La comunit musulmana e il terrorismo (pagg

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La comunit musulmana e il terrorismo (pagg
Stralci da:
Antonio Armellini,
L’elefante ha messo le ali
L’India del XXI secolo
prefazione di Giuliano Amato
Università Bocconi editore, 2008
416 pagine, 28 euro
La comunità musulmana e il terrorismo (pagg. 148-150)
La comunità musulmana si sente parte della nazione e al suo interno non
vi sono frange significative che guardino al Pakistan come alla
madrepatria negata. Eppure, nell’immaginario collettivo la sua lealtà viene
messa regolarmente in discussione ed è usata come argomento – o meglio,
come scusa – per tutta una serie di piccole e grandi prevaricazioni. Dalle
partite di cricket alle scelte di politica estera, i musulmani vengono
guardati come «indiani avventizi», il cui cuore tende a battere comunque
altrove.
Si tratta di un atteggiamento mentale che non trova, beninteso, una
sanzione legislativa: i governi hanno promosso negli anni diverse misure
volte a compensare questi squilibri, ma la loro efficacia è stata inferiore
alle aspettative ed è giudicata inadeguata anche dalla parte più moderata
della comunità musulmana. Al di là di qualsiasi altra considerazione, esse
non sono riuscite a chiudere il golfo della diffidenza, che in qualche
occasione è stato reso anche più ampio.
A partire dal terrorismo. Gli indiani non si stancano di ripetere che il
fenomeno terroristico, che vede coinvolti i musulmani, non ha una matrice
islamica, bensì una di esclusivo stampo interno: Manmohan Singh ha
ripetuto in numerose occasioni, con assoluta sicurezza, che in India non vi
è un solo aderente ad al Qaeda. Agli occhi indiani il terrorismo ha un solo
Satana, che si chiama Pakistan. Dalle bombe di Bombay nel 1993,
all’attacco al Parlamento nel 2001, allo stillicidio di attacchi in Kashmir, il
leitmotiv è sempre stato quello del coinvolgimento di Islamabad, grazie
alla disponibilità di una vasta reste di basisti nel paese, tratti da un brodo
di coltura islamico inaffidabile per definizione. Che i pakistani tengano un
occhio su quanto accade nel paese vicino, è probabile; che abbiano messo
mano in tutti i fenomeni violenti che presentano un coinvolgimento
musulmano è possibile, ma un po’ meno probabile. Le condizioni di
emarginazione dei musulmani in India costituiscono un terreno più che
fertile per movimenti eversivi di carattere locale.
Eppure, ci sarebbe più di un motivo per guardare lontano: gli attacchi alla
ferrovia suburbana di Bombay nel 2006, in contemporanea casuale – o
forse no – con una serie di esplosioni a Srinagar, nel Kashmir, potrebbero rappresentare il segnale di una capacità organizzativa e di un
coordinamento a distanza di tipo nuovo e non troppo dissimile da tecniche
e modalità del terrorismo qaedista. Il governo ha messo a tacere qualsiasi
speculazione in proposito, ma gli interrogativi rimangono. Di influenze
qaediste non si vedono altre tracce, per ora, e le condizioni di arretratezza
culturale della comunità musulmana potrebbero averla resa più
impermeabile a messaggi ideologici esterni – anche perché essa è nel
complesso assai meno radicale di quanto certa propaganda voglia dare da
intendere (un solo dato: appena il 4% dei giovani musulmani frequenta le
madrassa).
Ciò detto, le stesse condizioni di arretratezza potrebbero favorire una
progressiva radicalizzazione, alimentata dall’emergere di gruppi
acculturati e ideologicamente estremizzanti, specie fra i giovani. Il tante
volte evocato Students Islamic Movement of India (SIMI) viene visto dai
servizi indiani come la porta d’ingresso privilegiata nel paese per l’ISI.
Potrebbe valere la pena di esaminare un po’ più da vicino se da essa – o da
strutture consimili – non potrebbe cominciare a fare capolino in questo
paese quell’«internazionale del terrorismo» che fiorisce non troppo
lontano dai suoi confini.
Le condizioni di povertà, isolamento ecc. sembrerebbero esserci tutte e il
karma, per i musulmani, non conta. Ancora una volta, la barriera più
efficace potrebbe essere stata fornita sinora dalla solidità del tessuto
democratico del paese, che si è mostrato in grado di resistere ad onta delle
diseguaglianze. Ma fino a quando? I musulmani hanno rappresentato per
anni una delle vote banks più affidabili per il partito del Congresso.
Nell’intreccio fra casta, comunità e potere, hanno rappresentato una
componente tanto solida quanto prevedibile: un fatto questo che, da un
lato, ha garantito una certa rappresentanza, ma dall’altro ne ha diminuito il
potere contrattuale in termini di scelte elettorali e di influenza. Con la fine
dell’egemonia del Congresso, le cose sono andate progressivamente
cambiando e oggi il voto musulmano non è più una variabile scontata. I
musulmani in India non si sono mai riconosciuti in un partito
confessionale (e questo è di per sé un dato significativo, rispetto alle
accuse di oscurantismo bigotto che vengono loro regolarmente rivolte); la
loro identità politico-elettorale ha teso tradizionalmente a confondersi con
quella dei dalit e delle OBC/SC, sia pure con variabili importanti da stato a
stato. Il crescente peso delle formazioni regionali ha attribuito un maggior
ruolo anche ai musulmani, i quali hanno potuto sfruttare il vantaggio di
«fare la differenza» in quegli stati dove la loro consistenza, non
rilevantissima in termini assoluti, risultava decisiva per conseguire la
maggioranza. Uno schema dal sapore «italiano», che ha dato qua e là
risultati paradossali: nella sua campagna vittoriosa in Uttar Pradesh,
Mayawati ha riproposto la convergenza bramini-musulmani-intoccabili
che aveva garantito negli anni la vittoria del Congresso, da una prospettiva
in cui la componente dominante non era più la bramina, bensì l’altra.
Persino Narendra Modi, il Chief Minister del Gujarat responsabile politico
delle stragi di Godhra del 2002, ha pensato bene di lanciare qualche
modesto segnale al voto musulmano durante la sua recente campagna
elettorale. Per i musulmani, insomma, la fine della discriminazione non è
dietro l’angolo, ma la frammentazione del quadro politico indiano offre la
possibilità di entrare in maniera più diretta nel gioco delle influenze e di
acquisire una voce meno flebile, in attesa di un’uguaglianza che,
terrorismo ed estremismo hindutva permettendo, prima o poi verrà.
I rapporti con il Pakistan e il terrorismo (pag. 239)
In India viene regolarmente annunciata la cattura di «spie» pakistane
spesso poco credibili, con un risalto che favorisce reazioni di intolleranza
sciovinista quando – seppure le accuse fossero fondate – sarebbe meglio
gestire le cose con senso di responsabilità e riservatezza. Gli attacchi
terroristi che a intervalli regolari hanno insanguinato il paese – e che in più
occasioni si sono inseriti in una catena di azioni e reazioni di opposto
segno confessionale – vengono regolarmente attribuiti alla regìa della
famigerata ISI (il servizio segreto pakistano), senza porre la necessaria
attenzione al brodo di coltura interno nel quale vanno maturando da tempo
questi comportamenti. Si tratta di una scorciatoia concettuale pericolosa,
che ha indotto il governo indiano a ribadire a ogni piè sospinto – dando la
sensazione di crederci sul serio – come l’India, secondo paese musulmano
al mondo, sia anche l’unico a non contare al suo interno neanche un
adepto di Al Qaeda (al contrario, ça va sans dire, del Pakistan dove,
invece, il terrorismo sarebbe di casa) e come i fenomeni terroristici siano
dovuti esclusivamente a provocazioni orchestrate e condotte dall’esterno
con l’aiuto di pochi disperati. Il fatto che il terrorismo indiano abbia
tradizionalmente avuto una matrice di tipo nazionalista/irredentista, prima
che ideologico/religioso, ha portato New Delhi a sottovalutare il pericolo
di un’internazionalizzazione di matrice fondamentalista. L’arresto a
Bangalore di alcuni «insospettabili» (fra cui studenti di medicina e un
ingegnere), membri del SIMI (Students of Islamic Movement of India)
sospettati di complicità con gli attentatori londinesi del 200759, avrebbero
dovuto rafforzare i sospetti di un collegamento con formazioni qaediste,
magari per ora solo strumentali, anziché fornire il pretesto per rifugiarsi
nel solito cliché dei servizi pakistani. Qualcuno ha cominciato ad
accorgersene, ma si tratta, per il momento, di voci isolate: «abbiamo la
seconda popolazione musulmana al mondo, è inevitabile che qualche
musulmano si arruoli nella jihad globale», ha scritto Vir Sanghvi,
aggiungendo subito in chiave riduttiva: «(non) dovremmo perdere troppe
ore di sonno preoccupandoci di poche migliaia» di fanatici.