dinamismo attuali, in conformità al contesto in cui viviamo. La Chiesa
dell’America Latina, all’interno del suo contesto, ha sviluppato la Teologia della Liberazione.
Il contesto asiatico è caratterizzato da una pluralità religiosa. È possibile, allora, per la Chiesa
dell’Asia, e in particolare per la Chiesa dell’Indonesia, prendere la pluralità religiosa come un
locus theologicus attraverso il quale costruire una Cristologia e una Teologia contestuali? Come
tale, la riflessione teologica non può mai essere scissa dalle circostanze contestuali.
Certamente, ciò corrisponde al messaggio della Federazione delle Conferenze Episcopali
dell’Asia (FABC): ‘Ci impegniamo, pertanto, a cogliere ogni opportunità per far conoscere
Gesù Cristo e il suo messaggio agli asiatici, secondo modalità che siano, per loro, accettabili,
presentandolo con un volto asiatico, usando concetti culturali, termini, e simboli asiatici!’ 4
Lo sviluppo dell’Islam indonesiano offre alcune lezioni da imparare. A mio parere, l’Islam ha
potuto diffondersi ampiamente in Indonesia per tutta una serie di motivi, uno dei quali è
legato al fatto che la via mistica islamica corrisponde alla Weltanschauung indonesiana. Ciò è
chiaramente dimostrato dal tentativo fatto dai wali musulmani a Giava, che hanno insegnato
l’Islam tenendo conto delle saggezze locali.
Inoltre, la teologia contestuale aiuta a scongiurare il pericolo di cadere nel puritanesimo. Il
fatto che alcuni problemi nei rapporti tra cristiani e musulmani provengano da comunità
cristiane, ci induce a pensare che dobbiamo prestare attenzione anche al dialogo intrareligioso, in particolare all’ecumenismo. Coloro che seguono la strada di Gesù Cristo
dovrebbero condividere reciprocamente la riflessione sulle modalità attraverso le quali
comunicare i valori cristiani in questo mondo contemporaneo, e manifestarli saggiamente in
questo periodo di globalizzazione.
Abdul Khalik, “Most Islamic Studies Teachers Oppose Pluralism, Survey Finds”, in The Jakarta Post,
26 novembre 2008: www.thejakartapost.com/news/2008/11/26/most-islamic-studies-teachersoppose-pluralism-survey-finds.html.
4 Cfr. AMSAL I (Tagaytay): 2; ACMC (Hong Kong): 14.
3
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Il secondo è nel campo della spiritualità e della conoscenza sapienziale. Il pluralismo religioso
deve essere visto non semplicemente come parte di una realtà di fatto. È, infatti, parte della
grazia divina del Signore per noi. Siamo tutti pellegrini intenzionati a trovare Dio nel cuore
degli uomini. Il dialogo interreligioso come pellegrinaggio attraverso i confini religiosi, ivi
comprese le relazioni tra cristiani e musulmani, può essere parte del nostro viaggio per trovare
la presenza di Dio. Il racconto riportato nel Vangelo di Matteo 25: 31-46 ci mostra che la Sua
presenza può essere trovata tra coloro che sono affamati, assetati, nudi, malati, carcerati, ecc. 5
Egli è, quindi, presente in mezzo a qualsiasi persona, indipendentemente dalle sue condizioni,
o dal suo background religioso. In sintesi, le sorelle e i fratelli che incontriamo nella nostra
vita quotidiana, nelle nostre circostanze reali, ivi compresi i musulmani, possono essere uno
strumento attraverso il quale il Signore si rivolge a noi, così come uno strumento attrtaverso
il quale noi incontriamo il Signore.
Possiamo trovare la presenza di Dio tra i nostri fratelli e le nostre sorelle che appartengono a
tradizioni religiose diverse dalla nostra? La vita di Charles de Foucauld e quella di Louis
Massignon ci danno tetimonianza del fatto che le loro fedi sono venute a nuova vita dopo
l’incontro con persone appartenenti ad altre tradizioni religiose. Queste due figure hanno
avuto il coraggio di testimoniare come la loro fede ‘fosse risorta’ attraverso l’incontro con
alcuni musulmani. Infatti, la loro testimonianza di vita ci mostra una spiritualità kenotica; e
corrisponde anche alla dichiarazione della FABC: “In stretto dialogo con le culture religiose
dell’Asia, la Chiesa potrebbe riscoprire il suo originario dinamismo che richiede un radicale
svuotamento (kenosis) dei suoi modelli di pensiero, delle sue forme rituali, e delle sue strutture
comunitarie …!” 6
La terza è nel campo del modo di procedere. Le persone si incontrano, in primo luogo, non
come membri di comunità religiose, ma come singoli esseri umani, come cittadini di una
particolare società. Il contesto postcoloniale è caratterizzato da un pluralismo solidale, o da
una conincidenza di responsabilità. I credenti sono invitati a ‘valutare’ la fede non solo dalla
comprensione degli insegnamenti dottrinali e dei sistemi di credenze, o dall’osservanza delle
regole e dei rituali, ma anche dall’implementazione della prassi sociale. I nostri novizi gesuiti,
durante i loro giorni di peregrinazione, come parte dei loro esperimenti, non avranno
difficoltà a menzionarne alcuni esempi. In molti casi, hanno trovato grande aiuto dalle sorelle
e dai fratelli musulmani che hanno incontrato nel loro viaggio di pellegrinaggio. 7
Un documento della FABC parla di un triplice dialogo, vale a dire, di un dialogo con le
preoccupazioni che provengono dalla povertà, dalla pluralità culturale, e dalla pluralità
religiosa. Degrado ambientale, attività mineraria, corruzione, commercio di armi, terrorismo,
e questioni relative a migranti e rifugiati, rappresentano altre sfide che dobbiamo affrontare,
e sulle quali dobbiamo lavorare insieme. Tutti i credenti, indipendentemente dal loro
background religioso, sono incoraggiati a collaborare l’un l’altro per affrontare i vari problemi
sociali, economici, culturali e politici, per il bene comune (bonum commune).
Durante la mia partecipazione all’Asian Muslim Action Network (AMAN), nel giugno del 2015,
come anche in altri convegni, o conferenze, mi sono sentito dire dai miei compagni musulmani
che soffrono molto a causa del ‘terrorismo’, che ha colpito, direttamente, o indirettamente, la
In effetti, il racconto riportato nel Vangelo di Matteo 25: 31-46 corrisponde alla tradizione profetica
islamica contenuta nel Sahih Muslim, Hadith 2001: No. 4661 & 1172.
6 FEISA I (Pattaya): 7.5.1.
7 Christian Triyudo, et. al., Peregrinasi: Eksperimen dan Cara Hidup Yesuit (Peregrination: Experiment and
Jesuit Way of Life), Jakarta: Provindo, 2012.
5
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‘credibilità’ dell’Islam. Non esitano a fare autocritica, e a invitare ogni uomo di buona volontà
a collaborare per contrastare la violenza perpetrata nel nome della religione.
In un mondo sempre più globalizzato, con una crescente presenza di comunità multireligiose,
diventerà sempre più chiaro per noi il fatto che un sentimento di autosufficienza tra le
comunità di credenti non sia più un’opzione praticabile. Per gli indonesiani, la collaborazione
interreligiosa costituisce, pertanto, una necessità! Siamo invitati a lavorare insieme a chiunque
abbia buona volontà per guarire un mondo ferito.
Originale inglese
Traduzione Filippo Duranti
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Collaborare con alcuni musulmani in un’opera
educativa in Algeria
Lucien Descoffres, sj
Argel, Argelia
Nel Ciara 1, associazione senza scopo di lucro creata in Algeria dalla Compagnia di Gesù,
operiamo giorno dopo giorno per ottenere un migliore inserimento di giovani algerini nel
mondo del lavoro. L’obiettivo dell’associazione - quello appunto di migliorare l’aspetto
occupazionale - viene perseguito da formatori musulmani, una decina di impiegati, e
operatori cristiani (tre gesuiti, di cui due a tempo pieno, e volontari stranieri). I beneficiari di
questa formazione finalizzata all'inserimento professionale non sono selezionati in base a
criteri religiosi, e sono quindi musulmani al 99,9%. In effetti, su una popolazione complessiva
di 40 milioni di persone, i cristiani cattolici algerini non sono che alcune centinaia, e gli
evangelici assommano a qualche migliaio. Le religioni diverse dall’islam sono quindi
assolutamente minoritarie. Nonostante l’islam non sia religione di Stato, oggi costituisce una
parte importante dell’identità algerina.
La ragione di una presenza: sviluppo dell’uomo, e dell’uomo nella sua interezza
Di fronte a questa situazione decisamente minoritaria dei cristiani, va subito detto che la
presenza della Compagnia in Algeria non è giustificata né dalle necessità della minoranza
cristiana, né da un’ “evangelizzazione di conversione” che si prefigga di convertire i
musulmani al cristianesimo. Nel dire questo a cristiani che vivono in “paesi di cristianità”,
spesso mi sento chiedere: “ma allora, perché ci vai?”.
Nella tipologia classica dei vari livelli di dialogo interreligioso, siamo portati soprattutto a
vivere il “dialogo delle opere”. Musulmani e cristiani, collaboriamo allo sviluppo integrale e
alla liberazione totale dell’uomo. È il nostro terreno quotidiano di dialogo, nel quale peraltro
ci sforziamo di rimanere. Abbiamo scelto l'ambito professionale dell’occupazione proprio per
far comprendere che ci accontentiamo di perseguire una crescita personale, nei limiti delle
nostre possibilità e quale che sia il nostro credo religioso. Ma questa crescita personale
finalizzata a una giusta vita professionale, civica ed economica interroga i valori delle nostre
rispettive tradizioni religiose. Fedeli a ciascuna delle nostre tradizioni, dobbiamo impegnarci
a costruire ciò che papa Francesco ha riassunto nell'enciclica “Laudato si’”, per costruire la
Casa Comune.
Il parlare con molta misura del nostro credo religioso nel quadro del nostro lavoro
“professionale” di formatori, non ci impedisce quando capita di far riferimento in privato alle
nostre esperienze religiose per condividerne la ricchezza e le difficoltà.
1
www.ciaradz.org.
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Segretariato per la Giustizia Sociale e l’Ecologia
L’incontro: una missione presente già prima del “decennio nero” vissuto
dall’Algeria
Questo posizionamento ci è stato proposto dal vescovo emerito di Algeri, Henri TESSIER, che
ben prima che sopraggiungessero gli anni neri 2 dell’Algeria, diceva: “Ciò che mi interessa in
quest’opera compiuta da cristiani stranieri, non è che realizzino un processo di
algerinizzazione con lo scopo di affidare la direzione di quest’opera a degli algerini e poi, una
volta terminata la missione, andare via”. Il suo auspicio come Vescovo era che i gesuiti
facessero vivere nel tempo una struttura che consentisse ai cristiani e ai musulmani di lavorare
insieme per il bene di tutti. Dare vita e mantenere, insomma, un’istituzione perché fosse una
piattaforma di contatto, dialogo e promozione umana. Un’istituzione educativa che fosse
mirata alla ricerca del “bene comune”. Gli eventi tragici della guerra civile vissuta dall’Algeria
tra il 1992 e il 2002 hanno reso questa missione indispensabile e prioritaria. Il vivere insieme
ha assunto un carattere di sacralità suggellata nel sacrificio del sangue versato. Per uscire dal
confronto mortale e fratricida 3 , è bene avere luoghi in cui le persone reinventino, con la
pazienza e la semplicità della vita quotidiana, il vivere insieme e rimettano in discussione le
molteplici concezioni che hanno di Dio e della santità in nome di un ideale che trascende le
nostre rispettive tradizioni religiose: un nuovo trascendente, questa volta universale, è quello
della “casa comune”. Uccidendo nel nome di Allah, i fanatici islamisti si pongono in contrasto
con il comune sentire: fortunatamente, infatti, l’enorme maggioranza dell’umanità ritiene
sempre più impensabile che un Dio possa giustificare la morte di un uomo. Il fanatismo
produce suo malgrado un rinnovamento spirituale che poggia su un principio di saggezza
universale: non uccidere.
Educare a una cultura di pace, un orizzonte di confronto e dialogo che ci costringa
a una reinterpretazione delle nostre rispettive tradizioni
Quest'opera di formazione umana di giovani, compiuta in maniera congiunta da musulmani
e cristiani, non è quindi un compromesso trascurabile, che non tocca la nostra identità di
credenti. Si tratta di rinnovare una saggezza comune a tutte le religioni che ci porta
reinterrogare le molteplici concezioni che abbiamo di Dio. Ci fa rivedere l'idea che abbiamo
del “buon credente”. Questo compito di reinterpretazione delle nostre tradizioni religiose è
del tutto nuovo per i musulmani, e assai più difficile che per i cristiani. Il punto sul quale i
primi inciampano di continuo è la lettura letterale del Corano, poco compatibile con il
pensiero contemporaneo. La nostra presenza di credenti al loro fianco può paragonarsi al
compito di “traghettatori”, aiutandoli ad accettare un’interpretazione delle scritture, e a
rivedere alcuni punti chiave della loro tradizione, come il jihad, o lo status attribuito agli altri
credenti.
Un compito di “traghettatori”
Per i musulmani moderati algerini drammaticamente isolati da un vero contatto quotidiano e
fraterno con credenti intrisi della cultura occidentale dei lumi, possiamo svolgere questo ruolo
di traghettatori perché ci avviciniamo a loro con manifesta fiducia nel fatto che possono
attraversare questa crisi delle concezioni religiose. La chiesa ci è già passata, e noi possiamo
2 Dal 1992 al 2002, l’Algeria ha vissuto una guerra civile avviata da islamici che ha fatto più di 100.000
morti.
3 L’Algeria è il paese in cui sono stati assassinati 19 religiosi e religiose, tra cui i 7 monaci del monastero
di Thiberine, e lo stesso vescovo mons. CLAVERIE.
Promotio Iustitiae 122, 2016/2
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aiutarli testimoniando che l’occidente dei lumi può lasciare spazio alla fede in Dio, e che
lasciare l’islam radicale non comporta necessariamente immoralità e ateismo. Per me, in
concreto, vuol dire incoraggiarli a guardare con maggiore simpatia le loro tradizioni sufiste
così da evolvere verso un islam più spirituale.
Lo choc dell’assassinio dei giornalisti francesi di Charlie Hebdo 4: divergenze sugli
insegnamenti da trarne
Essendo un francese che vive ad Algeri, ho vissuto l’assassinio dei giornalisti di Charlie
Hebdo perpetrato nel nome di Allah – in effetti non si può disconoscere che uno degli assassini
lo ha dichiarato esplicitamente. Ed è proprio con questa frase che i musulmani moderati con
cui lavoriamo hanno avuto difficoltà. Chi ha agito in quel modo non può essere musulmano.
I musulmani moderati moderni non possono accettare l’omicidio nel nome di Allah. Tuttavia,
dovendo riconoscere che sia nel Corano, sia nella Bibbia troviamo scritto che determinati
comportamenti meritano la morte di chi li attua, per superare l'insensatezza di questi omicidi
va riconosciuto che i testi sacri non possono essere applicati ciecamente. I nostri colleghi
musulmani hanno, però, difficoltà a compiere questo passo. Approfondire tutta una serie di
islam diversi, dove a un capo della catena ci sono gli integralisti, induce a pensare
l’impensabile, ovvero che questi "invasati" di Dio non sono musulmani seppure rivendicano
appartenenza all’islam. «Pensare il Corano», «Pensare la Bibbia», ovvero confrontare fede e
ragione, o saggezza e religione, ecco dov’è il blocco. Perché mettere in rapporto questi folli
con l’islam, equivale a introdurre un’interpretazione moderna del jihad come una
purificazione di sé, e abbandonare verità colte rinunciando a comprendere in chiave
intelligente la letteralità del Corano.
La scappatoia del complottismo
Molti dei nostri amici musulmani moderati hanno preferito fare propria la voce del
complottismo 5. Sono i nemici dell’islam i responsabili dell’eccidio di Charlie, e l’attribuiscono
ai musulmani: sono i servizi segreti, dei semplici balordi, o… Ognuno costruisce la sua teoria
di tipo cospirazionista. Questa ha il vantaggio di designare il nemico all’esterno dell’islam, ed
evitare di affrontare i propri estremisti. Questa scappatoia traduce il comune sentire secondo
Giornale satirico che ha spesso pubblicato caricature del Profeta Maometto.
Come dice Ali Kaidi, Charlie Hebdo ou la théorie du complot à la rescousse des musulmans dits modéré, “La
maggior parte delle tesi in circolazione in Rete poggia essenzialmente su questo assioma. Quest’ultimo
è evidentemente indiscutibile e molto semplice, il suo terreno naturale è l’inchiesta di polizia, è spesso
invitato dai professionisti e gli amanti delle teorie del complotto senza alcuna critica e messa in
questione che spieghi fenomeni sociali e soprattutto politici, poiché questi ultimi sono per eccellenza il
terreno dei complotti. L'assioma consiste nel credere che sia sufficiente trovare chi tragga beneficio dal
crimine per identificare il o i colpevoli. L’esercizio è alla portata di tutti. Con questo assioma, si possono
elaborare meccanicamente un numero indeterminato di spiegazioni/finzioni molto coerenti su
qualsiasi avvenimento politico. Chi trae vantaggio da questo attentato? Molti di noi pongono questo
interrogativo. Se si guarda al colpo mediatico e pubblicitario che questo attentato ha determinato per
la rivista Charlie Hebdo, non si può giungere, partendo da questo assioma e dalla logica
cospirazionista, che a questa conclusione: sono i giornalisti e i responsabili di questa rivista che hanno
premeditato questo attentato omicida; i cinque milioni di copie pubblicate ne sono la prova
incontrovertibile. Un giornale che prima di questo evento aveva una tiratura di appena sessantamila
esemplari, oggi moltiplica le vendite fino a cinque, sette milioni; e certamente in futuro non si
fermeranno a sessantamila, perché aumenteranno.” in http://www.kabyleuniversel.com/2015
/01/24/la-theorie-du-complot-a-la-rescousse-des-musulmans-dits-moderes/.
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cui tra due nemici – l’Occidente rappresentato come privo di fede e di legge, e gli islamici
fanatici – si preferiscono sempre ancora gli islamici.
La virtù spirituale del reale: un progetto educativo che ci unisce
Di fronte a queste paure, è urgente tornare al reale e tracciare un cammino. Abbiamo
manifestato la nostra simpatia benevola ai nostri amici musulmani sofferenti. Perché è di
sofferenza che si tratta. Mentre i musulmani radicali affermano che la religione risolverà tutti
i problemi, perché il Corano ha previsto tutto, quelli del mondo mediterraneo si rendono ben
conto della debolezza del mondo musulmano nella cultura contemporanea. Il grande periodo
del Medioevo, durante il quale il mondo musulmano ha avuto i suoi filosofi, matematici,
medici, costruttori, rappresenta un’età dell’oro in contrasto con il presente, in cui l’Occidente
tratta il mondo islamico come un pericolo per le libertà e la conoscenza.
Da allora, la missione dei cristiani presso i musulmani mi sembra essere un servizio fraterno,
un servizio reso tra credenti: aiutarli a essere buoni musulmani, ovvero musulmani che
arricchiscono la pietà (le cinque preghiere al giorno, ecc.) con una riflessione sulle concezioni
di Dio, e l’interpretazione dei testi sacri alla luce delle scienze del linguaggio e della psicologia
del profondo; aiutarli a liberarsi da un islam politico. Per questo, la prova del lavoro
quotidiano nell’associazione strutturata attorno a valori di sviluppo dell’uomo nella sua
interezza e di ogni uomo è una buona terapia comune: aiuta i cristiani che siamo a mettere in
pratica la nostra visione dell’uomo, creata a immagine di Dio, e offre l’occasione ai nostri
colleghi musulmani di vivere nel quotidiano un islam spirituale che porti frutti concreti e li
ricolleghi a una grande tradizione interiore dell’islam. Su questo terreno positivo, in cui
ciascuno dei credenti può vivere l’autenticità e la verità della propria religione, può fiorire un
dialogo sui contenuti delle nostre rispettive religioni. Ma non bisogna bruciare le tappe. La
Chiesa cattolica ha impiegato secoli per sviluppare l’esegesi biblica.
Originale francese
Traduzione Simonetta Russo
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Fare società insieme
Jérôme Gué sj
Tolosa, Francia
Dobbiamo autorizzare la preghiera nella casa di quartiere oppure no? È un interrogativo che
è stato posto in maniera incisiva all’interno del gruppo di animazione della casa di quartiere
alla quale partecipo da 15 anni. La casa si trova in un quartiere popolare, ed è composta per
la maggior parte di famiglie originarie del Maghreb giunte in Francia negli ultimi 50 anni. È
animata e gestita dagli abitanti, tutti volontari. Ogni anno, durante il Ramadan, tutte le sere
organizziamo la chorba, pasto di interruzione del digiuno, per un centinaio di persone,
musulmane e non musulmane. Quell’anno, erano venuti in molti a pregare nella sala accanto,
nell’ora precisa prevista dai calendari. Non tutti i membri del gruppo di animazione l’aveva
gradito, e la cosa era degenerata dando luogo a un conflitto acceso al punto da quasi mandare
all’aria l’associazione.
Da un lato militanti inclini alla laicità (comprese persone di confessione musulmana), per i
quali non può esserci culto in una casa di quartiere pubblica, mentre invece sembrava che
alcune correnti musulmane vi avessero allungato sopra la mano. Dall’altro, invece,
musulmani che non vedevano davvero dove risiedesse il problema, e che avvertivano questa
opposizione come un rifiuto nei loro confronti, come nel caso della legge contro il velo nelle
scuole, o le posizioni di alcuni leader politici mal disposti nei confronti dell’islam.
Personalmente, mi sono ritrovato un po’ nel mezzo, e mi sono servito delle argomentazioni
che seguono perché ci si appellasse a un mediatore: se noi, che siamo impegnati per il bene
comune del quartiere, non riusciamo a capirci, in quale futura vita comune del nostro
quartiere possiamo sperare?
Il circolo vizioso del rifiuto
In effetti, una delle sfide più grandi di questa nostra società francese è quella di evitare
un’escalation del rifiuto. Una parte della società scivola sempre più nel rifiuto di chi è venuto
o viene dall’estero, nel nostro tempo nel rifiuto delle persone di confessione musulmana.
Rifiuto che è alimentato dal timore legato allo spettro che la società finisca con l'essere
islamizzata, e che si venga a determinare un'amalgama tra l'islam pacifico vissuto dalla quasi
totalità delle persone nel nostro paese, e quello radicale e violento, purtroppo all’opera sulla
scena internazionale e in azioni terroristiche qui da noi. Rifiuto che è diventato il tema politico
principale dell’estrema destra e di riflesso di svariati altri partiti politici che temono l'erosione
del proprio elettorato. Infine, quest’atteggiamento di rifiuto trova spazio in un certo numero
di cristiani che temono l’emarginazione della propria religione per l’espandersi di un’altra.
Per contro, la vasta maggioranza dei musulmani che conosco si augura di vivere come
qualsiasi altro cittadino, e ha le medesime aspirazioni: lavoro, famiglia, svago, consumi, ecc.
Aspirano a poter praticare tranquillamente la loro religione, che sia in modo discreto, visibile,
pio, o rigoroso. E molti di loro hanno grande stima dei cristiani: in una società sempre più atea
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che manifesta opposizione alle religioni, sono contenti di incontrare dei credenti. A maggior
ragione perché alcuni, venuti dal Nordafrica, hanno conosciuto cristiani molto aperti (presso
scuole, ambulatori, comunità di religiose, ecc.). Di riflesso, il rifiuto fa loro molto male. Uno
dei responsabili di un organismo rappresentativo mi parlava di come, soprattutto i giovani,
non riuscissero a comprendere il ritardo di anni e anni nella concessione del nulla osta
amministrativo al progetto di costruzione di una moschea nel nostro quartiere. In dieci anni
si perde la fiducia, ed è in queste circostanze che comincia a insinuarsi la possibilità della
radicalizzazione, sì religiosa, ma anche comunitaria nei confronti del resto del paese, in poche
parole il rispondere al rifiuto con il rifiuto. In questo modo rischiamo tutti di essere trascinati
in un circolo vizioso di rifiuto che comporta altro rifiuto. Il mio timore più grande è che ciò
avvenga anche tra cristiani e musulmani.
La gioia dell’incontro alla mia porta
Mi piace incontrare persone di altre culture e altre fedi religiose, mi dà grande gioia.
Arricchisce la mia visione del mondo e della vita, un arricchimento della mia spiritualità e
sempre, in finale, una migliore comprensione del mio credo religioso, nello specifico del
messaggio del Vangelo. Mi offre anche la possibilità, vivendo in Francia, di non aver bisogno
di viaggiare per andare in Marocco o in Algeria: devo solo aprire la porta dell’appartamento
in cui vive la mia comunità e incontrare i vicini sul pianerottolo, per le scale o in strada, nei
negozi, davanti alla chiesa o alla moschea, nelle associazioni e, naturalmente, nella casa di
quartiere.
L’amicizia nel tempo
Ma ho anche un’altra motivazione, più di matrice politica, ovvero quella di rompere questo
possibile circolo vizioso del rifiuto reciproco. Per farlo, non serve scrivere articoli e libri:
bisogna vivere l’esperienza positiva dell’incontro, allacciare amicizie profonde e gratuite,
agire insieme. Non è così facile e deve durare nel tempo. Prendiamo come esempio l’amicizia.
Con alcuni amici, ci è voluto tempo per trovare spazi di complicità. In questo campo, per me
l’azione comune, associativa o sociale è uno spazio ottimale, più interessante del solo ambito
di dialogo interreligioso. La condivisione dei valori nell’azione è fondante, come lo è il fatto
di percepire ciò che fa vivere l’altro. Un giorno, un amico mi ha confidato come e quanto per
lui la vita del profeta fosse di ispirazione per vivere l’attenzione nei confronti degli altri,
l’amore per gli altri. È una cosa che mi ha molto colpito perché anch’io sono sempre stato
impressionato dalla forza della fede dei miei amici musulmani. Ma ci sono delle insidie. Un
giorno, la moglie di uno dei miei amici ha cominciato a indossare il velo. Era negli anni del
dibattito politico sulla questione del velo nelle scuole, e a me il velo non piaceva un granché.
Le mie reazioni devono essere state molto indelicate, proprio come è successo con una delle
mie amiche fattasi monaca trappista, quando ha messo il velo. Ma dietro poteva sicuramente
nascondersi una certa paura: i miei amici stavano diventando musulmani radicali, con tutto
l’immaginario negativo che questo comporta? E intanto in sordina volavano asserzioni del
tipo “ti manipolano”, “sono gentili con noi fino a quando non prenderanno il potere”, ecc. Lo
stesso timore che nei confronti della preghiera durante la chorba nella casa di quartiere.
Ebbene, la costanza e il tempo hanno dimostrato il contrario. In effetti, da un punto di vista
generale, avendo io 55 anni, ho potuto più volte fare esperienza umana del ruolo molto
fecondo che hanno gli anni nella costruzione di un'amicizia. Anche nel nostro caso, la cosa è
assolutamente pertinente. Alla fine, la conoscenza dell’altro nel tempo fa dileguare gli
immaginari negativi e consente una fiducia sempre più profonda. Come in ogni rapporto
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umano, ci sono sempre dei rischi, come la possibilità di essere ingannati. Con persone di altre
culture e altre religioni, in un contesto politico-religioso teso, la paura può essere maggiore.
Paura che è da entrambe le parti. Un amico musulmano mi diceva che, per lui, è timore che
nel cristiano ci sia una volontà di conversione. La mia convinzione è che queste amicizie
costruite solidamente nel tempo saranno benedette se un giorno nel paese la situazione
dovesse degradare in forte tensione. Perché purtroppo ci saranno inevitabilmente altre azioni
terroristiche che ci scuoteranno violentemente. Non è certo in tempo di crisi che si può
costruire facilmente la fiducia nel rapporto. Al di là di queste cupe prospettive, posso
testimoniare della particolare felicità che risiede nel vivere queste amicizie.
La forza simbolica delle azioni collettive
Non esiste solo il rapporto individuale, bensì anche l’esperienza collettiva. Da anni la nostra
casa di quartiere organizza serate interculturali: musulmani, ebrei, protestanti, cattolici,
agnostici e atei si ritrovano per scambi sulle tematiche comuni come il digiuno, il matrimonio,
la solidarietà, Abramo, il Testo di riferimento (Corano/Bibbia), ecc. Un membro di ogni
confessione dice qualche parola, e poi i partecipanti intervengono, non in un dialogo
teologico, ma esprimendo la vita concreta, consentendo così a tutti di scoprire la cultura
dell’altro. La migliore difesa contro la paura è la conoscenza dell’altro. Ma al di là dei
contenuti scambiati, è sempre un’esperienza molto forte: nel cuore del quartiere, dove le
tensioni possono essere molto vive, si possono trascorrere tre ore dandosi ascolto
reciprocamente con rispetto e interesse. Avevo l’impressione di vivere la dimostrazione
concreta e probante che tutto ciò che alcuni spacciano per incompatibilità e opposizione non
risponde assolutamente a verità. Più che una dimostrazione, una specie di manifestazione
simbolica; e simbolica non in senso derisorio, bensì nel senso di una profondità che parla al di
là dei ragionamenti. Come appunto con la chorba. È un luogo splendido di incontro e
solidarietà gratuita. Una bella occasione per noi cristiani di associarci a un’azione tradizionale
gestita da musulmani nel quadro di uno sforzo di condivisione ancora più particolare del
periodo del Ramadan. Il pasto non è religioso in quanto tale. Vissuto fuori da una moschea, è
ancora più in particolare aperto a tutti, ed è un momento molto bello nel nostro quartiere,
dove molte persone vivono in stato di necessità o sono sole. Si può partecipare venendo a
cenare oppure, meglio ancora, contribuendo all’evento che è gestito da volontari. Ho vissuto
la medesima esperienza con un’associazione culturale gestita da giovani musulmani che ha
proposto alla parrocchia universitaria di organizzare la chorba nei locali della chiesa una volta
a settimana durante il Ramadan. Desideravano davvero che i due mondi si incontrassero, ed
era un bel modo per farlo. A maggior ragione perché le pietanze sono deliziose!
Come non subire l’opera di logoramento dei terroristi?
E poi, il 7 e l’8 gennaio del 2015, gli attentati a Parigi contro i giornalisti del giornale satirico
Charlie Hebdo e contro alcuni ebrei. I miei amici musulmani erano terribilmente a disagio.
Dal canto mio, mi sarei potuto defilare e dire “je suis Charlie”. Ma loro, pur condividendo il
rifiuto dell’intolleranza, difficilmente potevano adottare lo slogan dopo la nuova caricatura
del profeta fatta dal Charlie Hebdo. Sono terribilmente a disagio perché i terroristi si rifanno
all’islam. Sono a disagio perché alcuni giovani musulmani francesi, chi addirittura convertito,
partono per unirsi al jihad violento in Siria. Sono terribilmente a disagio perché la loro
immagine presso l’opinione pubblica sta subendo un brutto colpo.
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Segretariato per la Giustizia Sociale e l’Ecologia
In tutta questa situazione mi sembra importante:
-
Dare a conoscere e sostenere al massimo le prese di posizione dei miei amici
musulmani nei confronti della violenza in nome dell’islam (e ovviamente anche le loro
denunce delle violenze xenofobe che subiscono). Alcuni lavorano dall’interno,
conducendo azioni di sensibilizzazione degli imam sul problema del radicalismo);
-
Accogliere qualsiasi richiesta di dialogo che giunga da parte loro. Abbiamo avuto per
esempio una visita a sorpresa di un gruppo appartenente a un’organizzazione di
studenti musulmani che chiedeva con forza che si organizzassero incontri reciproci e
di azione comune con il gruppo di azione caritatevole della parrocchia studentesca,
iniziativa che ha portato a scambi fruttuosi tra studenti;
-
Farsi gratuita visita reciprocamente. In seguito agli attentati, mi sono incontrato con i
responsabili della sala di preghiera musulmana del quartiere, insieme a due compagni,
per manifestare il nostro sostegno. Bellissima accoglienza e buono scambio;
-
Promuovere, in particolare tra i cristiani, la conoscenza dell’altro attraverso incontri,
legami, scambi. In questo senso, l’azione del JRS Welcome è interessante, perché
consente a delle famiglie di accogliere per un mese nella propria casa un rifugiato
senza tetto, in uno scambio mensile. Un vero servizio per questi rifugiati, ma anche
una bella occasione per scoprire persone di cultura e religione diversa, molto spesso
musulmana. Aspiro a far sì che le nostre migliori istituzioni scolastiche integrino un
numero significativo di studenti di confessione musulmana affinché non si inducano
inconsciamente altri studenti a credere che la nostra società non abbia una vocazione
multiculturale e multiconfessionale;
-
Contribuire alla riuscita scolastica e all’inserimento professionale dei giovani. Molti di
coloro che si trovano in difficoltà provengono da famiglie immigrate e quindi spesso
di confessione musulmana. Quando alcuni di questi giovani sono alla deriva, ne
risente molto l’immagine della loro comunità, e ne risente la visione del resto della
società. Lavorando da 20 anni in questo contesto, sono stato molto contento nel vedere
giovani ritrovare un futuro e renderne partecipi gli altri.
Per concludere, la nostra associazione della casa di quartiere ha superato il conflitto grazie
all’intervento di un mediatore e allo sforzo compiuto da tutti. Siamo riusciti nell’intento di
proseguire nella gestione di questa casa di quartiere pur essendo di culture e fedi religiose
diverse, o anche senza appartenere a una religione.
Una delle cose più belle che oggi noi, cristiani e musulmani, abbiamo da vivere e mostrare al
mondo è che insieme possiamo costruire “società”!
Originale francese
Traduzione Simonetta Russo
Promotio Iustitiae 122, 2016/2
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Mvslim.com
Johan Verschueren sj
Provinciale BSE/NER, Anversa, Belgio
“Nella società multiculturale in cui, oggi, viviamo, siamo andati alla ricerca di una piattaforma
ideale per i musulmani. E chiaramente non l’abbiamo trovata. Pertanto ne abbiamo creata una
noi stessi”.
Ecco come il team del neonato web magazine MVSLIM ha presentato il suo progetto circa un
anno e mezzo fa. E no: non si tratta di un errore tipografico; è proprio mvslim.com, con una
“v”. Il motivo è ovvio. Quando si digita sul motore di ricerca la parola “Muslim” non si può
credere ai propri occhi: sullo schermo compaiono una serie di siti web noiosi e monotoni,
afferenti per lo più al campo religioso. O si approda immediatamente nel territorio dell’Islam
radicale, connesso soprattutto con lo Stato Islamico (IS).
Ecco ciò che Taha Riani ha detto all’editore di “De Standaard”, il quotidiano di qualità delle
Fiandre (in Belgio), che aveva subito notato la creazione della nuova piattaforma MVSLIM sul
web. Riani ha avviato questo progetto insieme a Hanan Challouki. Entrambi sono belgi con
radici marocchine. La scelta dell’inglese è notevole: vogliono un profilo internazionale.
Che altro colpisce? La loro età. Al momento del lancio della start-up di MVSLIM, Challouki
aveva 22 anni, e Riani solo 19. Un dettaglio interessante: Riani è alunno di un liceo gesuita di
Antwerp. La maggior parte dei membri del loro gruppo editoriale è formata da giovani che
hanno meno di 25 anni. Tutti loro hanno un’ottima istruzione, e studiano, oggi, alla VUB, la
Libera Università di Bruxelles, che è un istituto fiammingo. Tutti i contributi pubblicati su
MVSLIM irradiano giovinezza e gioia di vivere: l’impaginazione, lo stile della scrittura, la
scelta dei temi inerenti lo stile di vita e il quotidiano, l’umorismo, l’indignazione verso le
ingiustizie, la ricerca spirituale, e lo stupore per le mille e una cosa che avvengono nel mondo.
Ho dovuto solo esplorare questo nuovo sito internet. E mi ha subito convinto: ha avuto il mio
“like”.
Non si tratta solo di una nuova comunità online, ma mostra, in modo convincente, l’ambizione
culturale di giovani musulmani emancipati che vivono in un contesto europeo. Nel giro di
pochi mesi, gli editori sono riusciti a creare uno spazio culturale in cui migliaia di follower si
sentono sicuri e a casa. È tra la tradizione dei loro genitori e dei loro nonni, da una parte, e
dall’altra, il radicalismo che rivendica il diritto esclusivo di parlare nel nome dell’Islam. E a
rendere le cose ancora più complicate vi è il fatto che operano all’interno di un contesto
occidentale, in cui si trovano a doversi confrontare con ogni tipo di discriminazione, o dove,
per lo meno, sono considerati come l’ultima ruota del carro. Gli editori sostengono una triplice
emancipazione, e perfino resistenza:
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1. Emancipazione dal vecchio quadro: stanno trasformando il mondo dei loro
genitori per dimostrare che non sono degli immigrati, ma comuni cittadini che
vivono in un paese occidentale.
2. Resistenza di fronte al fondamentalismo islamico: offrono un’alternativa
spirituale, sebbene tradizionale, a un Islam che si sta ripiegando radicalmente su
sé stesso.
3. Emancipazione culturale attraverso la resistenza a un’assimilazione occidentale
forzata: chiedono in modo creativo il diritto di esistere culturalmente e
religiosamente in un mondo prevalentemente laico.
Questo è un bel programma! E la loro strategia è degna di ammirazione. Attraverso il dialogo
e la creazione di ponti tra il mondo che hanno ereditato dai loro genitori, e il contesto
occidentale – ma plurale – nel quale sono nati, danno vita a “una primavera araba” che
nasconde anche un doppio rifiuto: rifiutano di rimanere su un’isola, ma non vogliono neanche
annegare.
A mio parere, il team del magazine MVSLIM rappresenta più di un fenomeno di tendenza. È
ottimista, porta speranza, ed è impegnato con la società in generale: oserei definirlo una
benedizione per tutti noi.
Che altro colpisce?
La dimensione del gruppo editoriale: 35 persone, tra cui 25 donne, il che vuol dire una netta
maggioranza femminile. E non è tutto: il contenuto del magazine sta diventando sempre più
internazionale. Sebbene, all’inizio, la maggior parte dei contribuiti provenisse dal Belgio, oggi
si può apprezzare una gran quantità di articoli provenienti dall’America, dall’Europa,
dall’Australia e perfino dalla Malesia.
La maggior parte degli autori è di religione musulmana, come era prevedibile. Ma non si trova
neanche uno scrittore arroccato su una posizione di presunta superiorità. Al contrario, in molti
contributi si può trovare una chiara apertura e tolleranza. Vi sono numerosi articoli che
denunciano episodi di razzismo e di islamofobia, ma l’indignazione viene spesso
ammorbidita da un umorismo disarmante. O diventa motivo di resistenza sociale e politica.
Il problema del fondamentalismo radicale islamico, del terrorismo di matrice islamica, e del
jihad violento non è presente in modo esplicito. Non credo sia una coincidenza; a quanto pare,
gli editori hanno optato per una politica di prudenza. Tuttavia, il fondamentalismo viene
chiaramente respinto, in molti modi sottili. Su questo sito internet, prende la forma di un
understatement, di un profilo basso, che non ha bisogno di chiarimenti.
Ci si potrebbe aspettare che i temi religiosi non siano trattati per evitare una materia scottante.
Niente di tutto ciò è vero: l’Islam è ben presente in molti articoli. L’aspetto religioso raramente
è assente, ma il modo in cui l’Islam è presente in questo magazine è inusuale.
La categoria del magazine che sottolinea in modo più esplicito l’Islam ha un titolo
sorprendente: spiritualità. Tutto ciò rivela il carattere personale di un Islam vissuto. I membri
di questa comunità web si pongono interamente nel solco della tradizione religiosa che hanno
ricevuto dai loro genitori, perché questa costituisce una parte inscindibile della loro identità
culturale. Ma la vivono con riflessione, la rendono propria, attraverso un’esperienza personale
e condivisa, e la riconoscono come via di saggezza verso la felicità.
Forse il contributo più coraggioso del gruppo editoriale (pubblicato da nove membri che
hanno apposto il proprio nome) è quello sull’omosessualità, che considerano con occhi
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musulmani come una “tribolazione”. Ma la posizione culturale e religiosa degli editori in
questo articolo trascende quella posizione di partenza:
“...In un mondo in cui le culture si fondono, si avviluppano, e sono sempre più interdipendenti,
è fondamentale rendersi conto dell’importanza della coesistenza, e dei pericoli del rifiuto. Il
nostro auspicio è che le persone che non sono in sintonia con la nostra religione rispettino il
nostro modo di vivere; da parte nostra, abbiamo stabilito delle regole e delle aspettative per noi
stessi nei loro riguardi. Cerchiamo di creare un clima in cui entrambe le parti possano vivere in
pace. Il tempo dei conservatori è finito, applicando questo modo di pensare bidirezionale; non
mettiamo solo i nostri bisogni al primo posto, ma i bisogni e il benessere di un’intera società.
Pensiamo che, affinché la prossima generazione possa vivere in un ambiente sicuro e armonioso,
si renda quanto mai necessaria un’atmosfera di grande tolleranza tra i diversi stili di vita.
Questa tolleranza può essere insegnata fin dai primi anni di vita...”
Bisogna rendersi conto che questa insolita dichiarazione – che ha ottenuto migliaia di “like” –
proviene da un gruppo di giovani musulmani piuttosto sconosciuti (ancora da scoprire) che
opera in modo indipendente da qualsiasi moschea, imam, o leadership musulmana ufficiale;
vediamo un nuovo fenomeno all’interno della classe media musulmana, istruita, che vive in
Belgio. Alcuni degli editori che hanno firmato questo particolare articolo sono alunni del
nostro liceo gesuita “Xaverius College”, situato nel sobborgo di Borgerhout, ad Anversa. Tra
loro vi è il fondatore di questo web magazine, Taha Riani. Il loro background scolastico è una
mera coincidenza, o vi è dell’altro?
Il sistema scolastico del Belgio e delle Fiandre è semplice e complesso allo stesso tempo.
Praticamente non vi sono scuole private, il che rende tutto semplice; sia che si scelga una
scuola cattolica, sia che si scelga una scuola statale, entrambe sono completamente
sovvenzionate dallo Stato. Con la differenza della religione che è inserita, o meno, nel
programma scolastico, il contenuto di ciò che viene insegnato in tutte queste scuole è molto
simile, perché lo Stato impone controlli di qualità, sia dell’insegnamento effettivo, sia del
contenuto delle lezioni. Le differenze tra le scuole delle diverse reti (e perfino all’interno di
una rete) possono tuttavia essere enormi a causa delle regole della scuola, dello stile, del
progetto pedagogico (come raggiungere la qualità) e delle attività extrascolastiche. Questi
aspetti sono determinati dalle scelte fatte dal consiglio scolastico e dai direttori di ogni singolo
istituto. Ecco perché l’istruzione cattolica, e più nello specifico l’istruzione gesuita – sebbene
completamente sovvenzionata dallo Stato – rimane decisamente accessibile in Belgio.
Alla fine degli anni novanta, il governo ha approvato una nuova disposizione normativa che
impone a tutte le scuole di fissare un numero massimo di studenti, per ogni anno e grado, e
di accettare ogni nuovo alunno che bussa alla porta della scuola fino a quando non sia stata
raggiunta la capacità massima stabilita. E tutto ciò sulla base della regola che impone di
seguire l’ordine di arrivo delle domande di iscrizione. Le scuole hanno perso il diritto di
rifiutare quelli che alcuni definirebbero come nuovi studenti “poco portati”. Si cercava, in tal
modo, di evitare la discriminazione di gruppi minoritari (in particolare, di migranti), di aprire
le scuole elitarie, e di mischiare gli studenti con uno status socio-economico elevato con
studenti con uno status più basso. L’effetto non è stato così impressionante come ci si
aspettava. La gente tende a cercare persone con uno stesso background culturale e socioeconomico, e non si mischia così facilmente. E la distanza tra casa e scuola gioca sempre un
ruolo importante nella scelta dell’istituto scolastico.
Tuttavia, al liceo gesuita di Anversa, le cose sono cambiante rapidamente. In quella zona della
città, la stragrande maggioranza della popolazione è marocchina, e si è facilmente indirizzata
verso il liceo gesuita. Nel giro di pochi anni, il consiglio scolastico è stato costretto ad adottare
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una nuova politica di fronte alla diversità culturale e religiosa. La scuola ha scelto un modello
di emancipazione con principi chiari sulla diversità culturale e religiosa, rafforzando al
contempo gli elevati standard di qualità che i nostri studi umanistici richiedono. Per molte
altre scuole della rete scolastica cristiana del Belgio, il liceo è diventato un modello di
ispirazione. Insieme con alcune scuole statali, il liceo gesuita di Anversa ha intrapreso la
strada del rinnovamento creativo e ha accarezzato la vecchia idea di Pedro Arrupe: formare
agenti di cambiamento. Non resterei sorpreso se molti dei marocchini e altri studenti, tra i
quali Taha Riani, diventassero agenti di cambiamento come Pedro Arrupe sognava. Insha’
Allah, Deo Gratias.
Originale inglese
Traduzione Filippo Duranti
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Dialogo interreligioso alla frontiera
Esteban Velázquez, sj
Spagna
Da dove
Poche ore fa sono sceso dalla montagna insieme a un gruppo di volontari, dopo aver visitato
uno dei campi profughi allestiti per ospitare migranti subsahariani, che aspettano la loro
occasione per arrivare al sud della Spagna (Almería, Motril…), su fragili imbarcazioni, o a
Melilla (enclave spagnola nel Nord Africa la cui sovranità è reclamata dal Marocco),
attraversando le valli che separano questa città spagnola da Nador (Marocco). A Nador
vivono due gesuiti, Francis Gouin e io 1 , oltre a tre congregazioni religiose femminili.
L’obiettivo della visita, come quasi tutte le domeniche in diversi campi, è tenere una preghiera
interreligiosa, musulmani e cristiani insieme, per sentire la presenza di Dio che rafforza e
consola nella loro durissima vita: migliaia di chilometri alle loro spalle, fuggendo da guerre o
povertà, e nelle loro attuali condizioni di vita su questi monti a poca distanza da Nador
(Gourougou, Selouane e altri), con mezzi di sussistenza decisamente scarsi e precari,
affrontando, inoltre, frequenti pressioni da parte delle forze dell’ordine, che li perseguono e
bruciano le loro coperte, o le loro deboli tende di plastica, e li arrestano e li deportano verso
altre località del Marocco. Di solito iniziamo con un minuto di silenzio per tutte le vittime che
hanno perso la propria vita nel tentativo di raggiungere l’Europa, o in mare
(indipendentemente dal fatto che si tratti del mare che bagna il Marocco e la Spagna, o di
quello che separa il Medio Oriente dall’Italia, dalla Grecia, o da Malta), o nel cammino del
deserto, o nelle valli di confine. E per tutti i migranti morti nel mondo intero, pieno di frontiere
e drammi che ruotano intorno alla loro esistenza.
I migranti sistemano alcune coperte a terra dove, quanto meno, ci mettiamo scalzi noi che
andiamo a dirigere la preghiera. Dapprima invitiamo i musulmani a pregare come
desiderano, a volte dopo aver letto prima il Corano. Successivamente leggiamo noi alcuni testi
biblici che hanno una relazione più diretta con la vita dei migranti. Un qualcosa non difficile
da trovare dal momento che, sia l’Antico Testamento, sia il Nuovo Testamento, sono pieni di
testi che parlano di cammini, di migrazioni forzate dalle circostanze, dal pericolo, dalla
minaccia, o dall’Ordine / dalla Promessa di Dio di avanzare verso un’altra terra, o un’altra
situazione più favorevole. Non mancano le fughe da persecuzioni e massacri. A volte
leggiamo insieme la preghiera che Papa Francesco ha recitato per i migranti morti in mare, in
occasione della sua visita a Lampedusa, nella primavera del 2013.
Una volta terminata la preghiera, teniamo una piccola assemblea, nella quale spieghiamo
brevemente il lavoro che svolgiamo come gruppo della Delegazione per le Migrazioni
dell’Arcivescovato di Tangeri, a Nador (siamo 11 persone che portano avanti un progetto per
Alcuni mesi fa, dopo aver scritto questo articolo, l’autore si è visto respingere la sua domanda
d’ingresso nel paese dalle autorità marocchine.
1
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la cura dei problemi di salute dei migranti che vivono su questi monti, e che oscillano tra i
1500 e i 2000 individui, con una chiara maggioranza di uomini). Quindi apriamo il dialogo
cercando di rispondere a qualsiasi dubbio, o domanda, che desiderano fare in relazione al
nostro lavoro. Terminiamo con un momento di convivialità che ci sembra sempre troppo
breve. Il nostro piano prevede la creazione di un nuovo, piccolo gruppo – oltre al gruppo che
si occupa del progetto sulla salute – il cui compito sia unicamente la cura pastorale nel senso
ampio del termine, oltre alla convivenza-accompagnamento, così come alla formazione che
permetta la provvisorietà della loro presenza in transito su questi monti, sebbene alcuni
trascorrano mesi e anni senza raggiungere il loro obiettivo di entrare in Spagna. La
soddisfazione data dal fatto che qualcuno riesca, per esempio, a imparare a scrivere e a leggere
è decisamente speciale. Come nel caso del camerunense Amadou, pastore nella sua terra
natale, che il mio compagno gesuita Francis Gouin è riuscito a tirare fuori dall’analfabetismo
solo in poche settimane.
Le difficoltà comuni fanno sì che questi migranti si sentano spontaneamente uniti al di là di
qualsiasi scelta religiosa diversa. Ma anche il fattore religioso (sia esso musulmano o cristiano)
occupa un posto fondamentale nel tessuto psicologico-personale di ciascuno. Quando, per
esempio, si commentano le grandi difficoltà che si incontrano per raggiungere la Spagna, in
particolare, per superare la recinzione di Melilla ora che, oltre alle tre recinzioni contigue
costruite dagli spagnoli, esiste una quarta recinzione recentemente costruita dai marocchini
con filo spinato da cima a fondo, e seguita da un fossato di tre metri di profondità, il commento
spontaneo e frequente dei migranti, siano essi musulmani o cristiani, è “Se Dio vuole sarà
possibile”. Dio è sempre il loro punto di riferimento, il loro sostegno più intimo, la loro
speranza di ottenere ciò che sembra impossibile. E una componente personale fondamentale
per evitare la depressione, o lo sconforto, al quale spinge la situazione che vivono. Un altro
esempio: quando riescono ad arrivare a Melilla il loro primo gesto solitamente è quello di
inginocchiarsi e, con grida, ringraziare il Signore con il loro dito indice alzato ad indicare il
cielo.
Sono ben conscio degli elementi magici, superstiziosi, pre o anti cristiani, che può avere questo
tipo di religiosità. Ma sono anche consapevole del fatto che le società europee, così come altre
società fortemente secolarizzate, tendono a screditare in modo precipitoso e semplicistico
queste esperienze religiose, comuni a musulmani e cristiani provenienti da paesi di più basso
livello culturale ed economico. La religiosità dei ricchi non ha mai coinciso facilmente con la
religiosità dei poveri. Il vangelo contiene numerose constatazioni di questa realtà. E la
religiosità trasmessa da Gesù veniva compresa più facilmente dagli “ultimi”, che lo cercavano
perché erano “affaticati e oppressi”, insoddisfatti della realtà materiale che vivevano. Loro
hanno compreso meglio il messaggio evangelico di liberazione integrale: “Grazie Padre
perché hai rivelato queste cose a coloro che sono piccoli e semplici”.
Un’altra opportunità di scambio religioso, semplice, ma decisamente reale, è quello che
abbiamo con quei migranti che assistiamo, per un tempo limitato, nel nostro piccolo Centro o
Casa della Solidarietà: circa sette stanze con otto posti letto per malati o feriti, che sono stati
curati in Ospedale, ma che sono stati dimessi in condizioni che non consentono loro di
sopportare subito la dura vita del monte (stampelle, piedi ingessati, ferite profonde), o per
donne che hanno partorito da poco, e che restano solo alcuni giorni in Ospedale, e che pertanto
necessitano di qualche giorno in più di riposo. Nel nostro Centro, vi è tempo per parlare con
loro, con tranquillità, delle loro storie, dei loro pensieri, delle frustrazioni, speranze, ma anche
dei loro sentimenti religiosi, siano essi di fede islamica o cristiana. È ciò che fa, soprattutto,
Lupita, la religiosa francescana responsabile di questa Casa della Solidarietà, e Suor Francisca,
un’altra religiosa Figlia della Carità, coordinatrice del lavoro medico della Delegazione.
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Un altro spazio di collaborazione islamico-cristiana…, e non solo islamico-cristiana, ma nella
vita e nell’azione quotidiana, è quello che si ha nel gruppo stesso della Delegazione per le
Migrazioni a Nador, che, come gli altri gruppi della nostra diocesi (Tangeri, Tetouan,
Martil…) è composto da persone di diverse fedi religiose, ma anche da non religiosi. Siamo
cinque spagnoli, quattro marocchini, e due subsahariani. Cristiani, musulmani, agnostici, ecc.
condividiamo ogni giorno lo stesso lavoro, senza che la diversa fede religiosa o spirituale
costituisca un ostacolo nell’impegno quotidiano e nella ricerca di valori o di codici etici
comuni per le nostre relazioni quotidiane con i migranti. Piuttosto rappresenta un forte
impulso per questo impegno e per questa ricerca.
Lo stesso possiamo dire del nostro lavoro di collaborazione con altre organizzazioni,
marocchine o internazionali, nell’ambito del quale l’attività di assistenza umanitaria ai
migranti o la difesa dei loro diritti umani costituisce una causa comune in cui ci troviamo
insieme musulmani e cristiani.
Il nostro rapporto con il mondo islamico a Nador non si riduce al lavoro con i migranti.
Abbiamo, infatti, un rapporto quotidiano con i musulmani anche nell’altro grande progetto
della Chiesa in questa città: il centro Baraka di formazione professionale e culturale, per il
quale sono delegato del Vescovo, e al quale collabora anche Francis, che porta avanti corsi di
alfabetizzazione in lingua araba e francese. È un centro che si rivolge alla popolazione giovane
più povera della città, per offrire loro opportunità di formazione, e un futuro inserimento nel
mondo del lavoro. Sono tutti musulmani. Non mi soffermo su questo punto, dal momento
che ho scelto il lavoro con i migranti come argomento principe di questo articolo. Darò solo
un dettaglio: abbiamo appena deciso di montare sulla terrazza del Centro una tenda come
luogo di preghiera per gli alunni. Il fatto che un centro della Chiesa abbia una piccola
“moschea” per favorire la pratica della preghiera musulmana è un aspetto che ha incontrato
il favore sia degli alunni, sia dei professori.
Riflessioni, opportunità e sfide
Fatta questa sommaria descrizione circa il nostro rapporto con persone musulmane
nell’ambito del lavoro con migranti subsahariani e con giovani marocchini, credo che vi siano
alcune constatazioni e alcune riflessioni che nascono dalla realtà del loro accompagnamento
quotidiano:
a. Delle quattro modalità di dialogo interreligioso (vita, azione, preghiera e teologia), noi
constatiamo quotidianamente nel nostro lavoro (accompagnamento – azione
umanitaria – difesa dei diritti umani – promozione professionale di settori popolari)
che vi è un processo possibile (non l’unico naturalmente) di relazione tra queste
modalità. Ed è il seguente: dal dialogo della vita e dell’azione (o dell’azione e della vita
perché a volte l’azione solitaria precede il dialogo della vita) nasce spontaneamente il
dialogo della preghiera in comune, e si apre uno spazio spontaneo di dialogo
teologico, non a livelli accademici o intellettuali, ma un dialogo che potremmo definire
una teologia popolare e liberatrice interreligiosa.
b. Questa inserzione di vita e azione con migranti subsahariani in situazioni di transito e
di assoluta precarietà alla frontiera, e con giovani marocchini provenienti dai settori
più svantaggiati è, inoltre, un dono di Dio, un luogo teologico privilegiato in molti
sensi. Tra gli altri sensi, o tra le altre possibilità, è un luogo decisamente appropriato
per un’offerta di varia riflessione-preghiera-dialogo in chiave interreligiosa liberatrice
(mistica e profetica al tempo stesso) rivolta a persone (in particolare giovani) dei “due
lati” del mondo (lato ricco e lato povero continua a essere la grande differenza
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Segretariato per la Giustizia Sociale e l’Ecologia
fondamentale, il grande abisso di disuguaglianza che divide il mondo ben al di là di
qualsiasi altra considerazione o divisione). Queste frontiere di Nador / Melilla e
Tangeri o Tetouan / Ceuta sono alcune delle frontiere del mondo che registrano una
maggiore sperequazione economica tra un lato e l’altro della frontiera (15 punti). È
un’enclave europea nel continente africano, e l’unica frontiera continentale, prima del
Mediterraneo, nella stessa Africa, tra il mondo europeo e quello africano, tra il mondo
ricco e il mondo povero. Per questo, tra i nostri progetti immediati vi è l’offrire, in
maniera più sistematica (qualcosa abbiamo già iniziato a fare), diversi modi, o spazi,
di incontri di riflessione, di preghiera, di scambi e dialoghi tra persone del mondo
Nord e Sud, del mondo europeo e africano, del mondo occidentale e arabo, del mondo
islamico e cristiano o agnostico. Forse la vita ci sta offrendo un’opportunità storica,
vale a dire, quella di inventare, di creare, un particolare e decisamente utile “Centro
di spiritualità interreligiosa per la giustizia globale tra i popoli”. È qui che si evidenza
anche fisicamente lo scontro tra il mondo ricco e il mondo povero, dove gli effetti della
grande ingiustizia internazionale, provocata dai “meccanismi perversi”, tanto
denunciati nella dottrina della Chiesa, si palpano ogni giorno nei volti, nelle ferite,
nelle malattie, nelle sofferenze… di alcune delle persone più povere della Terra, che
fuggono da un inferno di guerre e di fame senza prospettive di cambiamento (ivi
compresi i siriani che arrivano passando per l’Algeria), verso un luogo dove, per lo
meno, possono mangiare tutti i giorni, e in pace. Non sarà uno dei luoghi più
appropriati per contemplare il mondo come Dio nella meditazione dell’Incarnazione
degli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio: “Alcuni in pace e altri in guerra, alcuni che
piangono e altri che ridono, alcuni con dei vestiti (culture) e altri con altri” e,
soprattutto, un luogo davvero appropriato per sentire interiormente la necessità di
partecipare attivamente alla decisione del Padre “Facciamo la redenzione (liberazione
integrale) del genere umano”? La frontiera come luogo per creare sogni e luogo di
immaginazione creativa… ma soprattutto come luogo per prendere una decisione
ferma in merito alla lotta per un cambiamento radicale e profondo di questo mondo,
tutti uniti, insieme musulmani e cristiani. Se da questo luogo, o da altri luoghi simili
del mondo, non siamo capaci di dire, musulmani e cristiani, una parola congiunta,
concreta, e al tempo stesso profonda, sulla giustizia e la pace mondiale, in che Dio
crediamo? Ma questo è il compito che ci emoziona: essere uniti nella sofferenza di
questi “ultimi”, e nella lotta per mitigarla, che viviamo ogni giorno, allo stesso modo,
musulmani e cristiani, può essere una magnifica opportunità per creare insieme una
spiritualità, una teologia, un codice etico e un grido comune, a favore della pace e della
giustizia. Quasi niente.
Originale spagnolo
Traduzione Filippo Duranti
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Promotio Iustitiae, n. 122, 2016/2
Vivere insieme ai musulmani a Tower Hamlets,
Londra
Damian Howard, sj
Londra, Regno Unito
Tower Hamlets è uno dei trentadue distretti che costituiscono la c.d. Grande Londra (in
inglese Greater London). Sebbene la popolazione musulmana di Londra sia pari a circa il
12,4%, e sia meno del 5% di tutta la popolazione del Regno Unito, a Tower Hamlets è poco
meno del 40%. Infatti, questo è l’unico luogo del paese in cui la popolazione musulmana
nominale è in realtà maggiore, rispetto alla popolazione cristiana nominale. Nel loro insieme,
i musulmani inglesi provengono da un numero impressionante di paesi; sebbene la maggior
parte provenga dal subcontinente indiano, vi sono anche arabi, turchi, somali, malesi, iraniani
e molti altri, così come un piccolo numero di convertiti europei. Eppure la stragrande
maggioranza dei musulmani di Tower Hamlets proviene da una sola città, Sylhet, in
Bangladesh. Il quartiere è, in sintesi, una realtà insolita, in termini di mix etnico e religioso, e
il particolare cocktail di problemi cui si trova a dover far fronte è unico in Gran Bretagna.
L’atipica omogeneità della comunità musulmana qui presente conferisce all’area un carattere
particolare. In una certa misura, la comunità bangladese di Tower Hamlets ha
un’autosufficienza maggiore, rispetto a qualsiasi altro gruppo musulmano presente in Gran
Bretagna. La sicurezza che i bangladesi hanno di essere il più grande gruppo etnico o religioso
singolo si traduce in un’azione politica organizzata. La politica bangladese costituisce una
potente presenza in questa parte di Londra, le sue fazioni arrivano a colonizzare perfino i
partiti politici inglesi (in particolare, il partito labourista) e determinano nuovi modelli di
relazioni politiche che possono essere in contrasto con le norme inglesi stabilite. L’ultimo
sindaco del distretto era un musulmano. Si è presentato come candidato indipendente, ha
potuto disporre del supporto di un’enorme fetta del voto musulmano, ed è riuscito a contare
un considerevole sostegno da parte di altri settori della popolazione. È stato, tuttavia,
circondato da voci di corruzione e di scandali, e dopo una lunga campagna contro di lui, è
stato costretto a lasciare il suo ufficio. Se tutto ciò sia stato giusto, o meno, è ancora oggetto di
molte discussioni locali.
Eppure, l’autonomia della comunità bangladese maschera problemi notevoli. I livelli di
rendimento scolastico, occupazione, e prosperità sono notoriamente bassi. Mentre precedenti
gruppi di immigrati nell’East End di Londra (ugonotti, ebrei, irlandesi ecc.) si sono tutti
trasferiti, avendo ognuno, a sua volta, trovato la propria strada verso la prosperità, i
bangladesi mostrano pochi segni di voler seguire il loro esempio. Al contrario, rimangono
nella zona, e molti di loro vivono gomito a gomito con la spettacolare ricchezza e il cospicuo
consumo del polo bancario di Canary Wharf, un accostamento che serve solo a rendere ancora
più drammatica la loro povertà.
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Segretariato per la Giustizia Sociale e l’Ecologia
Le varie Chiese cristiane presenti in questa parte di Londra non sono molto potenti o vibranti.
La Chiesa stabilita d’Inghilterra è frammentata in molte piccole congregazioni con le proprie
diverse ecclesiologie. Una volta, l’East London era l’epicentro dell’Anglo-Cattolicesimo, un
movimento anglicano del XIX secolo che combinava una riscoperta del patrimonio liturgico,
sacramentale e teologico del Cattolicesimo con un forte impegno sociale. Quest’ala della
Chiesa d’Inghilterra è, oggi, notevolmente indebolita. Nel frattempo, è in ascesa l’ala
evangelica; una Chiesa evangelica locale vi trasferisce giovani cristiani provenienti da altre
parti di Londra al fine di costruire la sua congregazione, e forgiare legami con una moschea
locale. Anche la Chiesa Cattolica è decisamente più piccola, rispetto al passato, e non ha niente
dell’influenza e del seguito popolare che la caratterizzavano, e che ha mantenuto anche negli
anni settanta. Tutto ciò è dovuto, principalmente, all’ascesa sociale di quella che è stata una
grande comunità operaia irlandese, che da allora si è dispersa, lasciando il guscio vuoto di
una infrastruttura ecclesiale. Un parroco della zona mi ha detto che le parrocchie locali non
sono più sufficientemente forti per offrire alla gente un senso di comunità o di appartenenza.
Le popolazioni sono in continua evoluzione, perché nuovi coloni giungono nell’area per un
breve periodo prima di trasferirsi. In che modo una parrocchia può avere un cuore in una
situazione così turbolenta? Solo le comunità di Pentecostali sembrano essere in crescita. Con
la loro energia e con il loro dinamismo, spesso promuovono una caricatura dell’Islam che
nuoce alla coesione sociale, e mette in pericolo la fiducia e la comprensione reciproca.
Alcuni commentatori hanno usato l’asimmetria tra una debole presenza cristiana e una
presenza musulmana molto più sicura di sé per evocare immagini spaventose di una Londra
(e, invero, di un’Europa) già dominata dai musulmani, e sulla buona strada per essere
governata, nei prossimi anni, secondo la legge islamica della Shari‘a. Dall’altra parte
dell’Atlantico, alcuni ideologi di destra hanno preso la particolare abitudine di presentare
qualsiasi cosa succeda a Tower Hamlets come indicativa dell’emergere di un “Londonistan”,
o di una c.d. “Eurabia”, distopici. Gli abitanti della zona sono abituati a trovare avvenimenti
locali interpretati in questo modo distorto, e ideologicamente orientato. Diversi anni fa, un
prete anglicano è stato attaccato per aver contestato a un piccolo gruppo di giovani ubriachi
provenienti dall’Asia meridionale il loro comportamento antisociale. Questo stesso prete è
rimasto sconvolto quando ha scoperto che il fatto era stato riportato dai media statunitensi
come un esempio della tipica violenza musulmana anticristiana che serpeggia per le strade di
Londra. Allo stesso modo, un gruppetto di giovani musulmani chiassosi che si riprendevano
in video per proteggere il “carattere musulmano” di Whitechapel, molestando i passanti, è
stato ritratto negli Stati Uniti come indicativo della vita quotidiana nella zona. L’ultima goccia
di questa campagna di disinformazione ha coinvolto un sedicente esperto di Islam europeo,
Steven Emerson, che, nel gennaio del 2015, nel corso di un’intervista rilasciata a Fox News, ha
affermato che Birmingham, la seconda città della Gran Bretagna, è una zona interdetta ai non
musulmani, e che la polizia della Shari’a pattuglia le strade di Londra, punendo le violazioni
a un rigido codice di abbigliamento religioso. In quel momento, il primo ministro inglese,
David Cameron, si trovava negli Stati Uniti, e ha potuto sconfessare pubblicamente Emerson,
definendolo ‘un’idiota’.
Questo tentativo di propaganda, che serve gli interessi di un’agenda politica interna degli
Stati Uniti, è, naturalmente, corrosivo delle buone relazioni che intercorrono tra i cristiani e i
musulmani di Londra. Crea un clima di sfiducia e di sospetto. Sfrutta la reciproca ignoranza
e la cattiva volontà che già rappresentano un grave problema. I musulmani si sentono offesi
a causa di quella che può sembrare come una falsa rappresentazione delle loro credenze e dei
loro interessi, offerta sistematicamente dai media. I cristiani si sentono confermati nei
pregiudizi che hanno ereditato da secoli di polemica cristiana contro l’Islam.
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Cosa viene fatto di positivo per migliorare la situazione? Si possono citare diverse attività e
iniziative:
a. Ordinaria coesistenza. Non si deve mai sottovalutare il buonsenso della gente comune
e il potere del contatto umano quotidiano per sfatare i miti e promuovere la
comprensione. Fortunatamente, tutto ciò rappresenta un normale aspetto della vita a
Tower Hamlets, in particolare tra le donne, che condividono i compiti legati alla cura
delle proprie famiglie. Tuttavia, ciò ha i suoi limiti, perché le comunità sono, in qualche
modo, anche isolate l’una dall’altra. È perfettamente possibile che le persone vivano
vite parallele in stretta vicinanza l’una accanto all’altra, pur non condividendo quasi
nessun punto di riferimento. Le barriere linguistiche costituiscono certamente un
problema che va superato, e occorre tenere in debito conto il fatto che i cittadini di una
società decisamente multiculturale possono consumare mezzi di comunicazione
totalmente diversi e, in tal senso, abitare mondi differenti. Portato alle estreme
conseguenze, ciò può spingere giovani uomini e giovani donne a recarsi in Siria per
unirsi ai militanti dello Stato Islamico, a causa del loro disprezzo per una società
inglese che vedono come straniera, corrotta, e in bancarotta morale. Il fatto che le loro
azioni possano sembrare evidentemente giustificate ai loro occhi, e del tutto
sconcertanti per le persone che possono vivere accanto a loro, è un’indicazione della
frammentazione culturale nella quale viviamo. L’incontro tra le comunità sul luogo di
lavoro, o in istituzioni educative, è di fondamentale importanza.
b. Iniziative volte a promuovere l’interazione tra comunità. Posti di fronte a questo tipo
di sfida, i successivi governi inglesi hanno cercato di promuovere una migliore
comprensione, incoraggiando persone provenienti da diversi settori della popolazione
a incontrarsi. Il progetto “Near Neighbours” è un esempio calzante. Finanziamenti
governativi, distribuiti attraverso l’infrastruttura della Chiesa d’Inghilterra, sono stati
assegnati per sostenere progetti locali che riuniscono differenti gruppi religiosi in aree
di massima diversità. Singoli individui e agenzie possono fare richiesta per utilizzare
i fondi, e quindi promuovere l’agenda del governo sulla coesione sociale. Il progetto
ha riscosso un certo successo, ma è stato anche, inevitabilmente, criticato. Alcuni
musulmani hanno visto il luogo privilegiato dato alla Chiesa stabilita come una forma
di pregiudizio e di favoritismo, altri si sono dimostrati solidali. Molto dipende
dall’atteggiamento e dalla teologia del vicario (il parroco anglicano) in questione. Il
progetto è stato di portata limitata, e i relativi fondi in qualche modo magri. Tuttavia,
un problema merita sicuramente attenzione. Dipingere le tensioni presenti in qualsiasi
centro urbano come di carattere principalmente interreligioso (e di cui, pertanto,
conviene occuparsi promuovendo la conoscenza e l’incontro, per esempio, tra cristiani
e musulmani) equivale sicuramente a non centrare un punto chiave: coloro che sono
veramente ignoranti e ostili nei confronti dei musulmani (e che, a loro volta, suscitano
maggiori sospetti tra i musulmani) sono persone prive di qualsiasi affiliazione
religiosa, per le quali la religione è di per sé una minaccia, e l’Islam profondamente
pericoloso in ogni aspetto. Con ogni probabilità, i cristiani simpatizzano spesso con i
musulmani, in virtù del fatto di sentirsi essi stessi emarginati in una società laica, e di
avere una personale familiarità con la fede e la pietà religiosa. “Near Neighbours”, non
tenendo conto del nutrito gruppo di non religiosi, non ha affrontato una questione
centrale: come promuovere il rispetto e la comprensione tra persone provenienti da
società tradizionali (soprattutto musulmani) arrivati da poco in Gran Bretagna, e
coloro che hanno una visione laica del mondo, che mancano, o hanno scarsa
comprensione di società e mentalità diverse dalle loro. La portata di questo problema
è decisamente intimidatoria.
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Segretariato per la Giustizia Sociale e l’Ecologia
c. Sforzi tesi a promuovere un’azione comune tra le comunità. È ormai sempre più
accettato il fatto che l’azione del “dialogo” interreligioso di primo livello sia limitata,
e che dobbiamo andare oltre (anche se bisogna dire che coloro che lo sostengono
spesso sembrano conoscere ben poco delle credenze e delle pratiche di persone di altre
tradizioni…). Vi sono alcuni esempi veramente notevoli di istituzioni che riuniscono
gruppi comunitari che lavorano a favore della giustizia sociale. Anche in questo caso,
i gruppi formati da donne sono spesso quelli di maggior successo. Ma una delle
maggiori e delle più impressionanti è l’organizzazione di comunità (fondata da Saul
Alinsky), rappresentata a Londra da “London Citizens” e, nell’East End, da TELCO
(The East London Communities Organisation). Riunendo una serie di parrocchie
cattoliche, moschee, sinagoghe, sindacati, scuole, cappellanati universitari, ONG, e
altre istituzioni, TELCO è diventato un forum in cui persone di fedi diverse, o atee,
possono lavorare insieme su progetti tesi a migliorare la comunità locale, sfidando i
politici, e impiegando efficacemente la forza delle persone per portare al
cambiamento. Vi sono state campagne di successo che hanno riguardato il salario
minimo, questioni in materia di asilo, povertà alimentare, e molti altri temi. Sebbene
criticata da alcuni per il metodo applicato all’organizzazione delle comunità, non si
può negare che abbia portato nuova vitalità all’impegno politico, e abbia
responsabilizzato molte persone locali, in un modo che neanche il normale
funzionamento delle istituzioni democratiche ha saputo fare. Per qualche tempo, sono
stato coinvolto in un progetto chiamato “Contending Modernities”, gestito
dall’Università di Notre Dame, negli Stati Uniti, un filone del quale si è occupato
dell’impatto dell’organizzazione di comunità sulle relazioni tra gruppi religiosi. Vi è
una moltitudine di prove che sembrano suggerire che, in effetti, abbia giocato un ruolo
molto positivo. Se è così, allora sicuramente è anche perché non è partito dal
presupposto che la fede religiosa sia un problema da risolvere, quanto piuttosto un
dono, una forza motivante da apprezzare e sfruttare per il bene comune. Tuttavia, una
notevole difficoltà è stata la questione se sia etico, o meno, impegnarsi con comunità
che non passano quello che è stato definito un “test progressivo”. Per esempio, la
Moschea di East London, grande e potente centro della vita musulmana in questa
parte di Londra, è stata associata con predicatori islamisti, alcuni dei quali avrebbero
assunto pubblicamente una posizione ostile nei confronti dell’omosessualità, o
sarebbero collegati con affermazioni antisemite. Gruppi di cittadini sono stati criticati
per essere disposti a lavorare a fianco di un’istituzione che ha sposato atteggiamenti
in contrasto con quelli di una società liberale educata. Il dibattito rispecchia una
discussione analoga che ha paralizzato fortemente l’impegno del partito conservatore
con i musulmani, perché gli ideologi neoconservatori hanno reso politicamente
imbarazzante per loro il fatto di essere visti come soggetti che hanno a che fare con
gruppi di musulmani che non rientrano tra quelli che sono pronti a sottoscrivere in
toto l’intero canone delle posizioni morali laiche dell’Occidente. Il problema è che
questi musulmani non hanno alcuna credibilità presso le comunità tradizionali.
Tutto ciò dà un’idea dei problemi cui i musulmani si trovano a dover far fronte nella zona
dell’East London. La storia è complessa, e in un certo senso non è affatto tipica di quella
dell’Islam nel Regno Unito. Ma solleva delle questioni che sono fonte di grande
preoccupazione, e che saranno di interesse per i gesuiti in tutto il mondo.
Originale inglese
Traduzione Filippo Duranti
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