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I NUOVI SCENARI DEL TERRORISMO INTERNAZIONALE DI MATRICE JIHADISTA PARTE PRIMA LO SCENARIO E LE CAUSE DEL TERRORISMO INTERNAZIONALE DI MATRICE JIHADISTA 1. Alle radici del terrorismo internazionale di matrice jihadista: multidimensionalità, variabilità e complessità del fenomeno A quasi nove anni di distanza dall’11 settembre 2001, si rende necessario procedere ad una significativa ridefinizione dei modelli di analisi e di interpretazione del terrorismo internazionale di matrice jihadista. Al Qaeda (la Base) ha assunto i contorni cangianti di un prisma multiforme e variabile e tale struttura poliedrica irregolare si riflette sensibilmente sul modello organizzativo e sulla capacità di pianificazione e di organizzazione degli attacchi jihadisti in ogni parte del mondo. Il quadro di analisi si è fatto molto più complesso e ciò impone agli analisti di trattare la materia in maniera olistica, secondo un approccio di sistema, respingendo una semplificazione delle dinamiche interpretative e intensificando i processi di conoscenza delle diverse realtà geografiche, culturali e religiose (a tutti i livelli, continentali, sub-continentali e regionali) che fanno da sfondo alla proliferazione del fenomeno terroristico jihadista. La stessa evoluzione di Al Qaeda, la sua camaleontica capacità di trasformazione, il suo rapido adattarsi a situazioni di sconfitta militare e politica, la diffusione territoriale che la contraddistingue, la leggerezza delle sue reti di informazione e di comunicazione richiedono un approccio teorico-applicativo profondamente flessibile e articolato, caratterizzato da una significativa adattabilità degli strumenti di analisi strategica e di risposta operativa agli attacchi terroristici, portati non solo nel cuore dell’Occidente ma in numerose aree del pianeta di eccezionale valenza geostrategica. In merito all’evoluzione organizzativa, occorre ricordare che Al Qaeda si è imposta sin dall’inizio come Al Qaeda globale, una struttura centralizzata sul piano ideologico, logistico e organizzativo in grado di pianificare azioni contro il Nemico lontano: l’attentato alle Torri Gemelle è diventato il simbolo più significativo di una siffatta impostazione strategica ed operativa. Alla base del manifesto ideologico di Osama Bin Laden e di Ayman al Zawahiri vi è il jihad 1 , obbligo personale del credente che ha come obiettivo primario la cessazione dell’aggressione occidentale e la cacciata 1 Occorre specificare, preliminarmente, che Jihad è una parola araba che letteralmente indica l’«esercizio del massimo sforzo» e che la bellicosità non è l’essenza del Jihad medesimo. Il termine abbraccia un ampio spettro di significati che vanno dal conflitto interiore, per raggiungere la perfezione spirituale - Jihad maggiore - al concetto di guerra santa, Jihad minore (peraltro è soltanto in questa seconda interpretazione che il termine assume genere femminile, mentre è più corretta la declinazione maschile propria del termine arabo “sforzo”). Il Jihad maggiore, come chiarisce il Profeta Maometto, è innanzitutto rivolto all’interiorità della persona: indica l’impegno di ogni musulmano, uomo o donna, a diventare un essere umano migliore, a sforzarsi per migliorare se stesso. Perseguendo questo scopo il seguace del Jihad può anche essere utile alla sua comunità. Inoltre, il Jihad è per ogni musulmano un banco di prova dell’obbedienza a Dio e della fermezza nel realizzare la Sua volontà sulla terra. E’ anche vero che l’Islam prevede la ribellione a un governante ingiusto, che sia o no musulmano, ed il Jihad può diventare il mezzo per mobilitare i seguaci a quello scontro politico e sociale. Questa è la jihad minore. Cosi, i musulmani venerano la vita del Profeta Maometto perché è un esempio del Jihad maggiore ma anche di quella minore: il Profeta si batté per tutta la vita per migliorare se stesso come musulmano, sia per dare un esempio a quelli che gli stavano attorno sia per dimostrare la propria dedizione assoluta a Dio. Ma combatté anche contro la società araba corrotta. Visse e usò ogni mezzo – compresi quelli militanti, ma non solo quelli – per trasformarla. Ma l’argomento che veramente rompe ogni indugio riguarda il principio teologico, unanimemente riconosciuto nell’islam, che l’associazione fra jihad e guerra, in particolare nella sua versione offensiva, richieda di essere autorizzata da un rappresentante legittimo della comunità musulmana, tradizionalmente identificato con il Califfo (Kemal Atatürk ha abolito il Califfato nel 1924, interrompendo definitivamente la lunga successione di sultani ottomani inaugurata nel 1517). Di conseguenza, il fatto che la jihad venga dichiarata da figure autocratiche appartenenti alla costellazione dell’islamismo radicale è palesemente in contrasto con i principi e la tradizione della regione musulmana, 1 degli infedeli dai territori islamici. Sin dalla sua nascita, Al Qaeda dichiara di voler colpire gli interessi degli americani e dei loro alleati ovunque e con qualunque mezzo, sancendo in tal modo il passaggio dal radicalismo islamico alla dimensione globale del conflitto con l’Occidente. L’obiettivo finale di Al Qaeda è la restaurazione del Califfato universale 2 e, in questa accezione, Osama Bin Laden, attraverso una personale ricombinazione dei principali caratteri della religione, della cultura e della tradizione islamica, si propone come l’erede di Maometto. Un primo profondo cambiamento strutturale di Al Qaeda si era già avuto dopo gli attentati di Madrid (11 marzo 2004) e Londra (7 luglio 2005) in Europa, quando si era trasformata in una struttura reticolare, con un marchio, Al Qaeda appunto, che forniva una sorta di copyright ideologico ai gruppi jihadisti disseminati in tutto il mondo. Da allora, sul piano strettamente funzionale ed operativo, le cellule qaediste sembrano non avere più la necessità di coordinarsi nella programmazione degli obiettivi terroristici, in quanto, condividendo strategie e principi ideologici unificanti, risultano accomunate da una unitaria rappresentazione del Nemico esterno e interno, ossia crociati, sionisti e regimi musulmani empi loro alleati. Nell’attuale fase storico-politica, siamo forse di fronte ad una ulteriore trasformazione di struttura. Al Qaeda “centrale” (ossia il nucleo rimasto attorno a Bin Laden e al Zawahiri, ridotta nel numero dei combattenti e concentrata prevalentemente nell’area tribale pakistana e nei centri abitati del paese) è sottoposta ad enorme pressione ed ha visto ridursi progressivamente il proprio spazio operativo e militare. L’organizzazione starebbe entrando, probabilmente secondo le intenzioni dei suoi stessi ideologi, in una fase di spontaneismo armato e di diffusione molecolare del terrorismo e la chiamata alla jihad sembra obbedire ad una logica di decentralizzazione funzionale e di dispersione spaziale, ossia trasferendo in “periferia” quasi tutti i compiti operativi, logistici e finanziari, e lasciando al “centro” soltanto le funzioni propagandistiche dell’ideologia del salafismo jihadista 3 . Questo non significa che Al Qaeda 2010 abbia rinunciato alla propria vocazione strategico-operativa e ideologica a livello centrale, quanto piuttosto che la base jihadista sta attualmente concentrando le proprie energie progettuali e la maggior parte delle azioni terroristiche all’interno di specifici contesti regionali di particolare significato geopolitico. La propensione ad attaccare di Al Qaeda, sia a livello individuale che di gruppo, permane molto elevata e le azioni terroristiche, che presentano spesso tratti di forte casualità, si accompagnano agli sforzi dei gruppi jihadisti di inquadrare gli attacchi all’interno di un disegno strategico globale. ad ulteriore riprova dell’uso del tutto strumentale che ne viene fatto. Gli odierni movimenti della Jihad globale, dai Talebani dell’Afghanistan ad Al Qaeda di Osama bin Laden, al Movimento islamico dell’Uzbekistan (Miu), ignorano il Jihad maggiore propugnato dal Profeta e adottano la Jihad minore come una filosofia politica e sociale in sé completa. Ma mai, negli scritti e nella tradizione musulmana, l’autentica idea di Jihad consente l’uccisione di uomini, donne e bambini innocenti, siano essi musulmani o non musulmani, in base all’appartenenza a un’etnia, a una setta o a una fede. E’ questa perversione della jihad – presa a giustificazione del massacro di innocenti – ciò che definisce in parte l’estremismo degli attuali movimenti jihadisti. 2 Il Califfo o Khalifa è il vicario e il successore del Profeta, nonché il capo politico e spirituale della comunità musulmana. Il primo Califfo è stato Abu Bakr, genero di Maometto. Maometto non ha lasciato nulla di scritto e di codificato circa la successione califfale. Veniva inizialmente considerata come un’attribuzione spettante di diritto ai soli membri della tribù di Maometto, i Kuraysh. 3 Il Salafismo, movimento riformista musulmano, nato in funzione anticoloniale, traeva la sua forza dai sentimenti anticolonialisti che permeavano la maggioranza dei popoli dell’Africa settentrionale. Fu fondato dall’iraniano Jamal al Din al Afghani (1838-1897) e continuato da un suo allievo, l’egiziano Mohamed Abduh (1849-1905) per un ritorno alla purezza originaria dell’Islam; ripreso e sviluppato in senso più nazionalista nel Maghreb dal libanese Rashid Rida (18651935). Il Wahhabismo (cfr. anche la successiva nota 7) –dottrina di Mohamed Abd al Wahab (1703-1792)– fu un punto di riferimento per Abduh e Rida. Quest’ultimo, sulla scia del salafismo di Abduh, rifiutò il sufismo e fu molto vicino alla dottrina wahhabita. Sarà un discepolo di Rida, Hassan al Banna, il futuro fondatore dei Fratelli Musulmani (per un approfondimento, cfr. la successiva nota 16). In sintesi il salafismo incarna la corrente reazionaria attivista, puritana e populista dell’Islam. Contrario al nazionalismo, al socialismo ed alla democrazia, propugna una Umma –l’insieme della comunità dei credenti, la ”nazione musulmana” condotta da un Califfo come ai tempi del Profeta. Contrario a qualsiasi innovazione religiosa non islamica, odia l’esoterismo degli Sciiti ed il misticismo dei Sufi, considerati eretici. Rifiuta il concetto di partito all’occidentale. 2 Le modalità di esecuzione degli attentati sembrano ruotare attorno ai binomi opportunità-casualità e programmazione-improvvisazione e, in futuro, qualora lo spontaneismo jihadista e l’estrema casualità degli attentati diventassero caratteri predominanti, risulterebbe ancora più difficile l’azione di prevenzione e di contrasto del fenomeno terroristico, nonostante l’elevato grado di artigianalità e di imperizia evidenziate nella pianificazione ed attuazione degli ultimi attacchi (come quello relativo al volo Amsterdam-Detroit ad opera del nigeriano Umar Faruk Abdulmutallab, nel dicembre del 2009 o l’autobomba di Times Square scoperta l’1 maggio del 2010). Se, nell’immediato futuro, il nuovo modus operandi di Al Qaeda dovesse accentuare le proprie caratteristiche, si rafforzerebbe di molto la natura asimmetrica del conflitto in corso e ciò imporrebbe di rafforzare la capacità di osservazione degli scenari continentali, regionali e nazionali teatro degli attacchi jihadisti, rilevando con particolare cura e caso per caso, le modalità di pianificazione e di esecuzione, le forme di reclutamento e le fonti di finanziamento degli attentati, nonché le interrelazioni temporali e spaziali con altri eventi analoghi. Tale approccio metodologico consentirà di tracciare l’evoluzione del terrorismo jihadista nel tempo e nello spazio, di “mapparlo” in profondità, determinandone di volta in volta le differenze ideologiche ed operative, dando conto del suo stato attuale di salute e del suo grado di vulnerabilità. L’obiettivo della presente analisi è di rappresentare il carattere multidimensionale, variabile e complesso della minaccia terroristica di matrice jihadista. Multidimensionalità, variabilità e complessità che possiamo rinvenire già a partire dalle interpretazioni circa le cause di stampo religioso della lotta jihadista. In generale, è possibile affermare che l’obiettivo primario dei movimenti fondamentalisti islamici è di “reislamizzare l’Islam” e di “ridisegnare la natura del legame sociale, purificandolo dagli stili di vita influenzati dall’Occidente e ritenuti estranei all’etica religiosa, nel progettare una forma-stato diversa dai modelli di origine occidentale, dittature laiche o democrazie che siano” 4 . In questa accezione, è sempre stato sotto tiro soprattutto il concetto di democrazia, rifiutato con forza dalla teoria politica islamista 5 in quanto “non solo contempla la sostituzione del potere umano a quello divino, ma anche perché enfatizza il ruolo dell’individuo a scapito di quello, solistico, della comunità, con effetti ritenuti negativi per la coesione sociale. Le caratteristiche “ossessivamente” individualiste delle società occidentali sono, infatti, causa di conflitto, 4 Sul tema della reislamizzazione dell’Islam da parte dei movimenti fondamentalisti islamici, vedi Renzo Guolo, L’immagine dell’Occidente nel fondamentalismo islamico, in Oltre l’Orientalismo e l’Occidentalismo (a cura di GrittiBruno e Laurano), Guerini e Associati, 2009. 5 L’Islamismo designa, a partire dagli anni ‘70, le correnti più radicali dell’Islam che vedono nella religione una ideologia politica e considerano che l’islamizzazione passa attraverso l’instaurazione della Sharia in uno stato islamico. La Sharia è la Legge islamica decorrente dalla tradizione e dalla giurisprudenza, direttamente ispirata dal Corano, dalla pratica e dai commenti del Profeta. Costituisce l’insieme delle prescrizioni normative che regolano il culto, la vita familiare, il codice penale, civile, bancario e amministrativo della comunità islamica. Nell’Islam sunnita è codificata in quattro diverse scuole giuridico-teologiche: hanafita, malikita, shaafita e hanbalita. In sintesi, la shaafita è la scuola musulmana piu’ diffusa in Indonesia, Siria ed Africa Orientale, l’hanafita è particolarmente seguita in Turchia, Giordania, Afghanistan, Pakistan, India e Bangladesh, la malikita è quella prevalente in tutto il Nordafrica e l’hanbalita nella penisola Arabica. Ibn Hanbal, fondatore della scuola hanbalita, non lasciò trattati di scienza giuridica, ma numerose “ professioni di fede “ e una raccolta di tradizioni o hadith, il Musnad, e resterà a testimoniare la fedeltà ai “pii antichi”. L’hanbalismo, un tempo molto diffuso in Iraq, riprese vigore nel XVIII secolo, grazie alla riforma wahhabita del Nagd. Oggi è la scuola giuridica ufficiale del regno saudita. Quest’ultima scuola è attualmente l’espressione più tradizionalista, fondamentalista e rigorosa dell’Islam sunnita, la malikita ne rappresenta una versione tradizionalista meno estremista, la shaafita occupa una posizione intermedia tra le prime due, l’hanafita, infine, ne risulta la corrente più liberale. Queste quattro scuole, diverse nello spirito, sono tutte accettate dall’Islam sunnita e sono attualmente le sole. Sono e restano creatrici di mentalità che si riflettono nella pratica dei riti e delle relazioni sociali; sul piano dottrinale trovano una corrispondenza nelle scuole teologiche. Esse pongono le riflessioni e gli argomenti razionali al servizio della difesa della fede. Gli hanbaliti difenderanno la fedeltà rigorosa alla “religione pura degli antichi”, accettando solo il consenso dei compagni del Profeta, in una forma che però non è in contraddizione con una certa libertà di ricerca, nel caso in cui non vi sia alcun testo che possa essere d’aiuto al giudizio. Una delle caratteristiche dell’hanbalismo fu un pietismo rigorista, che gli permise di godere spesso dell’appoggio del fervore popolare. Gli hanbaliti rifiutano la scienza del Kalam in sé ossia la scienza della “parola (di Dio o che riguarda Dio)” e rispondono ai problemi che essa pone con una metodologia diversa. Si rifiuta con severità qualunque uso dialettico della ragione nella difesa della fede. Ibn Taymyya e il suo discepolo Ibn Qayyim al Gawziya - due hanbaliti, celebri fra tutti - sono talvolta molto severi verso i giochi dialettici della scienza del Kalam ed i meandri delle instancabili discussioni scolastiche. 3 vissuto come fattore negativo, anziché come elemento capace di produrre mutamento sociale”. Nella visione del mondo islamista, pertanto, l’Occidente è sotto accusa anche perché “ha provocato intenzionalmente la divisione della umma in costruzioni artificiali come lo stato-nazione, (…) una scelta fatta per sedimentare la divisione tra credenti in base a criteri non religiosi. Una volta costituiti gli stati-nazione, l’Occidente avrebbe, infatti, perpetuato il suo dominio sul mondo islamico attraverso la sua penetrazione economica e culturale” 6 . Determinata questa matrice interpretativo-causale, condivisa dalla gran parte degli analisti, occorre rilevare che esistono delle profonde differenziazioni circa le cause del terrorismo jihadista, che variano a seconda della prospettiva di analisi e dell’enfasi posta su questo o quell’altro aspetto del fenomeno. La riformulazione, deviata ed estremista, dei principali caratteri della religione, della cultura e della tradizione islamica, operata dai jihadisti rinviene alcuni presupposti in due snodi fondamentali per la vita delle società musulmane: lo scisma wahhabita salafita 7 del XVIII secolo e quello dell’ayatollah Khomeini nella seconda metà del XX secolo. L’odierno terrorismo jihadista conferisce alla umma una particolare centralità, che ha suscitato nelle menti più intransigenti e prive di efficaci e reali leve di potere, la ricerca di una supremazia mediante l’impiego dell’arma terroristica. Secondo la visione sciita, elemento comune e determinante è l’imminenza apocalittica che motiva ideologia, azioni e culto di questi scismi. Imminenza apocalittica assolutamente evidente e rivendicata dall’ayatollah Khomeini e dall’attuale presidente iraniano Mohammed Ahamadinejad (attesa del ritorno imminente del dodicesimo Imam 8 ). 6 Cfr. ancora Renzo Guolo, idem supra. Nel XVIII secolo, il movimento ardentemente fondamentalista fu promosso da Mohammad Ibn Abdel Wahhab (1703-1792), fervente hanbalita ispirato da Ibn Taymiyya (1263-1328). Nato in Arabia, studiò a Medina e visse successivamente in Iraq ed in Iran prima di ritornare al luogo di origine, Unayna. Fu poi espulso e si rifugiò, sempre in Arabia, a Dariyya, convertendo alla dottrina il capo Ibn Saud. Ibn Saud e suo figlio Abd al Aziz saranno il braccio secolare di Ibn Abdel Wahhab, cui resteranno fedeli fino alla morte. Dopo le lotte sanguinose contro il potere ottomano ed una breve occupazione della Mecca nel 1803, i sauditi fondarono nel Nagd uno dei regni che, insieme a quello denominato Hijaz ed agli emirati di Asir, Najran ed Al Hasa, costituisce l’attuale Arabia Saudita un regno di obbedienza wahhabita. Il Wahhabismo, dottrina di ispirazione hanbalita, tende al rigetto di tutte le innovazioni, specie dei filosofi, delle confraternite e del culto dei Santi, per un ritorno alle sorgenti vere della tradizione. L’insegnamento di Wahab è inserito nel particolare momento che l’Islam attraversa nel XVIII secolo: l’Impero ottomano dà i primi segni di crisi, mentre in Persia si rafforza come non mai lo sciismo, diventato religione di stato con gli scià safavidi. Wahhab lavora quindi a costruire un’alternativa: un forte stato arabo sunnita, basato su una rigida ortodossia (il suo riferimento é Ibn Taymyya) che costituisca un’alternativa militante allo sciismo e alla crisi ottomana. Prima del Wahhabismo, il teologo siriano Ibn Taymyya, in un momento di grave pericolo per il mondo musulmano invasioni dei Mongoli, sacco di Baghdad, fine del Califfato si pose quale custode radicale della purezza dell’interpretazione letterale del testo sacro nei confronti delle contaminazioni provenienti in particolare dalla filosofia greca attraverso il sufismo, cioè la mistica musulmana. Con Ibn Hanbal e Ibn Taymiyya vennero fissati i precedenti che portarono alla predicazione nella penisola arabica di Mohamed Ibn Abdel Wahhab che, intrecciandosi con l'espansione della tribù dei Saud volta al controllo dell'intera penisola arabica contro “le tribù concorrenti”, in particolare quella dei Rashid, fece di questa ideologia purista il mito fondatore dell'Arabia Saudita sino alla sua effettiva realizzazione avvenuta nel 1932. Il fondamentalismo wahhabita influì su numerose correnti riformiste, anche a grande distanza dalle frontiere della Penisola. Nel XIX secolo si propagò in India, nella sua forma rigida e guerriera, ad opera di Sayyd Ahmad Brelwi. E’ la dottrina più esportata nel mondo musulmano dagli anni ‘70 del secolo scorso. Il Wahhabismo saudita, influenzando non solo la penisola arabica ma anche l'intera comunità musulmana, raggiungerà il Pakistan e attraverso la componente tribale pashtun giungerà in Afghanistan alimentando l’ideologia talebana nella sua applicazione integrale della sharia, la legge coranica, nella totale negazione del ruolo della donna quale protagonista sociale, nella sua opposizione alla coesistenza tollerante con altre religioni e gruppi etnici intrattenuta sino al 1924 dal mondo califfale osmanlide. Un fondamentalismo puritano estremo che segna la frattura con la civiltà islamica nelle sue dimensioni creatrici, nei suoi valori tradizionali e statuali sino a minacciare le società e gli Stati musulmani. L'Afghanistan, stremato dall’invasione sovietica e dalle contrapposizioni islamiste formerà la conchiglia vuota lasciata da uno Stato afghano totalmente destrutturato che verrà poi riempita dall’ideologia talebana promossa dagli interessi pakistani e dalla rete terroristica di Al Qaeda. 8 Si crede che la vita del dodicesimo Imam sia stata miracolosamente prolungata e che egli tornerà al momento opportuno a riportare la giustizia nel mondo. Gli sciiti duodecimani credono nella serie di dodici imam a partire da Alì, cugino e genero del Profeta Maometto, per finire a Muhammad el Mahdi (il 12° Imam occultatosi per sottrarsi alle persecuzioni dei sunniti, mai morto, che alla fine dei tempi ritornera’ a manifestarsi). In questa attesa, nessun potere politico è pienamente legittimo. La Rivoluzione Islamica del 1979 in Iran ha in parte modificato questo atteggiamento, stabilendo il 7 4 Lo scisma khomeinista – sulla base delle teorie di Alì Shariati 9 - ha trasformato l’evenienza del martirio (comune a tutte le religioni) in un precetto individuale, in una brama, in una ricerca assoluta che deve coinvolgere tutti i musulmani, uno per uno 10 . Uno scisma radicale, che ha fatto breccia rapidamente anche nel mondo sunnita e che ha trovato una sua geniale –anche se atroce- e inconfutabile sintesi nel documento degli attentatori della stazione di Atocha, a Madrid, nel 2005: “Voi amate la vita, noi amiamo la morte”. Secondo questo approccio di analisi, la motivazione religiosa è determinante nella ideologia, nelle strategie, negli obiettivi e nei modus operandi dei terroristi di Al Qaeda, di Hamas e in genere nel movimento degli shaid o kamikaze (termine assolutamente impreciso ma ormai invalso), così come in tutto il movimento dei “martiri” di ispirazione sciita contemporanea. Questo non vuole assolutamente dire ovviamente che tutte quelle che vengono comunemente definite cause del terrorismo stesso –questione nazionale, resistenza all’invasore esterno, reazione al sottosviluppo, lotta antimperialista, conflitti etnici e religiosi e persino (una prospettiva teorica abbastanza diffusa in Francia) frustrazioni vuoi sociali vuoi individuali, non agiscano come substrato. Questa scismatica “religione di morte”, rafforzata dalla convinzione individuale che l’Apocalisse (inserita nel preambolo della Costituzione Islamica iraniana quale fondamento di fede) sia imminente è l’elemento determinante che motiva il terrorismo jihadista. L’elemento religioso, scismatico e apocalittico, si è ormai dimostrato capace di intervenire ovunque si crei nelle società musulmane una qualche contraddizione, assorbendola, imponendole la sua logica jihadista, votandola così al prevalere di una logica di scontro permanente che ne impedisce o ostacola la ricomposizione 11 . Per gli analisti che privilegiano questa impostazione è diventato impellente, nell’attuale fase storicopolitica, rimarcare la centralità del ruolo iraniano e la rilevanza dei progetti nucleari del regime di Teheran. Secondo la logica dell’”imminenza apocalittica” i progetti nucleari iraniani sarebbero essenzialmente motivati dalla volontà di rafforzare e sviluppare l’egemonia regionale. Elemento sicuramente presente e agente nella tradizione di un paese che da 2700 anni è dominante nell’area. Tale egemonia regionale, secondo tutto il gruppo dirigente iraniano, non consiste solo nell’esercizio dei poteri dello Stato e nella cura dei suoi potere del giurisperito (velāya e faqih ) che, pur non esente da difetti ed errori, cerca di creare e gestire una società islamica quanto più giusta possibile e preparare le condizioni per il ritorno dell’Imam Atteso. 9 Sociologo iraniano (1933-1977), è considerato uno dei più influenti leader filosofici della pre-rivoluzione iraniana. Le opere di Shariati sono state molto influenzate dal marxismo e dal terzomondismo che ha incontrato come studente a Parigi e, nella sua opera di costruzione dei simboli culturali dello sciismo iraniano, credeva che gli sciiti non avrebbero dovuto attendere semplicemente il ritorno del 12° Imam, ma avrebbero dovuto lavorare attivamente “per affrettare il suo ritorno mediante la lotta per la giustizia sociale, fino al punto di abbracciare il martirio”. 10 “Il martirio è il cuore della storia; nello stesso modo in cui il cuore irrora di sangue il corpo, così il martire irrora la storia”. “Ogni rivoluzione ha due volti: il primo è il sangue, il secondo è il messaggio: il martirio è testimone di ambedue. Chi sceglie questa morte-rossa mostra il proprio amore per la verità. Una verità conculcata, che è l’unica arma per il jihad. Il martirio emana una solarità unica, crea luce e calore nel mondo e nel cuore freddo e buio, nei pensieri, nei voleri paralizzati, immersi nella stagnazione e nell’oscurità immemore, crea movimento, visione speranza e crea volere, missione e dedizione. Il pensiero ‘niente può essere fatto’ si cambia in ‘qualcosa può essere fatto’ o addirittura ‘qualcosa deve essere fatto’. La morte del martire ha come conseguenza la morte del nemico perpetuata da coloro che sono stati educati dal sangue di uno shahid. Versando il proprio sangue egli non causa la morte del nemico. Vuole umiliare il nemico e ottiene la sua umiliazione”. Il martirio è una scelta, è il proprio sacrificio sulla soglia della libertà e dell’amore, ed è vittorioso. Il martirio è una scelta consapevole. (…) Il destino della fede, il destino della libertà dell’uomo che è finito in condizioni peggiori di quelle dell’era dell’idolatria e dell’ignoranza, della jahiliyya (ignoranza della verità salvifica), attende questa azione. L’Imam Hussein prende il sangue che zampilla dalla gola di suo figlio Alsghar, lo prende nelle sue mani e lo lancia verso il cielo dicendo: “Guarda! Accetta questo sacrificio da me! Sii mio testimone mio Dio!” (..) Il martirio è rendersi testimoni davanti a chi vuole rimanere nascosto nei meandri della storia.” 11 A dimostrazione che il terrorismo ha l’obiettivo di destabilizzare in profondità le società musulmane vi è il dato incontrovertibile che più del 90% degli obbiettivi e delle vittime del terrorismo jihadista dal 2001 a oggi è costituito da musulmani, da concittadini degli attentatori (ma seguaci di un “falso islam”): ammontano ormai a migliaia in Iraq, Pakistan e Bangladesh i musulmani vittime di attentatori all’interno di moschee o luoghi di preghiera. Anche il recentissimo attacco a Lahore in Pakistan (28 maggio 2010), contro la minoranza Ahmadi, che ha causato 80 morti, si inserisce in questo quadro. Gli Ahmadi sono considerati eretici sia dai sunniti che dagli sciiti e da tempo erano nel mirino degli estremisti pakistani. Al cuore del culto Ahmadi c’è l’idea che Maometto non sia l’ultimo dei profeti, ma sia stato seguito da altri: fra loro Gesù Cristo che non sarebbe morto sulla croce ma avrebbe predicato a lungo tra il Medio Oriente e l’Asia, fino a morire in Kashmir, dove gli Ahmadi venerano la sua tomba. 5 interessi, ma si incarna essenzialmente nello sviluppo e nella esportazione della rivoluzione iraniana di marca e scisma khomeinisti 12 . La visione messianica della storia e della strategia del regime di Teheran (peraltro chiarissima nella recente decisione delle autorità giudiziarie iraniane di impiccare quali Mohareb, “nemici di Allah”, gli oppositori dell’Onda Verde) punta alla costruzione di un regime di deterrenza nucleare finalizzato non già alla distruzione immediata di Israele ma proprio alla copertura della espansione rivoluzionaria islamica 13 . Espansione che da quando questa strategia iraniana è stata applicata, con la prima elezione di Ahmadinejad nel 2005, si è già consolidata in due straordinari successi con la presa di controllo integrale di Gaza tramite Hamas e il controllo esclusivo di Hezbollah sul Sud Libano e quindi il controllo di fatto sullo stesso governo libanese. Nell’analisi delle cause religiose del terrorismo jihadista, vi sono altre impostazioni interpretative che, pur considerando la rilevanza degli scismi avvenuti nel mondo islamico, compreso quello khomeinista, tendono a ridimensionarne la portata apocalittica e ad enfatizzare pragmaticamente sia le molteplici differenze esistenti all’interno del mondo islamico (per esempio tra sciiti e sunniti14 ), sia la diversità dei precetti e dei dettami impartiti nelle diverse scuole coraniche (in termini di struttura gerarchica, riti e uffici religiosi), nonché a sottolineare, di volta in volta, l’interazione di meccanismi causali di carattere geopolitico, militare, sociale, che impattano più o meno significativamente a seconda dell’area geografica di riferimento del fenomeno terroristico. Un siffatto schema interpretativo si pone, tra gli altri, l’obiettivo di individuare i principali punti di contatto e i sincretismi tra radicalismo islamico e altre confessioni religiose (come il sufismo, per esempio), al fine di verificarne il possibile impatto sulla genesi dello jihadismo. In questa ultima accezione, nella presente analisi, merita un approfondimento il ruolo svolto da alcune confraternite sufiste (turuq) 15 . All’occorrenza le turuq hanno svolto importanti funzioni politiche e militari: ne 12 Non va mai dimenticato infatti il nesso centrale che determina tutte le tradizioni apocalittiche tra “conversione dell’umanità alla vera fede” e momento in cui riappare il Messia dando inizio appunto al Giudizio Finale. Uno schema che comporta il dato –per noi occidentali quasi inafferrabile ormai, ma per gli sciiti alla Ahmadinejad assolutamente acquisito- che non appena la rivoluzione iraniana riuscirà ad imporsi, inizierà il conto alla rovescia dell’Ultimo Giorno (numerose sono le dichiarazioni formali e pubbliche del presidente iraniano su questo tema). 13 In questo schema di contrapposizione che vede l’Iran proseguire nello sviluppo dei propri programmi nucleari, il regime di Teheran, per affermare le proprie ragioni, sottolinea che la “bomba islamica” l’ha costruita per primo il Pakistan non tanto per assicurarsi una fonte di approvvigionamento energetico alternativo al petrolio, quanto per acquisire uno status di potenza regionale nei confronti di India e Cina (dotate di armi nucleari) e per dare “un punto di forza” alla nazione islamica nei confronti dell’arsenale nucleare israeliano. 14 In questa ottica interpretativa, oltre alle differenze religiose, si rimarca che, sul piano demografico, la componente sciita costituisce comunque una espressione fortemente minoritaria rispetto a quella sunnita. 15 Il Sufismo è la corrente dell’Islam mistico originata in Asia centrale e in Persia (“Sufi”, in arabo, significa “lana” e il nome deriva dagli ispidi mantelli di lana indossati dagli antichi fratelli sufi). I sufi costruiscono la loro fede sulla preghiera, la contemplazione, le danze, la musica e sessioni di movimento corporeo (scuotimenti, piroette) volte alla continua ricerca della verità. In seguito alla predicazione di un fondatore, i sufi si organizzarono in “Ordini sufi” denominati anche confraternite “tariqah” (plurale turuq) di seguaci che rappresentarono una reazione medievale contro l’autorità, l’intellettualismo, la legge e i mullah, per cui esercitarono un fascino enorme sui poveri privi di potere. All’inizio il sufismo è il primo nemico dei movimenti laici di indipendenza e poi degli islamisti che vedevano nelle sue pratiche poco ortodosse un’inaccettabile inquinamento dell’Islam. Il sufismo è un movimento orizzontale rispetto a sunnismo e sciismo. Il sufi è un musulmano (sunnita o sciita) che cerca un’esperienza di intimità personale con Dio, distaccandosi dalle cose del mondo. Cerimonia significativa, in tal senso, è il Dhikr (rituale mistico, come ad esempio le danze dervisci), attraverso la quale i fedeli cercano di intensificare la consapevolezza della presenza in se stessi di Dio. Secondo alcuni teorizzatori del panislamismo, il sufismo, con la sua mistica, ha “contaminato” la religiosità popolare, contribuendo all’allontanamento dalla razionalità dell’Islam originario ed è, quindi, tra le cause del ritardo storico del mondo musulmano. In ogni caso, nel corso della storia, le confraternite sufi sono state un efficace veicolo di diffusione della religione e, quindi, dell’influenza musulmana nel mondo, esprimendo talvolta anche un rilevante peso politico e sociale. Le confraternite sufi, sostenitrici di una visione “quietista” dell'Islam, verso la fine del ‘700 e primi dell’800 furono risvegliate dal colonialismo ed assunsero carattere sempre più “militaresco” sino ai primi del ‘900 quando militarmente sconfitte si ritirarono di nuovo nella pratica religiosa, l'insegnamento, la meditazione. Spesso le confraternite si sono rinchiuse in se stesse, ma hanno continuato a fornire uomini e istituzioni agli islamisti e tale passaggio, con frequenza rilevante, non preclude ai leader provenienti dal sufismo di rientrare in quest’ ultimo. 6 sono un esempio le due principali turuq in Afghanistan - la Naqshbandiyah e la Qaderiyah - protagoniste di un ruolo importante nel compattare la resistenza antisovietica in quanto costituivano una rete, di associazioni e alleanze, esterna ai partiti dei mujaheddin ed ai gruppi etnici. Peraltro, non c’è “incompatibilità” tra le confraternite sufi –dedite soprattutto alla meditazione ed alla preghiera- ed i movimenti del radicalismo islamico: basti pensare ad Al Banna, fondatore dei Fratelli Musulmani 16 e membro della confraternita Hasafiyah Shadhiliyah. Molti leader dei movimenti islamisti palestinesi sono stati (e molti tutt’ora sono) anche membri di turuq. La saldatura tra riformismo islamico, reduci dei movimenti islamisti e confraternite sufi ha generato altre rilevanti conseguenze. In Pakistan, per esempio, la guerra del Golfo ha unito le tre principali fazioni del Paese, sino ad allora separate: la Jiamaat-i Islami che è il partito islamico più potente, i Deobandi 17 , governati da ulema riformisti ed i Barelvi, confraternita sufi. Questa unione ha comportato modificazioni organizzative e intellettuali coagulando i movimenti. Basti pensare alla Tablighi Jama'at, fondata da Maulana Iliyas nel 1926, oggi una delle più potenti confraternite. Tra le turuq più significative emerge la Naqshbandiyah che é la più segreta e militarizzata delle turuq sufi, assai sviluppata in Asia Centrale, Turchia, Bosnia e regione del Caucaso, in Irak, nel territorio di residenza dei Curdi e nel sub-continente indiano. Ha rivestito un ruolo rilevante nella resistenza musulmana in Bosnia ed in Cecenia, ha una potente ed efficiente organizzazione finanziaria ed è ben consolidata nella comunità islamica cinese 18 . Proseguendo nell’analisi, è opportuno sottolineare che il carattere multidimensionale, variabile e complesso del terrorismo jihadista è dovuto non solo a fattori preminentemente religiosi, ma anche ad altre significative variabili causali, di tipo geopolitico. Tra queste, le aspirazioni siro-iraniane ad estendere la propria influenza in tutta l’area medio-orientale per sfruttarne anche le risorse energetiche, le strategie espansionistiche wahhabite per ostacolare tale progetto, nonché le velleità pakistane di potenza regionale. Su tali variabili, si sono innestati gli irrisolti contenziosi di tipo territoriale o di stampo nazionalista (la questione israelo-palestinese, per esempio), gli sviluppi storico-politici connessi alla fine della dominazione coloniale (in quest’ultima accezione ricordiamo la costituzione, in molti paesi arabi, di modelli 16 Movimento di ispirazione salafita fondato nel 1928 da Hassan al Banna, vecchio allievo di Mohamed Abduh. Ha per obiettivo l’islamizzazione della società, una riforma morale e religiosa di ogni credente. Il movimento, radicalizzatosi negli anni ‘50, è stato ferocemente combattuto da Nasser negli anni ‘60. 17 Il movimento Deobandi nacque nel 1851 nell'India sottoposta al dominio britannico nella città di Deoband, oggi situata nello Stato federato dell’ Uttar Pradesh, per iniziativa di due ulema, Muhammad Qasim Nanotawi (18331877) e Rashid Ahmad Gangohi (1829-1905), con lo scopo di risvegliare e di unificare la comunità musulmana indiana sottoposta al suddetto dominio. Dopo che nel 1857 la rivolta dei Sepoy –termine con cui si designava in senso generale qualunque militare indigeno dell'India sotto il governo britannico– venne soffocata nel sangue, ed i musulmani indiani sottoposti dai colonizzatori ad una punizione collettiva attraverso la loro totale esclusione dalla vita pubblica, la comunità musulmana visse un periodo di ripiegamento che vide l'affermazione di due speculari strategie. I modernisti, sotto la guida di Sir Sayyad Ahmad Khan, fondarono la scuola di Aligarh (città dell'India nello Stato federato dell'Uttar Pradesh) allineandosi sui valori dell’occidentalizzazione e della fedeltà alla Gran Bretagna. Il movimento ortodosso Deobandi scelse la via opposta fondando a Deoband nel 1867 una madrasa (scuola religiosa superiore) che intendeva inculcare nei giovani musulmani indiani i valori dell'Islam spiegando i fondamenti filosofici e spirituali di tale religione. Il corso degli studi, che poteva durare sino a dieci anni, comprendeva la teologia, il commentario del Corano, il diritto coranico secondo la scuola giuridica hanafita che, praticata anche in Afghanistan, era delle quattro la più tollerante in quanto basata su pratiche abituali, gli hadith (tradizioni del Profeta), la grammatica araba e persiana, la letteratura, la filosofia greco-araba, l'astronomia, la geometria, la medicina e la logica. La scuola di Deoband –divenuta la seconda università del mondo musulmano dopo la cairota Al Azhar– produceva i dottori della legge islamica, gli ulema, e faceva una netta distinzione fra le conoscenze sacre "rivelate" e le conoscenze umane escludendo ogni apprendimento che non avesse carattere sacrale. Tale scuola, quindi, nel rifiuto all’innovazione aderiva al Taqlid, cioè all’imitazione basata sull’accettazione delle antiche interpretazioni giurisprudenziali della legge coranica. Altra caratteristica della scuola di Deoband, che si ritroverà in una sua espressione estremizzata nel movimento talebano, era una visione restrittiva del ruolo sociale delle donne, l'opposizione ad ogni forma di gerarchia religiosa nella comunità musulmana e il rifiuto dello sciismo c h e in Afghanistan si tradurrà nella persecuzione degli Hazara Sciiti (popolazione sciita caratterizzata da tratti somatici mongoli, dalle incerte origini). Inoltre, il sufismo, la via mistica interiore alla religione, venne accettato in contrasto con la feroce opposizione che gli venne riservata dal Wahhabismo. A tali principi si aggiunse un militantismo anti-britannico e panislamico. 18 Al riguardo molti volontari ed una notevole parte del materiale di supporto tecnico e di sussistenza per i combattenti è giunto in Bosnia, durante la guerra nella ex Jugoslavia, attraverso il network transnazionale delle turuq. 7 di governo autoritari che hanno alimentato, almeno fino a tutti gli anni ‘70, nelle popolazioni locali speranze di emancipazione economica e sociale presto disattese) nonché la proliferazione di fenomeni di“resistenza” contro l’invasore (come avvenuto in Irak e Afghanistan dopo il 2001). Rispetto a questi ultimi aspetti, va considerato il meccanismo di solidarietà islamica transnazionale e antimperialista scattato all’indomani dell’invasione sovietica dell’Afghanistan e che portò migliaia di giovani provenienti da diversi paesi islamici a lottare contro il materialismo ateo di stampo marxista. L’attivismo dei mujaheddin non esaurirà la propria spinta propulsiva in terra Afghana ma alimenterà in epoca successiva le fila dei combattenti anche nei Balcani, nel Caucaso e nelle Filippine, mentre altri miliziani, sulla base di una forte convinzione ideologica, andranno a rafforzare le varie jihad nazionali e locali. Al Qaeda rinviene molti dei suoi presupposti ideologici e argomentazioni strategico-operative, nonché l’origine dei primi nuclei di mujaheddin, anche in queste forme attive di reducismo formatesi nei teatri di guerra degli anni ‘80 e ‘90. La combinazione dei fattori causali di cui sopra spiega anche la progressiva proliferazione di forme diffuse di terrorismo ibrido (soprattutto in epoca recente come accaduto nel teatro Afghano-Pakistano, nello Yemen, in Somalia oppure nella fascia sahelo-sahariana) che mescola agende locali, rivendicazioni di stampo nazionalistico, propositi di resistenza all’invasore e obiettivi globali. Dal canto loro, vi sono importanti teatri di impiego delle cellule qaediste, come quello europeo, che sperimentano altre cause di possibile incubazione delle istanze terroristiche. In questo caso, assume un ruolo determinante il forte disagio antropologico e socioeconomico vissuto soprattutto dai figli di immigrati, musulmani di seconda e terza generazione, che, scontando sentimenti di spaesamento, di sradicamento rispetto alle origini e alle tradizioni, nonché di rivalsa nei confronti dell’Occidente tutto, spesso, nel processo di maturazione e di ricerca della propria identità, possono diventare facile preda di quanti si occupano del reclutamento di avanguardie jihadiste in Europa. Il processo di reclutamento e di partecipazione attiva all’ideologia jihadista è vissuto, dai potenziali miliziani come un iter formativo volto a recuperare l’identità smarrita, quella degli antenati, e a ritrovare le proprie origini e le proprie tradizioni nei campi di addestramento in territorio musulmano, sviluppando e via via consolidando una spinta motivazionale alla jihad. L’applicazione di schemi interpretativi basati sull’interrelazione delle diverse cause del terrorismo jihadista (religiose, storico-politiche, geostrategiche, sociali ed economiche) presenta l’indubbio vantaggio di chiarire in maniera efficace la comprensione di alcuni recenti e positivi accadimenti come la marginalizzazione del fenomeno qaedista in Afghanistan oppure la tendenza all’arretramento, si spera definitivo, di Al Qaeda in Irak o ancora le difficoltà incontrate da AQMI (Al Qaeda nel Maghreb Islamico) ad imporsi in Nordafrica 19 . Un tale approccio di analisi indica che il terrorismo di matrice jihadista, nonostante il suo crescente grado di pericolosità ed imprevedibilità, può essere sconfitto, soprattutto attraverso il concorso delle forze 19 In Afghanistan, la presenza dei Talebani e di Al Qaeda non ha attecchito perché i principi religiosi di Al Qaeda non sono stati accettati dalle confessioni e dalla tradizione religiose afgane. Le differenze fra Wahhabismo e Deobandismo sono notevoli e possono spiegare perché il Wahhabismo, nonostante la pressione saudita, abbia sempre avuto poco successo in Afghanistan. In realtà il Wahhabismo, a differenza del Deobandismo, non aderisce alla regola hanafita cui si riferisce la grande maggioranza del popolo afghano, non riconosce la via interiore alla religione e quindi alle confraternite sufi cui si ispira, invece, la religiosità afghana, né ammette l'omaggio ai luoghi di culto, ai mausolei delle reliquie, considerati dal Wahhabismo come pratica idolatrica pre-islamica. Per chi avesse voluto controllare l'Afghanistan attraverso il Wahhabismo la strada era quindi preclusa. Un compromesso, invece, con gli insegnamenti del Deobandismo avrebbe portato diritto nel cuore dell'Afghanistan pashtun. Chi avesse voluto controllare l'Afghanistan dall'esterno e non vi fosse riuscito per altra via avrebbe potuto trovare negli studenti pashtun delle scuole deobandi il modo per penetrare nel cuore delle valli e delle montagne dell'Afghanistan. Sarà questa la via prescelta dal Pakistan di Benazir Buttho nel 1993, dopo l'evidente fallimento della via di penetrazione rappresentata dal partito islamista pashtun Hezb-i Islami di Gulbuddin Hekmatyar (Partito di tendenza sunnita islamista –termine che vuole indicare la costituzione di un nuovo sistema politico mai esistito in nessun paese di tradizione sunnita– rispetto a quello di tendenza “fondamentalista” che indica, invece, solo la volontà di introdurre il rispetto della Sharia). In Irak, oltre che per l’affermarsi dell’azione militare e delle forze di polizia della coalizione internazionale, l’avvio alla normalizzazione e alla ricostruzione del Paese è stato reso possibile anche dall’avversione degli sciiti irakeni per Al Qaeda in campo istituzionale che ha lasciato più ristretti spazi ai miliziani qaedisti. Infine, le difficoltà di AQMI in Nordafrica sono principalmente attribuibili ai successi delle autorità governative e delle forze di polizia nel contrasto del terrorismo, specie in Algeria. 8 moderate, interne ed esterne al mondo arabo-musulmano, ridimensionando in tal modo la portata apocalittica, l’ineluttabilità storica ed il determinismo di alcuni modelli interpretativi alquanto pessimisti in merito all’evoluzione di alcuni recenti avvenimenti storico-politici e geostrategici (come per esempio, la questione nucleare iraniana e le dinamiche interne al regime di Teheran). 2. Evoluzione della minaccia terroristica prima dell’11 settembre 2001 Con la fine del colonialismo, il gioco delle due superpotenze, Usa e Urss nello scacchiere geostrategico dei paesi a cultura e tradizioni islamiche ha caratterizzato buona parte della seconda metà del XX secolo, almeno fino al 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, intrecciando elementi geo-politici (riconducibili sostanzialmente al progressivo instaurarsi di regimi autoritari nella Penisola araba e nel Maghreb nonché all’inasprirsi del conflitto israelo-palestinese) ed elementi politico-militari correlati alla logica di forte contrapposizione tra i due blocchi. La base ideologica del terrorismo a matrice jihadista è rappresentata, come osservato in precedenza, dal Salafismo, una ideologia che propugna il ritorno ad una società ispirata all’Islam puro, non contaminato. Questo richiamo ideologico non è entrato in conflitto, inizialmente, con i regimi autoritari al potere nei paesi arabi, che, in vario modo, interagivano con le due ideologie “ laiche “contrapposte, quella delle democrazie occidentali, da un lato, e del marxismo, dall’altro. In verità il conflitto è esistito, in particolare in Egitto, ma la combinazione di azioni repressive (basti pensare alla politica repressiva messa in atto da Nasser nei confronti dei Fratelli Musulmani) e della utilizzazione ad uso interno del problema israelo-palestinese è riuscita a gestire il contenzioso in maniera efficace. Naturalmente, come sempre la storia insegna, la repressione riesce a contenere i fenomeni ma contestualmente contribuisce a svilupparne le forme più estreme: è appunto contestualmente alla repressione di Nasser che acquista maggior presa all’interno dei Fratelli musulmani, un gruppo estremista, ispirato al pensiero di Sayyd Qutb 20 , che, preso atto del fallimento delle due ideologie “laiche “, indicava nell’Islam la soluzione di tutti i problemi e individuava nella sovversione dei regimi autoritari al potere il mezzo per realizzare quell’ideale di società. Nonostante la maggior parte dei Fratelli Musulmani non fosse d’accordo con il qutbismo e nonostante le concessioni politiche fatte da Sadat nei confronti dei Fratelli Musulmani, questo gruppo radicale, che assunse il nome di “Jihad”, continuò a svilupparsi: esso è stato responsabile dell’attentato a Sadat e di esso, nel 1979, è entrato a far parte Ayman al Zawahiri 21 . L’assassinio di Sadat decreta la fine del panarabismo e di tutte le istanze laiche. Il 1979 rappresenta uno spartiacque anche per un altro avvenimento: la fuga dello scià e la presa del potere di Khomeyni di ritorno da un lungo esilio durato 16 anni, e la contestuale instaurazione di una Repubblica islamica in Iran. Khomeyni divenne la guida spirituale (anche in virtù della sua riconosciuta qualifica di marja‘ al-taqlīd , ossia esempio buono e giusto da imitare da parte dei dotti mullah) e, di fatto, il totale autocrate del Paese. 20 Sayyid Qutb (1906-1966), sunnita, è il fondatore del giornale “Il pensiero nuovo”, specchio della sua crescente ideologia nazionalista, in polemica col persistere dell'influenza britannica nel suo paese, terminata ufficialmente con la nazionalizzazione del canale di Suez nel 1956. Entrato a far parte del movimento dei Fratelli Musulmani ne diventerà presto uno dei massimi esponenti e ideologi. E’ con Sayyid Qutb – principale riferimento ideologico di tutti i movimenti islamisti sunniti successivi – che termini come Jihad (guerra santa), Jahiliya (stato di barbarie, politeismo e degrado morale che caratterizzava l’Arabia preislamica) e Hakimiyya (sovranità esclusiva di Dio in nome della quale il popolo ha il diritto-dovere di rovesciare il governo empio) entrano nel linguaggio comune dei movimenti islamisti. Nel 1954, dopo l'attentato a Nasser, il movimento dei Fratelli Musulmani sarà sciolto d'autorità e alcuni dei suoi membri, tra i quali Qutb stesso, verranno incarcerati. Durante gli anni di prigionia egli scrive due opere molto significative: “All'ombra del Corano”, un commentario coranico alla luce della sua ideologia e “Pietre miliari”, base teorico-ideologica per il moderno Islam politico di orientamento fondamentalista. Qutb viene rilasciato nel 1964, ma la sua libertà durerà appena otto mesi. Infatti viene nuovamente arrestato nell'agosto del 1965, accusato di progettare un nuovo colpo di stato. Accusa fatta scaturire dalla pubblicazione delle Pietre miliari, opera in cui egli accusa apertamente tutte le società dell'epoca, anche quelle che si dichiarano islamiche, di essere "preislamiche", ovvero appartenenti alla cosiddetta Jāhiliyya. Questo concetto, applicato a una società islamica come l'Egitto dell'epoca, implica necessariamente l'accusa di apostasia rivolta direttamente al capo della società stessa, là dove il reato di apostasia, secondo il diritto islamico, è punito senza eccezioni con la pena di morte. Le accuse mosse a Qutb culminano in un processo dalla vastissima ripercussione mediatica. Condannato a morte assieme ad altri sei membri dei Fratelli Musulmani, verrà giustiziato il 29 agosto 1966 tramite impiccagione. 21 Medico egiziano, numero 2 di Al Qaeda. 9 In questo contesto temporale, si colloca anche l’altro avvenimento che ha pesantemente contribuito alla nascita del terrorismo di matrice jihadista: la invasione sovietica dell’Afghanistan. Gli avvenimenti sono ampiamente noti così come la partita giocata dalle due superpotenze in tale occasione. Quello che preme in questa sede sottolineare è l’effetto finale: un paese consegnato ad un regime integralista, quello dei Talebani; una generazione di miliziani ben addestrati, fortemente ideologizzati, prevalentemente autoctoni e provenienti in parte dalle aree tribali al confine tra Pakistan e Afghanistan 22 , formati nelle madrase e supportati da una figura carismatica, Osama bin Laden. Osama aveva finanziato e diretto il reclutamento e l’addestramento dei Mujiaeddin, imponendosi alla loro attenzione e venerazione, aiutandoli e indirizzandoli anche dopo la fine della esperienza afghana e facendo di loro il nucleo originale di una nuova sigla terroristica, Al Qaeda. Preme qui sottolineare che, sino alla metà degli anni ’90, il terrorismo di matrice jihadista, e segnatamente quello del GIA algerino che in quegli anni teneva la scena, continuava ad avere una caratterizzazione sostanzialmente “nazionale”. Solo nella seconda metà degli anni ’90 ha incominciato a prendere corpo il tentativo di Al Qaeda di porre le basi per un coordinamento delle varie sigle. E’ in questo periodo che il terrorismo jihadista si è sviluppato e che Al Qaeda ha posto solide basi organizzative al suo funzionamento. Occorre, inoltre, considerare che in questo periodo Osama bin Laden non disponeva ancora di un “safe haven”, era stato espulso dall’Arabia Saudita, dove era tornato alla fine della esperienza Afghana e aveva svolto attività anti governative, si era rifugiato in Sudan, da dove, però, era stato espulso nel 1994. Nel 1996 Osama bin Laden trova ospitalità nell’Afghanistan dei Talebani ed è a partire da questo momento che Al Qaeda subisce il suo più significativo sviluppo organizzativo, culminato nel 1998, con la dichiarazione di guerra nei confronti dei crociati e degli ebrei, che segna una definitiva svolta delle istanze terroristiche di matrice jihadista. Il terrorismo islamico assume una configurazione globale, soprattutto attraverso la chiamata a raccolta di tutto il mondo musulmano e l’indicazione precisa del nemico comune, l’Occidente cristiano e Israele, colpevoli o di occupare territori islamici, o di spalleggiare regimi autoritari in paesi islamici, corrompendoli e facendoli deviare dall’ideale di vita dettato dalla religione islamica, attraverso l’introduzione di modelli di vita occidentale. Sino a quel momento non esistevano, peraltro, consolidate evidenze di un successo nello sviluppo della attività di coordinamento da parte di Al Qaeda: esistevano, comunque, elementi informativi che indicavano la presenza di forme di coordinamento già operanti fra terroristi presenti in differenti paesi (non necessariamente appartenenti a sigle differenti), in termini di mutuo supporto logistico. La cosa più significativa era, però, che Al Qaeda, nonostante tutto, non era ancora percepita in tutta la sua pericolosità: tale sottovalutazione si è fortemente attenuata dopo gli attentati alle ambasciate USA in Tanzania e in Kenya 22 L'Afghanistan e la provincia del Nord-Ovest occuparono un ruolo importante per gli ulema di Deoband che creeranno una serie di madrasa lungo la frontiera afgano-pakistana ove si formerà il corpo degli ulema Afghani. Dopo l'indipendenza del Pakistan nel 1947, il centro di formazione degli studenti afghani di teologia si spostò dall'India al Pakistan dove importanti rappresentanti della scuola di Deoband aprirono una serie di madrasa a Lahore, Karachi e Akora Khattak nella Provincia di frontiera pashtun del Nord-Ovest (NWFP). In seguito tali scuole si moltiplicarono allo scopo di formare gli studenti afghani. II movimento Deobandi, che non aveva incontrato un sostegno veramente popolare in Afghanistan, anche per la netta opposizione opposta dell’amir Habibullah (1908-1919), desideroso di mantenere buoni rapporti con il vicino britannico e del suo successore riformista Amanullah Khan (1919-1929) si estese rapidamente nel nuovo Pakistan dando vita ad un partito politico, il Jamiat-e-Ulema Islam (JUI). Nel 1967, al momento del primo centenario della fondazione della scuola di Deoband, si calcolava in novemila unità il numero delle madrasa deobandi esistenti nell'Asia del sud-est. Negli anni '70 si assisteva ad un flusso continuo di studenti afghani che viaggiavano fra l'Afghanistan e il Pakistan per ricevervi una educazione religiosa. I principali centri di formazione erano quelli di Peshawar, Lahore, Karachi, oltre a centri minori sparsi fra la NWFP e il Beluchistan. Con l'invasione sovietica dell'Afghanistan e la politica di islamizzazione del paese proposta dal generale pakistano Zia Ul-Haq (1977-1988), il numero di scuole deobandi esistenti in Pakistan aumentò enormemente sino a raggiungere diverse migliaia di unità (stimate in ottomila ufficiali e venticinquemila non ufficiali, con oltre mezzo milione di studenti). In tali scuole, grazie al supporto del JUI, i bimbi dei numerosi campi profughi afghani sulla frontiera o provenienti dagli strati più poveri della popolazione pakistana trovavano cibo, alloggio, formazione gratuita e preparazione militare. Con questa moltiplicazione improvvisa, le madrasa deobandi avevano perduto il livello originario, erano spesso dominio di mullah (cultore delle scienze religiose musulmane, in Afghanistan, comunemente, il religioso del villaggio) quasi illetterati che conoscevano ben poco dei fondamenti originali del deobandismo. L'appoggio finanziario saudita costituiva poi un vincolo condizionante che spingeva il contenuto dell'insegnamento verso i principi del Wahhabismo, nonostante le profonde differenze originali. Inoltre, l'interpretazione della sharia era pesantemente influenzata dal codice tribale pashtun, il pashtunwali. 10 nel 1998, ma soprattutto dopo l’attentato alla USS Cole nel porto di Aden nel 2000 ed il devastante attentato alle Twin Towers nel 2001. 3. L’evoluzione della minaccia terroristica dopo l’invasione dell’Afghanistan e la guerra in Irak L’attacco USA nei confronti dell’Afghanistan (novembre 2001) e la successiva invasione dell’Irak (2003) hanno contribuito a modificare radicalmente lo scenario esistente al momento dell’attentato alle Twin Towers. Tali modificazioni possono essere schematicamente riassunte come segue: • Al Qaeda ha subito un duro contraccolpo organizzativo e militare, sicuramente non ancora assorbito, anche per i concomitanti effetti prodotti dall’intelligence e dalle forze di sicurezza multinazionali contro obiettivi mirati, le cui dimensioni e i cui risultati non sono noti 23 ; • i rapporti fra Talebani e Al Qaeda non si sono interrotti, anzi, se possibile si sono rafforzati e complicati, contribuendo all’ingenerarsi di una situazione in cui è possibile che sia vero tutto e il contrario di tutto, per l’intersecarsi di attività terroristiche che, nell’immaginario collettivo, vengono globalmente attribuite, in modo diretto o come ispiratrice, ad Al Qaeda: la globalizzazione del terrorismo di matrice jihadista è un fatto compiuto, perlomeno in termini virtuali ; • gli attacchi terroristici si sono concentrati soprattutto in Afghanistan 24 , in Irak e successivamente in Pakistan: le loro dimensioni, la loro frequenza ed intensità, l’impossibilità di definirne la matrice, la consolidata idea che, in qualche modo, Al Qaeda metta lo zampino dappertutto sono tutti fattori che hanno fatto da cassa di risonanza. Essi contribuiscono a suggerire all’opinione pubblica ( in particolare a quella araba) un’immagine di forza e di imbattibilità, che, se non contrastata, può costituire il naturale humus per l’intensificazione del reclutamento: il successo è sempre molto attrattivo. In termini di risultato, quindi, Al Qaeda ha raggiunto il suo massimo fulgore nel momento in cui la sua organizzazione è al minimo della sua efficacia; • si è registrato anche un complessivo incremento di attentati terroristici in diversi paesi islamici o a maggioranza islamica (attacchi spesso diretti contro obiettivi politici specifici e con gran parte delle vittime tra i musulmani), con una geografia sempre più estesa e in continua espansione: si tratta di attentati nei quali Al Qaeda sembra operare come una compagnia di franchising, una immagine che si avvicina molto all’effettiva realtà. A questo proliferare di attentati ha corrisposto un proliferare di sigle riconducibili ad Al Qaeda: è nato AQMI (Al Qaeda nel magreb islamico, che è una mutazione della sigla terroristica Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento), ADAO (Al Qaeda in Africa orientale ), AQI (Al Qaeda in Irak), AQAP (Al Qaeda nella penisola arabica ). 23 Le stime più pessimistiche dell’intelligence sul campo contano tra 7.000 e 11. 000 le unità ribelli talebane, mentre Al Qaeda è stimato fra 1.200 e 2.500 uomini. Le stime dell’intelligence sui talebani concordano con la media di quelle riportate dalle fonti aperte. Esse vanno da circa 10.000 combattenti di cui meno di 3000 sarebbero a tempo pieno (secondo il Council on Foreign Relations, cfr. Greg Bruno, The Taliban in Afghanistan, 3.8.2009) ad un numero compreso tra i 10.000 e i 15000 combattenti citato dal Ministro degli Interni afgano Mohammad Hanif Atmar e riportato da Time (An Afghanistan exit strategy: buying off the taliban? 14.8.2009). Le stime su Al Qaeda riguardano anche i sospetti simpatizzanti. Quelle reali sarebbero ancora più imbarazzanti. Secondo ABC News del 2.12.2009 l’intelligence statunitense avrebbe riferito al presidente Obama che in Afghanistan non esistono più di 100 membri affiliati ad al Qaeda (President Obama’s secret: only 100 al Qaeda now in Afghanistan). 24 Nel periodo 2001-2004, in Afghanistan i gruppi terroristici avevano, tutto sommato, mantenuto un basso profilo. Dal 2005, gli attentati hanno subito un sensibile incremento anche attraverso l’utilizzo di attentatori suicidi, una modalità mutuata dal conflitto iracheno unitamente alle tecniche dell’attentato con esplosivi. Inoltre, gli attentati si sono trasferiti dalle zone rurali e periferiche ai centri urbani importanti, in primis Kabul, al fine di massimizzare la visibilità mediatica vista la grande abilità di questi gruppi nell’utilizzo di Internet. Sul piano operativo, i terroristi spesso fanno arrivare in città gruppi di attentatori suicidi, li rendono “dormienti”, riuscendo a fare attentati anche nella stagione invernale, quando gli spostamenti territoriali sono impossibili. L’altro fenomeno abbastanza recente è che le modalità di attuazione dell’attentato suicida si basano su una combinazione strutturata di azione e movimento (come nel caso dell’omicidio dell’agente dell’AISE, Antonio Colazzo o nell’attentato occorso ai militari italiani a bordo del blindato “Lince” nel novembre del 2009). 11 In conclusione ci troviamo di fronte ad un terrorismo che ha acquisito una credibilità ed una rilevanza mediatica forse superiori, in termini di consolidamento a quella registrata nel post 11 settembre 2001, che si sta espandendo a macchia d’olio (e in direzioni precedentemente non esplorate): se da un lato tale espansione diluisce la sua specifica potenzialità, dall’altro rende possibile alimentare un conflitto permanente, di logoramento, ovunque e comunque, di difficile contrasto. 4. L’evoluzione dello scenario globale e nazionale nel periodo 2009-2010 4.1. Lo scenario internazionale Il fenomeno del terrorismo jihadista ha interessato sin dal suo apparire la regione del Golfo Persico così come la regione caucasica e l’area balcanica, e si è fortemente caratterizzato per una estrema variabilità geografica che rende praticamente impossibile una sua rappresentazione unitaria ed una semplificazione delle dinamiche causali che determinano l’azione dei gruppi terroristici. Nell’ultimo biennio, in ambito internazionale, i gruppi estremisti, che combattono sia contro i governi locali ritenuti apostati sia contro l’“invasore occidentale”, hanno proseguito la propria campagna offensiva nelle tradizionali aree di crisi. Tale minaccia, supportata dalla spinta motivazionale che accomuna le varie realtà insurrezionali, è rappresentata dal desiderio di contrastare i valori occidentali per costituire una nuova società fondata sui dettami della sharia. Articolando l’analisi per regione, è possibile rilevare come la zona afghano/pakistana, stante l’alto livello di instabilità sul piano politico oltre che della sicurezza: • ha guadagnato una posizione di primazia tra i vari fronti di battaglia jihadisti, soprattutto a seguito dell’avvio, il 30 giugno 2009, del programmato ritiro delle forze statunitensi dall’Irak 25 ; • si conferma tuttora, nonostante alcune tendenze evolutive, destinazione privilegiata dai volontari mujahidin che, partendo sia dai Paesi musulmani che da quelli occidentali, raggiungono quel teatro di crisi al fine di ricevere addestramento specifico alla jihad 26 ; • è territorio di ripetuti attacchi da parte della guerriglia Taliban contro i contingenti militari internazionali impiegati in area nell’ambito della missione ISAF, NATO, compreso quello italiano, e obiettivi occidentali in generale 27 ; • in particolare, ha sperimentato una significativa intensificazione del numero e della gravità degli attentati in Pakistan, rispetto al quale la politica statunitense ha maturato l’orientamento a considerare Afghanistan e Pakistan come un unico teatro di operazioni 28 Di contro, il fronte irakeno ha registrato un minor afflusso di miliziani stranieri, ma è rimasto, comunque, un importante punto di riferimento e una primaria fonte di ispirazione on line per le “reclute” in Occidente (tra cui giovani musulmani homegrown e convertiti), grazie all’ininterrotta attività terroristica (anche in chiave anti-sciita) e di propaganda del ramo locale di Al Qaeda, lo Stato Islamico Irakeno, e della formazione alleata Ansar al-Islam. 25 In seguito all’approvazione, il 27 novembre 2008, dello Status of Forces Agreement (Sofa), da parte del Parlamento irakeno, è iniziato il graduale ritiro delle forze di sicurezza statunitensi dal teatro di crisi che dovrebbe concludersi il 31 dicembre 2011. 26 In particolare le reclute svolgerebbero tuttora cicli addestrativi dedicati al confezionamento e all’impiego di ordigni esplosivi artigianali, nonché all’impiego di tecniche di comunicazione, dirette ad avviare una campagna di propaganda ed attività di proselitismo tra le fasce più giovani ed influenzabili della popolazione. 27 Come l’attacco a Kabul del 26 febbraio 2010 contro un'area frequentata da stranieri che ospita diversi hotel, tra cui il Safi Landmark ed il centro commerciale Kabul City Center. Nel corso dell’attacco, come già rilevato in precedenza, basato su una combinazione strutturata di azione e movimento, è rimasto ucciso anche l’agente dell’AISE, Antonio Colazzo, cliente del Park Hotel, insieme con altre 17 persone. 28 La Casa Bianca ha nominato un comune rappresentante sia per l’Afghanistan che per il Pakistan. Secondo Washington, i pakistani potrebbero essere portati a considerare la definitiva stabilizzazione dell’Afghanistan come una minaccia ai propri interessi nazionali e al proprio ruolo di potenza regionale nell’area. Infatti, i pakistani hanno sempre considerato l’Afghanistan come un proprio “retroterra” in caso di confronto con l’India. L’ampliamento dell’ambasciata Usa in Pakistan, la presenza delle compagnie militari private in quel Paese e l’incremento degli attacchi in Beluchistan rapresenterebbero tutti elementi del nuovo approccio statunitense relativo all’area AfPak e quindi un mezzo teso al coinvolgimento del Pakistan nella stabilizzazione dell’Afghanistan. 12 Nello scenario maghrebino, l’organizzazione di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI) ha ribadito la propria operatività in Algeria ed in tutta la regione nordafricana, assumendo crescente rilievo soprattutto nella fascia sahelo-sahariana, particolarmente in Mauritania e Mali, dove, insieme con i traffici criminali che garantiscono finanziamenti all’organizzazione, sono proseguiti gli attacchi contro obiettivi militari ed i sequestri di turisti e lavoratori occidentali. Tra questi si rammenta il rapimento al confine tra Mauritania e Mali, il 18 dicembre 2009, dei due coniugi italiani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, successivamente rilasciati in data 17 aprile 2010. Il sequestro di persona è stato rivendicato dall’organizzazione 29 come una risposta ai “crimini compiuti dal Governo Berlusconi contro l’Islam ed i musulmani in Afghanistan e in Irak” 30 . Il continente africano rappresenta un ulteriore area di riposizionamento di miliziani e terreno in cui Al Qaeda tenta di guadagnare all’opzione internazionalista le varie espressioni islamiste locali (in questo senso vanno interpretati i tentativi di AQMI di mantenere la tensione elevata in Algeria, di darsi una dimensione ultraregionale ed il processo di “mauritanizzazione”). Tuttavia, nello stesso tempo, si registrano anche significative difficoltà di Al Qaeda ad imporsi come federazione qaedista in Nordafrica. Nonostante gli scontri intestini registrati nella compagine antigovernativa tra i gruppi al-Shabaab ed Hizb-ul-Islam, la Somalia si è sempre più affermata come teatro di jihad e safe-haven per l’addestramento jihadista, in grado di attirare volontari provenienti anche dall’Occidente 31 . Segnali di un ulteriore rilancio dell’iniziativa jihadista a partire da Paesi arabi, si sono poi manifestati con la costituzione ufficiale in Yemen, nel gennaio 2009, dell’organizzazione di Al Qaeda nella Penisola Arabica - AQAP 32 , seguita da alcune azioni dirette soprattutto contro target occidentali, come testimoniato dal fallito attentato sul volo di linea Amsterdam-Detroit del 25 dicembre 2009, da parte di un giovane nigeriano addestratosi tra le file della stessa formazione terroristica, la quale ne ha poi rivendicato l’azione sul Web 33 . Analoghe situazioni di pericolo possono ravvisarsi in India, al centro di mai sopite conflittualità politiche ed etnico-religiose interne e con il Pakistan 34 , ed in Bangladesh, che rischia di diventare un “paradiso sicuro” per le numerose organizzazioni terroristiche che vi operano da più di dieci anni con il comune obiettivo di costituire uno Stato islamico. 29 Inizialmente il 27 dicembre attraverso un messaggio-audio inviato all’emittente satellitare al-Jazeera ed, in seguito, il 31 dicembre, in un comunicato pubblicato sui web forum jihadisti, diffuso da al-Fajr e confezionato da “al-Andalus”, la nuova casa di produzione televisiva dell’”Emirato qaedista maghrebino”. 30 Si rammentano nell’occasione anche: • il sequestro rivendicato da AQIM nel gennaio 2009 di quattro turisti europei - due svizzeri, un tedesco e un britannico - al confine tra Mali e Niger. Uno svizzero ed il tedesco sono stati liberati in aprile, il britannico è stato ucciso alla fine di maggio, mentre il secondo svizzero è stato liberato, a luglio, a seguito del pagamento di un riscatto; • il rapimento, il 25 novembre, in Mali, di un botanico francese, che si trovava nel Paese per studiare il possibile uso di piante locali per la cura della malaria; • il sequestro il 29 novembre, in Mauritania, di tre cittadini spagnoli appartenenti ad un’organizzazione nongovernativa. 31 Nel Corno d’Africa si è registrata una persistente situazione di grave destabilizzazione dovuta al ruolo dei movimenti radicali islamici Al Shabaab e Hizb Al Islam che si contrappongono al Governo Federale di Transizione (GFT) e al suo alleato il movimento filogovernativo Al Sunnah wal Jam’ah di orientamento moderato. Al Shabaab in particolare punta ad ottenere il riconoscimento di avamposto regionale di Al Qaeda, da tempo alla ricerca di una nuova zona franca per l’allargamento della propria piattaforma territoriale. Inoltre, in tale quadrante, va registrata la presenza di cellule esogene tra i miliziani, nelle cui file si ritrovano volontari provenienti dall’Europa e potenzialmente utilizzabili per la progettazione di attacchi terroristici nello scenario europeo. In prospettiva, l’attivismo jihadista può trovare anche possibilità di espansione nella endemica crisi politica e socioeconomica del Sudan caratterizzato da uno stato di particolare fragilità. 32 Presentatasi con la diffusione di un comunicato dal titolo “Da qui iniziamo e alla moschea di al Aqsa ci incontreremo”, apparso sui siti Internet jihadisti nel gennaio 2009. 33 L’attentato del giovane nigeriano Abdulmutallab, incriminato per aver tentato di far saltare in aria il volo Delta 253 alla fine del 2009, ha rilanciato l’allarme per la presenza di una cellula dormiente di Al Qaeda in Nigeria, un Paese che a causa della presenza di un grande numero di poveri, diseredati e giovani devotamente musulmani, potrebbe rappresentare un terreno di coltura ideale per l’estremismo violento antioccidentale. Anche se numerosi analisti restano scettici su qualsiasi collegamento tra musulmani nigeriani radicali e jihadisti globali, vi sono stati in passato diversi warnings, anche da parte degli Usa, in merito a potenziali attacchi contro le infrastrutture petrolifere del paese. 34 Si rammenta che, in relazione agli attacchi di Mumbai del 26-28 novembre 2008 (dalle cui indagini è emersa una “pista” che ricondurrebbe all’Italia una parte della pianificazione logistica), rimase ucciso anche un cittadino italiano. 13 Nell’area libano 35 -palestinese - attesa la perdurante centralità della questione mediorientale nella retorica islamista - si è intensificato l’attivismo di gruppi salafiti-jihadisti36 ed il connesso afflusso di miliziani da altri territori, incrementando così sia la minaccia nei confronti del contingente UNIFIL ivi dispiegato sia il pericolo di proiezioni esterne di gruppi terroristici finora impegnati solo in quel quadrante. Zone marcatamente “sensibili”, infine, rimangono: - la regione del Golfo Persico, dove l’Iran - già indicato, in passato, quale rifugio per alcuni esponenti di Al Qaeda - ha continuato negli ultimi anni ad emergere all’attenzione in quanto snodo di transito per volontari mujahidin, che, partiti dall’Europa, aspirano a raggiungere il teatro afghano-pakistano, nonché quale base logistica per elementi intranei a network estremisti (composti da soggetti di etnia curda), coinvolti nel supporto di formazioni estremiste attive nella guerriglia irakena (nello specifico Ansar al-Islam), con collegamenti anche in territorio europeo; - il Caucaso, dove l’Emirato Islamico del Caucaso 37 ha moltiplicato gli attacchi contro interessi russi ed obbiettivi istituzionali locali, con diversi sequestri di funzionari civili e di elementi delle Forze dell’ordine, incitando, attraverso una fiorente e martellante propaganda jihadista diffusa su Internet, i mujahidin ad attuare azioni terroristiche anche al di fuori della regione. Nell’ultimo anno l’Emirato del Caucaso ha rivendicato almeno cinque attentati importanti: a) un attacco contro il presidente dell’Inguscezia Yunus-bek Yevkurov e la sua scorta; b) l’esplosione avvenuta nella diga siberiana di Sayano-Shushenska, che mise fuori uso le turbine e provocò 74 vittime; c) l’assassinio di un prete ortodosso a Mosca nel novembre 2009; d) l’esplosione del treno Nevsky Express, in cui sono rimaste uccise 30 persone; e) l’attentato suicida del 29 marzo 2010 nella metropolitana di Mosca, quando due donne si fecero saltare in aria provocando 40 vittime. - la fascia balcanica, dove l’Italia partecipa a diverse missioni internazionali NATO e UE, per la presenza di ex-mujahidin veterani della guerra nella ex Yugoslavia dei primi anni ’90; il complesso e spesso conflittuale intreccio di istanze nazionalistiche, etniche e religiose; i traffici di armi, merci di contrabbando e stupefacenti, in cui sono spesso coinvolti elementi delle comunità dell’Est Europa stanziati nel nostro Paese (provenienti da Ucraina, Moldavia e Turkmenistan), alcuni attestati su posizioni estremiste; - la fascia nord-occidentale della Cina (regione dello Xinjang), dove l'esistenza dello jihadismo in versione uigura, è testimoniato dalla presenza di militanti di quell'etnia, legati ai Talebani e a Al Qaeda, in Afghanistan e Pakistan, e persino a Guantanamo, oltre che dagli attentati del 2008, in occasione delle Olimpiadi cinesi, a Kashgar e nello Yunnan 38 ; 35 Dove l’Italia tuttora partecipa con un proprio contingente alla missione UNIFIL 2. L’attivismo di tali gruppi estremisti, presenti principalmente nel campo profughi di ‘Ayn el-Helwe (Sidone, 40km a sud/sud ovest della Capitale) è dimostrato dai numerosi arresti compiuti nei mesi scorsi dalle Forze di sicurezza libanesi. Si ricorda, a titolo di esempio, l’operazione del 21 luglio 2009, che ha portato all’arresto di dieci membri di una cellula legata a Fatah al-Islam, organizzazione militante che, nel 2007, ha combattuto per 15 settimane contro i militari libanesi nel campo profughi palestinese di Nahr el-Bared, e che progettava una serie di attacchi contro i militari di Beirut e i soldati dell’Unifil. 37 L’Emirato del Caucaso è stato creato – ed è tuttora guidato – da Doku Umarov, un veterano della prima e della seconda guerra cecena. Nell’ottobre del 2007, Umarov annunciò la fondazione dell’Emirato del Caucaso (erede della Repubblica Cecena di Ichkeria, di cui nel 2006 Umarov si era proclamato presidente, entità statale mai riconosciuta dal governo ceceno) e si è autoproclamato emiro rifiutandosi di accettare leggi e confini russi e annunciando l’adozione della sharia. Il nuovo Emirato comprende non solo la Cecenia, ma anche Daghestan, Inguscezia, Ossezia settentrionale e altre aree musulmane più a Nord. Allora Umarov dichiarò che la costituzione dell’Emirato avrebbe richiesto l’uso della forza, e chiamò a raccolta gli Islamici per cacciare fuori i Russi dai territori musulmani. Più volte le autorità russe e cecene hanno annunciato la sua morte, ma Umarov continua a rivendicare in video gli attentati contro obiettivi russi. Nell’aprile del 2009, Umarov ha rilasciato un’altra dichiarazione in cui difendeva gli attacchi contro i civili e invitava a lanciare attacchi in territorio russo. 38 In Cina i musulmani sarebbero 30 milioni residenti in numerosi punti nevralgici sul piano economico del Paese asiatico. Gli Hui sono una delle minoranze più numerose con una popolazione di circa 20 milioni. La combinazione tra immigrati islamici e cinesi Han ha comportato una singolare sinizzazione: l’uso del mandarino, la moda e anche lo stile architettonico delle moschee che si ispira alle pagode cinesi. Sebbene comunità Hui si possono rinvenire un po’ dappertutto in Cina, i restanti 10 milioni di musulmani sono divisi in un gruppo indoeuropeo ed in otto gruppi di origine turca stanziati prevalentemente nelle regioni nordoccidentali in particolare nello Xinjang. Il più importante e numeroso è quello degli Uiguri. A differenza degli Hui questi gruppi preferiscono evitare elementi dell’Islam cinese per seguire un 36 14 - l’area del Sud-est asiatico (con particolare riferimento a Indonesia, Filippine e Malesia), nonostante i successi conseguiti dalle forze di polizia indonesiane, a partire dal 2005 in poi, contro Jamaah Islamiyah e nonostante il 17 settembre del 2009, le forze di sicurezza indonesiane abbiano ucciso Noordin Mohammad Top ritenuto uno dei responsabili della pianificazione dei principali attentati verificatisi in Indonesia a partire dal 2002, sia nell'isola di Bali (ottobre 2002 e ottobre 2005) sia a Jakarta (Hotel Marriott, nell'agosto 2003, ed Ambasciata australiana nel settembre 2004) 39 . modello più vicino alle correnti islamiche del resto del mondo. Secondo Renzo Guolo (cfr. articolo “Il terrorismo islamico in Cina risvegliato dalle Olimpiadi”, in la Repubblica, del 12 agosto 2008) “dopo l' implosione dell’Urss, Pechino ha cercato di contenere le aspirazioni a uno stato uiguro riemerse nell'area anche attraverso il Gruppo di Shanghai, l'organizzazione formata da Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, che ha ufficialmente tra i suoi obiettivi anche quello di «contenere la minaccia islamista» nella regione. Dopo l’11 settembre, lo scudo della «guerra al terrore» ha consentito alla Cina di contrastare, senza troppi problemi, il nascente radicalismo transfrontaliero, favorito dagli oltre cinque mila chilometri di frontiera dello Xinjang: un Paese nel Paese che confina con il tormentato Pakistan delle province del Nordovest, con l' Afghanistan, con Tagikistan, Kirghizistan e Kazakistan. Uno scudo che ha permesso di intensificare anche la repressione delle istanze autonomiste dello Xinjang, divenute in blocco, indistintamente, sinonimo di «terrorismo separatista». L'esistenza dello jihadismo in versione uigura, testimoniato dalla presenza di militanti di quell' etnia, legati ai Taliban e a Al Qaeda, in Afghanistan e Pakistan, e persino a Guantanamo, oltre che dagli attentati a Kashgar e nello Yunnan (nel 2008, in occasione delle Olimpiadi cinesi, ndr), è realtà difficile da negare. Ma Pechino nega a sua volta che l' assimilazione forzata e la dura repressione imposta nella regione, qui come in Tibet, alimentino una forte reazione identitaria. Reazione evidente non solo nella recente introduzione di simboli e pratiche religiose, estranei alla tradizione locale, come le scure coperte avvolgenti indossate dalle donne al posto degli introvabili e sospettabili niqab o burqa (…). Dottrine e ideologie di matrice jihadista animano il Movimento Islamico del Turkestan Orientale (Etim), e altre vengono veicolate da formazioni panislamiste come il transnazionale l' Hizb-e-Thair, che invoca uno Stato islamico dell’Asia Centrale che comprenda anche lo Sharqi Turkestan. Già alle prese con la complicata questione tibetana, il Governo cinese sperava che la questione dello Xinjang rimanesse sottotraccia”. La Cina, proprio per conferire un significativo impulso al contrasto delle istanze separatiste nella fascia nord-occidentale del Paese, è tra i membri più attivi del Gruppo di Shangai, un patto di carattere militare economico e di sicurezza, convocato per la prima volta nel 1996 e costituito da Cina, Russia, Tagikistan, Kazakistan, Kirghizistan e l’Uzbekistan. I sei Stati membri coprono un’area geografica di oltre 30 milioni di Km quadrati con una popolazione di oltre un miliardo e mezzo di persone, circa un quarto della popolazione mondiale. Partecipano agli incontri dell'organizzazione anche altri quattro paesi con lo status di osservatore: India, Iran, Mongolia, Pakistan. Dopo l'intervento degli Usa in Afghanistan, nel 2001, il gruppo dei Sei di Shanghai ha ribadito il suo impegno a combattere il terrorismo jihadista, l'estremismo religioso e il separatismo etnico. In particolare, i membri dell'Organizzazione di Shanghai cercano di contrastare l'indipendentismo della Cecenia e della Cina nordoccidentale e il Movimento islamico dell'Uzbekistan (Miu). E hanno deciso di creare un centro antiterroristico a Bishkek, nel Kirghizistan. Ma ben poco è stato fatto in realtà per combattere organizzazioni fondamentaliste quali il Miu o un partito estremista ben più organizzato come l'Hizb al Tahrir. Sul piano politico-religioso, i membri del gruppo di Shanghai si sono impegnati a rafforzare il controllo delle attività religiose, registrando le organizzazioni che le gestiscono, impedendo la loro ingerenza nella vita politica, consentendo la preghiera solo nelle moschee e confinando l'educazione religiosa nelle scuole autorizzate. Altre misure raccomandate comprendevano la revisione dei libri di testo, la messa al bando dei gruppi clandestini che diffondono il fondamentalismo, il divieto ai preti stranieri di svolgere un'attività missionaria non autorizzata nonché l'intensificazione delle operazioni antiterroristiche. Tutte queste attività militari e burocratiche non possono tuttavia nascondere il fatto che Pechino non si aspettava una così massiccia dimostrazione di forza militare da parte degli americani in Afghanistan e Irak. E secondo gli osservatori militari cinesi, la Cina ha difficoltà a comprendere, e tanto più a mettersi al passo con un esercito altamente tecnicizzato come quello americano. Dal punto di vista geopolitico, la Cina ha visto andare in fumo anni di lavoro impiegati a tessere un'alleanza guidata da Pechino in Asia centrale, per colpa di quella stessa organizzazione che ha distrutto il World Trade Center. Dopo l'11 settembre, in meno di tre mesi la Cina ha assistito al proliferare di basi aeree americane nel suo cortile di casa, in Afghanistan, nel Kirghizistan e in Uzbekistan, registrando inoltre un miglioramento senza precedenti dei rapporti fra Washington e il Pakistan, che gravitava da decenni nella sua orbita, e un riavvicinamento fra gli Usa e i due più grandi suoi vicini: India e Russia. E sebbene la riunificazione con Taiwan e l'interesse per il Mar Cinese Meridionale restino presumibilmente tra le priorità geostrategiche di Pechino, l'equilibrio di forze si è molto modificato a suo sfavore. La scelta fra la lotta contro il terrorismo o lo scontro con gli Stati Uniti nel Pacifico è un difficile dilemma che continuerà a tormentare la Cina nei prossimi anni. 39 Immediatamente, all’indomani degli attacchi terroristici dell'11 settembre, diverse fonti di intelligence rivelarono esplicitamente che molti componenti il commando terrorista avevano avuto contatti con esponenti di gruppi estremisti attivi nelle Filippine, in Malesia (utilizzata in passato come base di appoggio per una serie di attentati terroristici anti- 15 4.2. Gruppi terroristici di matrice jihadista su scala mondiale, attentati e vittime Di seguito, una mappa delle principali sigle terroristiche di matrice jihadista operanti a livello mondiale 40 . americani in Africa e in Medio Oriente) e soprattutto in Indonesia. L'Indonesia è lo Stato con la più alta percentuale di fedeli islamici che rappresentano circa l’88% di una popolazione che ha superato i 245 milioni di abitanti. La stabilità del Paese era stata seriamente minacciata da movimenti estremisti collegati al terrorismo internazionale, in particolare tra il 2002 e il 2005, quando erano stati organizzati i sanguinosi attentati a Bali e a Jacarta. Queste azioni erano state attribuite alla Jamaah Islamiyah, un movimento estremista affiliato ad Al Qaeda. Tra il 2005 e il 2007, l’azione dello stato riusciva a ridurre significativamente la capacità d’iniziativa dei movimenti terroristici di matrice jihadista. Questa azione repressiva culminava alla fine del 2007 nell’esecuzione di tre degli autori dell’attentato di Bali del 2002. In Indonesia, le componenti jihadiste sono duramente contrastate dalla “rete dell’Islam liberale” che sostiene un Islam aperto e tollerante. Ci sono teologi musulmani che proclamano il pluralismo religioso: i dipartimenti di religione delle grandi università islamiche statali (IAIN, UIN) sono luoghi in cui si insegna un Islam aperto al dialogo, mentre i veri fondamentalisti si trovano tra gli studenti, e soprattutto quelli di scienze esatte e tecniche, nelle grandi università statali laiche. 40 Per una più completa descrizione delle principali organizzazioni terroristiche si rimanda all’allegato 1 a pag.65. 16 La tabella 1 evidenzia il numero dei morti causati da attentati con più di 15 vittime, a livello planetario, nel periodo 1993-2010. L’analisi disaggregata dei dati per anno, mostra che, per quanto riguarda questa tipologia di attentati (più di 15 vittime), è il periodo compreso tra l’11 settembre 2006 ed il 10 settembre 2007 a far registrare il maggior numero di morti (5.570). Tabella 1 – Numero di morti causati da attentati terroristici con più di 15 vittime a livello planetario (periodo 1993-2010) - Punto 0 = 11 settembre 2001 Fonte: elaborazioni ICSA su dati del Center for Systemic Peace (www.systemicpeace.org) Disaggregando il dato e facendo riferimento al periodo compreso tra l’11 settembre 2008 ed il 10 settembre 2009, i Paesi dove si è registrato il maggior numero di vittime sono nell’ordine Irak, Pakistan, Afghanistan e India (tabella 2). Alcune fonti indicano che il numero degli attacchi terroristici su scala globale nel triennio 2007-2009 ha registrato una significativa flessione 41 . Come spiegare quindi che il numero delle vittime registrate nello stesso periodo permane piuttosto elevato (3.061 nel periodo 11.09.2007-10.09.2008, 2.582 nel periodo 11.09.2008-10.09.2009)? Il dato è probabilmente interpretabile soprattutto con l’affinamento delle tecniche di esecuzione dell’attentato terroristico: si registrano, infatti, sempre più attentati con esplosivo comandati a distanza (a controllo remoto). Inoltre, a partire dal 2003 in Irak, si è fortemente sviluppato il fenomeno degli attentatori suicidi, che, attraverso una combinazione strutturata di azione e movimento, condotta da più kamikaze che si fanno esplodere nel medesimo posto ma in momenti diversi, procurando un numero di vittime sempre più elevato 42 . Tabella 2 – Numero di morti causati da attentati con più di 15 vittime, per Paese (11.09.2008-10. 09.2009) Paese Irak Pakistan Afghanistan India Somalia Sri Lanka Iran Russia Siria Yemen Totale Fonte: elaborazioni ICSA su dati del Center for Systemic Peace (www.systemicpeace.org) Numero vittime 1.451 607 175 112 76 72 31 25 17 16 2.582 41 Cfr. su questo punto, il Database of Worldwide Terrorism Incidents (RDWTI), della RAND Corporation, http://smapp.rand.org/rwtid/terms.php. 42 Per esempio, dopo la prima detonazione causata da un primo attentatore suicida, si lascia che soccorritori e curiosi si avvicinino al luogo dell’esplosione, dove un secondo kamikaze entra successivamente in azione e, attraverso un mix strutturato di fuoco più movimento (in cui possono essere impegnati altri terroristi), si lascia esplodere tra la folla. Tutto questo comporta anche una eccellente strategia mediatica in grado di veicolare in tutto il mondo ed in tempo reale, attraverso il web, gli effetti devastanti dell’attentato. 17 Approfondendo ulteriormente l’analisi e considerando il periodo compreso tra l’11 settembre 2009 ed il 7 giugno 2010 (tabella 3), sempre in riferimento al numero dei morti causati da attentati con più di 15 vittime, è possibile osservare una particolare recrudescenza del fenomeno terroristico, soprattutto per quanto riguarda il Pakistan (1.129 vittime), l’Irak (1.032), l’India (238) e l’Afghanistan (226). Come è possibile osservare, il totale delle vittime (2.817), per questa tipologia di attentati, ha già ampiamente superato quello riferibile al periodo 11.09.2008-10. 09.2009. Tabella 3 – Numero di morti causati da attentati con più di 15 vittime, per Paese (11.09.2009-07.06.2010) Paese Numero vittime 1.129 Pakistan 1.032 Irak 238 India 226 Afghanistan 81 Somalia 68 Russia 43 Iran Totale 2.817 Fonte: elaborazioni ICSA su dati Center for Systemic Peace (www.systemicpeace.org), BBC News, Reuters, ITARTASS, Sky News 4.3. La situazione in Europa: evoluzione recente La minaccia del jihadismo investe pesantemente l’Europa al centro di una martellante propaganda estremista istigatoria on line contro la presenza dei contingenti militari nelle “aree di crisi” e l’atteggiamento verso i musulmani, ritenuto persecutorio o discriminante, come testimoniato, in particolare, dal comunicato audio di Bin Laden del 25 settembre 2009, espressamente diretto “ai popoli europei”, nel quale viene richiesto il ritiro dei contigenti militari dall’Afghanistan. Dalle molteplici operazioni di controterrorismo effettuate in vari paesi europei sembrano emergere, a fattor comune, i seguenti trend: • la consolidata tendenza a considerare il territorio europeo non più solo un riparo ed una retrovia logistica, ma anche un teatro operativo e una base per pianificare offensive da consumare altrove, come il citato fallito attentato del 25 dicembre 2009 sul volo Delta Amsterdam-Detroit da parte di un giovane nigeriano; • il costante sviluppo del fenomeno dei terroristi homegrown, favorito sia da fattori catalizzatori esterni, quali i riflessi di congiunture internazionali e l’eco degli scontri in atto tra musulmani e “invasori” nei vari teatri di crisi, sia dall’innesto del pensiero jihadista su problematiche socio-economiche tipiche delle comunità di immigrati stanziate e sedentarizzate in territorio europeo; • l’accresciuto coinvolgimento nel cyberjihad dei convertiti, per lo più in veste di predicatori e radicalizzatori, con il conseguente aumento della propaganda estremista in varie lingue occidentali 43 all’interno di appositi web-forum destinati a giovani musulmani, attraverso cui sono correntemente diffusi testi dottrinali, comunicati e direttive dei vertici qaedisti e manuali per il c.d. terrorismo “fai da te”, che illustrano, tra l’altro, metodi per la fabbricazione di esplosivi. La diffusione di tali documenti rappresenta un concreto pericolo per alcuni soggetti che potrebbero ispirarsi a tali siti, come già accaduto in diversi Paesi europei, Italia compresa, per elaborare progettualità terroristiche; • la montante influenza della filiera islamista afghano-pakistana, accanto a quelle tradizionali nordafricane, particolarmente nell’Europa Centrale; • la progressiva diffusione dell’ideologia jihadista nell’Europa dell’Est, agevolata dalla propagazione on line di messaggi istigatori in idiomi locali, potenzialmente foriera sia di un innalzamento 43 Particolarmente elevata la propaganda jihadista istigatoria in lingua tedesca contro la Germania, durante l’ultima campagna elettorale. Il 18, il 20 e il 25 settembre 2009, sono stati diffusi sui principali forum jihadisti tre video in cui il militante jihadista tedesco di origine marocchina Bekkay Harrach alias Al Hafidh Abu Talha Al Almani minaccia azioni terroristiche in Germania qualora l’esito dell’elezioni avesse confermato la coalizione di governo uscente, accusata di aver approvato la missione militare in Afghanistan. 18 • • dell’esposizione ad atti ostili del personale delle missioni internazionali ivi operanti sia di una maggiore presenza di cittadini originari di tale area in network estremisti transnazionali; il reclutamento alla causa jihadista di soggetti già inseriti negli ambienti della delinquenza comune, specie all’interno delle carceri; la quasi sistematica commistione tra circuiti dell’estremismo islamista e segmenti della criminalità transnazionale dediti soprattutto alla falsificazione e all’immigrazione clandestina. In tale quadro, specifici warnings - rimasti al momento privi di seguito - hanno riguardato presunte progettualità terroristiche da realizzarsi in Europa ad opera di cittadini di origine libano-palestinese, affiliati a formazioni estremiste filo-qaediste operanti nei campi profughi palestinesi in Libano. Tutti questi fattori fanno ritenere che la minaccia terroristica di matrice jihadista continua ad essere attuale, nonostante significative indagini portate felicemente a termine in diversi Paesi europei. Da tali indagini, incentrate su soggetti provenienti dalle aree tribali afghano-pakistane, è emerso che i campi di addestramento ivi presenti sarebbero frequentati da jihadisti provenienti anche da Paesi europei, in particolare Regno Unito, Francia, Germania, Danimarca. Secondo notizie di intelligence, poi, nei campi sarebbe previsto un diverso tipo di addestramento differenziato in base all’origine ed al curriculum dei frequentatori. Gli occidentali, in particolare, non verrebbero addestrati alle tecniche di guerriglia, ma solo al confezionamento degli esplosivi, alla produzione di documenti falsi ed alla contro-informazione. I pakistani provenienti dai Paesi europei verrebbero reclutati anche mentre si trovano in visita alle loro famiglie d’origine. Altro importante elemento che contraddistingue lo scenario europeo, è lo stretto legame che unisce i destini degli Stati europei con l’area nord-africana. A tal proposito, va ricordato che, a seguito di una vasta operazione condotta dalle forze di sicurezza tunisine, tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007, nei confronti di diversi gruppi armati riconducibili a formazione estremiste maghrebine, si apprese della presenza tra i terroristi di stranieri che in passato avevano risieduto in Italia. Alcuni di questi, peraltro, erano stati destinatari di provvedimenti di cattura emessi nel contesto di specifiche attività di contrasto al terrorismo di matrice qaedista condotte in Lombardia a cavallo tra la fine dello scorso decennio ed i primi anni di quello attuale. Tra questi, due tunisini che avevano risieduto per anni nel nord Italia, sono deceduti nel corso dei conflitti a fuoco avuti con gli apparati di sicurezza. In prospettiva si teme che Al Qaeda possa ricevere dai sostenitori presenti in Europa, oltre all’appoggio logistico-finanziario, un più significativo contributo in termini di reclutamento per l’addestramento nei campi dell’Africa subsahariana. Tale fenomeno, con il ritorno nelle nazioni europee di elementi dotati di uno specifico know-how operativo, potrebbe quindi tradursi in una minaccia diretta contro interessi occidentali nel continente europeo. Non vanno poi sottovalutate alcune situazioni legate a fattori contingenti di carattere nazionale. Nei Paesi Bassi, la recente decisione di ritirare le forze militari presenti in Afghanistan provoca una inaspettata crisi politica con possibili ripercussioni anche in altri Paesi, mentre non è da escludere che in qualche prossimo messaggio il noto Al Zawahiri possa “rivendicare” al merito dell’organizzazione tale decisione. Ed inoltre le rivolte nelle banlieu parigine del dicembre 2005, seguite anche di recente da ricorrenti disordini di minore ma non meno pericoloso spessore, condotte in gran parte da immigrati magrebini di seconda e terza generazione, sono anche originate oltre che dal disagio socioeconomico (abbinato ad un forte senso di spaesamento e di smarrimento identitario vissuto da questa specifica componente immigrata), anche da motivazioni ideologiche anti-occidentali, proprie del radicalismo jihadista, come avremo modo di approfondire in seguito. In definitiva, si registra in Europa, più che la presenza di gruppi collegati alla “casa madre” di Al Qaeda o alle sue filiazioni regionali, l’attivismo di micronuclei autoradicalizzati che si formano nella società ospite per gemmazione spontanea, al di fuori di qualsiasi vincolo associativo, e rispondono al richiamo della jihad seguendo dettami ideologici ed indicazioni tecnico-operative quasi sempre desunte da internet. 4.4. Tendenze e novità dell’associazionismo islamico in Italia: la necessità di un approccio conoscitivo Di seguito, verranno descritte le principali realtà e forme dell’associazionismo islamico in Italia, al fine di incrementare un quadro di conoscenze e di informazioni indispensabili per una più efficace comprensione 19 delle dinamiche del proselitismo estremista, naturalmente portato ad inquinare luoghi socio spaziali sensibili e ad “agganciare” individui “fragili”, soprattutto sul piano psicologico e socioeconomico. 4.4.1. I principali sodalizi in Italia di orientamento sunnita e sciita Le comunità islamiche presenti in Italia operano con l’intento di favorire la diffusione della religione musulmana, lo sviluppo socio-economico ed il conseguente inserimento dei loro membri nel tessuto sociale. Tuttavia esse si presentano sempre divise sia a causa della altalenante conflittualità fra la componente religiosa moderata e quella più rigorosa, sia in ragione delle diverse aree geografiche di provenienza dei loro appartenenti, con conseguenti lotte interne e rivalità. Allo stato le associazioni di orientamento sunnita più rappresentative sono le seguenti: - La Lega Musulmana, con sede a Roma, fa parte dell’omonima organizzazione internazionale non governativa, fondata in Arabia Saudita nel 1962, con sede a La Mecca. La sezione italiana opera da circa un ventennio con la finalità di diffondere il corretto messaggio dell’Islam, considerato “religione di pace, tolleranza e fratellanza”, nonché per contrastare le ideologie e le correnti politiche che possono danneggiare l’immagine dell’Islam in Occidente. - L’Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia (UCOI), con sede ad Ancona, rappresenta l’organismo più diffuso in Italia. L’ideologia di riferimento si avvicina alle posizioni neotradizionaliste dei “Fratelli Musulmani”. Al suo interno convivono differenti posizioni: da quelle più radicali, che hanno come obiettivo l’islamizzazione della società, ad altre più moderate, che mirano all’integrazione dei musulmani, salvaguardandone l’identità religiosa ed assicurando il rispetto del sistema giuridico italiano. All’UCOI sono collegate l’“Associazione Donne Musulmane Italiane” ed i “Giovani Musulmani d’Italia”, con cui negli ultimi tempi sono sorti contrasti in merito all’approccio da seguire nelle relazioni con le istituzioni italiane. - I Giovani Musulmani d’Italia, collegata, come detto, all’UCOI, è una associazione di promozione giovanile nata di recente, che ha come obiettivo quello di dare risposte ai problemi che i giovani incontrano nella loro vita quotidiana in famiglia, a scuola e nel tempo libero. L’associazione, quindi, cerca di fornire ai giovani gli strumenti adatti a formare un’identità islamica italiana ed in quest’ottica si impegna a “combattere ogni forma di terrorismo, ingiustizia ed intolleranza”. L’Associazione si fonda sulle strutture locali, ossia gruppi che a livello provinciale o cittadino organizzano attività di tipo sportivo ed educativo, con programmi settimanali o mensili. Ogni anno, inoltre, prepara manifestazioni ed eventi in coincidenza con le principali ricorrenze islamiche. - L’Unione dei Musulmani in Italia, con sede a Torino, fu costituita nel 2006 su iniziativa di alcuni elementi di spicco della comunità marocchina d’Italia, con l’obiettivo di diffondere un Islam moderato, alternativo a quello concepito dall’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (UCOI), attraverso la gestione diretta dei fedeli di cittadinanza marocchina che rappresentano una cospicua percentuale degli immigrati in Italia. L’Associazione vuole, quindi, offrire all’opinione pubblica occidentale un’immagine positiva, costruttiva ed affidabile, che stemperi eventuali sentimenti di islamofobia alimentati anche dalle azioni criminali dei gruppi fondamentalisti. Sembra che le Autorità marocchine abbiano visto con favore la nascita di questa nuova associazione quale futura voce autorevole del mondo islamico, con la costituzione di centri culturali a maggioranza marocchina, onde poter competere a livello nazionale con le altre associazioni islamiche sulla base di una più ampia piattaforma di consensi. Va sottolineato al riguardo come l’obiettivo del Governo marocchino sia essenzialmente quello di contenere all’estero il proselitismo del movimento “Giustizia e Carità”, di cui si dirà dopo, che si porrebbe come antagonista del progetto. L’UMI, infatti, intenderebbe promuovere corsi di formazione di imam per monitorare e quindi isolare elementi estremisti onde togliere legittimità a predicatori impreparati ed attestati su posizioni considerate vicine al radicalismo islamico. Tale programma di formazione si collocherebbe all’interno di un ampio progetto di riqualificazione nel campo religioso, avviato da tempo oltre che in Marocco anche in Francia ed in altri Paesi europei, volto a favorire lo studio di un “diritto islamico europeo”, destinato ai musulmani che vivono in occidente. - Il Centro Islamico Culturale d’Italia sorge all’interno della Moschea di Monte Antenne a Roma e ne gestisce le attività. Nel 2007 il Centro presentò un progetto di cooperazione tra le associazioni presenti in Italia allo scopo di diventare un referente unico nei rapporti con le Istituzioni italiane, 20 - - - - acquisendo un “mandato di rappresentanza”. A quanto risulta il progetto ha trovato l’opposizione della suddetta Unione dei Musulmani in Italia, con la quale sarebbero sorti dissidi in ordine alla primazia da assumere agli occhi del Governo marocchino, ampiamente disponibile a finanziare quei sodalizi la cui attività viene ritenuta conforme ai dettami politici e religiosi fissati a Rabat. La Comunità Religiosa Islamica (Co.Re.Is.), sodalizio costituito da intellettuali musulmani italiani al fine di svolgere un’azione di testimonianza e di informazione sulla tradizione islamica e rappresentare quindi gli interessi religiosi dei musulmani sia in Italia che nel resto d’Europa. Vi aderiscono molti italiani convertiti. Il sodalizio è molto presente nel nord Italia e si distingue nell’attività di formazione di imam. Nel panorama dell’associazionismo musulmano in Italia non può non essere menzionato il movimento marocchino Al Adl w’al Ihsane (Giustizia e Carità), di orientamento sunnita, emanazione dell’omonimo movimento sorto in Marocco nel 1950 nella regione di Berkan, che ha sviluppato negli ultimi anni una forte azione tesa alla propaganda ed al proselitismo anche al di fuori dei confini del Marocco, al fine di creare nuclei di adepti destinati ad agire il giorno in cui si realizzerà la cosidetta qawm, ossia l’insurrezione di massa del popolo islamico. Per pubblicizzare le proprie iniziative e gli obiettivi, il sodalizio si propone di realizzare un network televisivo ed un giornale telematico. Una ventina di compagini associative (luoghi di culto, ecc.), presenti soprattutto nel nord-Italia, sono collegate al movimento, ovunque fortemente contrastato dal Governo marocchino. Per quanto concerne i sodalizi di orientamento sciita, i più rappresentativi sono l’Imam Al Mahdi di Roma e l’Ahl al Bayt di Napoli, composti soprattutto da cittadini italiani convertiti. Entrambi hanno stretti contatti con ambienti diplomatici iraniani. Loro rappresentanti effettuano frequenti viaggi in Iran, intrattenendo rapporti diretti con figure religiose anche di alto livello. A questi due sodalizi si aggiunge l’Associazione Rasule Akram (il Nobile Messaggero), costituita a Milano qualche anno fa allo scopo di avviare il progetto di un coordinamento sciita nazionale, auspicato dalle autorità di Teheran contrarie a contrapposizioni tra i sodalizi di orientamento sciita all’estero, ma finora resi impossibili a causa dei forti dissidi tra i vertici dell’Al Mahdi e dell’Ahl al Bayt. 4.4.2. I predicatori itineranti e le confraternite turuq Un ruolo sempre maggiore assumono in Italia ed altrove i cosiddetti predicatori itineranti Jama’at Tabligh Wa ad-Da’Wa (Gruppo della Predicazione e Propaganda). Carattere essenziale degli appartenenti al movimento è la specifica formazione culturale e religiosa: si tratta essenzialmente di persone dotate di una buona scolarizzazione e di una elevata conoscenza dei dettami della sharia. Nei Paesi occidentali, considerati “periferie dell’Islam”, il loro impegno è diretto ad assicurare un ritorno alla religione come fermento di ordine, di regolarità, di lotta alla criminalità ed alla diffusione della droga. Questo ruolo renderebbe i Tabligh interlocutori credibili delle comunità di immigrati in Europa e favorirebbe la loro integrazione in un contesto di forte emigrazione islamica. Secondo la loro ideologia “quando tutti i popoli islamici avranno raggiunto la perfezione spirituale, sarà il mondo non musulmano a riconoscere la superiorità dell’Islam e ad avvicinarsi ad esso spontaneamente”. Il movimento è sorto in India negli anni ‘20 del secolo scorso ed ha i suoi principali centri organizzativi in Pakistan, nel Bangladesh e appunto in India. Asseritamente apolitico e contrario alla violenza, ha l’obiettivo di attuare una nuova islamizzazione delle minoranze islamiche in occidente, con una strategia tesa al recupero dei musulmani che subiscono una costante influenza, ritenuta fortemente negativa, degli usi e costumi propri della civiltà e della cultura occidentali. La nuova islamizzazione riguarda anche e soprattutto la “seconda generazione” di immigrati, molti dei quali avrebbero già colpevolmente assimilato i costumi e la cultura occidentali, avvicinandosi talvolta al mondo dell’alcoolismo, della droga e della delinquenza in genere. Si può sostenere che il movimento dei Tabligh rappresenta la saldatura tra riformismo islamico, reduci degli appartenenti ai movimenti islamisti e confraternite sufi (denominate turuq). Di questa fusione di intenti tra sufi, riformatori ed islamisti è stato testimone lo scrittore Tiziano Terzani, il quale, stupito dalla devozione e dalla massiccia affluenza di Tabligh alle cerimonie in Pakistan, commenta: “i Tabligh sostengono di essere per la non violenza, di non voler fare politica e non vanno per questo confusi con i fondamentalisti dei partiti islamici estremisti che manifestano contro il governo ed appoggiano apertamente Osama Bin Laden ed i talebani. Eppure, passando ore ed ore in quella immensa, disciplinata congrega di uomini, tutti col loro 21 berretto bianco a snocciolare i loro rosari, mi è parso ovvio che nonostante tutte le apparenti differenze c’è tra i Tabligh, Osama ed i talebani una obiettiva coincidenza di interessi ed una implicita solidarietà”. E’ difficile disporre di dati precisi sulla consistenza delle confraternite denominate turuq in quanto nessuno deve farsi vanto di essere un sufi e, di fatto, il numero degli aderenti è segreto 44 . Le turuq sufi, in particolare, costituiscono il mezzo privilegiato per le conversioni. Infatti sono popolarissime tra le comunità degli immigrati in Europa e secondo alcuni esperti dominano l’ambiente degli immigrati turchi in Germania. E non è da escludere una loro presenza in Italia, tenuto conto del terreno fertile rappresentato dalle fasce deboli dell’immigrazione e del precariato. La maggior parte dei predicatori itineranti entra in Italia con un regolare visto di ingresso 45 . Non sembra, finora, che il movimento disponga di una propria sede nazionale in grado di organizzare le diverse attività. Tuttavia gli aderenti svolgono una intensa attività di interscambio del pensiero “tabligh” attraverso la predicazione itinerante e con l’utilizzo di siti internet dedicati. La cittadinanza maggiormente rappresentata è quella marocchina con circa il 60% dei predicatori attivi in Italia, seguita da quella tunisina con il 25%, pakistana con l’8%, algerina 3%. Molti aderenti al movimento che hanno maturato gli anni necessari per l’acquisizione della cittadinanza italiana, avrebbero presentato istanza per l’ottenimento di tale beneficio. Tra i motivi che potrebbero aver indotto gli stessi a chiedere tale concessione, v’è la possibilità che una volta acquisito il beneficio richiesto i predicatori possono effettuare la loro missione in piena libertà, sia in Europa che nei paesi di provenienza, praticando in tal modo uno dei principi fondamentali della filosofia Tabligh, ossia la predicazione itinerante. Il movimento Tabligh, come già detto, si dichiara contrario ad ogni estremismo. Tuttavia appare opportuno soffermarsi sulle modalità della propria attività di propaganda: innanzitutto i predicatori, con la diffusione dei loro messaggi religiosi, appaiono agli occhi dei fedeli come dotati di capacità e preparazione superiori alla media, così da essere in grado di esercitare grande influenza ed attrazione su di essi, tant’è che è questa l’essenza della loro missione. Inoltre l’elasticità dell’organizzazione e le modalità di selezione dei suoi aderenti ne fanno un polo privilegiato per la maggior parte dei movimenti islamici, i quali troverebbero in esso una fonte di reclutamento di giovani anche con problemi di identità. Bisogna poi aggiungere che l’indottrinamento e la formazione avvengono in luoghi ed ambienti come le madrase pakistane molto impermeabili, e che nel tempo si sono formate reti internazionali di contatti tra gli affiliati al movimento, come moschee e luoghi di culto, circoli, associazioni, ecc., che potrebbero essere facilmente infiltrate da gruppi con finalità diverse da quelle religiose. Ad una analisi attenta, i problemi legati al disagio giovanile e l’assenza di prospettive sociali e politiche accentuano il rischio di una radicalizzazione di alcuni elementi, i quali, non ritenendo più sufficienti le prospettive religiose, potrebbero indirizzarsi verso correnti più radicali o avvicinarsi ad organizzazioni che li condurranno ad impegnarsi nell’attivismo estremista. Sembra che talvolta alcuni predicatori più radicali portino al seguito dei veri e propri procacciatori, incaricati di individuare fra i frequentatori delle moschee e dei luoghi di culto visitati soggetti motivati sotto il profilo ideologico e religioso; in altri casi alcuni imam responsabili delle moschee visitate segnalerebbero preventivamente i fedeli disposti a frequentare corsi di indottrinamento religioso. 4.4.3. Le moschee ed i luoghi di culto Nei luoghi di origine le moschee sono collegate ad uno specifico gruppo etnico o ad un determinato rito, all’appartenenza ad una famiglia o ad un clan, ad un determinato territorio, ad un quartiere. Tutti questi fattori in Italia vengono meno: il denominatore comune tra i frequentatori delle moschee è, a prescindere dalla provenienza e dalla nazionalità, l’appartenenza alla fede islamica. E’ nella moschea che il venerdì alle dodici 44 Come osservato in precedenza, una delle più rilevanti turuq è la Naqshbandiyah, la più segreta e militarizzata delle turuq sufi, assai attiva in Asia Centrale, Turchia, Bosnia e regione del Caucaso, in Iraq, nel territorio di residenza dei curdi e nel sub-continente indiano. Naqshbandiyah ha rappresentato la spina dorsale della resistenza musulmana in Bosnia (diverso materiale di supporto tecnico e di sussistenza per i combattenti è giunto in Bosnia attraverso il network delle turuq) ed in Cecenia ha una potente ed efficiente organizzazione finanziaria ed è ben consolidata nella comunità islamica cinese. 45 Non si esclude che la criminalità organizzata possa avere un ruolo nella falsificazione e nel rilascio di alcuni di questi visti di ingresso. 22 si svolge la preghiera canonica congregazionale, obbligatoria per gli uomini e facoltativa per le donne. La “salat”, ossia la preghiera quotidiana, uno dei cinque pilastri dell’islam, può essere recitata in qualsiasi altro posto. In Italia le uniche moschee che rispondono ai canoni architettonici islamici sono a Roma, Grande Moschea di Monte Antenne, ed a Milano-Segrate, Al Raham. Le altre sono costituite da immobili adibiti a sale di preghiera, per lo più garage, capannoni (alcuni dei quali sottoposti a sequestro per l’inadeguatezza delle norme di sicurezza e le destinazioni d’uso) ed appartamenti, siano essi pertinenze di sedi associative o di abitazioni private. A maggio del 2010, secondo la Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, risultano censite (nella accezione più ampia del termine) 164 moschee, mentre 222 sono i luoghi di culto. Ad essi vanno aggiunti 120 centri culturali e 275 associazioni: il totale dei centri culturali islamici e della associazioni islamiche –cui si potrebbe ragionevolmente ricondurre una sala di preghierasono 395. Si tratta di “censimento” soggetto a frequenti variazioni numeriche e ad altrettante variazioni d’uso, registrandosi sovrapposizioni di finalità religiose e culturali ( ad esempio indottrinamento coranico, scuola di lingua, ecc.). Pressoché uniforme sul territorio nazionale, la dislocazione conosce picchi di concentrazione maggiore nei capoluoghi di provincia. Le ragioni del costante proliferare (e variare) sono da un lato legate alle accresciute esigenze di accoglienza nelle comunità islamiche, dall’altro alla costante opera di proselitismo e di islamizzazione svolta dai religiosi più attivi verso immigrati provenienti da Paesi musulmani allo scopo di allargare il numero di aderenti a fini religiosi e politici. Sotto questo aspetto vengono di frequente avviate dalle comunità islamiche numerose iniziative tese a realizzare nuove moschee, talvolta di ragguardevoli dimensioni, con la inevitabile richiesta alle amministrazioni comunali della disponibilità di aree pubbliche. Ma ciò avviene anche ogni qualvolta le autorità locali dispongono la chiusura delle strutture per vari motivi, fra cui il più frequente per inagibilità sotto gli aspetti della sicurezza strutturale o della salute. Da questo momento si avviano le trattative fra le parti per trovare soluzioni che contemperino le esigenze confessionali degli stranieri con quelle delle comunità locali ed in particolare degli abitanti residenti nei luoghi di volta in volta prescelti per la costruzione o l’insediamento di nuove moschee o centri religiosi e culturali, con inevitabili divergenze e momenti di tensione. Alle divergenze ed ai momenti di tensione sopra indicati sono da collegare gli episodi di vandalismo e di danneggiamento contro sedi di associazioni e luoghi di culto islamici. Gli atti vandalici, dapprima manifestatisi con scritte murali inneggianti all’odio razziale e minacce nei confronti dei musulmani, hanno spesso fatto registrare un salto di qualità soprattutto in provincia di Milano, dove sono stati compiuti numerosi attentati dinamitardi ed incendiari. 4.4.4. Gli Imam All’interno dei luoghi di culto di riferimento delle varie associazioni islamiche, la figura ed il ruolo degli imam meritano una riflessione particolare. Intanto è doveroso chiarire che per il mondo sunnita (per il quale non esiste alcuna forma di clero o di intermediazione religiosa tra Dio e gli uomini), l’imam è solo colui che guida la preghiera collettiva e svolge il sermone in occasione della preghiera di mezzogiorno del venerdì in virtù di una asserita conoscenza del sapere religioso. Diverso è il ruolo che agli imam assegnano gli sciiti: per i cosidetti “seguaci di Alì”, infatti, l’imam è un successore di Maometto, ultimo dei messaggeri di Dio. Con il passar del tempo l’imam sunnita ha assunto un ruolo sempre crescente nelle società occidentali, ponendosi quale naturale punto di riferimento per i membri delle comunità di immigrati. Ne è derivata la possibilità, sempre più frequente, di vedere imam impegnati quali mediatori culturali, interlocutori delle istituzioni locali o visitatori di immigrati detenuti a vario titolo nei circuiti penitenziari. La centralità strategica del ruolo dell’imam nelle comunità musulmane è testimoniata dall’attenzione loro riservata dalle diverse associazioni che alla formazione di questa figura hanno dedicato specifiche iniziative. In quest’ottica si collocano i diversi corsi di formazione di imam organizzati da varie associazioni alla luce, ovviamente, dell’ordinamento dottrinale di riferimento. Ci si riferisce, ad esempio, ai corsi svolti in 23 questi ultimi anni dall’Unione dei Musulmani in Italia (U.M.I.) a Torino ed a Salsomaggiore, dall’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (U.CO.I.) a Brescia, ed altre. In linea con il dato relativo alla presenza degli immigrati nel nostro Paese, la nazionalità degli imam maggiormente rappresentata è quella marocchina (57%), seguita da quella tunisina (11%) e da quella algerina (5%). Tra le fasce conosciute di età la più frequente è quella tra i 40 ed i 50 anni (43%), seguita da quella tra i 30 ed i 40 (33%), e da quella tra i 50 ed i 60 (13%). Un esame comparato tra i mesi di agosto 2008 ed agosto 2009, compiuto dalla Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, permette di rilevare una variazione positiva del 7% degli imam presenti nei luoghi di culto, passati da 150 a 161, e una diminuzione del 7% di quelli attivi nelle moschee, scesi da 118 a 110. Luoghi di culto e moschee, è opportuno sottolinearlo, svolgono anche la funzione di punti di incontro e di iniziativa culturale per i seguaci musulmani che li frequentano. Problema comune ai responsabili delle associazioni islamiche e, soprattutto, alle autorità nazionali di tutti i Paesi europei è quello della affidabilità degli imam. Molto spesso ci si trova di fronte ad imam improvvisati, privi di idonea formazione religiosa, che interpretano il loro ruolo in maniera difforme dai corretti canoni della religione islamica. Alcuni di essi privilegiano un credo fondamentalista, talvolta antioccidentale, forti di capacità comunicative che affascinano gli elementi più giovani che vivono situazioni di disagio e sono facilmente suggestionabili. Questi sono i fattori principali che determinano i processi di radicalizzazione ed esaltano i sentimenti di rivalsa verso la collettività. In questo quadro, nell’attività di prevenzione e contrasto, occorre rilevare che, tra il 2003 ed il 2009, si sono registrati 10 provvedimenti di espulsione di imam dal territorio nazionale. Nella prevenzione del fenomeno del radicalismo molto possono fare le comunità islamiche moderate e le autorità nazionali con gli strumenti del dialogo, della formazione e della preparazione. Grandi sono le aspettative della rinnovata Consulta Islamica, costituita presso il Ministero dell’Interno, che dovrà porsi obiettivi precisi in questo delicato ambito. 4.4.5. Il bacino di potenziale reclutamento Una disamina approfondita dell’immigrazione islamica, in particolare in Italia, svela che al suo interno esistono profonde differenze, che non vanno ricondotte solo allo Stato di origine, ma vanno ricercate anche nel livello economico, nel grado di cultura e nell’età di immigrazione. Secondo una corrente che si può definire “tradizionale”, questi tre fattori concorrono a configurare il processo di integrazione, che non va disgiunto dall’esistenza di due condizioni: la coscienza da parte di un gruppo della propria identità, e la presenza di una base organizzata capace di esprimere una “elite” politicamente preparata per portare avanti le rivendicazioni del gruppo nel suo insieme. Sul territorio nazionale si potrebbe riscontrare il proliferare di tale corrente “tradizionale” all’interno delle organizzazioni islamiche più consistenti e meglio strutturate: queste infatti sono in genere capeggiate da esponenti con un altissimo livello di istruzione e svolgono una proficua attività di proselitismo all’interno della comunità in cui sono inserite. Non è raro, infatti, che le associazioni islamiche in questione siano collegate a moschee, centri culturali, onlus. L’identità comunitaria gravita attorno all’esistenza di bisogni materiali condivisi che trovano soddisfazione all’interno della struttura assistenziale dell’organizzazione islamica. Si crea quindi un circolo virtuoso, in cui il primo nucleo aggregativo in grado di esprimere una forma di rappresentanza si rinsalda e si espande attraverso la creazione di strutture per la fornitura di servizi. Al contrario, la corrente che si può definire “rivoluzionaria” non prevede l’utilizzo di strumenti politici, ma mira semplicemente alla disgregazione dell’apparato statale non conforme alla legge coranica. Essa, infatti, non vede convivere la visione dualistica “base-elite”, ma riconosce solo alcune avanguardie intellettuali come elite, e vede aderire, in gran parte, credenti tra i 20 ed i 35 anni che spesso sono stati avvicinati mentre nel loro Paese di origine frequentavano scuole secondarie o università, in un quadro sociale frustrante e disagevole che non lasciava spazio all’iniziativa politica consueta. In questo contesto l’attività di proselitismo può portare, a causa dell’assenza di una gerarchia definita, alla creazione di cellule che sorgono quasi indipendentemente l’una dall’altra. Per quanto riguarda le suddette avanguardie intellettuali di riferimento, queste potrebbero essere prevalentemente ritrovate nei personaggi più famosi della rete integralista che esprimono il loro pensiero attraverso i canali mediatici, oppure nelle figure di taluni imam, compresi quelli itineranti, che visitano le varie comunità diffondendo il loro pensiero, spesso portatori di ideologie radicali, con un’ampia cultura religiosa acquisita nei Paesi di provenienza. 24 Viene così fornito un generale messaggio estremista, senza nessuna forma di sollecitazione, direttiva o incarico, che ha però in sé la potenzialità di produrre adepti e costituire il preludio per un futuro reclutamento per diventare membro di una cellula terroristica o per l’assegnazione di un incarico. L’attività investigativa condotta in Italia negli ultimi anni ha dimostrato come gli ambienti dove vengono diffusi messaggi propagandistici estremisti e dai toni fortemente antioccidentali quasi sempre hanno svolto un ruolo essenziale nel reclutamento di volontari, a volte assai giovani, da avviare alla jihad in zone teatro di conflitto interetnico e religioso. Abbiamo inoltre già visto come nei processi di radicalizzazione incidono fortemente, anche se non esclusivamente, i più comuni fattori di disagio sociale che si vanno a saldare con la necessità, sempre più spesso evocata dai predicatori, di ritrovare un’identità comune da contrapporre a condizioni personali di emarginazione sociale. Se quindi nella prevenzione della diffusione dell’estremismo giocano un ruolo essenziale tanto le comunità islamiche moderate quanto la capacità delle diverse autorità di dialogare con esse, le attività di contrasto si devono incentrare su quei luoghi, quali, ad esempio, alcuni ben individuati centri di cultura islamica e le prigioni –ed in misura minore le scuole ed altri luoghi di aggregazione giovanile- che sembrano essere i centri all’interno dei quali, in via d’elezione, si avviano o si concretizzano i processi di radicalizzazione islamista. Le prigioni possono essere un terreno fertile per la radicalizzazione e successivo possibile reclutamento dei detenuti, a motivo della mancanza di contatti con i familiari, un generale senso di incertezza, l’ambiente straniero, la predisposizione alla violenza ed al crimine. Le autorità di molti Paesi sostengono che il fenomeno è in espansione e che vi è difficoltà ad affrontare questi problemi all’interno delle strutture penitenziarie. Tabella 4 –Arrestati, condannati, espulsi per reati di terrorismo internazionale Anno Arrestati Condannati Espulsi 16 2000 28 2001 29 1 2002 36 8 2003 15 1 3 2004 22 2 14 2005 11 9 20 2006 12 12 6 2007 14 22 4 2008 17 1 3 2009 11 3 2010 Totale 200 47 62 Fonte: Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione – Servizio Centrale Antiterrorismo 25 di cui Imam espulsi 2 2 2 1 3 10 PARTE SECONDA EVOLUZIONE E TRASFORMAZIONE DEL TERRORISMO JIHADISTA E MINACCIA QAEDISTA NEL 2010 1. La decentralizzazione funzional-spaziale della jihad e la dispersione sul territorio: linee di tendenza Il fenomeno del terrorismo salafita jihadista legato ad Al Qaeda ha conosciuto negli ultimi anni una rapida evoluzione. Prima dell’11 settembre Al Qaeda era un’organizzazione perlopiù nota solo agli addetti ai lavori, venendo all’attenzione in occasione di gravi eventi, quali gli attentati commessi contro le ambasciate americane in Kenia ed in Tanzania, o contro l’incrociatore americano “Cole” nello Yemen. Dall’attentato contro le torri gemelle, Al Qaeda è percepita come la più grande minaccia contro l’Occidente e la lotta al terrorismo jihadista è ormai da diversi anni tra le priorità poste a livello internazionale. Ma la minaccia rappresentata da Al Qaeda si è modificata in breve tempo anche in termini qualitativi, sviluppandosi con caratteristiche del tutto differenti. E’ necessario, quindi, comprendere e se possibile anticipare l’evoluzione di Al Qaeda e del terrorismo che si ispira alla sua ideologia, per sviluppare un’efficace strategia di prevenzione e di contrasto. Al Qaeda è nata sul finire degli anni ottanta come organizzazione gerarchica, e, dopo il primo attacco alle torri gemelle del febbraio 1993, si è progressivamente evoluta dapprima in rete globale di individui e gruppi che ideologicamente, ma anche operativamente, seguivano le indicazioni della leadership dell’organizzazione in Afghanistan, poi in una sorta di movimento autoctono che tende a crescere sempre più. E’ come aver risposto ad un appello alla jihad, aver recepito l’invito o l’obbligo legato ad una fatwa, e quanto maggiore sarà l’efficacia dell’appello o della fatwa, tante più cellule si formeranno in risposta a tale invito. Questo movimento è quindi costituito da individui che da soli o più frequentemente in piccoli gruppi, senza avere alcun collegamento operativo con Al Qaeda o con altre organizzazioni terroristiche affiliate, intraprendono in maniera spontanea ed autonoma un percorso di radicalizzazione, sulla spinta dell’impulso rappresentato dall’ideologia qaedista diffusa soprattutto in internet. In questo processo vengono interiorizzati gli elementi di tale ideologia qaedista che gradualmente portano questi individui ad assumere posizioni sempre più estremistiche, fino alla decisione di aderire alla jihad. Dalle indagini compiute in Italia dalla fine degli anni novanta, non si era avuta che una tenue percezione di questa evoluzione che è invece apparsa in maniera chiarissima sulla scena con il recente attentato compiuto dal libico Mohamed Game contro una caserma dell’esercito a Milano. Vero è che in Italia la trasformazione è stata più lenta a motivo dei fattori sociali propri del nostro territorio, come un’immigrazione più recente e l’assenza di una massa rilevante di immigrati di seconda o terza generazione, che hanno sicuramente influito nel differire l’apparizione di questa nuova fase. Tuttavia, benché il terrorismo homegrown sia associato di solito proprio ai figli di immigrati nati e cresciuti in occidente, come ad esempio nel Regno Unito, tale termine denota quelle manifestazioni autoctone del terrorismo jihadista non importate, e quindi anche quelle degli immigrati di prima generazione, come appunto Mohamed Game, il cui processo di radicalizzazione che li conduce alla jihad avviene del tutto o prevalentemente in occidente. Quanto fin qui esposto induce a valutare con più attenzione l’efficacia degli strumenti per la lotta al terrorismo jihadista, al di là dei risultati più che soddisfacenti conseguiti in Italia, come in altri Paesi occidentali. Uno dei principali strateghi di Al Qaeda, Abu Musab Al Suri, dopo gli attentati di Londra del 2005, diffuse in rete uno scritto in cui esaltava detti attentati, considerandoli come il primo frutto dei suoi sforzi, molto più degli eclatanti attentati dell’11 settembre. Al Suri, infatti, considerava fallimentari le organizzazioni jihadiste strutturate gerarchicamente, perché troppo vulnerabili alle operazioni di repressione da parte delle forze di sicurezza, in quanto dall’arresto di un qualsiasi membro dell’organizzazione si risale agevolmente al vertice, dal quale poi discendere individuando tutti i membri. Egli proponeva quindi di strutturare il movimento in piccole cellule di non più di dieci membri, che non solo non hanno un collegamento tra di loro, ma che non hanno neppure un “vertice”, operando in maniera del tutto autonoma. In questo modo, l’arresto di una singola cellula non metterebbe in pericolo le altre, mentre il gruppo neutralizzato potrebbe venire facilmente rimpiazzato dalle altre cellule generatesi spontaneamente. Il modello proposto da Al Suri è quello di un movimento spontaneista, simile all’intifada palestinese, che risponda all’appello alla jihad secondo un principio di decentralizzazione, ossia spostare in “periferia” i 26 compiti operativi, compresi quelli logistici e finanziari, lasciando al “centro” solo quelle funzioni che non possono essere svolte efficacemente a livello periferico, come ad esempio diffondere un messaggio o dare voce all’ideologia del salafismo jihadista. Un’ulteriore conseguenza della trasformazione di Al Qaeda secondo il principio della decentralizzazione, è quello che si può definire della dispersione sul territorio. Parallelamente alla sua decentralizzazione funzionale, Al Qaeda ha subito un analogo processo di decentralizzazione spaziale: quando essa era un’organizzazione gerarchica, la sua struttura era localizzata perlopiù in Afghanistan. Una volta trasformata, ha espanso la sua influenza a tutte le aree in cui erano attive le organizzazioni con cui aveva stipulato alleanze più o meno strette. In Europa, in particolare, questa espansione geografica si è realizzata attraverso le reti formate da elementi che, presumibilmente, dopo un periodo di addestramento nei campi di Al Qaeda, nelle aree tribali al confine tra Afghanistan e Pakistan, avevano continuato a mantenere contatti operativi con il centro dell’organizzazione. Ciò detto, è più facile che gruppi di homegrown si formino in grossi centri, perché in essi vi è una maggiore presenza di immigrati musulmani e di loro discendenti, ma nulla può far escludere che cellule homegrown si costituiscano in piccoli paesi; al contrario, forse poiché i piccoli centri sono oggetto di minore attenzione da parte delle forze di sicurezza, vi sono segnali di una progressiva provincializzazione della jihad. 2. I luoghi socio-spaziali sensibili Le reti terroristiche legate ad Al Qaeda prima della trasformazione di cui si è detto, erano considerate “chiuse”, per l’esigenza di mantenere clandestine le loro attività. L’adesione di nuovi membri era perciò subordinata ad un processo di selezione, attuato da un reclutatore che individuava, ad esempio in una moschea o in una scuola coranica o in una associazione, i soggetti più promettenti, verificava la genuinità del convincimento ad intraprendere la jihad, ed infine consentiva loro l’accesso al gruppo. I gruppi spontanei del movimento jihadista, così come è venuto ad evolversi, invece, hanno una configurazione molto più “aperta”, soprattutto nella fase di radicalizzazione, in quanto, costituendosi “dal basso” ad opera di individui che progressivamente abbracciano l’ideologia salafita jihadista, mancano di una struttura formale e di un’articolazione interna e quindi anche della figura di un vero e proprio selezionatore. In questo modo le nuove adesioni al gruppo, o all’ideologia, avvengono per autoreclutamento, ovvero attraverso un’adesione spontanea da parte del nuovo adepto, che, manifestando la condivisione della medesima ideologia estremistica, viene progressivamente accettato dagli altri membri e fatto partecipe delle loro attività. Solo nella fase in cui il gruppo assume la decisione di passare all’azione vengono adottati sistemi di isolamento che chiudono il gruppo rispetto a nuove adesioni e cautele comportamentali. I processi di autoreclutamento generano inquietudine non solo per la diffusione ma anche per le modalità e le cause che li producono. Nella strage alla stazione di Madrid le indagini misero in risalto un reticolo relazionale costituito da elementi di origine marocchina da tempo inseriti nell’ambito della comunità urbana, più vicini al crimine che all’estremismo radicale. Negli attentati alla metropolitana di Londra emerse che le azioni furono organizzate in brevissimo tempo da un soggetto militarmente addestrato che, con estrema facilità, potè avvalersi della complicità di giovani da tempo residenti in Gran Bretagna, avviatisi solo poco tempo prima verso un percorso di radicalizzazione. Anche il libico Mohamed Game, autore dell’attentato alla caserma di Milano, pur residente da molti anni in Italia, solo di recente aveva subito un percorso di radicalizzazione tanto breve quanto intenso. In Olanda, nel caso del gruppo Hofstad, uno dei membri manifestava le proprie idee radicali e violente nella moschea che frequentava, mentre un altro membro più volte aveva aggredito nel suo college altri musulmani che bevevano alcol. In Germania, un tedesco convertito legato al gruppo “Unione della Jihad Islamica” si allontanò dalla sua famiglia affermando di non sentirsi più tedesco e di ritenere i suoi congiunti infedeli. I gravi incidenti che attraversarono le banlieu della periferia parigina nel dicembre del 2005, provocati soprattutto da giovani di origine nordafricana, evidenziarono le particolari difficoltà socio-economiche di quanti, provenienti dalle zone più degradate, hanno scarsa istruzione, poche prospettive di lavoro ed anche storie di piccola criminalità alle spalle. Costoro, sentendosi privati dei loro diritti e percependo come estranea la società che li ospita, restano più vulnerabili al messaggio radicale predicato in certe moschee o associazioni. Frequenti, infine, in tanti paesi europei i casi accertati da indagini di polizia circa l’attività di estremisti islamici che facilitano la radicalizzazione di giovani più suggestionabili con corsi di religione o di pratiche sportive, che fungono da copertura per la diffusione di messaggi antioccidentali o corsi di addestramento paramilitare e l’uso di armi o esplosivi. 27 Le carceri sono considerate aree molto sensibili per l’espansione dei processi di radicalizzazione collegata all’incremento dei detenuti di religione islamica. Le autorità hanno consapevolezza del fenomeno, che viene periodicamente affrontato anche nelle sedi internazionali per condividere le misure più idonee da intraprendere per arginarlo. Emerge tuttavia la necessità di sviluppare procedure rigorose di monitoraggio dei detenuti da parte di personale dotato di adeguata formazione specialistica, incrementando la collaborazione con le forze dell’ordine e gli apparati sociali, attraverso lo scambio di informazioni ritenute utili. Il fenomeno della radicalizzazione interessa, in conclusione, tutti i luoghi fisici che offrono supporto ideologico, come le moschee, le sale di preghiera, le associazioni islamiche, le scuole coraniche, le librerie islamiche. Ma anche i luoghi che offrono supporto logistico, come le imprese commerciali, fra cui internetpoint, call center e agenzie di money-transfer, spesso gestite da soggetti che hanno abbracciato la causa estremista jihadista, possono considerarsi aree fortemente permeabili ai processi di radicalizzazione. 3. I rapporti tra estremismo jihadista ed immigrazione illegale Tra gli esperti trova conferma l’esistenza di collusioni tra estremismo jihadista ed immigrazione illegale per la presenza di soggetti coinvolti in attività eversive –ed in fuga dalla pressione delle forze di polizia dei paesi d’origine- tra i flussi di clandestini giunti in Italia dall’area medio-orientale e dal Maghreb, dove gli estremismi ideologico-religiosi trovano terreno fertile. Nel 2009 sono stati espulsi dal territorio nazionale due clandestini tunisini che avevano presentato richiesta di protezione internazionale, ricercati dalle autorità del loro Paese per pregressa militanza in organizzazioni salafite-jihadiste. Inoltre è stato arrestato un estremista tunisino già coinvolto in un’indagine antiterrorismo negli anni scorsi, rientrato clandestinamente nel nostro territorio. In entrambi i casi si è trattato di soggetti che si erano inseriti tra i flussi di clandestini provenienti dalla Libia e diretti a Lampedusa. Il maggior rischio al riguardo è che le organizzazioni terroristiche, a cominciare da “Al Qaeda nel Maghreb Islamico”(AQIM), possano in prospettiva sfruttare tale canale per inviare elementi in grado di compiere azioni terroristiche; il nostro Paese può quindi essere utilizzato come punto di approdo o di transito per tali finalità. Al fine di delineare più approfonditamente il fenomeno, secondo alcune autorevoli fonti di analisi, si può procedere ad una distinzione di ipotesi: - quella che potrebbe vedere elementi fondamentalisti adoperarsi per costituire una struttura, interna a quella più propriamente terroristica, diretta a favorire il traffico di clandestini, con finalità di autofinanziamento o per favorire l’arrivo o il transito di combattenti; - quella in cui i tradizionali canali dell’immigrazione illegale sarebbero esclusivamente serventi all’arrivo di estremisti, i quali finirebbero con l’essere l’unico incidentale punto di contatto tra l’organizzazione terroristica e quella dedita al traffico di esseri umani. Da un’analisi dell’attività investigativa condotta in Italia in passato in direzione degli ambienti fondamentalisti, si può osservare come entrambe le ipotesi, seppure con contorni sfumati, siano emerse all’attenzione degli investigatori. Per quanto attiene l’aspetto dell’utilizzo da parte dei terroristi dei canali seguiti dai trafficanti di esseri umani, è significativa l’indagine compiuta nel settembre del 2008, allorchè fu arrestato un trentacinquenne algerino, precedentemente segnalato insieme ad un connazionale dalle autorità algerine come attiguo alla suddetta organizzazione terroristica di matrice jihadista “Al Qaeda nel Maghreb Islamico”, partito nel giugno del 2007 insieme ad un gruppo di clandestini diretti in Sardegna. Lo straniero era infatti giunto in Italia nel giugno del 2007 insieme ad altri 5 algerini sbarcati con un natante di fortuna sulle coste della Sardegna e da qui trasferiti in un Centro di Identificazione in Calabria, da dove nel luglio successivo avevano fatto perdere le loro tracce. Peraltro, l’arrivo in Italia del soggetto andava a riscontrare alcune evidenze d’intelligence che avevano segnalato la rotta della costa occidentale della Sardegna quale possibile punto d’approdo di elementi gravitanti nei gruppi terroristici nord africani in fuga dalla regione. In questo caso è stato possibile rilevare come la criminalità organizzata comune si sia trovata a prestare una forma di servizio nei confronti di una indistinta utenza, nella quale possono essere stati ricompresi soggetti vicini a formazioni terroristiche. Più recentemente, un ulteriore e significativo indice della connessione tra terrorismo internazionale ed immigrazione clandestina, è emerso in maniera evidente dagli esiti di un’attività investigativa che ha riscontrato gli stretti legami esistenti tra gli esponenti di vertice di una struttura terroristica avente il proprio 28 epicentro in Belgio, sospettata di perseguire progettualità offensive in Europa, e due cittadini francesi tratti in arresto in Italia, a Bari, nel novembre del 2008. Questi ultimi, infatti, furono fermati mentre tentavano di agevolare l’ingresso di clandestini in territorio europeo. In termini di analisi e di comprensione del fenomeno è da evidenziare il dato significativo che una considerevole parte degli stranieri coinvolti nelle indagini condotte in Italia sull’estremismo islamico, a partire dall’inizio degli anni ’90, ha fatto ingresso illegalmente in territorio nazionale e, successivamente ha tentato di regolarizzare in qualche modo la propria posizione di soggiorno attraverso diversi strumenti, compreso la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato. In relazione a quest’ultima circostanza, si sottolinea come di recente siano stati avviati in diverse strutture periferiche procedimenti per il riconoscimento dello status di rifugiato politico nei confronti di stranieri provenienti dall’Afghanistan o dal Pakistan, i quali, al momento della formalizzazione dell’istanza, nell’esporre le proprie vicende personali, hanno riferito episodi concernenti le formazioni terroristiche talebane stanziate nelle aree tribali presenti al confine fra quegli stati asiatici. L’aspetto inconsueto è che nonostante i richiedenti asilo siano stati ascoltati in province del territorio nazionale anche molto distanti tra loro, sono state rilevate diverse analogie nei racconti riferiti da ciascuno, in ordine a passate militanze nelle fila dei talebani, con partecipazioni ad azioni di guerra contro militari occidentali, periodi di permanenza in carceri afghane e modalità e circostanze di fuga dal Paese. Ciò ha portato a sospettare che dietro tali apparenti coincidenze possa in realtà celarsi una raffinata metodologia di immigrazione illegale che preveda l’istruzione specifica del clandestino, da parte delle organizzazioni criminali, sulla storia da raccontare come propria, al fine di ottenere i benefici previsti per gli asilanti. Ed evidentemente non può escludersi che questa “tecnica” possa essere sfruttata anche da militanti jihadisti per raggiungere scenari operativi. Ad oggi, quindi, sulla base dell’esperienza italiana si può ritenere che i contatti tra immigrazione clandestina ed organizzazioni terroristiche attive in Italia abbiano un carattere di occasionalità e sporadicità connesso all’eventuale facilitazione dell’ingresso e della permanenza sul territorio nazionale di soggetti coinvolti nell’attività di gruppi eversivi. 4. La minaccia proveniente dai circuiti nordafricani, della Somalia e dello Yemen: un trend in crescita La “Relazione sulla Politica dell’Informazione per la Sicurezza” del 2009 afferma che il continente africano rappresenta una rilevante area di riposizionamento di militanti e terreno in cui Al Qaeda tenta di guadagnare all’opzione internazionalista le varie espressioni jihadiste locali. Nell’ultimo anno la regione nordafricana ha evidenziato una sostanziale stabilità del quadro politico-istituzionale dei singoli Paesi. Si è tuttavia registrato, sul piano socio-economico, un incremento del malcontento popolare, cui si sono associati segnali di una crescente radicalizzazione religiosa e focolai di tensione alimentati da ambienti dell’estremismo jihadista. Tali sviluppi, unitamente alle loro correlate ripercussioni in termini di sicurezza interna e ordine pubblico, hanno interessato in primo luogo l’Algeria, ma anche il Marocco, la Tunisia, e, in misura minore, la Libia. Nel contempo, con riguardo agli equilibri politico-strategici regionali, la sensibilità dei rapporti tra Marocco ed Algeria si è ulteriormente palesata in relazione alle immutate distanze tra i due Paesi circa le aspirazioni indipendentiste del Fronte Polisario (espressione della popolazione saharawi, nel sud del Marocco), contrastate da Rabat e sostenute da Algeri. Il tema ha condizionato, nell’ultima parte dell’anno, anche le relazioni tra Rabat e Tripoli, in ragione del riconoscimento di fatto accordato dalle Autorità libiche al citato Fronte Polisario, in occasione delle cerimonie per il quarantennale della rivoluzione libica. E’ altresì emerso l’interesse di Tripoli e di Algeri ad esercitare un ruolo di rilievo nelle dinamiche politiche e di sicurezza che interessano la regione del Sahel ed in particolare il Mali ed il Niger, entrambi esposte all’azione disgregante dell’irredentismo tuareg e dell’estremismo jihadista. Al Qaeda nel Maghreb Islamico continua ad essere molto attiva nell’area, nonostante importanti operazioni antiterrorismo condotte in Algeria, che hanno impedito l’effettuazione di attentati di rilievo specie nel nord del Paese, arrestando o spingendo alla resa numerosi terroristi. Gli “organici” di AQMI sono stati prontamente ripianati con l’afflusso di volontari mauritani (i più numerosi), libici, maliani, marocchini, tunisini, nigeriani e burkinabè. Un’altra aliquota significativa è rappresentata dai libici, una parte dei quali avrebbe costituito una cellula semiautonoma con l’obiettivo di effettuare attentati sia in Libia sia nell’area sahelo-sahariana. 29 L’espansione di AQMI in tale area è legata ad esigenze diversificate, quali il reclutamento e l’addestramento di nuovi combattenti, l’approvvigionamento di armi ed esplosivi, la gestione di traffici illeciti, nonché la pianificazione di rapimenti di cittadini stranieri, ritenuti particolarmente remunerativi sotto il duplice profilo mediatico e finanziario. La “ mauritanizzazione” e, più in generale, l’ambizione di AQMI di darsi una dimensione extraregionale si rintracciano anche sul piano mediatico. Risale all’ottobre 2009 il comunicato, apparso su vari fori jihadisti, ove si annuncia la costituzione di un nuovo organo mediatico, denominato Al Andalus (l’Andalusia), indicato da AQMI come l’unica voce dell’organizzazione, che rappresenta nel nome –evocante l’occupazione della Spagna da parte dell’Islam- un appello ad estendere la jihad al fine di recuperare “fino all’ultimo pezzo di terra dell’Islam invaso” per applicarvi la sharia. L’iniziativa propagandistica concorre a rilanciare nell’intero quadrante il significativo rischio per gli interessi occidentali, ivi compresi quelli nazionali. Le difficoltà incontrate da AQMI ad imporsi in Nordafrica disegnano un quadro destinato ad accentuare la dipendenza della formazione algerina dalle falangi desertiche e possibilmente ad accelerarne una “deriva criminale”. Del pari, l’impasse generata nel jihadismo libico dalla revisione dottrinaria operata dai vertici storici del Gruppo Islamico Combattente Libico (GICL) si pone come possibile innesco per accelerazioni terroristiche intese a ribadire la vitalità e la credibilità delle espressioni armate. Nel complesso si valuta che nei rispettivi ambiti interni le dirigenze dell’area nordafricana manterranno gli attuali orientamenti, incrementando al tempo stesso le iniziative volte a contenere il diffondersi della tensione sociale. In ambito regionale non si attendono mutamenti sostanziali nelle attuali linee guida della politica estera e di sicurezza dei singoli Paesi. Nel Corno d’Africa si è registrata una persistente situazione di grave destabilizzazione dovuta alle attività dei movimenti radicali islamici Al Shabaab e Hizb Al Islam che si contrappongono al Governo Federale di Transizione ed al suo alleato, il movimento filogovernativo Al Sunnah wal-Jam’ah, di orientamento moderato. E’ alla particolare attenzione in questo contesto la deriva internazionalista di Al Shabaab, che da tempo mostra l’ambizione di ottenere il riconoscimento quale avamposto regionale di Al Qaeda. La presenza di cellule esogene tra i combattenti, nelle cui fila si ritrovano volontari provenienti dall’Europa potenzialmente utilizzabili anche per pianificazioni terroristiche in Occidente, è peraltro funzionale alle strategie di Al Qaeda, da tempo alla ricerca di una nuova zona franca per la realizzazione dei propri programmi e per l’allargamento della sua base territoriale. Il 22 febbraio 2009 Al Zawahiri ha presentato il video “Da Kabul a Mogadiscio”, mentre lo stesso Osama Bin Laden, il 19 marzo successivo, è apparso in un video intitolato “Continuate a combattere, campioni della Somalia”. A tale proiezione corrisponde, d’altro canto, il percorso intrapreso da Al Shabaab verso l’affiliazione ad Al Qaeda, sancito da un video diffuso a Mogadiscio in settembre, nel quale i combattenti dell’organizzazione somala giurano fedeltà ad Osama Bin Laden. Le sinergie tra Al Qaeda ed Al Shabaab sono funzionali ad instaurare in Somalia un governo islamico radicale, e, di conseguenza, un ambiente favorevole per lo sviluppo delle linee strategiche di entrambi i gruppi. Esse, inoltre, appaiono suscettibili di proiezioni sul piano internazionale. La crisi somala potrebbe in particolare avere concrete ripercussioni sulla sicurezza del Kenya e degli interessi occidentali presenti a Nairobi, considerate la permeabilità dei confini e le minacce più volte indirizzate da Al Shabaab e da Hizb Al Islam alle autorità keniote per indurle a non intervenire militarmente a favore del Governo Federale di Transizione. La crisi, inoltre, pare destinata ad affiancare le altre “cause celebri” del jihadismo fungendo da richiamo per volontari reclutati nella diaspora, inclusa quella in Italia, nonché da innesco per attivazioni offensive in Occidente. Un’esposizione a rischi per il nostro Paese appare poi correlabile al ruolo di alto profilo assunto dal Governo italiano a sostegno del Governo Federale di Transizione. Un ulteriore elemento di criticità per la sicurezza regionale ed internazionale è rappresentato dal fenomeno della pirateria, manifestatosi con particolare intensità soprattutto nelle acque del vastissimo bacino somalo dell’Oceano Indiano. In quest’area i pirati hanno dimostrato di saper operare a distanze che sfiorano le 1000 miglia nautiche dalla Somalia, oltre le isole Seychelles, spingendosi a sud fino al largo delle coste della Tanzania. Nello Yemen si è verificato un sensibile deterioramento della cornice di sicurezza, collegato all’attivismo di formazioni qaediste sostenute dal massiccio afflusso di combattenti sauditi. Focolai di tensione nello Yemen si sono proposti in diverse aree del Paese. Particolarmente complessi sono stati gli sviluppi nel governatorato di Sa’da (Yemen settentrionale), dove è ripresa la campagna insurrezionale da parte delle milizie separatiste zaydite (sciite), intenzionate a ricostituirvi uno Stato islamico (“imamato”). Ciò ha 30 comportato il riacutizzarsi degli scontri tra le predette milizie e le forze di sicurezza di Sana’a ed il conseguente repentino deterioramento della situazione umanitaria nelle zone interessate dai combattimenti, con un sensibile aumento del numero dei profughi. Tumulti hanno continuato ad interessare lo Yemen meridionale, ove si è evidenziato il dinamismo di personalità sud-yemenite intenzionate a canalizzare il malcontento popolare per rivitalizzare l’istanza indipendentista dell’ex Yemen del Sud. In prospettiva, una degenerazione del quadro generale rischia di compromettere sia i delicati equilibri interni sia gli sforzi di Sana’a di accreditarsi quale riferimento per la lotta al terrorismo jihadista e per il contrasto al fenomeno della pirateria. Si ritiene probabile un’intensificazione dell’opera del Governo intesa a ricercare sostegni in ambito regionale ed internazionale, anche facendo leva sui rischi incombenti per gli interessi occidentali connessi con una eventuale destabilizzazione del Paese e con un crescente attivismo qaedista. La saldatura tra il gruppo saudita e quello yemenita di Al Qaeda ha gettato le fondamenta per la nascita, annunciata a gennaio del 2009 della componente regionale di Al Qaeda nota come Al Qaeda nella Penisola araba (AQAP). Ciò ha segnato un’evoluzione nelle strategie della galassia jihadista, rilanciando il territorio yemenita sia quale “base operativa avanzata” per portare attacchi contro l’Arabia Saudita (come prova il fallito attentato suicida del 27 agosto 2009 al Vice Ministro dell’Interno saudita) sia quale area di addestramento per elementi destinati ad agire in chiave antioccidentale anche al di fuori della regione (come sembrano dimostrare le risultanze sull’esistenza di una sponda yemenita per la sventata azione di Natale sul volo Amsterdam-Detroit). 5. Al Qaeda 2010: caratteristiche e tipologie 5.1. La casa madre, gli affiliati, gli ispirati, i lupi solitari L’Operazione Northwest, con il fallito attacco al jet statunitense a Detroit, il tentato omicidio di un vignettista danese da parte di un estremista somalo, la tensione cronica nella penisola arabica come nel teatro afghano-pakistano, il fallito tentato con auto-bomba in Times Square del 1° maggio 2010 da parte di un cittadino americano di origine pakistana 46 , hanno rilanciato le analisi sullo status di Al Qaeda e dei suoi affiliati. Come ormai accade da un paio di anni, le valutazioni non sono convergenti. O per lo meno lo sono in parte. Continua ad esserci una corrente di pensiero – specie negli Usa – che ritiene il qaedismo ancora molto pericoloso, anche se ha perso gran parte delle sue capacità strategiche. Altri esperti tendono a ridimensionare la minaccia globale riconoscendo però la possibilità di una serie di attacchi minori. Di certo la vocazione ad attaccare, sia a livello individuale che di gruppo, resta altissima. La spinta, però, trova solo applicazioni ridotte, nel senso che l’aspirazione non si traduce in un attentato, oppure l’attacco rimane racchiuso negli scenari regionali. Pur continuando ad inseguire, a livello teorico, i loro obiettivi, i terroristi che si riconoscono nel messaggio di Osama Bin Laden agiscono in base alle loro possibilità o occasioni. Poi, a livello propagandistico e con il decisivo contributo di Internet, cercano di presentare le varie azioni, compresi i semplici tentativi, come qualcosa all’interno di un disegno più ampio. In modo schematico la “Al Qaeda 2010” si può rappresentare in questo modo: - “La casa madre”: i fedelissimi rimasti con Osama Bin Laden ed Al Zawahiri nel teatro afghanopakistano. “Gli affiliati”: formazioni areali che si richiamano all’Al Qaeda tradizionale ma con legami variabili: ideologici, attraverso terzi, con contatti sporadici. Una evoluzione della categoria è rappresentata dagli 46 L’americano di origine pakistana è Shahzad Faisal ed è stato fermato dalla polizia mentre cercava di imbarcarsi su un aereo al J.F. Kennedy Airport, forse per andare a Dubai. Secondo le prime informazioni, l’uomo viveva nello Stato del Connecticut, ha circa 30 anni, ed è il proprietario del veicolo trovato con il motore acceso e pieno di esplosivi. L’attacco è fallito grazie alla prontezza di alcuni negozianti ambulanti vicini all’auto sportiva, un Suv, che hanno subito chiamato gli artificieri. Fonti della polizia affermano che l’uomo è tornato di recente da un viaggio in Pakistan e tre settimane prima dell’attentato aveva comprato l’auto, pagando in contanti e senza documenti di passaggio di proprietà. 31 - - ibridi, di cui parleremo dopo, fazioni che mescolano agenda locale a obiettivi internazionali. L’esempio più evidente è quello dei qaedisti yemeniti e dei separatisti di Lashkar-e-Taiba, forse oggi la formazione più pericolosa per capacità e diramazioni. “Gli ispirati”: cellule o individui che agiscono basandosi sulla semplice ispirazione del messaggio di Bin Laden. A volte hanno una preparazione militare sommaria, molto più spesso evidenziano scarse conoscenze di natura eversiva ma una forte determinazione. Alcuni hanno avuto anche possibilità di recarsi nelle aree tribali al confine tra Afghanistan e Pakistan per cercare un aggancio e seguire un breve addestramento all’uso di esplosivi. “I lupi solitari”: sono, per certi aspetti, una sottoclasse degli ispirati. Fanno tutto da soli, dall’indottrinamento all’azione. Quella che consideriamo la casa madre, ossia Al Qaeda centrale, il nucleo rimasto attorno a Bin Laden e Al Zawahiri, ha visto ridursi il suo spazio. Concentrata nell’area tribale Pakistana e nei centri abitati del paese, è tenuta sotto pressione. Da una parte c’è l’azione dei droni e probabilmente di forze speciali americane: una caccia che non elimina il problema ma in alcune situazioni costringe i capi in clandestinità e ad assumere un atteggiamento particolarmente prudente. Dall’altra c’è una pressione, a corrente alterna e ambigua, delle autorità del Pakistan 47 . Non è decisiva, ma sufficiente a creare problemi ed a indurre i terroristi alla prudenza. Al Qaeda centrale è ridotta probabilmente anche nel numero. Una parte operano in autonomia, altri si sono fusi con gruppi locali o regionali non proprio omogenei. Per citarne alcuni: gli uzbeki, i turchi, i kashmiri e ovviamente i Pakistani. Una scelta quasi obbligata. Vivono nella stessa area, sfruttano i loro network, sperano di poterli convincere a lanciare operazioni a lungo raggio. I legami emersi, in passato, tra estremisti tedeschi e quelli uzbeki rappresentano un segnale allarmante perché questi rapporti sono probabilmente continuati ricevendo una ulteriore intensificazione. Su questo risvolto si possono evidenziare le segnalazioni su un numero crescente di cittadini tedeschi di origine turca presenti nell’area tribale o nello stesso Afghanistan (due di essi hanno partecipato ad azioni suicide), e la presenza di elementi, specie in Germania, in rapporto con i militanti uzbeki residenti nell’area tribale, che possono essere impiegati per azioni in Europa (indagini del passato hanno già dato prova di diversi tentativi in questo senso). V’è in proposito molta propaganda internet di videomessaggi abbastanza articolati e testi con protagonisti cittadini tedeschi, documentazione che ha suscitato l’attenzione anche di militanti fai-date in Europa, come verosimilmente il libico Mohammed Game, responsabile del recente fallito attacco di Milano. Bisogna pure dire che il filone tedesco rappresenta per certi aspetti una contro-tendenza, dal momento che taluni servizi di sicurezza europei hanno registrato, nell’autunno 2009, un calo nel flusso di volontari verso l’Asia Centromeridionale. 47 Per lungo tempo, il Pakistan ha tollerato la presenza di gruppi talebani locali nelle aree al confine con l’Afghanistan, consentendo loro di insediarsi al fine di esercitare, attraverso di loro, un’influenza in Afghanistan (occorre sottolineare che, all’epoca della presa del potere di Kabul, il Pakistan, insieme ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi, fu l’unico stato a riconoscere il governo talebano). I vertici politico-militari pakistani hanno sempre considerato conveniente, per propri fini, la politica del vivi e lascia vivere: ai Talebani le loro basi in cambio del mantenimento di un equilibrio precario ma rassicurante. In seguito all’intervento Usa nell’area, il Pakistan, pur mantenendo una posizione ambigua, è dovuto scendere a compromessi con gli americani. Le operazioni militari di Islamabad si sono però sempre circoscritte a rappresaglie, ad incursioni contro i miliziani che assumevano l’iniziativa, attaccando per primi le truppe pakistane. Si sono, in sostanza, lasciati in pace quei gruppi guerriglieri che, all’interno del Pakistan, si limitavano ad esercitare il loro potere territoriale o a progettare attacchi in Afghanistan. Nella fase odierna, i comandi militari pakistani starebbero invece maturando l’idea di assumere l’iniziativa e attaccare le roccaforti talebane, in particolare nel Waziristan del Nord. Il cambiamento di paradigma all’interno dell’esercito pakistano è attribuibile a due fattori. Da un lato, i rapporti con l’Amministrazione Usa si stanno notevolmente rafforzando e i due eserciti, con l’inizio dell’era Obama, hanno cominciato a cooperare più strettamente. Dall’altro, nelle aree al confine con l’Afghanistan, l’articolata galassia di gruppi, sigle ed etnie locali, da sempre resistenti ad accettare il potere centrale (i talebani, afgani e pakistani, unitamente ai miliziani forestieri di Al Qaeda) si stanno saldando insieme in una fitta rete di collaborazione militare, secondo una trama che inquieta le autorità pakistane. 32 Al Qaeda continua a mantenere rapporti anche con elementi britannici di origine Pakistana, bengalese o indiana residenti nel Regno Unito: questa “colonia” variegata e frammentata rappresenta un potenziale serbatoio di mujaheddin. Ulteriore serbatoio di mujaheddin è quello degli “emiri dagli occhi blu”, ossia persone con cittadinanza e passaporto non sospetti, cui affidare una missione, reclutati direttamente o con intermediari in Africa, Europa o in Usa, con trasferimento in Asia per l’addestramento e ritorno al paese d’origine; oppure utilizzati per fare da sponda ad un adepto, o ad un terrorista fai-da-te che cerca un contatto a distanza. Un movimento, si può dire, dal basso verso l’alto, come i casi di uomini e donne convertiti all’Islam, poi diventati aspiranti terroristi con un processo di radicalizzazione repentino, dove è sempre internet ad avere un peso significativo. Ricordiamo le donne americane, con esperienze familiari problematiche e difficili, che sono entrate in contatto con elementi mediorientali residenti da tempo in Europa, ed hanno aderito ad un gruppo intenzionato ad uccidere un vignettista svedese: realtà che hanno un legame puramente ideologico con Al Qaeda, ma che comunque ambiscono a “fare qualcosa” in base alle loro possibilità. L’insieme di queste figure, dei qaedisti tradizionali, degli elementi alleati a fazioni locali, dei volontari che raggiungono lo scacchiere asiatico, porta in ogni caso a considerare l’area tribale e lo stesso Pakistan come luogo d’attesa o come piattaforma per future azioni. 5.2. Opportunità e casualità: i nomadi della jihad e gli ibridi Per il professor Bruce Hoffman 48 , tra i più convinti della pericolosità di Al Qaeda, il movimento sta inseguendo la strategia dei “mille tagli”. Non un grande colpo, ma tante ferite, ossia una serie di attacchi minori al posto di un’azione spettacolare come quella dell’11 settembre. Gli obiettivi dell’organizzazione restano intatti: creare distrazione ed allungare le linee del controterrorismo, quindi cercare di organizzare operazioni dove è possibile; sfruttare la crisi economica in Occidente; far pagare un alto prezzo in termini di sicurezza; spingere per la destabilizzazione in quelle regioni dove agiscono gli affiliati: Yemen, Arabia Saudita, Somalia, Sahel; tentare di dividere l’Occidente, specie in Afghanistan. Lo provano le forti polemiche in Gran Bretagna sulla continuazione della missione e la recente caduta del governo olandese proprio sull’impegno a Kabul. Nella propaganda jihadista è quello che viene definito il sentiero spagnolo: minacce, attacchi minori, quindi un grande colpo – la strage di Madrid – che ha inciso sulla mancata rielezione di Aznar. Se non sono in grado di incidere militarmente in Europa si “adattano” ad attaccare i contingenti in Afghanistan ed eventuali simboli. In questi mesi si è a lungo dibattuto se Al Qaeda abbia bisogno di un rifugio ben costruito, un safe haven. Due le interpretazioni: la prima tende a sminuire l’importanza dei nascondigli afghano-Pakistani e, a sostegno della propria tesi, ricorda come gli ultimi grandi attentati siano stati concepiti essenzialmente in Occidente, aggiungendo che oggi Al Qaeda, non disponendo più di una vera organizzazione, punta sugli individui, neppure troppo preparati: quelli che vengono definiti “i nomadi della jihad”, che sono ovunque e da nessuna parte, si mantengono in contatto con i network sociali, agiscono come possono. La seconda interpretazione, invece, ritiene che senza l’Afghanistan, e l’area tribale, quel che resta di Al Qaeda non potrebbe sopravvivere. I leader in questa regione avrebbero una certa libertà di movimento impensabile in altri teatri ed inoltre godono di ospitalità ed appoggi difficili da trovare altrove. La lunga permanenza ha permesso loro di stabilire rapporti personali ed anche familiari o tribali, per esempio attraverso matrimoni con esponenti locali. Una ripetizione, su scala più ampia, di quanto avvenne in Bosnia durante il conflitto: molti mujaheddin sono rimasti nella regione grazie all’unione con donne bosniache. La geografia e la composizione sociale sono ottime alleate: le montagne sono un ostacolo per chi è impegnato nella caccia ai terroristi. Alcuni centri urbani, tra cui Quetta e Karachi, equivalgono ai rifugi in montagna; la maggior parte dei leader estremisti sono stati catturati proprio nelle città. Il caso Northwest, di cui si è detto, la crisi somala, il perdurare della conflittualità in Algeria, la tensione nella regione sub sahariana con il fenomeno del terrore mescolato al banditismo, gli attentati in India e la stessa situazione nell’area tribale hanno fatto e fanno da sfondo al diffondersi dei gruppi “ibridi”. Le formazioni ibride hanno come dato saliente la tendenza a conferire alla loro agenda una proiezione internazionale. Si richiamano, anche nel nome, ad Al Qaeda nel tentativo di rappresentarsi come una costola attiva del movimento più grande; uniscono il carattere rivoluzionario del rovesciamento del regime locale con 48 Bruce Hoffman è docente alla Georgetown University’s Edmund A. Walsh School of Foreign Service a Washington. Già Presidente della RAND Corporation, centro privato di ricerche in materia di strategia e d’organizzazione militare. 33 la jihad globale. I loro obiettivi sono il “nemico vicino” (regime, autorità, militari, simboli locali) e quello “lontano” (l’America e gli occidentali in genere), obiettivi che tentano di colpire dove possono: con l’operazione Northwest hanno cercato di compiere un’azione spettacolare nei cieli Usa, oppure attaccano bersagli stranieri nel paese dove operano, come ambasciate e turisti. Non sono caratterizzati da grandi numeri: qualunque cifra è da considerare con molta cautela. A giudizio di diversi esperti le gerarchie in questi gruppi sono meno certe, le fazioni appaiono eterogenee, spesso soffrono di forti attriti. Una situazione dovuta ad una debolezza intrinseca, ad una difficoltà a reclutare elementi validi, ad una organizzazione di fondo piuttosto limitata. E’ ancora l’individuo a sostenere lo sforzo finale: il nigeriano Faruk Abdulmutallab del caso Northwest ed il somalo che ha assalito il vignettista in Danimarca sono esempi abbastanza chiari. La realtà ibrida presenta vantaggi e svantaggi per i terroristi. Circa i vantaggi, sicuramente ne traggono benefici sul piano propagandistico perché si presentano capaci di sfidare i servizi di intelligence e necessitano di minore capacità organizzativa. Infatti, affidandosi al singolo o comunque ad un numero ridotto di uomini non bisogna pensare troppo alla logistica. Una situazione che spesso è una scelta obbligata: se non hanno un santuario sicuro, devono trovare alternative. E quindi è facile preparare un giovane nigeriano, ben più complicato è creare un campo d’addestramento. Per le stesse ragioni possono provare ad agganciare qualcuno che già vive in Occidente. Un contatto che può avvenire con una terza persona. La presenza di “facilitatori” a Londra o Bruxelles è sufficiente a creare il canale. Poi si decide cosa fare. Per i servizi anti-terrorismo è più arduo distinguere la minaccia: il caso Northwest ha colto in parte di sorpresa; il focus, per mesi, è stato, a ragione, il Pakistan, ma l’attacco è giunto dalla penisola arabica per mano di un giovane nigeriano. Illuminante, al riguardo, è anche il fallito attentato in Times Square del 1° maggio 2010. Per quanto concerne gli svantaggi, c’è da dire che i terroristi moltiplicano i nemici, agevolando talvolta gli apparati antiterrorismo nel fornire una risposta più coordinata. E’ vero che tra governi locali e Stati Uniti le differenze e le diffidenze restano ampie, però almeno sul piano tattico producono risposte congiunte. Alcuni esempi: i raid yemeniti sostenuti dagli Usa, le incursioni delle forze speciali Usa in Somalia, i colpi di maglio inferti dai droni nell’area tribale al confine tra Pakistan e Afghanistan, il sostegno ai governi africani da parte del Pentagono. Gli estremisti, inoltre, possono avere obiettivi confusi o ambigui. Manca, a volte, una linea strategica chiara e ciò aiuta la nascita di dissensi e vere fratture. Lo vediamo, ad esempio, con Al Qaeda nella terra del Maghreb, afflitta da contrasti interni, dopo la scelta dell’emiro Droukdel 49 di “fondersi” con Al Qaeda e usare gli attacchi kamikaze. Sono emersi, infine, dissidi anche nella gestione dei sequestri di persona: il gap territoriale ed una certa autonomia dei responsabili portano a scelte variabili. Ed ancora, la contiguità con ambienti criminali nel Sahel toglie “purezza” alla lotta: è evidente che in quest’area ci sono personaggi che agiscono secondo la regola dei due turbanti: il primo qaedista, il secondo da predone del deserto. Il caso Zazi La vicenda personale e giudiziaria di Najibullah Zazi, cittadino americano di origini afghane, aiuta a comprendere il modus operandi qaedista e i rischi di infiltrazione nei paesi occidentali. Zazi nasce nel 1985 nella provincia afghana di Paktya, all’età di sette anni si trasferisce negli Stati Uniti (area di New York) al seguito della famiglia; studia in America, ha una vita in apparenza normale, come quella di tanti coetanei. E’ religioso ma non integralista, o perlomeno non rivela idee radicali. Non termina gli studi e fa il venditore ambulante di caffè nella zona di Wall Street. Nel 2006 si sposa con una cugina che vive in Pakistan e quando rientra negli Usa inizia un processo di re-islamizzazione radicale. Si veste all’orientale, si fa crescere la barba, i suoi comportamenti, secondo testimoni, sono più bruschi. Sembra che Zazi compia almeno altri due viaggi in Pakistan (2006 e 2007) per visitare la moglie dalla quale ha avuto due figli. E’ possibile che in questi soggiorni abbia contatti con 49 Abdelmalek Droukdel, alias Abu Mossaab Abdelouadoud è il leader di Al Qaeda per il Maghreb Islamico (AQMI) che ha rivendicato una serie di attentati suicidi in Algeria. AQMI ambisce ad unificare sotto la propria egida i movimenti islamici del Maghreb e del Sahel e l’emiro algerino Droukdel, ha introdotto nell’organizzazione l’attentato suicida ispirandosi al giordano Al Zarqawi ucciso in Irak dall’esercito americano. 34 ambienti estremisti. Zazi negli Usa frequenta una moschea che dopo l’11 settembre 2001 ha subito una frattura interna, la corrente moderata è messa da parte da una più estrema. Un amico ricorda che dopo l’attacco alle Twin Towers, l’afghano mostra sorpresa per l’azione kamikaze e dice: “Non potrei mai fare una cosa simile”. Il terrorista avrebbe seguito su Youtube i sermoni e gli appelli alla lotta di Zakir Naik, un predicatore indiano noto per le posizioni estreme. Inoltre Zazi visita spesso il sito del gruppo estremista deobandi Tanzim-e-Islami. Nel 2008, insieme a due complici, Zazi esprime il desiderio di combattere al fianco dei talebani in Afghanistan. E nell’agosto di quell’anno i tre raggiungono il Pakistan. In una confessione resa all’autorità statunitense conferma che era sua intenzione unirsi ai ribelli. Ma quando arriva a Peshawar viene reclutato da Al Qaeda che lo porta in un campo di addestramento nel Waziristan. I suoi referenti gli illustrano il piano: i tre, una volta preparati, dovranno rientrare in America e prepararsi ad un’azione di “martirio”. Durante questa fase riceve ulteriori istruzioni tecniche, formule su come preparare ordigni con materiale reperibile sul mercato civile, indicazioni sugli obiettivi da attaccare a New York. Si parla di ponti, impianti sportivi e metrò. A febbraio 2010 non era stato ancora chiarito chi fossero i referenti di Al Qaeda. Fonti giornalistiche hanno prima indicato Mustafa Abu Yazid, egiziano, ritenuto uno dei responsabili operativi e finanziari del movimento. Una tesi poi smentita. E’ a questo punto interessante notare il rapido percorso temporale dell’afghano verso una possibile azione. Dicembre 2008: mentre è ancora in Pakistan, manda al suo indirizzo di posta elettronica delle immagini o file pdf che mostrano note scritte a mano su come fabbricare bombe. 15 gennaio 2009: Zazi fa rientro negli Stati Uniti e pochi giorni dopo si muove da New York a Denver (Colorado). Giugno 2009: trasferisce le istruzioni sugli ordigni dall’e-mail al suo computer portatile 25 luglio 2009: usando carte di credito rubate acquista in un negozio di prodotti di bellezza una prima partita di materiale: acetone, tinture per i capelli. Insomma prodotti per realizzare la madre di Satana, sostanza esplosiva usata da molti terroristi fai da te. Conduce anche ricerche su come impiegare acceleratori “naturali” (prodotti alimentari) per favorire l’esplosione. 28 agosto 2009: nuovi acquisti di materiale. Quindi si sistema in un motel dove “mixa” le sostanze, conduce dei test. La sua stanza è dotata di una piccola cucina, indispensabile per condurre gli esperimenti. 6/7 settembre 2009: scambi di e-mail con un altro individuo: si tratta di messaggi legati alle formule per preparare gli ordigni e a problemi incontrati nella messa a punto. 8 settembre 2009: noleggia una vettura e guida fino a New York. Il 19 settembre viene arrestato. Zazi nega tutto. Ma nel febbraio 2010 si dichiara colpevole e ammette il suo piano di attentati. L’FBI avrebbe iniziato a seguirlo fin dal suo rientro dal Pakistan, forse segnalato da qualcuno che ha iniziato a collaborare con le autorità federali. La pericolosità di Zazi sta nella sua “normalità”, non solleva sospetti, quasi banale nella sua vita. Inoltre è un cittadino americano, cresciuto negli Usa. Ha un lavoro, pur modesto. L’afghano non si discosta molto dagli attentatori di Londra del 2005. In appena nove mesi passa da un semplice supporto per gli islamisti ad una fase attiva, pronto a colpire. Nel caso Zazi emerge in modo chiaro come opera, oggi, Al Qaeda: un’organizzazione ridotta al minimo; una missione affidata ad un uomo solo ed a due complici; un legame stabilito da un breve training e dagli ordini impartiti; assenza di finanziamento; ricorso ad esplosivi artigianali, che non si sa se avrebbero funzionato. Il caso Headley Il caso di David Coleman Headley presenta una nuova figura: quella di un terrorista che si muove ed agisce tra Occidente ed Oriente come un agente segreto. Non è un lupo solitario anche se gran parte dell’attività la svolge in modo individuale, è ben connesso con una realtà eversiva Pakistana radicata nel Waziristan. Nato 49 anni fa in Pakistan, il padre è un diplomatico Pakistano e la madre cittadina americana. Studia in un college militare locale ed all’età di 16 anni si trasferisce negli Usa, dove vive in diverse località, ma cresce a Chicago. Nel 1996 è accusato di traffico di stupefacenti. Nel 2006 cambia il nome da Davoud Gilani in David Coleman Headley, per gli investigatori si tratta di una decisione per favorire la sua azione di estremista infiltrato. 35 Dopo lunghe indagini viene incriminato il 14 gennaio 2010 dalle autorità Usa insieme ad un complice, un canadese di origine Pakistana, Tawahur Hussain Rana. La coppia, attraverso l’ex maggiore Pakistano Abdur Rahman Hussain Syed, detto Pasha, entra in contatto con Ilyas Kashmiri, membro del Harkat Ul Jihad Al Islami e con il gruppo Lashkar e Taiba. Ci sono inoltre 4 membri del Lashkar non identificati in contatto con Headley. E’ stato accertato che “Pasha” non solo garantisce i rapporti ma assicura anche i finanziamenti: Headley, tra il 2006 e il 2008, riceve oltre 30 mila dollari. E’ evidente il ruolo di facilitatore di Pasha Headley e Rana diventano strumenti di due complotti: il primo è quello di Mumbai (attacco agli hotel nel novembre 2008), il secondo riguarda un piano di attacco contro un giornale danese che ha pubblicato le famose vignette blasfeme. Headley frequenta campi di addestramento del Lashkar nel periodo 2002-2003, quindi molto tempo prima di passare all’azione e di cambiare nome. E’ un chiaro investimento da parte del gruppo separatista. Dal settembre 2006 al marzo 2009 Headley compie numerosi viaggi di ricognizione in India. Si tratta di vere missioni: raccoglie dati, usa una videocamera e un apparato Gps fornitogli dai suoi referenti, soggiorna in hotel poi attaccati, si finge ebreo, stabilisce relazioni personali con figure del cinema indiano. Di nuovo, risulta evidente il suo carattere di infiltrato. Identico comportamento nel periodo ottobre 2008-ottobre 2009 nella preparazione di un possibile attacco in Danimarca. Usa coperture per recarsi a visitare il giornale, filma, prende note. Quindi riporta tutto ai suoi referenti. Sia nel primo caso che nel secondo dopo ogni ricognizione Headley non teme di recarsi in Pakistan per incontrare Kashmiri, dal quale riceve ordini e consigli. E’ ad esempio Kashmiri a consigliare l’uso di un camion bomba per colpire il giornale, è ancora lui a promettere che ci sarà un suo uomo in Europa a fornire denaro e assistenza a Headley. Nel luglio del 2009, Syed viene fermato in Pakistan e Headley chiede cosa deve fare, Kashmiri gli dice di proseguire. Risvolto già osservato in altre inchieste (esempio in Germania con una cellula legata agli uzbeki): la cattura di un elemento non ferma il piano. Così Headley compie altre ricognizioni in Danimarca in vista dell’attacco. Il 3 ottobre è arrestato negli Stati Uniti mentre sta per lasciare il paese diretto, probabilmente, in Pakistan. Dalla vicenda Headley emergono i seguenti punti: innanzitutto la conferma di come nell’area tribale esistono personaggi in grado di pilotare operazioni “vicine” (India), ma anche “lontane” (Danimarca); poi la presenza di micro cellule di due o tre elementi inserite in realtà più ampie, e l’estrema adattabilità di figure come Headley, che vive negli Usa, ma è capace di operare in Europa ed in India, di partecipare ad un attacco o raccogliere informazioni per un complotto articolato come quello di Mumbai. Emerge, inoltre, il ruolo di fazioni, come Lashkar e Taiba, quali cinghie di trasmissione per far muovere un piano: possiamo dire che hanno sostituito Al Qaeda centrale, alla quale sono comunque legati ideologicamente e, per alcuni aspetti, anche operativamente. E’ il carattere ibrido di alcune fazioni, molto sensibili a condurre una campagna contro l’avversario tradizionale, come l’India, ma pronte ad allargare il fronte su scala globale. Il reclutamento di Headley si inserisce in un fenomeno più ampio registrato negli Stati Uniti dove sono state arrestate dozzine di persone con l’accusa di terrorismo. In numerosi casi – è bene sottolinearlo – si tratta di persone intrappolate da un agente provocatore che li ha istigati a delinquere e ne ha poi favorito l’arresto prima che potessero nuocere. In queste figure non manca una nota “amatoriale”, anche se non va sminuita la volontà di battersi. E’ curioso rilevare, a questo proposito, come non sono mancate situazioni dove il “volontario” una volta arrivato nell’area tribale Pakistana sia stato respinto dai militanti nel timore che si trattasse di una spia. Da ciò si può evincere come i qaedisti, anche se non hanno una grande scelta, agiscono in modo cauto. Nel contempo, però, non sappiamo quante operazioni di infiltrazione siano state coronate da successo. 36 I casi Zazi e Headley costituiscono un esempio di quali possano essere le sorprese in un paese occidentale: se il primo è stato fermato in tempo, il secondo ha potuto dare un contributo decisivo allo spettacolare e sanguinario attacco all’area degli hotel a Mumbai. 5.3. Altre tipologie di estremismo jihadista: gli homegrown e i convertiti Altro fenomeno di rilievo da evidenziare in questo contesto è quello dei cosiddetti “homegrown”, di cui si è già fatto cenno. Con questo termine ci si riferisce ai figli di immigrati nati e cresciuti in occidente, che si radicalizzano prevalentemente in seguito ai condizionamenti di correligionari attestati su posizioni estremiste. Si tratta generalmente di soggetti resi vulnerabili da situazioni di disagio sociale, o economico, o ambientale, che scelgono l’opzione violenta. Ma a detto termine vengono associate anche tutte quelle manifestazioni autoctone del terrorismo jihadista non importate, e quindi anche quelle degli immigrati di prima generazione, come il richiamato libico Mohammed Game, il cui processo di radicalizzazione è avvenuto del tutto o prevalentemente in Occidente. La formazione degli homegrown, quindi è endogena ed avviene per effetto della propaganda di Al Qaeda, in grado di raggiungere attraverso il web tutti i musulmani nel mondo. All’effetto di questa propaganda, si aggiungono cause locali, come i luoghi di culto in cui vengono diffuse concezioni radicali dell’Islam, o come i conflitti tra comunità locali e comunità musulmane. Allo stesso modo si evidenziano quei “convertiti”, che hanno abbracciato la fede musulmana e condividono le posizioni estremistiche proprie dei mujaheddin e che svolgono una funzione non irrilevante nella strategia propagandistica di Al Qaeda, che tende a sfruttare –come riportato nella “Relazione sulla Politica dell’Informazione per la Sicurezza” del 2009- l’immagine per dimostrare come la società “miscredente”, a causa della corruzione dilagante dei suoi valori, sia ormai sempre più rifiutata non solo dalle nuove generazioni di musulmani, nati o cresciuti in terre d’immigrazione, ma anche dai suoi stessi figli naturali. In vari Paesi europei si è assistito negli ultimi anni ad un aumento delle conversioni all’Islam, che se interessa individui fragili rischia di avvicinarli a posizioni estremiste. Queste persone, infatti, potrebbero volersi inserire, essere accettate e comunque essere pronte a fare qualsiasi cosa per mettersi alla prova. Cercando nell’Islam una tregua da un passato inquieto, potrebbero essere spinte a credere che alcune azioni, come ad esempio la partecipazione ad un attentato suicida, possa offrire un’opportunità per la propria salvezza e perdono. Molte conversioni avvengono mediante il contatto con islamici nelle carceri. L’attentatore scoperto con l’esplosivo nelle scarpe nel Regno Unito, Richard Reid, si convertì all’Islam in carcere. Le carceri che accolgono molti estremisti possono diventare delle “scuole” dove militanti estremisti islamici trasmettono o impongono agli altri la loro violenta ideologia. Molti detenuti abbracciano l’Islam per ragioni di sopravvivenza: l’accettazione nella comunità di individui che sono già musulmani è immediata e la partecipazione alle attività islamiche aiuta a consolidare il senso di identità tra i convertiti. Molte conversioni sono dovute alla propaganda dei predicatori itineranti, come i Tabligh, di cui si è già parlato. Costoro spesso riescono ad inviare i convertiti a studiare in paesi quali il Pakistan, dove entrano in contatto con estremisti. Per essi l’Islam è diventata la religione degli oppressi e quindi un mezzo ideale per esprimere il malcontento verso la società e l’occidente in generale. Il numero delle conversioni in Europa è notevole, specialmente in Francia, Germania e Regno 50 Unito . Sia gli homegrown che i convertiti sono coinvolti nell’offensiva mediatica in rete e nella proliferazione di web-forum ove sono diffusi testi dottrinali, comunicati dei vertici qaedisti e manuali per il cosiddetto terrorismo fai-da-te. 6. Al Qaeda 2010: il martirio 6.1. Il martirio e le motivazioni religiose, il suicidio nell’accezione sunnita ed in quella sciita Il martirio come sacrificio di sé per una causa sacra si ritrova nella maggior parte delle religioni. Si associa, nel Cristianesimo come nell’Islam, alla nozione di testimonianza, idea a sua volta collegata alla lotta contro l’ingiustizia e l’oppressione. Oltre che nell’Islam, l’associazione è molto forte anche nella religione 50 Secondo le statistiche, l’8% dei jihadisti arrestati in Europa è convertito. I Paesi più a rischio sono Gran Bretagna e Germania. In Germania, ci sono 4mila convertiti all’islam all’anno. 37 Sikh 51 . Il legame risiede nell’idea che l’ingiustizia ha origine nella negazione di Dio e che l’oppressore è un eretico. La lotta contro l’eresia e contro l’empietà può essere quindi all’origine del martirio, del combattere fino alla morte coloro che snaturano la religione e va di pari passo con la denuncia dei tiranni e degli oppressori. Nelle modalità dell’azione, si identificano due tipi di martirio. Il primo è un martirio difensivo: non si tratta di lottare con violenza contro l’eretico o l’oppressore, ma di testimoniare fino alla morte la ragionevolezza della propria causa opponendo un atteggiamento di sfida non violenta. E’ il caso del martire cristiano, che respinge l’azione violenta, ma rifiuta anche di obbedire all’ordine del governatore che vorrebbe obbligarlo a seguire la religione ufficiale. Il Cristianesimo non è l’unica religione a spronare al martirio difensivo: il Buddismo vi fa parimenti ricorso, come testimoniano gli autodafé dei monaci buddisti in Vietnam negli anni sessanta, per protesta contro il governo militare. Il secondo tipo di martirio è di tipo offensivo: implica la lotta attiva, se necessario violenta, ma consacrata religiosamente, contro coloro che l’adepto considera come oppressori ed eretici. Il sacrificio di sé implica la volontà di annientare il nemico in una lotta in cui v’è un solo vincitore. Se tutti e due i tipi di martirio sono animati dall’idea del sacrificio di sé, ognuno mantiene la propria specificità nelle forme di azione, e questo li rende sostanzialmente differenti. I martiri sono quasi sempre presentati come “pazzi di Allah”, spinti da motivazioni che traggono origine dalla follia o da un allontanamento dal tipo di vita occidentale. Avrebbero problemi di personalità o più semplicemente non riuscirebbero ad integrarsi nella nostra società, non sarebbero moderni ed in grado di comportarsi da individui autonomi e responsabili. Peraltro sarebbero degli emarginati, degli esclusi che reagiscono a questa situazione di rifiuto sociale ed economico insorgendo contro la società. Questo può essere vero, in parte, per i giovani delle periferie francesi o dei quartieri poveri inglesi. In questi luoghi si può trovare una minoranza di martiri simili a quelli di Al Qaeda, ma la maggior parte dei membri di questa rete non può essere inclusa in questa categoria. La loro soggettività non è quella di individui emarginati, esclusi o rifiutati dalla società. Provengono spesso dal ceto medio e medio-alto e non hanno grandi problemi di integrazione. Hanno accesso ad un livello di vita più alto della media dei loro concittadini. L’attivista islamico che può diventare un terrorista transnazionale sul modello di Al Qaeda è molto più complesso di quanto si pensi. Ciò contrasta con le definizioni attuali, secondo le quali i terroristi sarebbero i rappresentanti di arcaismi o, più semplicemente, persone ingenue, rese fragili dalla loro incapacità di inserirsi nella complessità della società contemporanea e manipolati da qualche “caid”. Anche se queste constatazioni sono in parte vere, non ne colgono l’aspetto essenziale. Al contrario sono in un certo senso i prodotti del nostro mondo e si pongono come ideale la formazione di una nuova “umma” transnazionale. La diversità delle forme di martirio islamico porta a considerare attentamente la figura del martire nelle società musulmane, considerato una figura intermedia tra l’eroe ed il santo. Nella pratica corrente, sia nella versione sciita, sia in quella sunnita, esiste una figura di santo ben definita, Eppure, l’ortodossia sunnita la esclude: non devono esservi intermediari tra Allah e le sue creature ed anche il Profeta non è altro che un essere umano. Sono le pratiche locali, le confraternite, la zavia 52 ed il marabuttismo 53 che introducono surrettiziamente la nozione di santità, a partire dalla baraka 54 , la capacità di moltiplicare i beni, di prevenire e di guarire le malattie o, più generalmente, di allietare la vita esaudendo i desideri dei fedeli. 51 Il sikhismo è una religione nata in India settentrionale nel XV secolo e si sviluppò all'interno del conflitto tra la dottrina dell'induismo e dell'islamismo. Il Sikhismo conta oltre 23 milioni di fedeli, chiamati sikh. In India vivono 19 milioni di fedeli, di cui la maggior parte nello Stato del Punjab. Tale Stato includeva anche una parte oggi appartenente al Pakistan, ma la maggior parte della popolazione sikh che lì viveva emigrò nella parte indiana, in seguito alla divisione dell'India britannica nel 1947 e al fine di evitare le persecuzioni religiose. 52 Complesso e centro per l’esercizio del culto e l’insegnamento religioso musulmano, costituito di norma da una moschea, dalla tomba di un santo, e da altri edifici o ambienti destinati ad alloggio e alla didattica, talvolta anche al commercio, caratteristico dell’Africa settentrionale. 53 Il marabuttismo, fenomeno a volte erroneamente connesso con il sufismo, è rimasto molto vivo fra le popolazioni arabo-berbere del Maghreb. I marabutti sono personaggi, viventi o morti, resisi celebri per la loro ascesi, ritenuti capaci, dai fedeli, di operare cose meravigliose in forza della loro intercessione. E' un vero culto dei santi, a dispetto della religione musulmana, che lo ha in orrore, considerando ogni tramite tra uomo e Dio un possibile veicolo dell'idolatria. 54 È un termine che indica la presenza divina ma anche il carisma, la saggezza, e/o la benedizione trasmessi dal maestro all’allievo. Si può anche intendere come “respiro”, o respiro della vita”; baraka è “energia spirituale” conferita per grazia. 38 Nell’Islam sciita si percepisce la presenza di figure equivalenti ai santi cattolici nelle persone dei dodici imam. Sono mediatori tra gli uomini e Dio grazie alla loro filiazione con il Profeta, di cui sono i discendenti indiretti, e per grazia di Alì, suo genero e cugino. Il martire non è un santo, ma una volta che è andato incontro alla morte sacra, può equipararsi alle figure dei santi e diventare loro compagno in paradiso. I suoi atti sono eroici, ma il suo eroismo non è di natura profana, perché si è messo in gioco per una causa nobile e religiosa e per ottenere meriti nell’altro mondo. Il martire sunnita è colui che muore seguendo Dio, prendendo parte alla jihad. Nella versione sciita il martire ha i tratti di quella “santità perdente” che si ritrova, per ragioni storiche simili, nell’Europa del sudest: le comunità sciite si ritengono spesso perseguitate da parte dei sunniti. Proprio come nei Balcani, i martiri sciiti sono tradizionalmente oggetto di un culto del dolore. Per converso, la “fabbrica dei martiri” nel senso della moltiplicazione dei candidati alla morte sacra, è un’attività che si sviluppa in epoca moderna, contrariamente alle teorie di secolarizzazione classica che ne predicavano la fine, con la modernizzazione della società. La comparsa di questi nuovi martiri non è dovuta alla riproduzione di strutture tradizionali nelle società musulmane ed ancor meno alla volontà di certe comunità di opporsi alla modernizzazione. I nuovi martiri sono le nuove figure dell’affrancamento dalla tradizione: essi adottano forme di legittimità che si rifanno ufficialmente a questa tradizione, per poi porla ai margini nei fatti. Siamo di fronte al paradosso di una nuova religiosità che introduce una frattura rispetto alle forme tradizionali della vita comunitaria e la occulta nel nome di una versione più autentica di un Islam delle origini. Gran parte della novità di questo fenomeno, definito “islamico” risiede nell’utilizzo ambiguo del repertorio della tradizione religiosa con l’obiettivo di minarla. 6.2. L’attentatore suicida: evoluzione della figura del kamikaze Sotto il profilo politico, la violenza dell’attentatore suicida si inscrive in un contesto di rivendicazioni, portate avanti da una comunità o da un gruppo che si sente usurpato o della propria autonomia o, nel peggiore dei casi, dello stesso diritto di esistere. Sotto il profilo storico, invece, l’elemento su cui pare attecchire maggiormente la spinta violenta è la percezione del mancato compimento o dell’eccessivo rallentamento del processo identitario. Ne sono esempio i movimenti di liberazione nazionale post-coloniali ed i vari movimenti di protesta, sorti come conseguenza di situazioni che mal si conciliano con le esigenze dei vari gruppi sociali: emblematico il caso delle rivolte nelle banlieu francesi. Nel caso specifico del terrorismo jihadista, alle motivazioni sopra esposte si affiancano le convinzioni che l’azione violenta costituisca il solo mezzo utile al raggiungimento dello scopo politico prefisso, e che il sacrificio della propria vita costituisca un ritorno ad un modello originario teo-teleologico verso il quale tendere, in cui la violenza è parte integrante dell’interpretazione religiosa. Il concetto di jihad diventa il solo garante dell’ordine e l’unica barriera contro un’interpretazione eccessivamente liberale dei principi fondamentali del pensiero religioso. Per tale motivo, nelle società musulmane post-coloniali non si è sviluppato il concetto di rivoluzione così come è inteso nella politologia occidentale, ma, appunto, quello di jihad, termine più utilizzato anche dai movimenti laicisti e nazionalisti arabi. Il ricorso agli attentati suicidi resta la firma ed il modus operandi preferito dei qaedisti, sia che si tratti di operazioni lanciate da gruppi che da singoli. Il fallito attacco alla caserma di Milano dell’ottobre 2009 è illuminante, con il libico Mohammed Game che pur senza esperienza si documenta sui kamikaze, sulle tecniche e persino sul rituale. L’azione suicida è una costante in Irak, nello Yemen, in Somalia, in Afghanistan e in Pakistan. Si può però sostenere che gli attentatori suicidi non sono tutti eguali: il kamikaze che definiamo “semplice” utilizza ordigni molto artigianali, è meno preparato, si fa saltare tra la folla; il kamikaze “speciale” utilizza esplosivo Nel Sufismo (o Tasàwwuf), baraka è la forma di ricerca mistica tipica della cultura islamica, la forza impalpabile che si dice possiedano solo i grandi Maestri Sufi e che può essere trasmessa a persone, luoghi, situazioni e oggetti per un motivo specifico. Con la parola baraka i musulmani indicano la grazia divina e la benedizione che viene da Allah e che si concentra nel santo o nella persona che ha qualità trascendentali. Quando questa persona muore, la baraka impregna la sua tomba. Il pellegrinaggio alla tomba di un santo locale viene fatto per impregnarsi di questa forza santa, per chiedere che vengano esauditi alcuni desideri e chiedere la protezione divina. 39 di tipo militare, agisce in congiunzione con militanti armati ed altri attentatori a bordo di veicoli-bomba, è ben addestrato, i suoi obiettivi sono “scelti”: ambasciate, luoghi protetti, hotel, sedi di servizi di sicurezza e compound di caserme militari. In Afghanistan è spesso un attentatore straniero, in Pakistan può essere un arabo o un elemento dell’area tribale. In alternativa alla pura azione kamikaze, i terroristi, a latitudini diverse, ricorrono con maggiore frequenza a quelle che gli occidentali definiscono “missioni sacrificali” o “di non ritorno”. L’atto suicida non è immediato, ma viene conseguito con raid armati che quasi sempre non lasciano scampo al protagonista. Un chiaro esempio è l’assalto agli hotel di Mumbai dell’autunno 2008, dove è sopravvissuto un solo terrorista. Altri episodi che hanno una matrice comune con la strage indiana sono avvenuti in Pakistan. In precedenza erano stati i palestinesi, negli anni ’70 e poi nella seconda intifada, a farvi ricorso. Negli ultimi due anni è stata la tattica adottata da militanti kashmiri, in particolare il gruppo Lashkar a Taiba, contro obiettivi indiani ed all’interno dello stesso Pakistan. Le caratteristiche di tali missioni sacrificali sono ben definite. I nuclei di fuoco sono composti da due a dieci elementi, addestrati alla guerriglia urbana e supportati da una buona capacità logistica e da una rilevante preparazione di intelligence, dotati di mezzi di comunicazione e strumenti di navigazione (telefonini, schede europee, gps, apparati radio). Hanno la capacità di lanciare attacchi dal mare e di combinare attacchi kamikaze e scontri a fuoco, con impiego di cinture esplosive, granate, fucili d’assalto. E’ possibile la presenza di un coordinatore che dirige dall’esterno, magari da un altro paese, le operazioni finali, che possono prevedere anche prese di ostaggi per prolungare l’effetto sfida e cercare una copertura mediatica, specie dalle tv e da Internet (dove viene evidenziata una capacità pressoché immediata di veicolazione dell’azione terroristica), come è avvenuto a Mumbai. In alternativa a tutto questo sono possibili azioni non così sofisticate; il commando si limita ad aprire il fuoco in base ad un piano generico. Nella categoria delle “missioni sacrificali” può rientrare anche la figura jihadista dello “sparatore solitario”. La strage compiuta nella caserma di Fort Hood in Texas il 5 novembre 2009 dal maggiore Nidal Hasan rappresenta il punto di congiunzione tra lo sparatore solitario e il gesto di jihad individuale predicata da Abu Musab Al Suri, di cui abbiamo già parlato, vero ideologo di questo tipo di lotta. Non v’è dubbio che l’ufficiale, di origine araba ma di nazionalità Usa, si è comportato come un mujahed: ne ha seguito i riti, si è nutrito di fondamentalismo seguendo i dettami di un imam estremista (lo stesso del nigeriano del volo Northwest), ha venduto tutto, ed ha colpito i suoi colleghi. Nel caso del maggiore Hasan vanno evidenziati alcuni aspetti che non si esclude possano ripetersi e non solo negli Stati Uniti: la presenza di motivazioni religiose e politiche; senso di isolamento e di frustrazione; risentimento personale e difficoltà interiori; suggestioni esterne (soprattutto da internet); per offendere ha usato quello che aveva a disposizione (due pistole). A ben guardare non esistono grandi differenze con il comportamento e le motivazioni del libico Mohammed Game a Milano. Del resto, se si guardano le biografie di tanti kamikaze palestinesi, si noterà che le due “spinte”, quella personale e quella politica procedono quasi parallele. Una influenza l’altra, trasformando una persona in un attentatore. 6.3. L’attentatrice suicida La partecipazione delle donne alle forme di lotta terroristica non è un fenomeno nuovo. L’Europa, ed anche il nostro Paese, hanno conosciuto negli anni passati donne che hanno militato nei più disparati gruppi terroristici, rivestendo i ruoli più diversi, non ultimo quello di partecipare direttamente ai gruppi di fuoco. Nel 1970, periodo in cui si verificarono svariati dirottamenti aerei, una donna, Leila Khaled, fu arrestata proprio durante un tentativo di dirottamento di un aereo della compagnia israeliana El Al. Nell’aprile del 1985, la diciassettenne Saana Muhaidily, cristiana-ortodossa, fu la prima “donna kamikaze” in assoluto. Si fece saltare in aria lanciandosi con la sua Peugeot bianca contro un posto di blocco israeliano a Batr Shaouf, uccidendo due soldati e ferendone altri due. Prima di morire la ragazza registrò un videomessaggio in cui si dichiarava pronta a morire per cacciare gli Israeliani dal Libano. Dopo quasi venti anni Israele fu colpita nuovamente da un’attentatrice suicida; infatti nel gennaio 2003 Wafa Idris si faceva esplodere nel centro di Gerusalemme. Il coinvolgimento delle donne nell’attività estremista appare come una forma paradossale della loro emancipazione. E’ stato osservato come le donne partecipino sempre più attivamente non solo alla vita politica, ma anche alla violenza politica; di ciò i vertici delle organizzazioni terroristiche si avvantaggiano per sorprendere i soggetti destinatari di tali azioni, in quanto i terroristi sono generalmente caratterizzati da essere sempre giovani, maschi, musulmani e soprattutto con un livello di istruzione superiore alla media. 40 Queste nuove formazioni terroristiche sono multiformi, possiedono spiccate capacità di adattamento e flessibilità, soprattutto imparano fortemente le une dalle altre, grazie anche agli attuali mezzi di comunicazione istantanei e globali, che permettono l’immediata diffusione delle informazioni. Se si osserva nel suo evolversi la storia del terrorismo e dei gruppi terroristici, si può notare come sia caratterizzata da continue innovazioni, che hanno anche portato a colpire obiettivi un tempo considerati inattingibili e luoghi ove la violenza era inaspettata. Gli stessi attacchi suicidi, specialmente nel conflitto arabo-israeliano e nello Sri Lanka costituiscono un esempio di adattamento tattico, con cambiamenti importanti e drammatici nella scelta degli obiettivi, in cui si osservano civili diventare combattenti ed uccidere deliberatamente altri civili. L’impiego delle donne perciò potrebbe essere visto come la naturale evoluzione di una mutazione delle modalità di attacco, al fine di essere più efficaci contro il nemico e contestualmente raddoppiare il serbatoio dei soggetti a disposizione delle organizzazioni terroristiche. Il loro reclutamento procura diversi vantaggi, per la natura generalmente non minacciosa delle donne e per il maggior pudore e sensibilità nel controllarle e perquisirle. Si è spesso pensato che le donne fossero attori periferici nelle organizzazioni terroristiche di matrice jihadista, anche a causa del ruolo subalterno che esse rivestono in alcuni Paesi di religione islamica e che quindi si riteneva fossero destinate a ricoprire un ruolo di logistica ed in qualche misura ad operazioni di intelligence di supporto alle azioni terroristiche compiute dai maschi. Quindi la loro invisibilità sia politica che sociale ha facilitato il loro muoversi silenziosamente, ma efficacemente, all’interno dei gruppi terroristici, senza destare sospetti in chi deve contrastarli. Secondo Renzo Guolo “le nuove regine della jihad sono spesso donne occidentali convertite o donne musulmane che vivono o hanno vissuto in occidente; in un contesto come quello europeo o nordamericano, dove l’Islam è minoranza e non si impone per evidenza o pressione sociale, la scelta di come viverlo è spesso frutto di individualizzazione. E l’individualizzazione ha come potenziali sbocchi anche la politicizzazione della soggettività femminile, tanto più se questa ha memoria di altre esperienze militanti” 55 . Se sinora l’ala più tradizionalista di Al Qaeda non ha voluto coinvolgere le donne, oggi si assiste ad un cambiamento di approccio e di certo ci sono sempre più donne che si stanno radicalizzando, mettendo a disposizione della lotta jihadista competenze e conoscenze professionali, soprattutto attraverso l’efficace utilizzo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Esistono opinioni diverse su cosa spinga una donna a scegliere di diventare una attentatrice suicida. E’ parere diffuso che alla base della scelta vi siano spesso motivazioni personali, quali un legame sentimentale con un membro del gruppo terroristico, la morte di una persona cara che apparteneva a tale gruppo, essere state vittime di uno stupro o aver avuto una tragedia familiare. In Cecenia vi sono state molte donne che si sono fatte esplodere; alcune di esse erano motivate dalla perdita del loro uomo nel conflitto: sono le cosiddette vedove nere. In Israele e nei Territori Occupati sia Hamas che la Jihad palestinese hanno utilizzato donne kamikaze. Nello Sri Lanka una delle principali ragioni che motivano le donne ad unirsi ai gruppi terroristici ( le Tigri Tamil – LTTE) è il fatto di essere state vittime di uno stupro. Lo stupro rappresenta uno stigma sociale, una vergogna ed un disonore personale e collettivo, che vieta loro pubblicamente di unirsi in matrimonio ed avere figli. Così il sacrificio di sé rappresenta un’occasione di riscatto dal disonore subito: l’autoimmolazione simboleggia un’estensione della maternità per quelle donne che non potranno mai essere madri e diviene un’offerta socialmente accettabile ed incoraggiata dalle loro stesse famiglie. A differenza dei maschi, dove l’onore è correlato al successo sociale ed all’immagine di sé proiettata all’esterno, nelle donne musulmane l’onore è correlato all’intimità, alla modestia, ai comportamenti gentili: se la donna fallisce in una di queste categorie l’onore è perduto per sempre e l’unica forma di riscatto offerta loro sembrerebbe essere quella di diventare una attentatrice suicida. E’ quindi fondamentale tener conto che accanto a fattori più strettamente personali, interagiscono fortemente i modelli culturali ed educativi; in particolare l’attentatrice suicida sembra essere correlata ad un senso dell’onore individuale e collettivo da difendere di fronte a Dio ed agli uomini. La sua drammatica decisione è particolarmente favorita da una cultura che esalta ed idealizza il sacrificio ed il martirio. Queste donne ritengono che la jihad abbia un carattere difensivo a cui tutti i musulmani, senza distinzioni di sesso, hanno il dovere di partecipare. Se questo convincimento dovesse diffondersi ulteriormente, l’utilizzo delle donne potrebbe essere visto come una strategia legittima da praticare in tutti i luoghi, inclusa l’Europa. 55 Cfr. Renzo Guolo, Le Regine di Al Qaeda. Se la Guerra Santa si modernizza, la Repubblica, 24 marzo 2010. 41 Tabella 5 – Terrorismo jihadista: tipologie individuali e di gruppo Tipologie Caratteristiche Ricomprende i fedelissimi rimasti con Osama Bin Laden ed Al Zawahiri nel teatro afghanoI seguaci della pakistano Casa Madre Evoluzione della categoria degli affiliati, comprende fazioni che mescolano agende locali e Gli ibridi obiettivi globali (qaedisti yemeniti, separatisti di lashkar-e-Taiba, ecc.). I loro obiettivi sono il “nemico vicino” (regime, autorità, militari, simboli locali) e quello “lontano” (l’America e gli occidentali in genere). Formazioni areali e regionali che si richiamano all’Al Qaeda tradizionale ma con legami variabili: Gli affiliati ideologici, attraverso terzi, con contatti sporadici. Cellule o individui che agiscono basandosi sulla semplice ispirazione del messaggio di Bin Laden. Gli ispirati A volte hanno una preparazione militare sommaria, molto più spesso evidenziano scarse conoscenze di natura eversiva ma una forte determinazione. Sottoclasse degli ispirati per diversi aspetti. Fanno tutto da soli, dall’indottrinamento all’azione. I lupi solitari Persone con cittadinanza e passaporto non sospetti, cui affidare una missione, reclutati Gli “emiri dagli direttamente o con intermediari in Africa, Europa o in Usa, con trasferimento in Asia per occhi blu” l’addestramento e ritorno al paese d’origine; oppure sono utilizzati per fare da sponda ad un adepto, o ad un terrorista fai-da-te che cerca un contatto a distanza. Sono ovunque e da nessuna parte, si mantengono in contatto con i network sociali, agiscono come I nomadi della possono. Sui nomadi della jihad punta Al Qaeda che, non disponendo più di una vera jihad organizzazione, punta sugli individui, neppure troppo preparati. Figli di immigrati nati e cresciuti in Occidente, che si radicalizzano prevalentemente in seguito ai Gli homegrown condizionamenti di correligionari attestati su posizioni estremiste. Si tratta generalmente di soggetti resi vulnerabili da situazioni di disagio sociale, o economico, o ambientale, che scelgono l’opzione dell’estremismo violento. A detto termine vengono associate anche le manifestazioni del terrorismo jihadista espresse degli immigrati di prima generazione, come il libico Mohammed Game, il cui processo di radicalizzazione è avvenuto del tutto o prevalentemente in Occidente. Giovani che cancellano tradizioni e cultura occidentali per abbracciare la fede musulmana e I convertiti condividere le posizioni estremistiche proprie dei mujaheddin. Molte conversioni avvengono mediante il contatto con islamici nelle carceri (vedi il caso dell’attentatore scoperto con l’esplosivo nelle scarpe nel Regno Unito, Richard Reid). Molte conversioni sono dovute alla propaganda dei predicatori itineranti, come i Tabligh. Il prototipo dello categoria è il maggiore Nidal Hasan, autore della strage compiuta nella caserma Lo “sparatore di Fort Hood in Texas il 5 novembre 2009, attentato che rappresenta il punto di congiunzione tra solitario” lo sparatore solitario e il gesto di jihad individuale. L’ufficiale, di origine araba ma di nazionalità Usa, si è comportato come un mujahed: ne ha seguito i riti, si è nutrito di fondamentalismo seguendo i dettami di un imam estremista (lo stesso del nigeriano del volo Northwest), ha venduto tutto, ed ha colpito i suoi colleghi. La categoria ricomprende due categorie: il kamikaze “semplice” che utilizza ordigni molto L’attentatore artigianali, è meno preparato, si fa saltare tra la folla; il kamikaze “speciale” che utilizza suicida esplosivo di tipo militare, agisce in congiunzione con militanti armati ed altri attentatori a bordo di veicoli-bomba, è ben addestrato, i suoi obiettivi sono “scelti” (ambasciate, luoghi protetti, hotel, sedi di servizi di sicurezza e compound di caserme militari). In Afghanistan è spesso un attentatore straniero, in Pakistan può essere un arabo o un elemento dell’area tribale. Alla base della scelta suicida delle attentaTrici jihadiste, vi sono spesso motivazioni personali, Le jihadiste quali un legame sentimentale con un membro del gruppo terroristico, la morte di una persona cara che apparteneva a tale gruppo, o aver avuto una tragedia familiare. In Cecenia vi sono state molte donne che si sono fatte esplodere; alcune di esse erano motivate dalla perdita del loro uomo nel conflitto: sono le cosiddette vedove nere. Nello Sri Lanka una delle principali ragioni che motivano le donne ad unirsi ai gruppi terroristici ( le Tigri Tamil – LTTE) è il fatto di essere state vittime di uno stupro. In Israele e nei Territori Occupati sia Hamas che la Jihad palestinese hanno utilizzato donne kamikaze. Le nuove regine della jihad sono spesso donne occidentali convertite o donne musulmane che vivono o hanno vissuto in occidente; in un contesto come quello europeo o nordamericano, che mettono a disposizione conoscenze e competenze professionali, utilizzando in maniera efficace le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Fonte: ICSA 42 7. La strategia mediatica di Al Qaeda, la messaggistica ed il ruolo del web Per comprendere l’evoluzione della strategia mediatica di Al Qaeda, bisogna tener conto dei passaggi salienti della propaganda attuata negli ultimi tempi dai vertici dell’organizzazione, tesa a diffondere comunicati per trasmettere l’impressione che la rete terroristica intenda proporsi sempre di più come soggetto politico, oltre che come punto di riferimento ideologico e strategico. Osama Bin Laden e soprattutto il numero due dell’organizzazione, Ayman Al Zawahiri, non hanno esitato ad intervenire sistematicamente sul piano mediatico con lunghe riflessioni di stampo programmatico o, più semplicemente, soffermandosi su eventi congiunturali di particolare risonanza. Dalla lettura complessiva dei messaggi emergono degli elementi comuni e delle peculiarità che ne caratterizzano l’insieme: - la carica aggressiva e l’asprezza dei toni; - il ricorso sistematico alla dissimulazione ed al paradosso per rafforzare quanto affermato; - la costante manipolazione di eventi e circostanze, tendente ad alterarne l’effettivo sviluppo; - la particolare tendenziosità delle analisi elaborate a sostegno degli argomenti trattati e delle tesi sostenute; - la categoricità delle minacce rivolte all’Occidente “infedele” ed ai Governi arabi “apostati”. Occorre sottolineare che gli interventi mediatici dei principali esponenti di Al Qaeda non sono mai casuali, ma finalizzati, il più delle volte, ad indicare le linee strategiche ed a sollecitare nuove offensive, legittimandole sul piano militare, ideologico e religioso. Allo stesso tempo essi cercano di fornire chiavi di lettura della realtà contingente, del tutto antitetiche alle interpretazioni di stampo occidentale, in modo da esaltare le diversità, a livello sociale, culturale e politico, nel tentativo di attirare consensi anche tra le componenti islamiche moderate. Emblematico al riguardo quanto accaduto nel 2005, in seguito alla pubblicazione da parte di un quotidiano danese e di un settimanale norvegese di una serie di vignette caricaturali, raffiguranti Maometto, allorché venne avviata una vera e propria campagna mediatica, dai toni violenti e sarcastici, contro “Roma” e contro il Papa. La vicenda, infatti, avrebbe potuto verosimilmente rimanere circoscritta a manifestazioni di protesta di tenore locale, se non fosse stata manipolata artificiosamente a livello mediatico da taluni ambienti estremisti, con l’obiettivo di acuire la contrapposizione tra mondo occidentale ed universo islamico. Il particolare impatto emotivo delle caricature e la loro strumentalizzazione sul piano comunicativo, costituirono una sorta di miscela esplosiva per dar luogo a manifestazioni violente, atti intimidatori e gesti emulativi. Sulla stessa linea si è posto già da tempo il proliferare nei siti estremisti di sigle estemporanee, di prevalente valore emulativo e simbolico, come quella di “Rakan Ben Williams”, nome di fantasia, attraverso cui veniva prefigurata un’inedita tipologia di militante jihadista, nato in Europa e del tutto inserito nel contesto sociale e completamente assimilato allo stile di vita occidentale. Altrettanto significativa fu la diffusione in rete di una sorta di notiziario settimanale, “La Voce del Califfato”, destinato nelle intenzioni ad assumere gradualmente la configurazione di un canale televisivo che tentava di emulare i network mediatici occidentali. L’importanza assunta dalla promozione mediatica delle strategie e degli obiettivi dell’organizzazione, viene confermata dalla creazione, da parte di Al Qaeda, di As Sahab (As Sahab Foundation for Islamic media publication). La struttura di produzione mediatica concorre alla diffusione, con carattere di univocità, della messaggistica audio-video che la dirigenza di Al Qaeda ritiene opportuno divulgare, oltre che alla propaganda jihadista attraverso le immagini di attacchi contro obiettivi militari occidentali. L’organizzazione è in grado di produrre moderni video e audio, prevalentemente in lingua araba, spesso sottotitolati in inglese o altre lingue. E’ fondamentale, quindi, per la propaganda di Al Qaeda e dei gruppi ad essa affiliati diffondere con sistematicità il messaggio estremista, non solo nel tessuto connettivo dei Paesi arabi moderati, ma anche tra gli insediamenti musulmani stabilitisi in Europa: si tratta di un’ azione costante finalizzata al reclutamento di futuri combattenti e di aspiranti jihadisti da inviare nei teatri di crisi, in specie in Irak ed in Afghanistan. Negli interventi mediatici più recenti vengono sottolineati e ribaditi altri aspetti salienti della strategia della rete internazionale, fra cui il sollecitare alla rivolta contro l’Occidente non solo le masse islamiche ma anche tutti gli oppressi ed i diseredati sparsi nel mondo, e conseguentemente l’avvio di una vera e propria “guerra jihadista popolare”, in grado di liberare tutte le terre occupate dagli “infedeli”. Vengono inoltre richiamati tutti i musulmani affinchè si uniscano alla lotta dei loro fratelli in Libano ed in Palestina, e viene ribadita l’importanza del territorio irakeno ed afghano quale epicentro della guerra contro l’”Alleanza occidentale”. 43 Nel medio periodo le linee evolutive della progettualità qaedista dovrebbero prevedere l’apertura di nuovi fronti di crisi, con l’obiettivo di estendere il conflitto dai teatri di crisi Afghano ed irakeno ad altre aree limitrofe, fra cui Arabia Saudita ed Egitto, nonché ad alcune regioni del Continente africano, fra cui il Sudan. Al Qaeda, su questo piano, mirerà ad incidere negativamente sui futuri assetti regionali, tentando con la propria attività destabilizzante di alterarne i delicati equilibri politici, con particolare riguardo ai Paesi del Golfo, allo scopo di innescare tensioni e contrasti, potenzialmente in grado di provocare riflessi anche a livello degli approvvigionamenti energetici dell’Occidente. Sulla scorta di quanto sottolineato nei più recenti comunicati, inoltre, gli Stati Uniti e la stessa Europa continueranno ad essere considerati potenziali obiettivi di nuovi attacchi, considerando anche il loro forte impegno militare in Afghanistan. Più in generale, nel lungo periodo la rete jihadista punterà ad esasperare la contrapposizione tra universo islamico e mondo occidentale, tentando di alimentare l’estremismo tra le comunità musulmane in Europa, nella prospettiva di tracciare un solco incolmabile tra credenti e miscredenti, tra chi si riconosce nel messaggio jihadista e gli “altri”: si concepisce il confronto solo nei termini di uno “scontro di civiltà”, e si ritiene che al di fuori della conversione all’Islam non vi sia possibilità di salvezza. La propaganda mediatica è quindi uno strumento di primaria rilevanza nella strategia di Al Qaeda e dei gruppi che ad essa fanno riferimento, con l’obiettivo prioritario di dare slancio e visibilità alla causa jihadista, nella prospettiva di conseguire ampie adesioni e di reclutare nuovi militanti. Ma soprattutto rappresenterà un irrinunciabile veicolo per il “terrorismo psicologico”, destinato a non consentire all’Occidente di abbassare la guardia, nel costante timore di attacchi imminenti. 8. Fonti e modalità del finanziamento jihadista Il contrasto al finanziamento del terrorismo è stato perseguito sia a livello nazionale sia internazionale. Dopo l’11 settembre, è stata posta una grande enfasi sulla necessità di “tagliare” le fonti finanziarie di Al Qaeda, sulla base del presupposto che, come tutte le attività umane, anche il terrorismo ha un costo economico. Alcune risoluzioni dell’ONU prevedono che i nomi degli individui e delle organizzazioni affiliati ad Al Qaeda siano iscritti in una lista e che i loro beni siano congelati. In realtà, dopo anni, si ha l’impressione che questa lotta non abbia prodotto i risultati attesi e che il terrorismo jihadista continui ad essere finanziato. L’idea di partenza, cioè, che tagliando le fonti finanziarie, Al Qaeda sarebbe stata danneggiata in maniera rilevante, se non addirittura sconfitta, scaturiva dall’immagine che nel 2001 si aveva, quella di un’organizzazione gerarchica. Questa immagine era in effetti corretta, perché Al Qaeda aveva al suo interno un proprio “comitato finanziario” che si occupava di reperire fondi (che potevano provenire dal patrimonio personale di Osama Bin Laden, o da investimenti legali od illegali, oppure da donazioni di ricchi sostenitori) e di distribuirli. Trattandosi di una sezione specializzata, detto “comitato” riusciva a raccogliere enormi quantità di danaro, anche attraverso attività finanziarie complesse ed attività commerciali. Solo una piccola parte di tale danaro era destinata al compimento di attacchi terroristici, o per attività comunque collegate al terrorismo, come l’acquisto di armi e di attrezzature militari, ed il mantenimento dei campi di addestramento; la maggior parte era però impiegata per il normale funzionamento dell’organizzazione. Ad esempio, secondo notizie di intelligence, tutti i membri di Al Qaeda ai quali, in virtù dell’alta specializzazione necessaria, veniva richiesto un impiego “a tempo pieno” nel gruppo, ricevevano una somma pari ad alcune centinaia di dollari al mese, a seconda dell’incarico. Sono state accertate, da molteplici indagini, svariate forme di autofinanziamento delle cellule jihadiste, sia con proventi di attività illecite, sia lecite. Si va dall’emissione di falsa documentazione fiscale con la finalità di evadere il pagamento delle imposte, alla costituzione di vere e proprie imprese commerciali nel settore manifatturiero. Il cespite più ricorrente rimane comunque il narcotraffico, seguito dallo smercio di documenti di identità, falsi a stranieri irregolari, oltreché a propri militanti. Per Al Qaeda nella prima fase, così come per qualsiasi organizzazione strutturata allo stesso modo, la garanzia di un costante flusso finanziario era vitale, ma la lotta al finanziamento ha fortemente ridimensionato le attività di Al Qaeda quale organizzazione gerarchica. Come però abbiamo avuto modo di vedere nei precedenti capitoli, Al Qaeda aveva subito notevoli trasformazioni, decentralizzando le sue funzioni, compresa quella del finanziamento delle proprie attività, rendendo indipendenti le diverse cellule che così non devono ricevere i fondi dalla struttura centrale, che anzi talvolta viene alimentata dalle strutture periferiche. Mentre nel caso delle organizzazioni gerarchiche, inibendo le capacità della struttura finanziaria di reperire fondi si colpisce l’intera organizzazione, con la avvenuta trasformazione si può al massimo impedire che una 44 cellula reperisca i finanziamenti per la propria attività ed eventualmente per altre cellule o per la struttura centrale. La dispersione della struttura di finanziamento fa sì che non esista più un consistente flusso di denaro che dal centro alimenta l’intera struttura, piuttosto una miriade di piccoli rivoli che, finanziando le singole cellule, mantiene in vita l’intera struttura. Bloccare uno dei rivoli può provocare qualche danno localmente, ma non alla rete nel suo complesso. Oltretutto, mentre era relativamente semplice, utilizzando i tradizionali strumenti di intelligence finanziaria, localizzare i grossi flussi di danaro che Al Qaeda gestiva, molto più complesso è individuare la miriade di piccoli canali che alimentano finanziariamente una rete. Inoltre, mentre lo smantellamento di una struttura finanziaria centrale, che ha un livello di complessità piuttosto alto, dovendo raccogliere somme ingenti per mantenere in vita un’organizzazione gerarchica con funzioni estremamente specializzate, fa sì che non possa ricostituirsi in breve tempo, le cellule, oltre ad essere strutture molto più economiche, sono anche più flessibili e non hanno in genere molte difficoltà a reperire nuove forme di sostentamento. Nei decorsi anni numerose sono state le inchieste giudiziarie in Italia che hanno portato all’individuazione, in numerose città, di filiere di raccolte di danaro, gran parte del quale veniva inoltrato, con l’anonimo sistema extrabancario dell’hawala e con i circuiti dei money transfer, in Somalia, dove, secondo notizie di intelligence, operava l’organizzazione estremista Al Ittiad, considerata molto vicina ad Al Qaeda. La lotta al finanziamento del terrorismo attuata a livello internazionale può attualmente mirare ad impedire che le organizzazioni terroristiche gerarchizzate rinforzino o ricostituiscano le proprie strutture di finanziamento dedicate, ma molto difficilmente potrà incidere in maniera significativa sul finanziamento delle piccole cellule che continueranno ad usufruire di piccoli flussi di danaro difficilmente individuabili e facilmente rimpiazzabili. 9. Finanza e terrorismo jihadista: la tutela dei sistemi e le nuove forme di minaccia Nei Paesi avanzati, la finanza non solo produce servizi, ma assicura, nel contempo, le precondizioni per l’esercizio di ogni attività industriale. Essa, infatti, trasforma il risparmio in investimento, consente ordinate prospettive di crescita economica, agevola la circolazione dei capitali. Con l’affermarsi delle privatizzazioni, le banche hanno accresciuto il loro peso nell’economia, divenendo sempre più imprese, mentre gli strumenti telematici hanno assunto un ruolo primario per il funzionamento del sistema-Paese. La ”virtualizzazione” ha fornito risposte sempre più adeguate alle crescenti necessità di internazionalizzazione, velocità e certezza operativa delle transazioni ed ha consentito ai suddetti strumenti di raggiungere rapidamente dimensioni significative nella gestione dei flussi finanziari. Il web, quindi, ha annullato le distanze ed ha semplificato le complessità, agevolando a livello globale la circolazione delle informazioni e dei capitali. Ma l’apertura della finanza ad internet, ossia ad una rete non centralizzata e non controllabile, è avvenuta a vantaggio di tutti, anche dei portatori di interessi illegali, moltiplicando lo sviluppo di nuove forme di criminalità, quali gli atti di pirateria informatica. Tra questi spiccano per pericolosità quelli realizzabili dai terroristi jihadisti, che come abbiamo già visto diffondono agevolmente propri protocolli di tipo ideologico. V’è dunque la possibilità che gli obiettivi tipici del terrorismo internazionale, e di quello jihadista in primo luogo, quali la destabilizzazione dell’ordine sociale ed economico-finanziario dei Paesi occidentali, unitamente alla diffusione di sentimenti di panico e sfiducia, vengano perseguiti anche tramite attacchi informatici ai danni della finanza-infrastruttura e dei suoi processi economici ed operativi. La “guerra informatica” potrebbe identificare una nuova e crescente fenomenologia del terrorismo jihadista in cui i militanti non offrono il sacrificio della vita, ma potrebbero utilizzare il web per muovere, da qualsiasi parte del mondo, attacchi contro obiettivi strategici (borse, circuiti di pagamento, assicurazioni, reti di telecomunicazioni), ossia quegli obiettivi definiti “infrastrutture critiche”: militanti tecnicamente preparati, reclutabili in gran parte anche nel continente asiatico. Gli attacchi dell’11 settembre hanno causato un enorme numero di vittime, ma anche danni gravissimi tanto a strutture fisiche quanto a quelle finanziarie, determinando il blocco delle comunicazioni, oltre a quello delle contrattazioni. Gli attentati di Madrid (11 marzo 2004) e di Londra (7 luglio 2005) hanno egualmente avuto effetti devastanti anche per i danni alle infrastrutture di trasporto, determinando il calo degli indicatori di fiducia di imprese e famiglie, con perdite di centinaia di miliardi di euro e con tempi di recupero molto lunghi. 45 In conseguenza di ciò, i Paesi interessati, ma soprattutto la Gran Bretagna, hanno promosso organiche iniziative con l’utilizzo di moderne tecnologie e di strumenti organizzativi volti ad assicurare assoluta tempestività nello scambio di informazioni e nel coordinamento tra Autorità pubbliche ed operatori privati, nonché la valenza di una corretta gestione delle problematiche di tipo comunicativo e di una informazione istituzionale adeguata. Alla luce di quanto esposto, la natura dei rischi segnalati denuncia l’esigenza di cogliere nel funzionamento complessivo del mercato finanziario un bene da difendere e rende evidente come la preoccupazione fondamentale sia quella di garantire l’integrità del sistema, considerando prioritari non i singoli componenti ma il tutto. Spazi per nuove iniziative potrebbero, quindi, riguardare ipotesi ingegneristiche per la progettazione di modelli previsionali statistici, capaci di stimare, nell’ambito di ciascun Paese, gli effetti finanziari di uno shock terroristico realizzato anche per via incruenta, e di dispositivi accentrati di difesa informatica, affidati alla gestione ed al controllo di organismi pubblici. 10. Il tema della non proliferazione e lo spettro della ‘bomba sporca’ Nella lotta al terrorismo jihadista la non proliferazione è destinata ad occupare un posto centrale ed a imporre, più di ogni altra forma di sicurezza, una forte cooperazione internazionale. In questo campo, l’Italia potrebbe assumere una funzione di impulso non marginale. Si tratterebbe del resto di dar seguito alla Dichiarazione adottata al vertice dell’Aquila del luglio 2009, che impone di “creare le condizioni per un mondo libero da armi nucleari” ed indica per la sua realizzazione la concertazione tra i Governi come cornice ineludibile, al fine di accrescere nella società civile dei Paesi a rischio la consapevolezza della posta in gioco, per la propria sicurezza e per quella altrui. Ciò rafforzando e migliorando gli strumenti multilaterali, quali la universalizzazione del protocollo aggiuntivo dell’AIEA, l’entrata in vigore del trattato contro gli esperimenti nucleari e l’avvio del negoziato per la produzione del materiale fissile. Giovano in modo particolare le nuove priorità dell’Amministrazione americana, concretatasi da ultimo nella “settimana nucleare”, che ha visto la formulazione di una nuova dottrina strategica, la firma degli “start 2” e la Conferenza sulla sicurezza di Washington. Proprio in quest’ultima occasione il Presidente Obama ha lanciato un progetto di lunga durata, agitando lo spettro di una “bomba di Al Qaeda” meno remota di quanto si pensasse fino ad oggi. Il pericolo maggiore infatti non è tanto nell’uso dell’arma assoluta ad opera di uno Stato, quale potrebbe essere l’Iran, nonostante le minacce ad Israele. Agirebbero in questo caso da dissuasione sia la certezza di una rappresaglia israeliana, sia la presenza di tanti musulmani nell’area sotto il controllo del Governo di Israele. Anche i Paesi più poveri o più ideologizzati tendono a piegarsi alla logica della dissuasione e nella certezza di una risposta devastante per città ed infrastrutture esiterebbero a colpire per primi. Né forse il rischio più impellente sarebbe la proliferazione atomica per imitazione negli Stati contigui all’Iran. La volontà di dotarsi di nucleare civile, anche per la sempre incombente crisi energetica, comporterebbe invece un largo spargimento di tecnologie e di materiali fissili, di know how nucleare proprio allorchè da tempo il terrorismo jihadista è alla ricerca di strumenti di fabbricazione di “bombe sporche” che possano essere nascoste e trasportate con relativa facilità. Nessuno potrebbe colpire ciò che il terrorismo non ha, cioè infrastrutture, una capitale o addirittura un Paese di appartenenza. Niente può in questo caso garantire la pace sociale: la fuga di materiali radioattivi non costituisce uno scenario remoto. Alla Conferenza di Washington, anche il Presidente georgiano, Mikhail Saakashvili, ha rivelato che la proliferazione selvaggia degli armamenti atomici non è soltanto un rischio, ma è già una realtà, aggiungendo testualmente che “il nostro Ministero dell’Interno ha sventato negli ultimi dieci anni otto tentativi di traffico illegale di uranio arricchito”, e confermando quello che aveva già detto il Primo Ministro tedesco, Angela Merkel, circa il pericolo che le “bombe sporche” possano finire in mano ai terroristi. Inoltre, il responsabile dell’unità antiterrorismo dell’ONU, Alex Schmid, avrebbe scritto in un recente rapporto che negli ultimi cinque anni il contrabbando di materiale nucleare è raddoppiato e che sono molti ormai quelli capaci di mettere insieme un’atomica rudimentale, ossia una bomba sporca. Sempre nel corso di detta Conferenza, il Presidente Obama ha detto che “il terrorismo nucleare costituisce la più immediata ed estrema minaccia per la sicurezza globale; da questo vertice mi aspetto azioni specifiche e concrete per rendere il mondo più sicuro”. I Paesi partecipanti hanno promesso di proteggere i 46 depositi di uranio e di plutonio diffusi nel mondo; alcuni hanno dichiarato di volersi disfare delle loro scorie di uranio arricchito. Il Presidente Obama ha ottenuto un impegno solenne ad alzare la guardia per impedire che attori non statali possano ottenere tecnologia ed informazioni utili. Chi usa energia nucleare deve farsi carico della massima sicurezza dei combustibili radioattivi sul proprio territorio, anche aggiornando la normativa nazionale sulla lotta al traffico criminale. L’analisi del fattore terrorismo di matrice jihadista non esclude l’eventualità di attacchi non convenzionali, contro popolazioni civili. In relazione a questo tipo di attacchi, l’impiego della “bomba sporca” 56 sarebbe caratterizzato da maggiori probabilità di accadimento: scorie radioattive, associate ad esplosivo convenzionale, possono diventare un’arma di distruzione di massa se impiegati in ambiente urbano. E comunque, anche laddove le conseguenze di un tale evento causassero una bassa mortalità, gli effetti economici, sociali e psicologici, come, per esempio, l’evacuazione di vaste aree urbane per un lungo periodo di tempo, avrebbero effetti catastrofici. C’è poi la questione relativa a centrali nucleari, industrie e centri di stoccaggio per materiale radiologico. In Italia almeno una dozzina di siti di deposito temporaneo di materiale radioattivo presenta un inventario radiologico altamente significativo 57 . Questi siti, i materiali stoccati e le catene dei trasporti di tali sostanze sono vulnerabili ad attacchi terroristici e perciò richiedono una messa in sicurezza non solo da incidenti tecnici e naturali (safety), ma anche da attacchi (security). La situazione italiana è inoltre caratterizzata dalla vicinanza a centrali nucleari attive in paesi confinanti e paesi vicini. Da tale contesto e dalle conseguenti principali lezioni apprese 58 emerge l’esigenza di valorizzare il coordinamento e l’interscambio tra sistemi militari, civili e sanitari ove la componente militare giochi un ruolo pieno nella gestione delle minacce con armi non convenzionali già in fase di pianificazione. Più in generale, la lacuna da colmare prioritariamente è il coordinamento tra le Amministrazioni - anche locali - e tra queste ed il governo. 56 Più correttamente denominata arma radiologica. In sostanza é materiale radioattivo non fissile –che quindi non può esplodere– trattato per renderlo molto volatile, associato ad una carica esplosiva convenzionale, di potenza modesta, con la funzione di disperdere il materiale radioattivo nell’ambiente, contaminando cose e persone. Scopo di questo ordigno non è quello di fare gravi danni a cose e persone –la potenza esplosiva è piccola e la quantità di materiale radioattivo rilasciato in genere modesta– ma di creare allarme e panico nella popolazione, sottoposta ad una potenziale, invisibile minaccia radioattiva, nonostante in molti casi il reale pericolo radioattivo di questi ordigni risulti essere molto basso. Come si può facilmente immaginare, una “bomba sporca” sarebbe l’arma ideale per terroristi: può essere preparata con materiale radioattivo non “pregiato” –e quindi molto più facilmente reperibile del plutonio o dell’uranio arricchito– e soprattutto non richiede particolari conoscenze scientifiche, ma solo quelle molto diffuse per fabbricare un ordigno convenzionale. 57 Secondo dati forniti alla Commissione ambiente della Camera, “(…) in Italia ci sono circa 60.000 metri cubi di rifiuti radioattivi di seconda e terza categoria, ai quali vanno aggiunte 298,5 tonnellate di combustibile irraggiato. Le centrali nucleari italiane –chiuse dopo il referendum del 1987– hanno prodotto 55mila metri cubi di scorie. Ma la verità è che – più che chiuse– le centrali sono in stato di “custodia protetta passiva”, dunque continuano a produrre ogni anno una certa quantità di materiali radioattivi. A questi vanno aggiunti altri 2mila metri cubi di rifiuti radioattivi, di origine medica e sanitaria –prodotti durante le attività di ricerca o simili– e poi rottami metallici, vecchi quadranti luminescenti, parafulmini. E’ inoltre bene ricordare che ospedali e aziende producono ogni anno 500 tonnellate di nuove scorie”. Cfr. per un approfondimento, la mappa degli attuali depositi temporanei di materiale radioattivo in Italia sul sito http://www.zonanucleare.com/questione-scorie-italia/mappa-attuali-depositi/B-considerazioni-e-cartina-geografica.htm. 58 La principale lezione appresa –durante le numerose emergenze NBCR (nucleare, biologico, chimico, radiologico)– è la necessità di pianificazione preventiva a tutti i livelli, secondo il motto del gestore del rischio: “aspetta il peggio, pianifica per il peggio, spera per il meglio”. In particolare, occorre organizzare: • il coordinamento tra le diverse organizzazioni preposte alla gestione dell’emergenza; • l’approntamento di strutture di comando, controllo e comunicazioni congiunte; • l’elaborazione di scenari di emergenza e relativi piani di contrasto; • la predisposizione di strumenti legislativi innovativi e flessibili; • l’individuazione precisa dei responsabili della comunicazione e l’allestimento di appositi piani comunicativi (“comunicare, comunicare, comunicare”); • l’addestramento del personale; • la logistica (scorte di vaccini e medicinali, equipaggiamenti protettivi, sistemi di allarme precoce, etc.). Occorrono, altresì, una pianificazione accurata –per far fronte all’emergenza senza perder tempo– ed esercitazioni periodiche per verificare lo stato di prontezza operativa. 47 Gli arsenali nucleari nel Mondo sono dunque a rischio di incursioni terroristiche o di fughe verso il mercato nero; ci sono testate nucleari tutelate da militari la cui sicurezza non è garantita. C’è poi l’uranio usato per scopi non militari e soggetto a sorveglianza meno stretta. L’ultima crisi energetica ha dato il via ad una nuova corsa verso le centrali nucleari. Un piano di azione e formazione che coinvolga Governi, istituti di ricerca, centri accademici, apparati di intelligence, potrebbe essere uno dei contributi più originali alla cooperazione internazionale contro il terrorismo jihadista: darebbe ad esso una nuova dimensione ed una nuova intensità. Nel corso della Conferenza di Washington il Presidente Berlusconi ha anticipato la costituzione in Italia di una agenzia per la sicurezza nucleare, in particolare per la sicurezza fisica degli impianti. Nonché di una scuola di addestramento per la formazione del personale che opererà nei Paesi emergenti, sia per offrire un contributo originale alla prevenzione del traffico illegale, sia per aumentare la garanzia degli impianti civili nel mondo. E’ un progetto per ora solo annunciato e che sarà meglio definito in un prossimo futuro. L’istanza responsabile sarebbe il Centro internazionale di fisica teorica, con sede a Trieste. Si vuole dotare così i Governi non solo di una nuova cultura della non proliferazione, ma anche di strumenti concreti e finora non utilizzati in un settore delicato come la formazione di coloro che agiscono nei vari Paesi a stretto contatto con materiali e tecnologie potenzialmente sensibili, al fine di creare un clima di reciproca fiducia. Un progetto come quello annunciato dall’Italia a Washington andrebbe valorizzato perché trovi il più ampio sostegno nelle nostre forze parlamentari e nella società civile. 48 PARTE TERZA MODELLI, STRATEGIE E STRUMENTI DI PREVENZIONE E CONTRASTO DEL TERRORISMO DI MATRICE JIHADISTA 1. Strategie di prevenzione e contrasto tra tradizione e innovazione 1.1. L’efficacia degli strumenti per la lotta al terrorismo jihadista: criteri di valutazione L’evoluzione di Al Qaeda, o meglio, del movimento della jihad globale che si riconosce nell’ideologia qaedista, ha delle conseguenze profonde per le strategie di contrasto. La disintegrazione dei network qaedisti e l’avvento del movimento autoctono della jihad globale, costituito da piccoli gruppi che si formano dal basso, non collegati tra loro, la cui unitarietà è rappresentata dall’obiettivo comune di realizzare il programma della jihad globale, ha un effetto non tanto sull’indagine vera e propria, ma anche e soprattutto sulla fase preliminare di ricerca e di individuazione dell’obiettivo dell’indagine. Infatti, dalla fine degli anni ’90 sino ad oggi, per scoprire nuovi gruppi terroristici e avviare nuove indagini si è partiti soprattutto o da notizie provenienti dai servizi di intelligence che indicavano un certo individuo come legato ad Al Qaeda, oppure dai risultati dell’analisi dei collegamenti con soggetti arrestati in precedenti indagini. La straordinaria efficacia di queste due fonti di attivazione di nuove indagini in Italia, oltre che dalla notevole capacità di sfruttarle al meglio, derivava fondamentalmente da una circostanza del tutto unica in Europa: l’esistenza di un vasto network di sostegno all’“estremismo islamico, anche di stampo terroristico”, gravitante attorno all’Istituto Culturale Islamico di Milano (ICI), costituitosi all’inizio degli anni ’90. Molti dei membri fondatori di questa rete erano entrati in contatto fra di loro o nei Paesi di origine, dove già appartenevano ad organizzazioni terroristiche e da cui erano fuggiti per sottrarsi all’arresto, o partecipando al conflitto bosniaco, o, infine, frequentando i campi di addestramento delle aree tribali Afghano-pakistane nella seconda metà degli anni ’90. Successivamente, però, l’ICI è divenuto un polo di riferimento del nascente movimento della jihad globale ed un luogo di reclutamento di soggetti, anche da tempo residenti in Italia, che venivano selezionati, radicalizzati ed integrati in questo network. Questo comune retroterra ha rappresentato il presupposto per il costituirsi di una fitta rete di relazioni personali tra i vari componenti di tale network milanese, che gli investigatori hanno saputo ricostruire, smantellando in varie fasi i diversi segmenti di questa struttura, infliggendo danni che le pur notevoli capacità di rigenerazione non hanno potuto riparare. Se questa rete milanese è stata quasi del tutto distrutta, sorge l’interrogativo se l’approccio utilizzato sino ad ora in Italia potrà essere efficace anche in una realtà in cui la minaccia è rappresentata non più da un solo grande network terroristico con collegamenti con altre organizzazioni terroristiche all’estero, ma piuttosto da una miriade di piccoli gruppi, formati anche da solo due o tre persone che nulla hanno avuto mai a che fare con terroristi noti o con gruppi all’estero. Cosicchè, posto che l’analisi dei collegamenti personali tra gli individui già emersi in precedenti indagini non potrà consentire di individuare questi gruppi autonomi e che neppure si potrà sperare di ricevere notizie da organi esteri, attesa l’assenza di collegamenti internazionali e l’ambito esclusivamente locale in cui queste cellule si sviluppano, nasce l’esigenza di individuare una strategia da adottare per contrastare questa forma di terrorismo decentralizzato. Gli attentati compiuti negli Stati Uniti, Spagna e Regno Unito, impongono l’esigenza di una valutazione dell’efficacia degli strumenti di contrasto, ed è naturale che tale esame si incentri sulla considerazione dei possibili difetti del sistema, che potrebbero non aver consentito di impedire il verificarsi dell’attentato. Va da sé che il solo approccio percorribile è quello di considerare in astratto le potenzialità di prevenire e neutralizzare minacce terroristiche prima che avvengano, ma per far ciò è necessario definire la natura delle minacce che il sistema deve affrontare e considerarne le possibili 49 evoluzioni, così da poter adattare gli strumenti di contrasto, rendendoli idonei a fronteggiarle ancor prima che possano presentarsi. Comprendere cosa sia il terrorismo jihadista è un presupposto necessario per combatterlo efficacemente. Allo stesso modo è necessario seguirne le trasformazioni, perché il successo dei metodi di contrasto applicati in passato potrebbe indurre al convincimento, falso, che essi possano essere validi anche in futuro, con il rischio che il verificarsi di un sanguinoso attentato ne vanifichi le potenzialità. Del resto, è bene tenere a mente che il nemico da fronteggiare, Al Qaeda, ha presente l’importanza di “studiare il nemico”, evidenziandone le debolezze ed adeguando la propria strategia per poterle sfruttare. 1.2. La prima fase del terrorismo jihadista in Italia: la sconfitta del network di Al Qaeda L’evoluzione del fenomeno del terrorismo jihadista in Italia, pur con specifiche caratteristiche locali, segue le linee più generali del fenomeno a livello europeo. Ad una prima fase che vede la fondazione di basi logistiche dei gruppi impegnati nella jihad locale nei rispettivi Paesi, segue una progressiva conversione di questi gruppi ai principi della jihad globale. La guerra civile jugoslava offre a questi nuclei un primo obiettivo comune, e proprio in Bosnia vengono stretti i contatti che costituiranno l’iniziale scheletro della futura rete jihadista in Europa. I centri nei quali vengono reclutati i volontari per la Bosnia, tra cui l’ICI di Milano, dopo gli Accordi di Dayton 59 iniziano la loro attività di sostegno a coloro che intendono raggiungere le aree tribali al confine tra Afghanistan e Pakistan per frequentare i campi di addestramento di Al Qaeda. Proprio in tali aree si consolidano quelle relazioni personali che rappresentano la struttura portante della rete di Al Qaeda in Europa, costituita anche con il sostegno del centro dell’organizzazione che invia in Italia ed in Europa propri “rappresentanti” per consolidare le basi logistiche. Questa rete si disintegra quando perde i contatti con la leadership dell’organizzazione dell’area tribale afghanopakistana, nel 2002, e con le altre cellule europee, progressivamente smantellate dalle operazioni di polizia. Gli individui sottrattisi a queste operazioni tentano di ricostruire la rete locale; ciascuno comincia autonomamente a ricercare un obiettivo verso il quale indirizzare la propria azione, nel quadro della strategia della jihad globale delineata da Al Qaeda, ma ormai in maniera operativamente indipendente. La rete di Milano, rispetto alle altre presenti in Europa, dimostra grandi capacità di rigenerazione, che le permetteranno di continuare la propria funzione di elemento di coagulo della jihad per molti anni ancora. Dopo i colpi decisivi inferti alle reti costituite in Italia e in particolare a quella milanese, si passa gradualmente alla nuova fase del terrorismo jihadista globale, in cui protagonisti sono piccoli gruppi che autonomamente accolgono l’appello alla jihad globale lanciato dai vertici di Al Qaeda attraverso internet ed iniziano un processo di radicalizzazione che si conclude spesso, ma non sempre, con la decisione di intraprendere la jihad in Italia ed all’estero. La nuova fase del terrorismo si presenta in Italia in ritardo rispetto ai Paesi dell’Europa settentrionale e centrale, in virtù di fattori sociali che ne hanno tardata l’apparizione, fra cui un’immigrazione più recente, l’assenza di una massa critica di immigrati di seconda generazione ed un minor richiamo dell’Islam che ha contenuto il fenomeno dei convertiti. Questa evoluzione non ha un valore solo storico, ma rappresenta una sfida anche per gli organi di polizia e d’intelligence. In particolare un aspetto va evidenziato. La rete riconducibile ad Al Qaeda in Italia era una struttura unica, pur essendo organizzata in diverse articolazioni, Questa strutturazione le attribuiva un alto grado di operatività in termini di capacità nella pianificazione di attentati, di adozione di misure di sicurezza appropriate per impedire il pericolo di essere infiltrata e 59 L'Accordo di Dayton, o più precisamente il General Framework Agreement for Peace (GFAP), fu stipulato il 21 novembre 1995 nella base Wright-Patterson Air Force di Dayton, Ohio (USA). Con tale trattato venne messa la parola fine alla guerra civile jugoslava. L'accordo prevede il passaggio, o meglio il ritorno, della Slavonia Orientale alla Croazia, appartenente fino alla fine della guerra alla Serbia. Viene riconosciuta ufficialmente la presenza in Bosnia Erzegovina di due entità ben definite: la Federazione croato-musulmana che detiene il 51% del Territorio bosniaco e la Repubblica Srpska (49%). Altra voce importante di questo accordo è la possibilità dei profughi di fare ritorno presso i propri paesi di origine. 50 di mantenimento e sviluppo dei collegamenti internazionali con le reti di instradamento dei volontari per i fronti della jihad. In questo modo, oltre poter circoscrivere la cellula oggetto della singola operazione, è stato possibile anche trarre lo spunto per iniziare nuove indagini dai collegamenti tra i soggetti arrestati, conseguendo il positivo risultato dello smantellamento della rete stessa negli ultimi dieci anni. La struttura era stata costituita da elementi collegati ad Al Qaeda prima del 2001 ed ha poi saputo rigenerarsi sostituendo i nodi eliminati, cioè gli arrestati, con elementi sfuggiti alle operazioni di polizia o con nuove reclute. La costituzione della rete europea ed italiana era stata garantita dall’esistenza dei campi di addestramento dell’organizzazione, distrutti nel 2002, e di quelli Pakistani smantellati in gran parte negli anni successivi. Attualmente sembra che ci siano delle difficoltà di ricostruire una rete simile a quella descritta. L’organizzazione ha mutato strategia, trasformandosi in ideologia del movimento jihadista globale, la cui propagazione garantisce la continua genesi di nuovi gruppi che si costituiscono autonomamente e spontaneamente, rispondendo all’appello della jihad, senza collegamenti strutturati con altri gruppi analoghi se non nel momento in cui decidono di connettersi ad essi o per combattere nei diversi fronti della jihad, oppure per addestrarsi all’uso di armi ed esplosivi per compiere attentati nei rispettivi Paesi. E’ quindi necessario riconsiderare il metodo di analisi dei collegamenti nelle attività di indagine, perché forse diventato insufficiente o non più adeguato. 1.3. L’effetto dell’evoluzione di Al Qaeda sulle strategie di contrasto del terrorismo jihadista Al fine di rimodulare le strategie di contrasto del terrorismo jihadista, occorre naturalmente evidenziare quali elementi dell’evoluzione di Al Qaeda possano risultare rilevanti. Le indagini compiute in Italia che hanno portato agli eccellenti risultati che conosciamo, hanno utilizzato metodi consolidati, fra i quali in larga misura l’analisi dei collegamenti tra terroristi già individuati ed altri elementi, e la cooperazione internazionale con organi di polizia e di intelligence. Più marginale è stato l’uso di notizie di intelligence provenienti da fonti a contatto con il gruppo terroristico sotto indagine. Si tratta quindi di considerare l’effetto che l’evoluzione di Al Qaeda potrà avere sull’efficacia di questi metodi e quindi il peso relativo che ciascuno di essi rivestirà nel contrasto al terrorismo jihadista. La trasformazione di Al Qaeda nel tempo ha seguito la linea dettata da una sempre maggiore decentralizzazione, che ha comportato un trasferimento di funzioni dal “centro” alla “periferia”, attraverso la disgregazione della struttura e lo sviluppo “dal basso”. Dalla sua prima fase in cui si era costituita come organizzazione gerarchica, Al Qaeda è diventata una rete, anzi una Rete di reti collegate fra loro. La maggior parte delle indagini in Italia è stata generata prendendo come obiettivo una porzione della rete, e, dopo averla neutralizzata, sono opportunamente proseguite sulle altre diramazioni della rete stessa: è stata cioè applicata una tecnica di analisi dei collegamenti non solo interni ai membri del gruppo investigato, ma anche di quelli esterni. Perché questo metodo possa essere applicato in maniera autonoma è però necessario che l’organizzazione da fronteggiare sia costituita da entità tra loro collegate. Ma poiché Al Qaeda si è trasformata da rete a movimento spontaneo e considerato che un tale movimento è costituito da entità generalmente non collegate fra loro, se non dalla comune ideologia, da ciò consegue che il metodo di analisi dei collegamenti non è sufficiente da solo all’individuazione dei gruppi jihadisti. Per quanto riguarda l’altra concausa della trasformazione di Al Qaeda, ossia lo sviluppo “dal basso”, abbiamo già visto nella parte seconda come la formazione dei gruppi cosiddetti homegrown è endogena, ossia avviene prevalentemente per effetto della propaganda, in grado di raggiungere attraverso il web tutti i musulmani del mondo. Costoro non possono venire scoperti attraverso l’analisi dei collegamenti con altri individui o gruppi all’estero finchè non raggiungono uno stadio tale in cui essi entrano in contatto con altre entità. In precedenza era possibile che venisse segnalato l’arrivo in Italia di un elemento appartenente ad Al Qaeda o ad altre organizzazioni jihadiste, oppure che dall’analisi del materiale rinvenuto all’estero fossero trovati elementi utili alle indagini. Dal momento però in cui le reti jihadiste venivano “sostituite” dai gruppi spontanei autoctoni, il metodo di individuazione fondato sulla cooperazione internazionale ha perso parte della sua efficacia. Formandosi il gruppo su base locale ed autoctona, esso non potrà essere individuato sulla base di collegamenti –che non ha- con individui, reti od organizzazioni all’estero. Comunque,è opportuno 51 ribadire che il qaedista, pur nella sua ampia autonomia, opera nell’ambito di una strategia globale ed etero diretta. E’ vero che questi gruppi nella loro evoluzione “dal basso” mirano generalmente a ricercare contatti “in alto”, soprattutto con organizzazioni presenti nei teatri della jihad, per ricevere addestramento oppure per inquadrare la loro azione in quella di formazioni mediaticamente riconoscibili. Quando ciò si realizza, il gruppo diviene vulnerabile a causa dei collegamenti che stabilisce a livello internazionale e quindi è possibile che da organi di polizia e di intelligence esteri giungano notizie che consentano la sua individuazione. Vero è che tali gruppi non sempre intendono o riescono a stabilire legami con le organizzazioni jihadiste all’estero; oltretutto, quando hanno successo, ciò avviene normalmente dopo che il gruppo ha superato la fase della radicalizzazione e si è quindi già “jihadizzato”, con il conseguente rischio che la sua individuazione avvenga quando è ormai troppo tardi, mancando poco tempo al momento del passaggio all’azione. Ad esempio, il gruppo homegrown tedesco entrato in contatto con l’organizzazione “Unione della Jihad Islamica” , subito dopo che alcuni suoi membri avevano ricevuto l’addestramento nelle aree tribali tra l’Afghanistan dell’organizzazione, aveva già iniziato a pianificare un attacco, acquistando il perossido d’idrogeno necessario per la fabbricazione di esplosivo artigianale. Considerata la dimensione globale del fenomeno jihadista, quindi, gli strumenti della cooperazione internazionale continueranno ad avere per il futuro una funzione importantissima ed insostituibile; tuttavia la progressiva disgregazione della struttura della rete di Al Qaeda e la maggiore localizzazione dei gruppi jihadisti incideranno inevitabilmente sulla loro efficacia. Si può infatti osservare come da indagini anche eclatanti compiute in Europa sui gruppi di nuova generazione non siano mai emersi collegamenti significativi con altri Paesi europei, come nel caso degli attentati di Londra del 7 e 21 luglio 2005, dell’”Hofstadt Group” olandese, o della formazione di convertiti tedeschi affiliati all’”Unione della Jihad Islamica”. Gli strumenti per individuare nuovi gruppi terroristici basati sulle analisi delle relazioni e sulla cooperazione internazionale, che sfruttano l’esistenza di collegamenti tra entità terroristiche note ed altre non note, dovranno essere implementati con altri metodi, tra i quali quello basato su notizie di intelligence provenienti da fonti a contatto con il gruppo da individuare. L’evoluzione dei gruppi terroristici fa presagire che il peso relativo di quest’ultimo metodo tenderà a crescere, in rapporto a quello degli altri metodi, anche perché i gruppi sono più vulnerabili per la minore adozione di cautele assunte per proteggere le attività del gruppo stesso. Come infatti già rilevato, la differenza sostanziale tra i gruppi della fase dei network di Al Qaeda in Europa e quelli della fase del movimento jihadista globale sta nel fatto che i primi erano formati da individui che avevano frequentato i campi di addestramento in Afghanistan o in Pakistan, o avevano avuto una precedente esperienza jihadista, per esempio in Bosnia. Si trattava, cioè, di individui che erano già terroristi ancor prima di costituire il proprio gruppo in Europa ed erano coscienti, quindi, di dover nascondere la loro attività ai servizi di intelligence ed alle forze di polizia dei Paesi in cui si erano insediati. Dunque, non solo adottavano particolari precauzioni al fine di mantenere occulte le proprie attività illegali, ma evitavano anche di manifestare pubblicamente la propria adesione all’ideologia salafita qaedista, immaginando che determinati comportamenti avrebbero attirato l’attenzione delle forze dell’ordine Di converso, i gruppi spontanei del movimento jihadista globale che si radicalizzano con l’affermazione della propria identità musulmana non hanno nessuna ragione per nascondere la propria ideologia, perché non compiono, in una prima fase, attività illegali e quindi non temono di attirare l’attenzione. E’ il caso, come abbiamo più volte visto, del libico Mohammed Game, di Milano, così come del principale membro dell’”Hofstad Group” olandese, Jason Walters, che manifestava le proprie idee radicali nella moschea che frequentava, e come il convertito tedesco Eric Breininger che si era allontanato dalla sua famiglia affermando di non sentirsi più tedesco e di ritenere i suoi congiunti infedeli. Allorquando tali gruppi spontanei decidono di passare all’azione, vengono adottati sistemi di isolamento e cautele comportamentali per evitare che venga attirata l’attenzione delle forze di polizia e dei servizi di intelligence. Sino a che ciò non si verifica, i gruppi spontanei del movimento jihadista sono piuttosto vulnerabili ad una strategia di ricerca basata su fonti informative, sia perché lanciano evidenti segnali della propria radicalizzazione, sia in quanto non adottano efficaci meccanismi difensivi per evitare eventuali infiltrazioni. 52 2. La cooperazione internazionale per la tutela degli interessi vitali nazionali 2.1. La cooperazione nell’area mediterranea Gli attentati del settembre 2001 hanno costituito l’esasperazione più spettacolare del terrorismo di matrice jihadista, dimostrando come la sua diffusione coinvolga ormai indiscriminatamente tutti gli Stati. Ne consegue forse la sopravvenuta possibilità di una azione internazionale di contrasto più articolata e coordinata, in rete. Per effetto di sollecitazioni diversificate, ben oltre l’originario impulso post-bellico legato all’autodeterminazione dei popoli colonizzati o altrimenti sottomessi, il jihadismo, come evidenziato in precedenza, si è frammentato. Le spore di Al Qaeda si sono diffuse contaminando le stesse società dei paesi emergenti afflitte da problemi demografici che, in una fase di accresciuta competizione internazionale, le rendono ancor più vulnerabili. Il brodo di coltura dell’estremismo e delle sue ramificazioni terroristiche, pertanto, non è più soltanto nel fondamentalismo religioso, politico o ideologico, dagli effetti internazionali, ma anche nelle crescenti tensioni demografiche ed economico-sociali interne a Stati fragilizzati. La Risoluzione del 1904 precisa che il terrorismo “può essere sconfitto soltanto da un approccio sostenuto e complessivo, che comprenda la partecipazione e collaborazione attiva di tutti gli Stati (…) a scopo preventivo, in aggiunta all’applicazione del diritto penale”. Da allora annualmente una ulteriore Risoluzione ne ha ribadito e precisato i termini, consentendo l’istituzione di un apposito Comitato Anti-terrorismo, di una Lista di individui e gruppi sospetti nei confronti dei quali bloccare i conti bancari, impedire i movimenti personali e la fornitura di armi ed altro materiale potenzialmente nocivo. L’Unione europea ed il G8 hanno disposto proprie parallele analoghe liste e procedure, oltre a disporre misure contro la radicalizzazione e il reclutamento, nell’opportuna distinzione fra fondamentalismo religioso e terrorismo. Si dovrebbe ritenere che l’evoluzione del ben più eterogeneo G20, con le sue ambizioni di governabilità globale, possa concorrere all’elaborazione di un più sostanzioso comune denominatore, concettuale ed operativo, anche nei confronti delle varie manifestazioni del terrorismo internazionale. Ne dovrebbero risultare dei parametri e delle formule condivise per la comune identificazione, analisi e valutazione della pericolosità delle varie configurazioni estremiste, la griglia indispensabile per quel coordinamento funzionale che rappresenta la premessa per la collaborazione nell’opera di contrasto preventivo (e spesso presuntivo) che le specifiche circostanze potranno di volta in volta richiedere. Dal punto di vista operativo, particolarmente complessa, e bisognosa pertanto di un più consistente anche se diversificato coordinamento internazionale, si rivela l’azione nei confronti di Stati (cosidetti “falliti”) che non sappiano o possano ostacolare il terrorismo internazionale, fungendo anche passivamente da “santuari” e a maggior ragione di quelli che ne sostengono l’operato, riottosi a regole di comportamento internazionali. Particolarmente rilevante per l’Italia, e conseguentemente per l’Unione, è la situazione nel Mediterraneo. Oltre all’arco di crisi mediorientale e alla situazione tuttora precaria nei Balcani (in Bosnia e Kosovo), che rispondono ad altri più complessi parametri conflittuali, la collaborazione fra gli Stati del bacino mediterraneo occidentale è ancora menomata da alcune incongruenze che giustificano una più specifica attenzione ad opera dell’Unione del Mediterraneo, l’ennesima iniziativa europea dalla perdurante difficile gestazione. Opera da alcuni anni uno specifico interscambio dei Ministri dell’Interno dei principali Paesi del Mediterraneo, che dovrebbe ormai ricevere un più deciso impulso politico pan-mediterraneo. Nonostante le buone intenzioni ricorrentemente reiterate, il rigore con cui i partner mediterranei dell’Unione difendono le loro sovranità nazionali, anche fra di loro (per non parlare dell’aperto contenzioso fra Algeria e Marocco), impediscono uno scambio di informazioni più efficace e la collaborazione operativa sub-regionale, anche nei confronti dei flussi di immigrazione clandestina, traffici illeciti e criminalità. Le loro nuove esigenze di ordine interno, e le specifiche minacce salafite loro rivolte con intensità crescente dalla fascia del Sahel, dovrebbero ormai indurli a perseguire più concrete forme di coordinamento informativo e di collaborazione operativa con i Paesi europei rivieraschi. A monte, una maggiore collaborazione politica ed economica fra i paesi di ambo le rive del Mediterraneo dovrà poter contribuire a quella comune opera di riforme economico-sociali ed istituzionali, premessa di ogni ulteriore azione di contrasto al terrorismo di matrice ideologica internazionale o di più circoscritto tenore politico interno. 53 Le conseguenze sarebbero piuttosto significative per il nostro Paese. Infatti, la collaborazione tra le due sponde del Bacino mediterraneo, se ben implementata, può esaltare la vocazione regionale dei Servizi di intelligence italiani, che finirebbero con il costituire, nel corso degli anni, un prezioso patrimonio informativo relativo all’area in questione senza eguali al mondo, una rilevantissima dotazione di informazioni che potrebbero essere scambiate, in maniera proficua e vantaggiosa per l’Italia, con informazioni altrettanto preziose provenienti dai Servizi di intelligence dei Paesi dell’area extra-mediterranea. 2.2. Un possibile modello di cooperazione internazionale: l’operazione “Friends of Yemen” Negli ultimi due anni lo Yemen è stato posto dall’Italia al centro dell’attenzione internazionale per la sua posizione strategica, che ne fa un luogo di grande valenza per la stabilità dell’area (Corno d’Africa e Golfo di Aden) e per la sicurezza dei mari di competenza, ed un ambito politico di rilevante interesse per la lotta al terrorismo. Infatti, la stabilità e la sicurezza del Medio Oriente e della Penisola Arabica non passano solo attraverso i tradizionali scenari di crisi, quali Palestina, Iran, Pakistan, Afghanistan, ma anche per lo Yemen. Quest’ultimo non è uno Stato “fallito”, né “ricovero di terroristi”, come è stato ipotizzato in seguito al fallito attentato al volo della Delta Air Lines alla vigilia del Natale 2009 da parte del nigeriano Mohammed Muthallab, che ivi si era addestrato, quanto piuttosto uno Stato “fragile”. Il suo attuale stato di fragilità è dovuto alla debolezza delle istituzioni ed alla scarsa capacità di governo, ma anche alla diffusa corruzione ed ai conflitti interni, oltre che ad una carenza di controllo del territorio. Ma lo Yemen subisce anche le criticità dovute alla vicinanza della Somalia, con tutto ciò che ne consegue in termini di flussi incontrollati di immigrati, di traffici illegali e criminalità organizzata, di pirateria e di facilità di penetrazione da parte di gruppi terroristici provenienti da altri Paesi. Si tratta di fattori in grado di compromettere gravemente la stabilità dell’area, di incidere sugli interessi generali della comunità internazionale e di favorire, in definitiva, lo sviluppo di attività terroristiche. Nello Yemen si ha ancora la possibilità di intervenire a sostegno del Paese per prevenire ogni ulteriore degrado, piuttosto che doverlo fare successivamente con più alti costi umani e finanziari, come è successo in altre situazioni all’insorgere di crisi aperte, ed è perciò necessario che la comunità internazionale si faccia carico di aiutare il Paese, nel pieno rispetto della sua sovranità. Numerose sono le iniziative intraprese dall’Italia a favore dello Yemen, a cominciare da un preciso programma di rafforzamento della sicurezza costiera, tema sensibile e prioritario a causa dell’esposizione geografica del Paese. Il programma consiste nella fornitura alla Guardia Costiera Yemenita di apparecchiature tecnologiche per la sicurezza delle coste ed in piani per la formazione in Italia e nello Yemen di ufficiali e personale della Guardia Costiera Yemenita, basato su intese con il Corpo delle Capitanerie di Porto italiane e con il contributo dello Stato Maggiore della Marina, grazie al quale cadetti del Corpo yemenita vengono formati come ufficiali di guardia costiera presso l’Accademia Navale di Livorno. E’ inoltre prevista la presenza a Sana’a di un ufficiale italiano delle Capitanerie di Porto che coordinerà tutte le attività di cooperazione costiera italo-yemenita e farà da osservatore italiano dei fenomeni di competenza navale che si sviluppino nell’area. Altri Paesi offrono attività formative alla Guardia Costiera Yemenita, ma l’Italia è il solo Paese che abbia stabilito un vero e proprio programma integrato, entro il quale i segmenti della formazione, della fornitura di equipaggiamenti, della presenza sul terreno, dell’alta formazione di ufficiali presso il nostro sistema marittimo concorrono tutti alla sinergica costruzione di capacità globali presso il competente corpo yemenita. La strategia di intervento dell’Italia a favore dello Yemen è ancora più ampia. Infatti, il diffondersi della pirateria e lo sviluppo di un programma per contrastarla comporterà presto l’adozione di sistemi di controllo integrati per tutta l’area, essendo insufficienti le azioni di pattugliamento navale: serviranno perciò centri di controllo, reti radar a terra e in mare, forse anche sistemi di monitoraggio satellitare. La sfida è che l’Italia, grazie al vantaggio di posizione industriale ed istituzionale possa essere al centro di tali programmi di sviluppo, continuare a proporre proprie forniture industriali ed ad essere presente in un’area altamente strategica. Nel 2009 il G8 svoltosi a L’Aquila sotto la Presidenza italiana, adottò lo Yemen come tema internazionalmente rilevante, accogliendo di fatto l’approccio italiano, ossia la necessità di contribuire allo sviluppo delle attività gestionali, fra cui la prevenzione dei conflitti, la giustizia, la sicurezza, il controllo del territorio. Il rilevante ruolo dell’Italia in tale contesto è stato riconosciuto in occasione della recente Conferenza sullo Yemen del gennaio 2010, allorché fu accolta la proposta del Ministro degli Esteri italiano 54 Frattini di istituire il gruppo “Amici dello Yemen”, che rappresenta il principale risultato della Conferenza stessa. Oltre alle suddette iniziative tese al rafforzamento della Guardia Costiera Yemenita, il gruppo “Friends of Yemen” si propone di intensificare la cooperazione italiana con lo Yemen anche attraverso la fornitura di un moderno sistema di anagrafe per l’identificazione di cittadini ed immigrati, l’elaborazione di programmi di cooperazione in materia di diritto e di giustizia 60 , e il sostegno al patrimonio culturale dello Yemen 61 . Spicca, nell’assunzione di tali impegni, il senso di approccio sinergico e coordinato: se si rafforza la Guardia Costiera, si consente di soccorrere in mare più immigrati e di arrestare più criminali; una volta a terra, tutti dovranno essere identificati, mentre i criminali dovranno essere affidati ad una giustizia efficiente. L’identificazione anagrafica, inoltre, conferisce dignità a cittadini, immigrati e rifugiati, rendendoli più certi soggetti di diritti e fruitori di servizi, sostenendone la coesione sociale e nazionale e favorendo la prevenzione dei conflitti. Il sostegno al patrimonio culturale, infine, rafforza il senso di identità del popolo yemenita e contribuisce ad evitare che gli individui più fragili e più suggestionabili siano coinvolti in quei processi di radicalizzazione che potrebbero portarli ad intraprendere le strade del fondamentalismo, del terrorismo, della jihad, del crimine In questo ampio contesto, si configura non solo una responsabilità internazionale di efficace partecipazione all’esercizio del gruppo “Friends of Yemen”, ma anche una brillante opportunità di valorizzazione all’estero di risorse ed eccellenze nazionali in ordine ad un tema di grande interesse internazionale e di sostegno di prospettive nazionali. Si tratta di impegnare innanzitutto le risorse dell’Aise e dell’Aisi in stretta correlazione con il Ministero degli Affari Esteri e con il Ministero dell’Interno, anche per corrispondere ad una precisa richiesta europea ed internazionale, basata sull’apprezzamento delle nostre istituzioni rilevanti per la sicurezza e finalizzata ad ottenere la collaborazione per l’attivazione di progetti ricadenti nei programmi dell’Unione Europea. Altre risorse nazionali sono suscettibili di coinvolgimento, come il Ministero della Giustizia, il Ministero della Difesa, il Ministero dei Beni Culturali e tutti gli enti ad essi collegati; altre indicazioni verranno, poi, dagli sviluppi dell’esercizio “Friends of Yemen”. In definitiva, il ruolo che l’Italia dovrà esercitare si articola in tre aspetti fondamentali: - continuazione, anche in prospettiva futura e più ampia, del nostro posizionamento strategico nelle linee sopra indicate; - raccordo politico con altri attori internazionali (altri Paesi del gruppo “Friends of Yemen”, agenzie internazionali, Unione Europea, G8); - coinvolgimento, coordinamento e proiezione estera degli attori nazionali sopra indicati, quali Ministeri, Amministrazioni, Enti, Aziende, ecc. e di rilevanti organizzazioni internazionali che possano contribuire allo sviluppo delle aree di intervento programmate. 3. Potenziamento delle strategie di contrasto: centralità HUMINT(Human Intelligence) e ruolo SIGINT (Signal Intelligence) 3.1. La questione del reclutamento del personale e la formazione linguistica e culturale degli operatori di intelligence e degli apparati di sicurezza L’obiettivo primario di Al Qaeda è il ritorno ad un Califfato e ad una “Umma” universale. È necessario pertanto “riappropriarsi” dei Paesi musulmani corrotti riportandoli ai dettami della Sharia, anche facendo ricorso all’uso di armi non convenzionali. Affinché tali obiettivi possano essere contrastati, occorre implementare una intelligence strategica comprensiva di tutte le espressioni umane e tecniche da mettere 60 Uno di questi programmi prevede l’armonizzazione delle diverse fonti del diritto. 61 Un obiettivo da raggiungere, per esempio, anche attraverso l’attuazione di uno studio sulla gestione urbanistica della città vecchia di Sana’a, il completamento di un preesistente progetto di restauro e studio di antichi manoscritti, l’elaborazione di un programma di sostegno del corso di lingua italiana presso l’Università di Sana’a e di un programma di traduzione di autori yemeniti. 55 simultaneamente e organicamente in campo. Nell’attuale conflitto asimmetrico il contrasto al terrorismo jihadista –così come nel tempo è venuto a delinearsi nelle sue caratteristiche di imprevedibilità, sfuggevolezza e di difficile identificazione– richiede la preminenza del fattore umano (HUMINT), sostenuto, senza soluzione di continuità, dalla componente tecnologica, in particolare della SIGINT. Quest’ultima, per funzionare in maniera efficace necessita di integrazioni tecniche e operative. Per esempio, i data base contenenti nomi vanno benissimo, ma per ottenere una maggiore efficacia operativa, sarebbe opportuno incrociarli con altri archivi (contenenti materiali fotografici e le impronte digitali dei sospettati di terrorismo). Per i successivi riscontri, il fattore umano (HUMINT) è quindi indispensabile. Alla luce dell’attuale evoluzione, assume notevole importanza l’attività informativa, sostenuta da una cultura più approfondita dello specifico fenomeno. Questo richiede il coinvolgimento di altre figure oltre agli operatori di polizia, che contribuiscano all’individuazione di tutti i possibili segnali del processo di radicalizzazione che, una volta completato, potrebbe evolversi in attività terroristiche. Sinteticamente, tra le strutture e le figure maggiormente idonee vi potrebbero essere le seguenti: a) la polizia locale, quale recettore di segnali che possono provenire dalle fonti più disparate e che possono costituire indicatori di fenomeni di radicalizzazione e di attività preparatorie di attentati terroristici; b) i soggetti che quotidianamente entrano in contatto con le comunità islamiche: medici di base, docenti, addetti ad uffici che si occupano di erogazione di servizi agli immigrati, etc.. In questa prospettiva, diventa centrale l’aspetto di reclutamento del personale di intelligence, in relazione soprattutto a bacini e procedure di selezione, qualità relazionali e psicologiche, abilità, competenze e conoscenze. Risultati efficaci si possono conseguire attraverso il potenziamento dei rapporti con il sistema universitario in modo che si possa pervenire alla selezione delle risorse migliori sul piano della motivazione e della competenza richieste (in ambito economico-finanziario, ingegneristico-informatico, chimico-biologico, antropologico-culturale, socio-psicologico, storico-politico e linguistico), attingendo non solo nella sfera della pubblica amministrazione, ma allargando gli ambiti di reclutamento anche al settore privato. In particolare, il kit dell’analista di intelligence va adattato anche all’evoluzione dei rischi di tenuta che corrono, nell’attuale fase storico-politica, i sistemi nazionali e gli interessi vitali del Paese, soprattutto in ambito economico, per cui uno degli assi privilegiati di sviluppo della preparazione dei Servizi di informazione dovrà sicuramente riguardare l’intelligence economico-finanziaria. Altrettanto essenziale sarà la formazione linguistica e culturale degli operatori di intelligence e degli apparati di sicurezza. In questa accezione, occorre tenere presente che da più di trenta anni le missioni militari e civili italiane all’estero si svolgono in paesi di ambito culturale islamico o fortemente caratterizzate dalla cultura islamica. A partire dall’operazione in Libano dei primi anni ‘80 e poi soprattutto dopo l’11 settembre 2001, queste missioni si sono dovute confrontare con una tematica predominante non più solo di crisi tra Stati, ma soprattutto di crisi interne, di conflitti interconfessionali ed interetnici, contrassegnate da tutte le complesse vicende e fratture interne alla cultura islamica contemporanea. Le stesse missioni nei Balcani hanno avuto e hanno ancora queste caratteristiche di fondo. A fronte di questa realtà, i quadri militari e civili delle forze armate, nonché i servizi di informazione, gli apparati di sicurezza e le forze di polizia, hanno spesso riscontrato di avere ricevuto nella loro formazione e nei loro successivi aggiornamenti una preparazione culturale non adeguata alla complessità dei propri ambiti di impiego sia all’estero che in territorio nazionale. È dunque utile e auspicabile l’avvio di una specifica attività di formazione del personale militare e civile che si troverà ad operare in contesto islamico all’estero –in grado di permettere ai singoli di avere gli strumenti generali per approfondire nei vari scenari di impiego in cui si troveranno, a contatto con la cultura viva, la padronanza delle differenze, dei punti di contatto, dei “ponti concettuali” che sarà loro indispensabile– ma anche nei contesti territoriali nazionali dove sarà necessario confrontarsi, nella ordinaria e quotidiana attività operativa, con avversari appartenenti alla cultura ed alla tradizione islamica. In generale, i punti fondamentali del percorso formativo devono prevedere, tra gli altri, la conoscenza della concezione politica islamica, dei principi religiosi e del diritto dell’Islam, della storia degli scismi e dei concetti di jihad e di apostasia nell’Islam contemporaneo. Una conoscenza che va comunque adattata e declinata in rapporto alla storia degli avvenimenti nei vari teatri regionali (da quello egiziano a quello libanese e siriano, da quello curdo-irakeno a quello indiano, pakistano e Afghano, e così via). 56 Inoltre, sarà importante poter contare sempre più anche su competenze in grado di analizzare in maniera efficace i testi dei documenti, le comunicazioni e le immagini web, in una attività complessa diretta alla scoperta preventiva dei processi di radicalizzazione e di diffusione delle idee dell’estremismo jihadista. L’applicazione di un tale modello formativo presuppone la necessità di approfondire i peculiari aspetti connessi al reclutamento delle risorse umane all’interno della componente immigrata, con specifico riferimento al contrasto del terrorismo internazionale. Si pone anche un problema importante di affidabilità delle risorse selezionate: si ricordi, al riguardo, l'attentato alla fine del dicembre del 2009, nella provincia di Khost in Afghanistan con sette agenti CIA morti, tra cui una donna e due contractors, per opera di un kamikaze entrato nel compound statunistense in qualità di informatore. Il problema dell’affidabilità riguarda non solo gli scenari extranazionali, ma anche il territorio nazionale dove occorrerà tenere in massima considerazione il principio di cautela nell’impiego di stranieri immigrati in qualità di interpreti e di informatori. Nella selezione delle risorse umane occorre infine anche tenere presente il ruolo della componente femminile nella lotta dei gruppi radicali islamici contro l’Occidente, cresciuto negli ultimi anni dopo che, a lungo, l’ala più tradizionalista di Al Qaeda (quella che fa riferimento a Bin Laden e al Mullah Omar) non aveva mai accettato il coinvolgimento delle donne nella progettazione ed esecuzione di attacchi terroristici. Nel quadro di tale processo evolutivo, sarebbe opportuno prevedere un incremento della componente femminile nelle forze di polizia, di intelligence e nelle forze armate, con finalità d’impiego nel contrasto al terrorismo. 3.2. Le fonti informative nei vari scenari Il modello di un gruppo terroristico si può strutturare su tre livelli: apicale (o della ideazione e della decisione politico-strategica); della pianificazione operativa e organizzativa; della esecuzione materiale degli attacchi. Ovviamente, tra i tre livelli considerati non esistono mai nella realtà delle nette linee di demarcazione. Al livello che abbiamo definito apicale dell’organizzazione, vi sono ovviamente i grandi latitanti, oppure i capi delle tribù socio-politiche di riferimento. I latitanti sono accessibili solo da parte di chi li protegge e quindi anche da chi li può tradire. Partecipano attivamente alle dispute politiche dei Paesi ostili direttamente o tramite intermediari. Sono sensibili al richiamo ideologico ed all’adulazione riferita all’intelligenza, avendo adulatori e finanziatori. Difficilmente rintracciabili, usano mezzi di comunicazione sofisticati ed hanno un alto tenore personale e culturale. Un fattore di grande vulnerabilità in questo livello è rappresentato dalla massa di faccendieri, collaboratori o personale ausiliario, tenendo presente che occorre trovare sia coloro disposti a fornire notizie, sia coloro che le notizie le danno in maniera inconsapevole. Al livello intermedio, quello operativo, sono compresi gli individui pragmatici che sanno molto di tecnica degli attentati, di comunicazioni e di questioni logistiche e che si muovono generalmente con identità multiple. Spesso spariscono dalla circolazione per lunghi periodi durante i quali non danno notizie a parenti o amici. Sono coloro che preparano gli attacchi e quindi hanno esigenza di denaro, di materiali sofisticati e di comunicazioni tecnologiche o personali. Soprattutto il reperimento del denaro, attraverso i vari sistemi di rimesse e di trasferimento, allarga di molto la cerchia di controllo, ma anche i materiali sono importanti, in special modo i veicoli, le armi individuali, gli esplosivi e le comunicazioni. Infine, nell’ultimo livello troviamo gli esecutori materiali degli attacchi, come descritti nelle varie tipologie nella seconda parte di questo elaborato. Sono coloro che fortemente motivati non desistono dalla loro decisione. Un elemento importante da tenere sempre in considerazione è la criminalità, intesa come attività e come organizzazione. Un attacco terroristico può danneggiare sempre le attività criminali e la sua preparazione spesso si intuisce dalla stranezza di certi episodi criminali (come il furto di uniformi o di badge di accesso ad aree sensibili 62 ). Le organizzazioni criminali raramente aiutano i terroristi, ma spesso forniscono dei servizi a pagamento per furti, rifornimenti di droga, ricatti. Nella lotta al terrorismo è essenziale acquisire una pluralità di informazioni, in particolare con l’impiego di fonti umane e facendo ricorso, per quanto possibile, alla penetrazione dei tre livelli dell’organizzazione terroristica. 62 Ricordiamo in tal senso che nel sequestro Moro (1978) i brigatisti indossarono uniformi da pilota dell’Alitalia. 57 A ciascun livello le informazioni migliori possono essere ottenute soprattutto con una penetrazione nell’organizzazione da contrastare, ma il tipo di penetrazione differisce in funzione del livello organizzativo e delle priorità informative. Sarà compito degli analisti incrociare le varie informazioni e trarre gli elementi utili per il contrasto o la controinformazione. Per quanto riguarda il primo livello (apicale o della decisione politico-strategica) si ritiene che le priorità di prevenzione e contrasto debbano essere rivolte alla ricerca di informazioni sulle reti sociopolitiche ed economiche di influenza e di sostegno del terrorismo, sugli eventuali avvicendamenti al vertice dell’organizzazione, attraverso l’individuazione dei possibili successori, e sul possesso ed il procacciamento di armi da parte dei terroristi. Le fonti degli altri livelli tendono prioritariamente ad acquisire informazioni sulle operazioni e sulle possibilità di prevenzione, nonché ad individuare gli esecutori materiali degli attacchi (nuclei di fuoco) per neutralizzarli. Per selezionare le fonti più idonee a “penetrare” in ciascun livello, occorre individuare le caratteristiche del livello stesso e sfruttarne le vulnerabilità. La diversità culturale è un ostacolo alla penetrazione e anche la diversità etnica e razziale è certamente un elemento limitativo. Infatti, grazie alla diffusione religiosa ed ideologica il sistema islamico è multietnico e, spesso, può presentare tratti di multiculturalità (anche se in funzione strumentale), per cui non vi sono particolari preclusioni nei confronti di gruppi etnici tra cui individuare potenziali agenti da infiltrare. L’estremismo jihadista tende a fare proseliti ed è meglio se sono occidentali: un jihadista occidentale vale mille autoctoni in termini di propaganda. 3.3. La condivisione delle informazioni tra forze di polizia e apparati di intelligence e l’interazione operativa Gli organismi dell’Unione Europea, in tutti i fori che si occupano di sicurezza, indicano una serie di misure e di raccomandazioni per migliorarne l’efficacia. Fra queste, lo scambio di informazioni fra i Paesi membri è da sempre la misura più ricorrente, ma anche quella considerata prioritaria, perché alla base dell’attività di cooperazione, tenendo comunque presenti le peculiarità dei servizi di intelligence e le specificità operative degli organi di polizia. I gruppi criminali sono sempre più complessi e caratterizzati da grande mobilità; è perciò indispensabile incrociare le notizie di cui si dispone con quelle di cui si viene a conoscenza per delinearne lo spessore ed individuarne i progetti. Ma per ottenere risultati soddisfacenti nel campo della prevenzione e del contrasto della criminalità e del terrorismo, le informazioni “scambiate” dovranno essere altresì condivise da tutti gli attori, che potranno così mettere a fattor comune le conoscenze ed operare al meglio. In questo senso, il “Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo” (C.A.S.A.) –sorto nel 2003 nell’ambito del Dipartimento della Pubblica Sicurezza all’indomani dell’attacco terroristico contro i militari italiani a Nassirija– è un appropriato esempio di circolazione e condivisione delle segnalazioni di minaccia per la sicurezza nazionale e delle informazioni di rilevanza internazionale suscettibili di ripercussioni per gli interessi italiani sul territorio nazionale ed all’estero. Il Comitato è composto da alti rappresentanti delle tre forze di polizia, dei servizi di intelligence e sicurezza e dell’amministrazione penitenziaria e svolge compiti di analisi e di valutazione delle informazioni di particolare rilievo, attinenti al terrorismo interno ed internazionale, allo scopo di pianificare e coordinare ogni idonea attività finalizzata a prevenire eventi di natura terroristica. Il C.A.S.A. opera anche in funzione di supporto all’Unità di Crisi, prevista dal “Piano Nazionale per la gestione di eventi di natura terroristica” (DL 6 maggio 2002 n. 83) e convocata dal Ministro dell’Interno in casi di particolari necessità o per gestire l’emergenza determinata da un evento di natura terroristica. Si tratta quindi di un’attività di cooperazione che deve costantemente essere perseguita ed incoraggiata, favorendo ogni iniziativa anche sul piano dell’operatività e delle indagini. In particolare, è auspicabile il potenziamento dell’area dell’intelligence economico-finanziaria con specifico riguardo ai fenomeni del riciclaggio, dell’insider trading, della speculazione finanziaria e della tracciabilità dei flussi monetari destinati alle organizzazioni terroristiche. Come già detto, la complessità, la mobilità e la sfuggente presenza delle cellule terroristiche necessitano di forze sinergiche per il loro contrasto: molteplici sono gli aspetti da approfondire nelle indagini antiterrorismo, dall’individuazione dei terroristi, dei loro complici e dei loro favoreggiatori, all’osservazione 58 del loro modus operandi, al reperimento e confezionamento degli ordigni, al finanziamento delle loro attività. Se le indagini, per carenza di informazioni specifiche o per negligente trascuratezza di alcuni degli aspetti sopra indicati, risultano incomplete, è naturale che i risultati di contrasto saranno insoddisfacenti e si sarà perduta l’occasione preziosa di una indagine a 360 gradi. Per una maggiore efficacia, lo scambio delle informazioni e la loro condivisione dovranno naturalmente essere accompagnati da costante attività di consultazione e raccordo tra tutti gli Enti interessati (forze di polizia e servizi di intelligence e sicurezza) per proporre tempestivamente le occorrenti misure di prevenzione e contrasto e instaurare un clima di reciproca fiducia e comprensione. Preziosa ed insostituibile in tale contesto è la collaborazione internazionale, ma occorre evitare inutili sovrapposizioni e ridondanze di nomi e di situazioni che risultano sempre dannosi per gli operatori in termini di sostanza e di tempo. Ogni strumento operativo deve essere studiato e calibrato in relazione al risultato che si vuole raggiungere: ciò significa sperimentare nella pratica quotidiana il funzionamento di ogni strumento, responsabilizzando gli operatori e fornendo loro le istruzioni necessarie. Inoltre, in caso di attacco terroristico e di gestione delle situazioni di emergenza (sequestro di persona, presa di ostaggi, attacchi con armi non convenzionali), è auspicabile il potenziamento dei modelli, delle tecniche e degli strumenti di interazione operativa tra le forze di polizia, i servizi di intelligence e gli apparati di sicurezza, interna ed esterna, comprese le autorità locali e la componente difesa. Un ruolo importante, in chiave soprattutto di supporto tecnico, è affidato alla componente Difesa in particolare all’Unità NBC. L’interazione operativa dovrà riguardare anche il miglioramento delle procedure amministrative di gestione delle situazioni di crisi e dell’emergenza, soprattutto in relazione ai delicati aspetti di negoziazione e di trattativa (per esempio, in caso di presa di ostaggi da parte dei terroristi, diventa importante per gli operatori della sicurezza un’adeguata formazione preliminare attraverso la partecipazione a corsi di negoziazione). Sul piano strettamente operativo, inoltre, è sempre importante migliorare gli standard qualitativi dell’intervento, incrementando il numero delle esercitazioni interforze tra GIS 63 e NOCS 64 per le operazioni e gli interventi ad alto rischio sul territorio nazionale, anche alla luce delle esercitazioni già svolte, in ambito europeo ed extraeuropeo, con altre corrispondenti forze nazionali. Così come ai fini del perseguimento della massima operatività nei teatri extranazionali (in Afghanistan e nel contrasto della pirateria somala), va riposta una particolare attenzione alle esercitazioni interforze che vedono coinvolti Col Moschin 65 , Comsubin 66 , GIS, Incursori dell’Aeronautica e Forze per le Operazioni Speciali. 63 Gruppo di Intervento Speciale dell’Arma dei Carabinieri. Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza della Polizia di Stato. 65 9° Reggimento Paracadutisti d’Assalto dell’Esercito. 66 Comando Subacquei e Incursori della Marina Militare. 64 59 Linee guida per la prevenzione ed il contrasto del terrorismo internazionale di matrice jihadista La prevenzione ed il contrasto del terrorismo di matrice jihadista fanno riferimento ad alcune linee di indirizzo strategico e operativo, che non rappresentano la soluzione al problema, ma intendono proporre spunti di riflessione e di approfondimento. In generale, si tratta di analizzare il terrorismo internazionale di matrice jihadista con un approccio multidimensionale, variabile e complesso, potenziando la capacità di osservazione degli scenari continentali, regionali e nazionali, teatro degli attacchi jihadisti, e rilevando con particolare cura e caso per caso, le modalità di pianificazione e di esecuzione, le forme di reclutamento e le fonti di finanziamento degli attentati, nonché le interrelazioni temporali e spaziali con altri eventi analoghi. Nello specifico, sarebbe opportuno: Sul piano antropologico-culturale e ideologico • approfondire la conoscenza dei processi antropologici e culturali dei terroristi jihadisti, ricercandone le spinte motivazionali e identitarie più profonde, con l’obiettivo di individuare i meccanismi sociopsicologici del potenziale terrorista. In questa accezione, è importante l’osservazione e l’analisi della complessità del fenomeno terroristico jihadista che non è delimitabile ad un’area socio-spaziale specifica ma sembra ricombinare in modo originale e contraddittorio aspetti regressivi della cultura occidentale (individualismo, protagonismo sociale, ecc.) e modelli culturali jihadisti, deviati rispetto alla tradizione, alla cultura e alla religione musulmana (vocazione al martirio, non valore della vita e assenza del fattore tempo, ecc.); • conferire una particolare centralità di analisi al forte disagio antropologico e socioeconomico vissuto soprattutto dai figli di immigrati, musulmani di seconda e terza generazione in Europa, che, scontando sentimenti di spaesamento, di sradicamento rispetto alle origini e alle tradizioni, nonché di rivalsa nei confronti dell’Occidente tutto, spesso, nel processo di maturazione e di ricerca della propria identità, possono diventare facile preda di quanti si occupano del reclutamento di avanguardie jihadiste; Sul piano geostrategico • evitare di fornire al terrorismo nuove risorse e vantaggi competitivi, che potrebbero, per esempio, derivare da un Afghanistan abbandonato troppo in fretta (e possibile preda, di nuovo, dei talebani), da un Irak politicamente debole (accartocciato attorno ai suoi problemi etnico-religiosi), da una Somalia abbandonata ai sempre più palesi appetiti di Al Qaeda, facilitati dalla attività anti Governo federale di transizione che svolgono le due sigle terroristiche locali di matrice jihadista (Al Shabaab e Hizb Al Islam ), dalla progressiva fragilità di quei Paesi in cui è presente Al Qaeda, come il Mali. In particolare, una Somalia in mano al radicalismo islamico potrebbe fornire un nuovo safe heaven ad Al Qaeda e costituire la base di partenza per una ulteriore penetrazione nei paesi dell’Africa Orientale; • favorire un clima di dialogo tra stati e ricercare, agevolandole, soluzioni negoziali tese all’avvio e allo sviluppo di politiche di equilibrio regionale nell’area asiatica centro-meridionale. Sul piano diplomatico e della cooperazione internazionale • 60 implementare la collaborazione tra i Paesi del Bacino mediterraneo, esaltando la vocazione regionale dei Servizi di intelligence italiani, in una prospettiva internazionale; • realizzare, ai fini della non proliferazione, l’agenzia per la sicurezza nucleare, come proposto dal Presidente del Consiglio, in particolare per la sicurezza fisica degli impianti e una scuola di addestramento per la formazione del personale, sia per offrire un contributo originale alla prevenzione del traffico illegale di armi e materiali non convenzionali, sia per aumentare la garanzia degli impianti civili nel mondo. Sul piano della condivisione delle informazioni e dell’interazione operativa tra servizi di intelligence e apparati di sicurezza • perfezionare i modelli, le tecniche e gli strumenti di interazione operativa e di gestione dell’emergenza terroristica tra le forze di polizia, i servizi di intelligence e gli apparati di sicurezza, interna ed esterna, compresa la componente difesa; il tutto, senza la costituzione di nuovi organismi tecnico-burocratici di coordinamento che parcellizzerebbero il patrimonio informativo e la capacità di valutazione organica del fenomeno e penalizzerebbero la tempestività di decisione e di intervento; • ai fini della prevenzione di attacchi terroristici con armi non convenzionali, valorizzare il coordinamento e l’interscambio tra sistemi militari, civili e sanitari. Più in generale, la lacuna da colmare prioritariamente è il coordinamento tra le Amministrazioni - anche locali - e tra queste ed il Governo; • migliorare gli standard qualitativi degli interventi operativi attraverso le esercitazioni interforze per le operazioni e gli interventi ad alto rischio sul territorio nazionale ed extranazionale; Sul piano della prevenzione e del contrasto delle nuove forme di terrorismo • monitorare costantemente stante la tendenza a considerare il territorio europeo non più solo un riparo ed una retrovia logistica, ma anche un teatro operativo e una base per pianificare offensive da consumare altrove il costante sviluppo del fenomeno dei terroristi homegrown, favorito sia da fattori catalizzatori esterni, quali i riflessi di congiunture internazionali e l’eco degli scontri in atto tra musulmani e “invasori” nei vari teatri di crisi, sia dall’innesto del pensiero jihadista su problematiche socioeconomiche tipiche delle comunità di immigrati stanziate e sedentarizzate in territorio europeo; • monitorare la possibile costituzione di cellule homegrown nei piccoli centri dove attualmente si colgono segnali di una progressiva provincializzazione della jihad; • tenere sotto osservazione l’accresciuto coinvolgimento nel cyberjihad dei convertiti, per lo più in veste di predicatori e radicalizzatori, con il conseguente aumento della propaganda estremista in varie lingue occidentali all’interno di appositi web-forum destinati a giovani musulmani (attraverso cui sono correntemente diffusi testi dottrinali, comunicati e direttive dei vertici qaedisti e manuali per il c.d. terrorismo “fai da te”, che illustrano, tra l’altro, metodi per la fabbricazione di esplosivi); • sviluppare procedure rigorose di monitoraggio dei detenuti jihadisti (o sospettati di terrorismo jihadista) da parte di personale dotato di adeguata formazione specialistica, incrementando la collaborazione con le forze dell’ordine e gli apparati sociali, attraverso lo scambio di informazioni ritenute utili; • osservare, altresì, la crescente influenza della filiera islamista afghano-pakistana, accanto a quelle tradizionali nordafricane, particolarmente nell’Europa Centrale; Sul piano della formazione del personale di intelligence e della sicurezza • 61 conferire centralità −e, ove possibile, incrementarla− alla HUMINT, che in ogni caso va sostenuta, senza soluzione di continuità, dalla componente tecnologica, in particolare della SIGINT; • puntare ad una maggiore complementarietà pubblico-privato e pervenire alla selezione delle risorse migliori sul piano della motivazione e della competenza richieste, attingendo non solo nella sfera della pubblica amministrazione, ma allargando gli ambiti di reclutamento anche al settore privato, ed in particolare all’economia, nonché potenziando i rapporti con il sistema universitario. Gli assi di intervento dovrebbero riguardare, in maniera significativa, il potenziamento della HUMINT e dell’intelligence economico-finanziaria, dell’intelligence tecnologica e informatica per il contrasto della cyberwar e per la protezione delle Infrastrutture Critiche, e della conoscenza delle lingue. Sul piano dell’innovazione tecnologica e della tutela dei sistemi • promuovere la progettazione di modelli previsionali statistici, in grado di stimare, nell’ambito di ciascun Paese, gli effetti finanziari di uno shock terroristico realizzato anche per via incruenta, e di dispositivi accentrati di difesa informatica, affidati alla gestione ed al controllo di organismi pubblici; • promuovere organiche iniziative con l’utilizzo di moderne tecnologie e di strumenti organizzativi volti ad assicurare assoluta tempestività nello scambio di informazioni e nel coordinamento tra Autorità pubbliche ed operatori privati, nonché la valenza di una corretta gestione delle problematiche di tipo comunicativo e di una informazione istituzionale adeguata; Sul piano normativo e istituzionale 62 • sviluppare la sinergia tra tutte le componenti del potere nazionale: apparati di sicurezza e leggi dello stato dirette al mantenimento dell’ordine pubblico, diplomazia, intelligence, politica economica, cooperazione internazionale, difesa nazionale; • prevedere la creazione un referente unico per la sicurezza nazionale −il Consigliere per la sicurezza nazionale−, una figura in grado di operare un coordinamento interistituzionale tra gli apparati della sicurezza nazionale, interna ed esterna, e quelle dei servizi di intelligence, che, a competenze invariate per quanto riguarda i poteri dei vari ministri, abbia capacità di decidere e di intervenire operativamente nell’interesse generale del Paese, soprattutto in situazioni di emergenza nazionale. 63 ALLEGATI 64 ALLEGATO 1 LE PRINCIPALI ORGANIZZAZIONI TERRORISTICHE DI MATRICE JIHADISTA Al Qaeda nei paesi del Maghreb Islamico (AQIM) La sigla compare in Algeria quando il 23 gennaio 2007 Abdelmalek Droukdel alias Abu Moussab Abdelwahab, emiro del Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento/GSPC, formalizzò definitivamente il passaggio dell’organizzazione terroristica da lui guidata nell’orbita di Al Qaeda con l’annuncio del cambio di denominazione in Al Qaeda nei Paesi del Maghreb Islamico. L’aspirazione del gruppo terroristico è peraltro quella di federare gli altri movimenti estremisti presenti nell’area maghrebina o di porli sotto la sua sfera d’influenza. Dal 2007, in ogni caso, si è assistito in Algeria ad un incremento degli attentati terroristici che hanno prodotto altissimi costi in vite umane. Tra questi, per la loro rilevanza, si ricordano quelli: dell’11 aprile 2007, ad Algeri, contro un Commissariato di Polizia e una sede governativa che provocò 33 morti e 222 feriti; dell’11 dicembre 2007, ad Algeri, contro la sede del Consiglio Costituzionale e gli uffici dell’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Anche un cittadino italiano, il tecnico specializzato friulano Elvio Del Fabbro, rimase gravemente ferito a seguito di un attentato suicida compiuto il 21 settembre 2007 contro un convoglio di automezzi che trasportava tecnici di una ditta francese e di una Cooperativa italiana (la C.M.C. di Ravenna) impegnati nella costruzione della diga di Koudiat-Acerdoune, a circa 150 km a sud di Algeri. Sempre a partire dal 2007 si è constatato l’allargamento della sfera operativa dell’organizzazione anche in regioni come quella saheliana (in particolare nel Mali e in Mauritania) tradizionalmente estranei all’influenza dell’integralismo islamico. L’atto terroristico più eclatante in quella regione si è avuto il 10 agosto 2009, a Nouakchott, in Mauritania, dove un attentatore suicida si è fatto esplodere nei pressi dell’Ambasciata francese. È stata la prima volta che nel Paese africano l’organizzazione terroristica ha fatto ricorso alla tecnica dell’attentatore suicida (identificato nel cittadino mauritano Abou Oubeida Moussa Al-Basri, di circa 25 anni) che ha utilizzato una cintura esplosiva azionata manualmente. L’attentato, nel quale sono rimaste ferite tre persone (due militari di vigilanza alla sede diplomatica e una donna), è stato realizzato tre giorni dopo che il Presidente Mohamed Ould Abdel Aziz aveva assunto formalmente tale incarico, avendo già di fatto assunto il potere con il colpo di stato del 2009. Il gesto è stato rivendicato il successivo 15 agosto da AQIM. Nel comunicato si legge che l’obiettivo dell’attacco suicida era quello di dare una “risposta alle aggressioni dei crociati – soprattutto alla Francia – e dei loro collaboratori apostati contro l’Islam e il suo popolo. Inoltre, esso è un messaggio al tiranno fantoccio Ibn Abdulaziz sostenuto dai suoi padroni crociati”.. Al Qaeda nella Penisola arabica Organizzazione sorta in Arabia Saudita nel 2002 come branca saudita di Al Qaeda di cui condivide gli obiettivi, vale a dire rimuovere la presenza Occidentale nel Paese, abbattere la monarchia saudita e, in prospettiva, restaurare il califfato sulle popolazioni islamiche. Si ritiene che almeno fino al 2003 l’organizzazione sia stata sotto la diretta dipendenza di Osama Bin Laden. Successivamente l’organizzazione ha assunto una maggiore autonomia anche in considerazione del fatto che tra il 2003 e il 2006 le forze di sicurezza saudite hanno ucciso tutti i responsabili della formazione in contatto diretto con la dirigenza qaedista. Al Qaeda Nella Penisola Arabica tra il 2002 e il 2006 ha rivendicato numerosi attentati tutti realizzati nel Regno saudita e quasi sempre diretti contro obiettivi istituzionali o delle forze di sicurezza o contro cittadini occidentali presenti in quel Paese. Dopo un periodo di profonda crisi, l’organizzazione di recente ha assunto nuova vitalità dopo la fusione nel gennaio 2009 con elementi qaedisti yemeniti divenuti prevalenti su quelli sauditi, tanto che gli analisti le attribuiscono la definizione di “Al Qaeda Yemenita Nella Penisola Arabica”. Dati di intelligence indicano che le priorità a breve termine della nuova organizzazione saranno quelli di attaccare obiettivi occidentali nello Yemen, principalmente statunitensi, e militari yemeniti. 65 Inoltre, si ritiene che Al Qaeda Nella Penisola Arabica per consolidare la propria presenza nello Yemen stia cercando di avvicinarsi verso popolazioni tribali filo-secessioniste del sud tra le quali reclutare nuovi militanti. Il 27 dicembre 2009 l’organizzazione terroristica ha rivendicato il fallito attentato compiuto dal nigeriano Umar Farouk Abdul Mutallab due giorni prima sulla linea aerea Amsterdam-Detroit. Jaish e Mohammed-L’armata di Mohammed (JeM) Il gruppo, di ispirazione Deobandi, è stato fondato in Pakistan alla fine degli anni ’90 dello scorso secolo da Maulana Masood Azhar aut Mohd Azhar che ancora lo dirige. Il fondatore e attuale leader del JeM si è forgiato come combattente in Afghanistan nel conflitto contro i i sovietici che avevano occupato il Paese. Successivamente avrebbe operato, nel 1993, in Somalia. Arrestato nel febbraio 1994 in India per le sue attività terroristiche nella zona del Jammu & Kashmir, nel dicembre 1999 è stato liberato in cambio del rilascio di ostaggi sequestrati a bordo di un aereo della Indian Airlines dirottato in Afghanistan nel dicembre 1999. Il principale obiettivo dell’organizzazione è la liberazione del Kashmir dall’India e l’annessione al Pakistan. Nel 2000 il gruppo terroristico ha mutato la denominazione in quello di Khuddam-Ul Islam (Kui) ma continua ad essere comunemente appellato con la denominazione originaria. Le Autorità indiane ritengono l’organizzazione responsabile, insieme all’altro principale gruppo terroristico pakistano dei Lashkar-e-Tayyba, dell’attacco sferrato contro il Parlamento indiano nel dicembre 2001. Per questo episodio Maulana Masood Azhar è stato indagato in Pakistan e posto agli arresti domiciliari, ma rilasciato nel dicembre 2002 su decisione dell’Autorità giudiziaria pakistana. L’organizzazione viene ritenuta coinvolta anche nel sequestro e omicidio del giornalista statunitense Daniel Pearl, avvenuto agli inizi del 2002 verosimilmente su commissione della dirigenza di Al Qaeda. Lashkar-e-Taiba-(Esercito dei Puri, LeT) È la fazione armata, sorta nel 1990, dell’organizzazione religiosa pakistana Markaz-ud-Dawa-walIrshad (MDI). Probabilmente è il gruppo più importante dell’area kashmira, grazie anche al supporto ricevuto negli anni dai servizi informativi pakistani. Il leader del movimento è Hafiz Mohammed Saeed (che nel 1987 aveva creato insieme all’ideologo jihadista Abdullah Azzam la suddetta organizzazione religiosa Markaz-udDawa-wal-Irshad) anche se il medesimo nelle pubbliche dichiarazioni ha sempre smentito di avere collegamenti con il LeT. Hafiz Mohammed Saeed, ex professore universitario di ingegneria, nel dicembre 2001 ha fondato l’organizzazione islamica caritatevole “Jamat-ud-Dawa-al Qurani” che, in realtà, viene considerata l’interfaccia politica dei Lashkar-e-Taiba e la mera continuazione sotto altra denominazione dell’organizzazione Markaz-ud-Dawa-wal-Irshad. Inizialmente impegnato solo nell’area del Jammu & Kashmir rivendicata dal Pakistan all’inizio di questo decennio, il LeT è transitato nella sfera di influenza di Al Qaida che, si ritiene, gli abbia sub-appaltato le attività di reclutamento e addestramento nei campi paramilitari siti in Pakistan. Ha una visione dell’Islam affine a quella dei Taliban, basata sul fondamentalismo islamico ed il totalitarismo, volta al recupero dei tratti culturali, sociali, giuridici ed economici dell’Islam wahhabita, finalizzato alla realizzazione di uno Stato basato sulla Sharia. Dichiarata illegale dalle Autorità indiane nell’ottobre del 2001 e da quelle pakistane nel gennaio del 2002, questa formazione è stata quindi inserita nelle liste dei gruppi terroristici di Stati Uniti (dicembre 2001), del Canada (2003) e dell’ONU (maggio 2005 – liste Comitato Sanzioni Al Qaida e Taliban). La formazione pakistana è ritenuta responsabile, tra le altre cose, dell’ideazione ed esecuzione degli attacchi terroristici del novembre 2008 a Mumbai (India). Unione Islamica per il Jihad (Iju) L'organizzazione "Unione Islamica per il Jihad" (Islamic Jihad Union/IJU), nota anche come "Gruppo Islamico per il Jihad/IJG", è stata costituita nel marzo del 2002 da ex membri del “Movimento Islamico dell’Uzbekistan” (IMU) 67 dopo le spaccature creatisi nel 2001 all’interno del gruppo al comando. 67 L’IMU è stato fondato nel 1997 da Tohir Yuldashev e Juma Namangani. Fino al 2001, l’IMU si è principalmente concentrato su interventi periodici in Asia Centrale, compresi gli attentati come quello avvenuto a Tashkent nel febbraio 1999, in cui furono uccise 13 persone e gli attacchi stile-guerriglia compiuti– sempre nello stesso anno – nelle regioni del Kyrgyzstan, Tajikistan e Uzbekistan. Sempre nel 1999 l’IMU allacciò stretti legami con i Talebani e con Al Qaida, e 66 Inizialmente, la leadership della nuova organizzazione ha concentrato la sua operatività in Asia Centrale con l’intenzione di destituire il presidente uzbeko Islam Karimov e insediare al suo posto un regime islamico. Poi, dopo aver cooptato una pluralità di piccole formazioni estremiste attive nell’Asia centrale, l’IJU è emersa all'attenzione internazionale nell'aprile del 2004 per aver rivendicato su taluni siti internet la responsabilità degli attentati che colpirono l'Uzbekistan, tra il 28 marzo ed il 2 aprile del 2004, causando decine di vittime nelle località di Tashkent e Bukhara. Da una lettera indirizzata al defunto Abu Musab AlZarqawi (all'epoca leader dell'organizzazione militare di Al Qaeda per l'Irak) nel maggio del 2005, si evince che la dirigenza dell'IJU ha aderito al programma di "Jihad Globale" della rete jihadista transnazionale, dichiarandosi pronta a fornire sostegno operativo tanto in Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Caucaso, quanto in Irak, Afghanistan, Arabia Saudita, Cecenia, nonchè in Europa e Nord-Africa. Nel periodo compreso tra l'agosto e l'ottobre del 2006, la dirigenza della predetta organizzazione avrebbe trasferito alcuni affiliati in vari paesi dell'Asia centrale, tra questi il Tagikistan ed il Kazakistan, ma anche in Turchia ed in Germania, con la finalità di attuare azioni terroristiche. Potrebbe trattarsi del ritorno, nei paesi d'origine, di volontari addestrati in basi pakistane, lì affluiti dal maggio del 2005, al fine di paretecipare alla "jihad globale". Nel settembre 2007 un importante piano terroristico dell’IJU è stato sventato dalle autorità tedesche. Nella circostanza sono stati arrestati 4 individui, due tedeschi convertiti, un turco e un libanese, trovati in possesso di circa 730 kg. di perossido di idrogeno, che sarebbe servito a fabbricare ordigni esplosivi rudimentali da usare contro obiettivi in Germania. Verosimilmente tra i bersagli erano contemplati interessi USA e Uzbeki. Nella stessa indagine furono indagati in stato di libertà altri 20 soggetti, tra i quali il convertito tedesco Eric Breininger balzato agli onori della cronaca nell’aprile del 2008 dopo la pubblicazione sul web di un video in cui il giovane incoraggia i musulmani residenti in Germania a intraprendere la jihad. All’IJU, inoltre, va ascritta la responsabilità dell’attentato suicida compiuto il 3 marzo 2008 in Afghanistan dal cittadino turco Cueneyt Ciftci, nato in Germania da una famiglia di immigrati turchi, immolatosi guidando un pick-up imbottito di esplosivo contro una postazione di soldati statunitensi. Al Ittihad al Islamia– L’unità Islamica (AIAI) Organizzazione federata ad Al Qaeda, fondata nei primi anni ’90 dopo la caduta del regime di Said Barré e strutturata come forza militare e politica. Si prefigge l’instaurazione di una stato islamico in Somalia. La sua influenza si estende comunque negli altri Paesi del Corno d’Africa e anche in Kenya. Militanti dell’AIAI sono sospettati di essere coinvolti in una serie di attentati compiuti nel periodo 2003-2004 contro religiosi cristiani e volontari di organizzazioni umanitarie occidentali operanti nella Somalia settentrionale. Tra questi si ricordano l’assassinio di due insegnanti inglesi, di una suora italiana e di un volontario tedesco. L’AIAI, inoltre, è sospettata di aver fornito ausilio ad Al Qaeda per la realizzazione degli attentati compiuti a Mombasa (Kenya) contro turisti israeliani nel novembre del 2002. Al-Shabaab (La Gioventù) Dopo la (parziale) sconfitta dell’Unione delle Corti Islamiche da parte delle forze militari etiopiche che appoggiavano il Governo Federale di Transizione somalo, da una costola di Al Ittihad Al Islamia (AIAI) nel gennaio del 2007 è nata la propaggine ultraradicale Al-Shabaab (La Gioventù). Al-Shabaab – nota anche come Hizbul Shabaab e Islamic Youth of Horn of Africa - è impegnata perlopiù a combattere le forze del governo federale somalo, i loro alleati etiopici e le forze dell’African Union Mission to Somalia. Dal 2008 ad oggi è ritenuta responsabile dell’uccisione di 42 cooperanti impegnati in aiuti umanitari in Somalia. Dalla sua fondazione, l’organizzazione è stata guidata da Aden Hashi Ayrow, rimasto ucciso il 1 maggio 2008 in uno scontro con forze militari statunitensi. Al suo posto è subentrato, almeno in qualità di portavoce del gruppo, lo “sceicco” somalo Mukhtar Robow Abu Mansur. Dal 2009 il leader del gruppo è l’Afghanistan diventò una base importante per le sue operazioni. Durante l’operatività della Coalizione in Afghanistan nel periodo 2001-2002 (Enduring Freedom), l’IMU ha combattuto a fianco dei Talebani, riportando pesanti perdite sul piano umano e organizzativo, ivi inclusa la morte di Namangani. Ciò che rimase dell’organizzazione si disperse e alcuni suoi membri si attestarono nelle zone di confine tra Pakistan e Afghanistan. 67 indicato in Moktar Ali Zubeyr alias Muktar Abdirahman Godane. Recenti evidenze informative provenienti da più fonti d’intelligence indicano che numerosi giovani provenienti da Europa e Stati Uniti, la maggior parte dei quali di origine somala, starebbero attualmente ricevendo in quella regione addestramento in seno alle fila di Al-Shabaab. Al Jamaah al Islamiyyah Aut Jemaah Islamiyah Organizzazione affiliate ad Al Qaida sorta in Indonesia e con piccoli nuclei presenti nelle Filippine e in Malesia. Il suo obiettivo è stabilire il califfato nel Sudest Asiatico, incorporando oltre all’Indonesia, la Malaysia, Singapore, Brunei, la zona meridonale della Thailandia e le isole meridionali delle Filippine. La JEMAAH ISLAMIYAH nel corso degli ultimi anni ha subito significative perdite a causa dell’azione delle forze di sicurezza indonesiane che hanno disarticolato la sua leadership. Ci si riferisce, in particolare, all’arresto, nel giugno del 2007, del comandante militare dell’organizzazione, Abu Dujanah, e del suo ex emiro, Mohammad Naim alias Sahroni. Nel febbraio del 2008 è stato arrestato il vice emiro Abdul Rohim Thoyib e il dirigente Agus Purmantoro. Il 17 settembre 2009 le forze di sicurezza indonesiane hanno ucciso Noordin Mohammad Top ritenuto uno dei responsabili della pianificazione dei principali attentati verificatisi in Indonesia a partire dal 2002, sia nell'isola di Bali (ottobre 2002 e ottobre 2005) sia a Giakarta (hotel Marriott, nell'agosto 2003, ed Ambasciata australiana nel settembre 2004). Peraltro, acquisizioni d’intelligence indicavano che nel 2006 il Noordin, di origine malesiana, aveva deciso di fuoriuscire dalla JI per costituire un nuovo gruppo jihadista denominato “Tandzim Qaedatul (aut Qudatul) Jihad” (Organizzazione per la Base della Jihad), attestato su posizioni ancor più radicali ed intenzionato a perseguire l’esecuzione di attentati di tipo stragista, che la JI non intendeva più condurre alla luce di un nuovo indirizzo strategico contrario a colpire indiscriminatamente sia cittadini stranieri sia elementi indonesiani di religione musulmana. Si ricorda, al riguardo, che i soli attentati di Bali del 2002 e 2005 e quello all’hotel Marriot di Giakarta del 2003 hanno provocato complessivamente 236 morti e quasi 500 feriti, in gran parte turisti. Il 17 luglio 2009 lo stesso hotel Marriot di Giakarta, già colpito nel 2003, ha subito un ulteriore attentato suicida (nel quale sono decedute 9 persone) attributo dalle Autorità indonesiane al JI ovvero alla sua fazione capeggiata dallo scissionista Noordin Mohammad Top, ucciso, come detto, esattamente due mesi dopo. Emirato del Caucaso L’organizzazione è stata creata nell’ottobre 2007 dal separatista e islamista ceceno Doku (aut Dokka) Umarov - ex presidente della Repubblica Cecena di Ichkeria 68 - e dal suo consigliere Movladi Udugov. L’obiettivo dell’organizzazione è, oltre all’indipendenza della Cecenia dalla Russia, quello di creare un califatto che comprenda le diverse Repubbliche del Caucaso settentrionale. La campagna di attentati terroristici suicidi ed esecuzioni lanciata nel 2009 in Cecenia, in Daghestan, e Inguscezia, confermerebbe il passaggio dell’organizzazione dalla lotta per l’indipendenza cecena ad una guerriglia jihadista con l’obiettivo di creare uno stato islamico. Il recente incremento della violenza terroristica nella zona caucasica va, comuqnue, letto anche alla luce dei fallimenti dei colloqui intercorsi nel 2009 tra il governo ufficiale ceceno, sostenuto dalla Russia, e i leader separatisti della Repubblica Cecena di Ichkeria. Sempre in questo contesto va inserito l’attentato al treno Nievki Espress in Russia che il 27 novembre 2008 ha causato 26 morti e 90 feriti tra i passeggeri (tra i feriti vi è anche un imprenditore italiano), rivendicato il 2 dicembre successivo dall’ EMIRATO DEL CAUCASO. Un attentato analogo, peraltro, contro il treno Nevsky Express era stato compiuto il 13 agosto 2007 provocando 16 feriti. L’attentato contro il treno russo del 2008 e altri attachi terroristici minori perpetrati in Daghestan fanno ritenere che la tattica dei separatisiti caucasici si stia spostando dall’utilizzo di strutture paramilitari impegnate prevalentemente in territorio ceceno, all’utilizzo di piccole cellule (probabilmente composte anche 68 Governo secessionista ceceno fondato alla fine del 1991 da ceceni separatisti in esilio a Londra, non riconosciuto dalla comunità internazionale se non dall’Afghanistan sotto il regime talebano nel 2000. 68 da russi convertiti) per colpire le strutture del potere nel cuore della Russia e in ogni caso al di fuori della regione del Caucaso settentrionale. 69 ALLEGATO 2 ATTACCHI AI DANNI DI MILITARI ITALIANI IN AFGHANISTAN NEL BIENNIO 2008-2010 70 13/02/2008 Nella valle di Uzeebin, a circa 60 km dalla capitale Kabul, nei pressi della località di Rudbar, nel corso di un conflitto a fuoco rimaneva ucciso il maresciallo Giovanni Pezzullo, di 45 anni, del “CIMIC GROUP SOUTH” di Motta di Livenza, e rimaneva ferito in modo lieve un altro militare. I due militari italiani facevano parte della Task Force “Surobi” e si trovavano nella valle di Uzeebin per effettuare un’attività di distribuzione di viveri e di vestiario alla popolazione dell’area, attività di cooperazione civile e militare e sostegno sanitario alla popolazione. 13/02/2008 Zabihullah Mujahed, esponente locale della guerriglia talebana rivendicava, con una telefonata alla locale redazione della “France Press”, la morte del militare italiano Giovanni Pezzulo ed il ferimento del suo commilitone Enrico Mercuri. 15/05/2008 Nella zona di Mushai, un ordigno comandato a distanza veniva fatto deflagrare al passaggio di un mezzo del contingente militare italiano. I cinque militari dell’equipaggio rimanevano feriti. 09/07/2008 Un ordigno artigianale (IED) occultato sul ciglio della strada, esplodeva al passaggio di un “VTLM Lince”, mezzo dell’Esercito italiano impegnato nel pattugliamento dell’area adiacente l’aeroporto di Herat. La deflagrazione provocava il ferimento di due militari italiani. 07/09/2008 Afghanistan – un attentatore suicida provocava un’esplosione al passaggio di un convoglio del contingente italiano a Herat, senza causare feriti tra i militari. 12/10/2008 Nell'Ovest del Paese, a 40 chilometri da Farah, durante un servizio di perlustrazione condotto dai militari afghani con l’appoggio di una squadra di soldati italiani, veniva intercettato un gruppo di “Talebani”. Nel conflitto a fuoco che ne scaturiva, restava lievemente ferito un militare italiano. 18/10/2008 Un attentatore suicida a bordo di un’autobomba si faceva esplodere al passaggio di un convoglio militare italiano in transito nei pressi dell’aeroporto di Herat, nell’Afghanistan occidentale. La deflagrazione provocava il ferimento di cinque militari italiani. 19/10/2008 Una colonna di autoblindo dell’Ottavo Reggimento Alpini di Cividale del Friuli, in spostamento assieme ad alcuni soldati del contingente spagnolo verso l’avamposto di Bala Moghrab, veniva attaccata da un gruppo di uomini armati. Nel conflitto a fuoco conseguente non rimaneva ferito alcun militare dei due contingenti. 28/04/2009 Due razzi, lanciati con tubi artigianali, colpivano la base di Camp Warehouse, quartier generale del comando regionale di Kabul della “Forza Internazionale di Assistenza alla Sicurezza” (“ISAF”) della NATO. I razzi colpivano il compound francese, al cui interno si trovavano una ventina di militari italiani di stanza a Kabul, nessuno dei quali rimaneva ferito. 01/05/2009 Un elicottero della marina militare italiana, in volo verso Herat, veniva raggiunto da colpi di arma da fuoco. L’azione non provocava vittime e feriti. 71 14/05/2009 Un convoglio militare italiano veniva fatto oggetto di colpi d’arma da fuoco, nessun militare rimaneva ferito. 16/05/2009 Una pattuglia dei paracadutisti della “FOLGORE” veniva attaccata nella provincia di Badghis a nord di Herat, a due chilometri dalla “Base Italiana Bala Murghab”. L’attacco, che non provocava vittime, causava lievi danni agli automezzi. 21/05/2009 Una pattuglia di paracadutisti della “FOLGORE” veniva attaccata nel villaggio di Akazai, a circa 5 km da Bala Murgab, provincia di Badghis a Nord di Herat. Nello scontro un paracadutista rimaneva lievemente ferito. 29/05/2009 A conclusione di un assalto, avvenuto in località Bala Murgab, nella regione ovest del Paese, tre paracadutisti italiani della “FOLGORE” rimanevano lievemente feriti. Alcuni insorti esplodevano un razzo controcarro, tipo RPG, che provocava la morte di tre militari dell’esercito afghano, ed il ferimento di quattro persone, fra cui i tre connazionali. 08/06/2009 A Kabul, un dispositivo composto da due veicoli leggeri “LINCE” veniva colpito con armi da fuoco e tre razzi RPG. Cinque militari italiani rimanevano leggermente feriti. 09/06/2009 Una pattuglia motorizzata del 186° reggimento Paracadutisti della Folgore, che stava conducendo un’attività di controllo del territorio, veniva attaccata da un gruppo di ribelli con armi leggere e colpi di RPG, nei pressi della base italiana dislocata nella valle di Musahi, circa 30 km a sud della capitale. I paracadutisti neutralizzavano la minaccia senza provocare vittime o feriti. 10/06/2009 Con tre distinti attacchi venivano danneggiati due elicotteri “MANGUSTA” nel contesto i militari italiani rispondevano all’attacco. Non venivano registrati feriti ma soltanto danni ai mezzi. 11/06/2009 Tre paracadutisti italiani rimanevano feriti a seguito di un attacco nei pressi di Farah. I militari erano impegnati in una pattuglia congiunta con l’esercito afghano. 22/06/2009 Un rudimentale ordigno esploso al passaggio di un mezzo dell’esercito italiano provocava il danneggiamento di un blindato dell’ottavo reggimento genio guastatori paracadutisti “Folgore” che stava effettuando un attività di controllo e bonifica degli itinerari nel distretto di Chahar Asiab, a circa 20 km a sud della capitale afghana. 24/06/2009 Un contingente italiano veniva attaccato nella valle di Bala Murgab, provincia di Badghis 200 Km nord di Herat, nel corso di un’operazione congiunta delle forze di sicurezza afghane e ISAF. Nello scontro condotto con armi portatili e razzi contro carro RPG, rimaneva lievemente ferito uno paracadutista del 183° reggimento “Nembo”. 03/07/2009 A Farah, nella zona occidentale del Paese, l’esplosione provocata da un attentatore suicida al passaggio di un blindato militare italiano del tipo “Lince”, causava il ferimento di due militari italiani. 14/07/2009 Una pattuglia di paracadutisti italiani della “Folgore” e del “1° Reggimento Bersaglieri”, a bordo di un convoglio militare, veniva investita dall’esplosione di un ordigno posizionato lungo il ciglio di strada, a circa 50 chilometri a nord-est di Farah, nella zona occidentale del Paese. Nell’esplosione, che ha coinvolto il primo mezzo, rimaneva ucciso il Caporal Maggiore Alessandro di Lisio, mentre altri tre paracadutisti rimanevano feriti. 72 25/07/2009 In località Adraskan, a circa 60 km da Herat, un ordigno posizionato su una moto parcheggiata al margine della strada esplodeva al passaggio di un mezzo blindato Lince in servizio di pattuglia. Due militari italiani, che si trovavano a bordo del mezzo, rimanevano lievemente contusi. 04/08/2009 Nella provincia di Farah, nell’ovest dell’Afghanistan, militari afghani ed italiani, impegnati in un’operazione congiunta, mirata al controllo del territorio, venivano attaccati dai talebani. Nel corso dello scontro nessuno dei militari italiani, né delle forze afghane, rimaneva ferito. 24/08/2009 A circa 30 chilometri a nord di Farah, un ordigno esplodeva al passaggio di un blindato del tipo “Lince” in servizio di pattugliamento. La deflagrazione non provocava vittime o feriti. 24/08/2009 Nei pressi di Shiwan, una pattuglia di paracadutisti italiani impegnata in un’operazione di pattugliamento congiunto con l’esercito afgano, veniva colpita dall’esplosione di un ordigno. A seguito della deflagrazione, alcuni uomini armati aprivano il fuoco e lanciavano razzi, senza causare vittime o feriti. 17/09/2009 Lungo la strada di Massud, in un incrocio sul quale transitano i collegamenti tra il locale aeroporto, il comando “NATO ISAF” e l’ambasciata “USA”, un automezzo riusciva ad inserirsi tra due mezzi del tipo “Lince” del 186/mo reggimento della “Brigata Folgore”. L’attentatore suicida provocava una potente deflagrazione causando la morte di sei militari italiani del 186/mo Reggimento della Folgore ed il ferimento di ulteriori quattro. Si trattava di: − Tenente Antonio Fortunato, 35 anni; − Sergente Maggiore Roberto Valente, 37 anni; − Primo Caporal Maggiore Massimiliano Randino, 32 anni; − Primo Caporal Maggiore Matteo Mureddu, 26 anni; − Primo Caporal Maggiore Davide Ricchiuto, 26 anni; − Primo Caporal maggiore Giandomenico Pistonami, 26 anni. I quattro feriti venivano ricoverati presso l’ospedale da campo francese “Role 2”: nessuno era in pericolo di vita. L’attentato veniva rivendicato dell’ “Emirato Islamico dell’Afghanistan, Taleban”, mediante un comunicato in lingua araba dal titolo “17.09.2009: Attacco suicida nella capitale Kabul colpisce dieci soldati crociati”. Nel testo, il leader dei Talebani Dhabeeh Allah Mujahi, annunciava che i mujaheddin “riferiscono di aver compiuto un attentato suicida alle ore 12:30 causando la morte di dieci soldati crociati in sacrificio all’eroe dell’emirato islamico Hyat Allah”. 23/09/2009 Nell’area di Shindand avveniva uno scontro a fuoco tra talebani armati e militari italiani in servizio di pattuglia. Nell’attacco, un paracadutista italiano rimaneva ferito. 05/11/2009 Alle ore 07.06 (03.36 in Italia), lungo la strada nell’area della Zeerko Valley a circa 20 km a sud di Shindand, un blindato “Lince” in ricognizione operativa veniva investito dalla deflagrazione di un ordigno. L’esplosione provocava il ferimento di quattro militari. 01/02/2010 Nella notte ignoti lanciavano due razzi all’indirizzo della base Camp Arena, che ospita il “Regional Command West dell’Isaf”.Il Ministero della Difesa Italiano riferiva che non vi erano stati feriti ma solo lievi danni materiali. 03/02/2010 73 Un Lince italiano che trasportava cinque Bersaglieri del 1° Reggimento di Cosenza, veniva investito dall’esplosione di mina occultata sul ciglio della strada, mentre rientravano alla “Base Operativa Avanzata”, nel distretto di Sheend Dand. A seguito della deflagrazione, un militare riportava un lieve trauma cranico, mentre altri quattro leggere contusioni. I NUOVI SCENARI DEL TERRORISMO INTERNAZIONALE DI MATRICE JIHADISTA INDICE PARTE PRIMA - LO SCENARIO E LE CAUSE DEL TERRORISMO INTERNAZIONALE DI MATRICE JIHADISTA 1. Alle radici del terrorismo internazionale di matrice jihadista: multidimensionalità, variabilità e complessità del fenomeno 2. Evoluzione della minaccia terroristica prima dell’11 settembre 2001 3. Evoluzione della minaccia terroristica dopo l’invasione in Afghanistan e la guerra in Irak 4. Lo scenario globale e nazionale nel periodo 2009-2010 4.1. Lo scenario internazionale 4.2. La mappa dei principali gruppi terroristici di matrice jihadista su scala mondiale 4.3. La situazione in Europa: evoluzione recente 4.4. Tendenze dell’associazionismo islamico in Italia: la necessità di un approccio conoscitivo 4.4.1. I principali sodalizi in Italia di orientamento sunnita e sciita 4.4.2. I predicatori itineranti e le confraternite turuq 4.4.3. Le moschee ed i luoghi di culto 4.4.4. Gli Imam 4.4.5. I bacini di potenziale reclutamento PARTE SECONDA - EVOLUZIONE E TRASFORMAZIONE DEL TERRORISMO JIHADISTA E MINACCIA QUAEDISTA NEL 2010 1. 2. 3. 4. 5. La decentralizzazione funzional-spaziale della jihad e la dispersione sul territorio: linee di tendenza I luoghi socio-spaziali sensibili I rapporti tra estremismo jihadista ed immigrazione illegale La minaccia proveniente dai circuiti nordafricani, della Somalia e dello Yemen: un trend in crescita Al Qaeda 2010: caratteristiche e tipologie 5.1. La casa madre, gli affiliati, gli ispirati, i lupi solitari 5.2. Opportunità e casualità: i nomadi della jihad e gli ibridi 5.3. Altre tipologie di estremismo jihadista: gli homegrown ed i convertiti 6. Al Qaeda 2010: il martirio 6.1. Il martirio e le motivazioni religiose, il suicidio nell’accezione sunnita ed in quella sciita 6.2. L’attentatore suicida: evoluzione della figura del kamikaze 6.3. L’attentatrice suicida 7. La strategia mediatica di Al Qaeda, la messaggistica ed il ruolo del web (la cyberjihad) 8. Fonti e modalità del finanziamento jihadista 9. Finanza e terrorismo jihadista: la tutela dei sistemi e le nuove forme di minaccia 10. Il tema della non proliferazione e lo spettro della “bomba sporca” PARTE TERZA: MODELLI, STRATEGIE E STRUMENTI DI PREVENZIONE E CONTRASTO DEL TERRORISMO DI MATRICE JIHADISTA 1. Strategie di prevenzione e contrasto tra tradizione e innovazione 1.1. L’efficacia degli strumenti per la lotta al terrorismo jihadista: criteri di valutazione 1.2. La prima fase del terrorismo jihadista in italia: la sconfitta del network di Al Quaeda 1.3. L’effetto dell’evoluzione di Al Quaeda sulle strategie di contrasto del terrorismo jihadista 2. La cooperazione internazionale per la tutela degli interessi vitali nazionali 2.1. La cooperazione nell’area mediterranea 2.2. Un possibile modello di cooperazione internazionale: l’operazione “Friends of Yemen” 3. Potenziamento delle strategie di contrasto: centralità HUMINT (Human Intelligence) e ruolo SIGINT (Signal Intelligence) 3.1. La questione del reclutamento del personale di intelligence e la formazione linguistica e culturale degli operatori di intelligence e degli apparati di sicurezza 3.2. Le fonti informative nei vari scenari 3.3. La condivisione delle informazioni tra forze di polizia e apparati di intelligence e l’interazione operativa LINEE GUIDA PER LA PREVENZIONE ED IL CONTRASTO DEL TERRORISMO INTERNAZIONALE DI MATRICE JIHADISTA ALLEGATI Allegato 1 – Le principali organizzazioni terroristiche di matrice jihadista su scala globale Allegato 2 – Gli attentati ai danni dei militari italiani in Afghanistan nel biennio 2008-2010