“Io amo?” - Azione Cattolica Italiana

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“Io amo?” - Azione Cattolica Italiana
Sabato 30 gennaio
“Io amo?”
In dialogo con don Angelo Panzetta Moralista, vicepreside della Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale ‐ Molfetta I giovani e l’affettività tra gioia e paura d’amare Credo profondamente che il Vangelo e la tradizione vivente della Chiesa, intesa come “scuola di umanità”, contengano alcuni criteri orientativi fondamentali. Questo piccolo spazio che abbiamo a disposizione potrebbe essere utilizzato in due modi: con una metodologia casistica o con una metodologia nella quale non si dia tanto risposta a casi concreti quanto, piuttosto, si prospettino quei valori che sono in gioco nell’affettività e nella sessualità. Penso che sia utile dedicare all’intervento questo secondo atteggiamento. È opportuno elaborare criteri orientativi che diano delle “dritte” utili per un discernimento personale e responsabile. Proverò a riflettere non solo sulla sessualità, ma sull’affettività in generale e sul posto che essa ha all’interno della formazione umana in una visione integrale dell’uomo. Poi ci chiederemo quali sono quei criteri che aiutano a “valutare” il comportamento affettivo, quei criteri generali, cioè, che si pongono quale orizzonte sia nella prospettiva dell’orientamento personale che nella prospettiva dell’educazione. L’educatore, infatti, non conosce solo le problematiche dell’affettività, ma ne conosce profondamente anche i criteri orientativi. Quale posto ha l’affettività all’interno di una antropologia integrale? La capacità di provare affetti, emozioni, sentimento, attaccamento, amore all’interno del mistero della persona umana? La risposta dipende dal tipo di antropologia di riferimento. Si potrebbe rispondere collocando l’affettività semplicemente in una prospettiva individuale. La capacità di provare affetti, sentimenti, emozioni infatti riguarda il soggetto, il suo sentire. In questa prospettiva diventano importanti il soggetto e la sua gratificazione. C’è tuttavia una modalità alternativa ‐ non in conflitto ma più completa ‐ di presentare l’affettività umana, considerandola non solo in una prospettiva individuale ma relazionale. L’affettività è una dimensione dell’esperienza umana, costitutiva del mistero della persona umana. L’affettività è una forza vitale che spinge il soggetto ad entrare in relazione, che gli consente di vedere espanso il suo mistero personale perché, nella relazione, il soggetto fa l’esperienza dell’indigenza e, nello stesso tempo, l’esperienza di essere dono per l’altro. 1
Il termine “affettività”, volendo utilizzare alcune suggestioni terminologiche, viene dal verbo “afficio” che indica un aspetto importante della persona. Tale verbo richiama più o meno questo tipo di esperienza umana: qualcuno o qualcosa “mi colpisce” ed io “mi metto in cammino per incontrarlo”. Una persona modifica la mia coscienza ed io mi metto in cammino verso di lui per incontrarlo. L’affettività rimanda, dunque, a una passività e a un’attività. La passività nella misura in cui “sono colpito” e l’attività in quanto “mi metto in cammino verso l’altro”. Potremmo dire pertanto che l’affettività è un pellegrinaggio verso l’altro, una spinta verso l’altro. Il nostro universo affettivo è una potente forza vitale, una spinta ad entrare in relazione, a crescere e vedere ingrandito il nostro mistero personale, nonché la possibilità di contribuire all’allargamento del mistero personale dell’altro. Questa forza vitale, costitutiva del mistero della persona umana, quale posto ha nella nostra vita? Gran parte dell’etica dipende da questo dato di carattere antropologico. Quale posto ha l’affettività all’interno del mistero della persona umana? Se volessimo utilizzare un linguaggio semplice, potremmo dire che l’essere umano somiglia a una torta, fatta di diversi ingredienti. Il primo elemento è la corporeità ‐ così importante nella nostra vita ‐ poi c’è la dimensione della relazionalità ‐ la capacità di trovare significati ‐ ed ancora la volontà libera che, come un “volante”, ci permette di dare un orientamento alla nostra vita. Infine c’è tutto questo universo affettivo che costituisce una riserva energetica importantissima per la nostra crescita e per il contributo che possiamo dare alla crescita degli altri. Da questo primo dato potremmo tirar fuori delle considerazioni importanti. Quando l’uomo è incamminato in modo evolutivo verso la maturità? Quando cresce bene come persona? Evidentemente quando riesce ad elaborare un mix ordinato di questi condimenti indispensabili: la corporeità, la relazionalità, la volontà libera e l’affettività. Se un soggetto dovesse privilegiare nella sua formazione personale un aspetto a danno degli altri, il suo universo personale sarebbe sbilanciato. Dobbiamo mettere insieme in modo ordinato il tutto. Se si sottolineasse la dimensione della corporeità si cadrebbe nel corporeismo. Sarebbe sbagliato prendere la razionalità e farla diventare esorbitante nella nostra vita: si cadrebbe in una sorta di razionalismo, un uomo che non si occupa delle passioni del cuore, della fatica delle grandi scelte. Parimenti chi considera troppo importante la dimensione della libertà, la volontà libera, cadrebbe in una sorta di decisionismo. Nè sarebbe molto bello dare uno spazio troppo ampio alla passionalità che, pur essendo una dimensione costitutiva del mistero della persona umana, non è così importante. Quando i sentimenti e le emozioni diventano gli unici criteri di vita, infatti, è facile incappare in una sorta di “emotivismo etico”. È uno dei modelli molto diffusi oggi. Si sente spesso dire che è stata fatta una cosa perché “si sentiva” sulla base della propria esigenza del momento. Le emozioni possono essere considerate una regola immediata dell’agire. Quando il criterio delle scelte è individuato nelle emozioni, nei sentimenti e nelle passioni, si corre un rischio serio, perché le emozioni sono fattori pre‐liberi. Sono elementi che si realizzano in noi senza il concorso immediato della nostra ragionevolezza e della nostra libertà. Se uno dovesse decidere di agire così e non dovesse sottoporre ad ulteriore verifica questo criterio orientativo, questa sorta di sentimentalismo etico, si comporterebbe secondo uno stile pre‐morale. Lo specifico umano della ragionevolezza e della libertà è ancora al di qua rispetto a questo. Lo sforzo che dovremmo fare è quello di umanizzare l’affettività, di immettere questa forza vitale all’interno del progetto formativo integrale della persona. Ciò significa sottoporre l’affettività al primato della ragione, permetterle di trasformarsi in scelte di vita importanti. Queste considerazioni preliminari possono sembrare teoriche e non immediatamente connesse con quello che stiamo dicendo. L’affettività è un fatto pre‐razionale e pre‐libero e non tocca la morale. La morale cade subito dopo; l’esperienza morale e la responsabilità morale vengono dopo l’emozione, il sentimento, l’umore. 2
L’idea della simpatia o dell’antipatia avviene senza nessuna decisione e senza che la razionalità abbia preso posizione rispetto ad essa. L’avere simpatia o antipatia non ingenera una responsabilità morale. La responsabilità morale viene dopo, quando con la ragione prendo posizione rispetto a questo evento che avviene in me. La grande fatica che dobbiamo fare e proporre, a livello educativo, è l’umanizzazione dell’affettività. Ciò richiede disciplina e impegno, è un cammino di tutta l’esistenza e mai potremmo dire di averlo definitivamente compiuto. Quando le persone riescono ad impegnare questa forza vitale, che è l’affettività, all’interno di un’esistenza personale, in un progetto di vita, è meraviglioso. La stessa castità è un’affettività impegnata all’interno della costruzione della persona. Sottoposta alla ragione, essa diventa impegno e libertà. Richiede, infatti, grande impegno e disponibilità ma consente anche di andare controcorrente. Ci sono delle antropologie nelle quali questo sforzo ascetico non è ritenuto necessario ma quello che è immediatamente recepito come bene, viene proposto come criterio orientativo delle scelte. Quali possono essere i criteri fondamentali per il comportamento affettivo? Il criterio guida da prendere in considerazione è il bene delle persone coinvolte. L’esperienza affettiva chiama in causa le persone, dunque in tale esperienza è negativo tutto quello che non permette la crescita integrale della persona e il rispetto della sua dignità. Tutto ciò potrebbe sembrare astratto, ma riguarda anche le piccole esperienze affettive della nostra vita. I gesti del nostro comportamento affettivo, infatti, possono essere immediatamente valutati in base a questo criterio guida: il nostro agire nell’affettività è un bene quando è rispettoso del mio essere persona e del mistero della persona che ho di fronte! Ma quand’è che viene rispettato e promosso il mistero della persona? Sono tre gli aspetti importanti del mistero della persona che possono, in qualche modo, specificare quell’unico criterio prima enunciato. 1. Il bene della persona è rispettato quando un comportamento affettivo contribuisce all’integrazione dell’io. Quando il soggetto che fa quell’esperienza esce fuori dall’esperienza stessa cresciuto nella sua capacità di amare, perché è riuscito ad integrare quella energia vitale in un progetto di vita. Quel comportamento ha permesso all’altro di diventare migliore. Si può diventare “più persona” quando si fa il bene. Il comportamento affettivo è buono quando contribuisce a questa integrazione dell’io. 2. Il comportamento affettivo è buono quando contribuisce all’apertura al “tu”, quando fa crescere la persona nella dimensione relazionale, che è anch’essa una dimensione costitutiva del mistero della persona. Di fatto la persona ha bisogno di aiuto ma nello stesso tempo può diventare grazia, dono. Nell’esperienza dell’apertura al tu, questo si realizza. L’affettività è un bene quando contribuisce alla maturazione delle persone, facendole diventare migliori, e nello stesso tempo non la chiude in un isolamento ma lo apre a un tu, lo apre all’altro, al suo bisogno. L’affettività ha questa duplice funzione, mentre contribuisce alla crescita del soggetto, nello stesso tempo, lo spinge, lo apre alla relazione. Nella dimensione relazionale della sessualità diventa importante il linguaggio dell’affettività. Il linguaggio dell’affettività contribuisce all’effettiva apertura all’altro quando è vero, quando non si dice di più o di meno di quello che si è, quando esprime anche la verità, la situazione oggettiva, in cui le persone si trovano. In un bellissimo libro sulla corporeità Lacroix descrive una fenomenologia dell’affettività. Il linguaggio della carezza, dell’abbraccio, del bacio nonché dell’unione, anche sessuale degli sposi, è un linguaggio che può essere vero o menzognero. Una carezza può essere un’esperienza di gratitudine: la carezza è il più bello tra i gesti dell’affettività, è un gesto celebrativo. Con l’abbraccio “faccio posto nella mia vita” perché tu possa entrare. Nel bacio condivido il respiro, che è il principio vitale, e la bocca, che è la sorgente prima del conoscere. Questo linguaggio può essere vero o menzognero, può essere motivato dall’amore e dall’apertura o essere segno di possesso e appropriazione. Una carezza, ad esempio, può essere un gesto di gratitudine o un segno in cui si dice che la persona ci appartiene. Un gesto di gratitudine può dunque trasformarsi nel più bieco gesto di attestazione del potere rispetto ad una persona. 3
Il linguaggio dell’affettività deve essere vero. Non si può barare. Il linguaggio dell’affettività ed anche della sessualità deve essere un linguaggio di amore. Il problema serio, allora, diventa che cosa significa “amare”. Non ogni amore contribuisce a far crescere la persona. L’amore non deve essere un linguaggio di piacere, in cui l’altro è semplicemente oggetto di piacere, altrimenti ricadiamo in un’affettività immatura. Il linguaggio dell’affettività non può essere possessivo. L’altro, cioè, non va cercato per appropriarsene, ma perché valore in se stesso. Delle persone, infatti, non ci si può appropriare, il mistero della persona non può diventare proprietà privata di nessuno. Anche nel più grande degli amori, l’altro è sempre un mistero, una terra consacrata. Il linguaggio dell’affettività non è solo un linguaggio di piacere né di possesso, ma un linguaggio di amore oblativo: è il Vangelo che ce lo chiede! L’amore vero è donazione, accoglienza incondizionata. Il linguaggio dell’affettività contribuisce all’apertura vera quando è animato da questo amore che si fa apertura, accoglienza e dono. Ho lavorato nel consultorio della mia diocesi e ho visto anche grandi amori soffrire, non perché non vi fossero buone intenzioni, ma perché uno o entrambi, pur volendo donare, non aveva l’umiltà di ricevere. L’affettività è buona quando permette l’integrazione dell’io e fa aprire nella verità l’altro. 3. Un terzo aspetto riguarda l’apertura al “noi”. L’amore vero non è mai “solitudine a due”. L’amore è sempre apertura alla comunità e alla Chiesa. Quando l’affettività porta le persone ad appartarsi e a dimenticarsi della comunità alla quale appartengono e delle responsabilità sociali che hanno, probabilmente bisogna chiedersi se quell’amore è vero. Una delle cose che la Trinità ci ha insegnato è che in due l’amore non basta. L’amore vero è quello nel quale due sono capaci di aprirsi ad un terzo. L’io‐tu diventa noi. In un contesto di soggettivismo come il nostro questa è la parte più difficile da capire. In un contesto nel quale prevale la mentalità dell’autorealizzazione, risulta difficile capire il riverbero sociale dell’affettività. Se due amici si vogliono veramente bene e se due amanti vivono in profondità quell’essere una sola carne, non solo la loro esperienza va bene ma essi arricchiscono anche la Chiesa e l’umanità. Se invece due persone vivono male e non si rispettano nell’amore, nella loro amicizia, nel loro affetto profondo, tutto questo ha ripercussioni negative. Basterebbe rendersi conto di quanto i guasti affettivi all’interno delle famiglie in qualche modo si ripercuotono come problemi per la comunità stessa. L’affettività, quando è vera, si assume la responsabilità sociale di fronte alla Chiesa e al mondo. I gesti e la tenerezza più profonda si allargano per ridondare creativamente sull’umanità intera. Tutte le negatività che si sperimentano nell’affettività, invece, sono un impoverimento per l’umanità. Questi criteri sono ispirati ad un personalismo cristiano nel quale la persona è il bene‐valore più importante che abbiamo, perché fatta ad immagine di Dio e redenta in Gesù Cristo. È in questa prospettiva che bisogna confrontarsi con la serietà del bene e anche del Vangelo. Certamente un breve discorso non può esaurire la questione dell’affettività, ma penso di avervi fornito alcuni input utili alla riflessione. * * * 4
Dibattito – Domande emerse dai lavori di gruppo Giovane.1 Più che una domanda, vorrei condividere due riflessioni sul tema dell’affettività: ‐ ci rendiamo conto che manca, da parte della Chiesa, la capacità di esprimere una visione unitaria, dare delle risposte tangibili che motivino i giovani ad intraprendere questo cammino di affettività e a risolvere alcuni nodi che riguardano la sessualità. ‐ un altro aspetto che vorrei sottolineare è la mancanza di una presenza da parte di coppie che esprimano una testimonianza di vita concreta e diano uno stimolo ad intraprendere questo cammino. Giovane.2 Come possiamo trasmettere questi messaggi sulla vita affettiva, oggi che molti giovani devono rimandare la scelta di matrimonio per anni, e/o non riescono a vivere questa affettività con responsabilità, progettualità e castità? Giovane.3 Quali possono essere i linguaggi per far scoprire ai giovanissimi la bellezza della corporeità e della sessualità? Giovane.4 Ci siamo interrogati sul fatto che spesso sembra che la Chiesa faccia una proposta di spiritualità molto disincarnata, staccata dal corpo, e quindi da tutti quei problemi concreti che dobbiamo affrontare come giovani e come giovani coppie. Gli stessi educatori, a volte, fanno fatica a vivere con coerenza la propria affettività. Come fare a coniugare questi diversi aspetti e rendere la nostra spiritualità più incarnata anche nell’essere coppia? Giovane.5 Ci siamo interrogati sulla necessità di cominciare la riflessione a partire dal Settore Giovani e soprattutto di inserirla all’interno di un progetto che coinvolga tutta l’Associazione, che si occupi di tutte le stagioni della vita, con un approccio di tipo globale. Ci siamo soffermati, inoltre, sulla necessità della spiritualità e dell’accompagnamento, anche da parte degli stessi educatori, sia dei giovanissimi che dei giovani, nel solco della riflessione sulla regola di vita di cui stiamo discutendo quest’anno. Giovane.6 Nel nostro gruppo è emersa la difficoltà dello squilibrio tra le diverse esperienze vissute dai giovanissimi. Ci sono giovanissimi che hanno già vissuto esperienze importanti, con risultati altalenanti, e giovanissimi che muovono adesso i primi passi sul terreno dell’affettività. Succede spesso che i giovanissimi riferiscano liberamente al gruppo le proprie esperienze, anche sessuali. Qual è l’atteggiamento dell’educatore che si trova a dover gestire una tale situazione? Quali sono le attenzioni che sarebbe utile avere per aiutare la crescita del giovanissimo? Giovane.7 Assodato che i giovanissimi guardano ai propri educatori come punto di riferimento, nasce la necessità da parte degli educatori di essere, oltre che responsabili, anche testimoni credibili per questi ragazzi. Sappiamo 5
che la credibilità non significa perfezione per l’educatore ma che un educatore è in continua ricerca e che la sua è una vocazione di amore; tuttavia molte volte noi educatori riempiamo i nostri giovani di bellissimi discorsi ma poi non siamo coerenti con i nostri atteggiamenti. Come si può superare il limite di chi oscilla tra coerenza ed incoerenza? Giovane.8 Da un’analisi approfondita e dibattuta, crediamo di aver compreso che uno dei problemi fondamentali del rapporto che hanno i giovanissimi con la corporeità o, in generale con l’affettività, provenga da una molteplicità di stimoli errati. Tra questi il nostro gruppo ha demonizzato la televisione. Abbiamo riflettuto su come questa molteplicità di input errati sia una delle cause principali dell’instaurazione di rapporti superficiali che spesso i giovanissimi vivono. Ci è venuto in mente di domandare ai giovanissimi perché si comportano così. Alcune tra le tante domande che avremmo voluto fare, ad esempio, sono: perché dici “ti amo” o “ho bisogno di te”? Quali strumenti concretamente noi responsabili dei giovanissimi abbiamo per aiutarli a risolvere i loro problemi? Quali sono gli strumenti che voi formatori dovreste metterci in mano per aiutarci? Risposta di don Angelo Penso di mettere insieme alcune considerazioni non per mancare di rispetto alla pluriformità delle esigenze, ma per stare nei tempi. Più interventi hanno segnalato una difficoltà ad incardinare nell’odierno contesto socio‐culturale la proposta di vita cristiana riguardo all’affettività e soprattutto rispetto alla sessualità. È un dato verissimo che ci chiede un rinnovamento nel quale non cambiare i valori di riferimento che sono la persona umana, il Vangelo, la grazia di Dio che non possono essere cambiati, ma la traduzione nell’oggi della storia ha bisogno di essere profondamente rinnovata. Si potrà rinnovare la nostra proposta quando verrà scritta a molte mani. La proposta dell’etica della sessualità cristiana dovrà essere scritta con il concorso di tutti. Insieme con i consacrati alla redazione della proposta partecipino anche gli sposi. Negli anni ’90 venne scritto un bel documento “Sessualità umana, verità e significato”. Questo documento nasce dalla metodologia originale e alla sua redazione hanno contribuito vergini, consacrati, sposi ed anche giovani. Dal punto di vista metodologico costituisce un precedente importante nel quale questa incarnazione da fare non viene delegata a qualcuno. Non penso che sia giusto che voi chiediate a noi di fare quello che da soli non possiamo fare. La comunità cristiana deve, in un discernimento anche comunitario che non metta in discussione l’autorità del Magistero della Chiesa e i punti fermi che si intende dare, ma la traduzione concreta dell’esperienza, attraverso il contributo di tutti. Per esempio uno dei problemi della nostra etica è il messaggio sulla sessualità, scritto, almeno fino a poco tempo fa, da celibi e persone che avevano fatto la scelta della verginità. Un’etica elaborata nei conventi, nelle canoniche e poi proposta agli sposi che, non avendo fatto quella scelta, avevano difficoltà ad entrare in quel linguaggio e in quella prospettiva. Guardando alla storia di tutta la proposta cristiana sul tema dell’affettività, vi accorgete che alcuni aspetti risentono di un sospetto nei confronti della donna, tipico di chi conosce la donna come madre, come tentatrice, ma non ne conosce la bellezza di un rapporto, di un’intensità e di una nuzialità. 6
Da questi errori passati, dobbiamo imparare a fare insieme questo lavoro di “incarnazione”. Non lo dobbiamo imporre e voi non ce lo dovete delegare: va fatto insieme! Chi lavora nell’educazione ha una marcia in più perché conosce bene i linguaggi. Con i giovanissimi non si lavora in modo frontale ma ci si mette in gioco insieme con loro. Si impara a riconoscere le parole, il movimento ipercinetico, il rossore e tutti i segnali che sono un modo di comunicare e che vanno interpretati. Non puoi aspettarti che questi segnali vengano decodificati dal tuo Vescovo che avrà anche competenze pedagogiche, ma non sa leggere il rossore o il movimento agitato di chi si sente bollire. È un lavoro di incarnazione che va fatto insieme, nessuno può sentirsi escluso. Bisognerebbe guardare la comunità cristiana non come a qualcosa che ci sta di fronte ma, come l’esperienza associativa vi insegna, come a una realtà in cui si sta dentro. Se non offro il mio contributo in questa fatica di incarnazione, non posso dopo puntare il dito se non ho mosso una virgola della mia vita in questa fatica di traduzione della verità. Ciò non riguarda solo la vita sessuale di chi si prepara al matrimonio, ma riguarda la vita di tutti. Non pensate che nella formazione dei futuri presbiteri non abbiamo la stessa difficoltà a parlare di verginità, di educazione della volontà. È un problema che abbiamo come comunità in tutti gli stadi della vita. La proposta sull’affettività è un discernimento di comunità, non nasce nel gruppo giovani. Nel consiglio pastorale dovrebbero esserci tutte le dimensioni della comunità, non è una questione che riguarda solo i giovani. Oggi c’è anche il problema dell’affettività degli anziani: il prolungamento della vita e il benessere fisico dell’età avanzata pongono, infatti, domande nuovissime che l’etica cristiana non si era mai posta prima perché non c’erano tali aspettative di vita. Ancora una volta è necessario un discernimento da fare insieme. Si tratta di una grande sfida e una grande opportunità: nessuno può sentirsi escluso. La vostra esperienza è un laboratorio prezioso. È importante passare la mano all’educatore successivo provando a dirgli quei segreti, maturati in questo ambito, che hanno funzionato. Passargli il testimone significa non fargli cominciare ogni volta da zero. Un altro problema ricorrente è quello della testimonianza. L’educatore, se testimone, si propone in modo autorevole. Ma non bisogna cadere nell’equazione “annuncio solo quello che io vivo”. Non si tratta solo di educare alla sessualità e all’affettività, ma anche di annunciare il Vangelo. Nel nostro ministero ci sono scoperte incredibili. Nelle nostre comunità ci sono persone che fanno sul serio con il Vangelo in tutti i sensi. Non posso permettermi il lusso di misurare il Vangelo sulla mia vita, senza accomodamenti e misurazioni. Il Vangelo va annunciato, i valori sulla sessualità vanno annunciati. Per un minimo di coerenza se vado in una direzione contraria alle cose che annuncio, dovrei essere capace di fare delle scelte. All’educatore non si chiede di annunciare solo le mete educative che ha raggiunto ma di essere in cammino lui stesso in quella prospettiva. L’annuncio di una parola esigente, magari una cosa che ancora non vivi, è come un boomerang che colpisce in profondità. Così l’educatore non può non annunciare i valori che la tradizione cristiana ha maturato rispetto all’affettività e alla sessualità, senza sentirsi sollecitato a camminare lui stesso in quella direzione. Nell’insegnare una realtà agli altri, anch’io imparo meglio. Quando sull’affettività uno può sentirsi arrivato? Non arriverà mai un momento che come educatori potremmo dire che siamo effettivamente maturi. L’affettività è un cammino di crescita di tutta la vita, all’educatore spetta camminare insieme alle persone che educa. L’educazione, dunque, non riguarda solo la persona da educare ma coinvolge anche chi educa. Non si tratta di insegnare l’arte di amare ma anche di apprenderla. Non c’è cosa più bella, considerata anche la mia esperienza di educatore, che lavorare con i giovani perché ti mettono a nudo e non ti permettono di bleffare, ti chiedono coerenza e ti scrutano. Quando ti metti in gioco veramente, loro sono disposti ad immolarsi e a darsi in profondità. Chi lavora con i giovani e prova a camminare con loro alla scoperta dell’arte di amare, fa un’esperienza straordinaria, cresce insieme con loro. 7
Anche se avverti uno scarto tra quello che vivi e quello che provi ad insegnare, non anestetizzare la scottatura che le parole stesse producono. Credo che il disagio profondo che si prova, tra quello che si vive e quello che si annuncia, sia salutare per la crescita. Se un educatore, invece di avvertire con disagio questa non coincidenza tra essere e dover essere, dovesse crearsi una doppia vita per cui da una parte c’è quello che annuncia e in tutt’altra direzione quello che vive nel privato, dovrebbe chiedersi: “ma il gioco vale la candela? Posso continuare ad essere due persone contemporaneamente?”. Bisognerebbe farsi delle domande profonde non per lasciarsi paralizzare ma per crescere. Quanto alla proposta, è importante non massificarla. Questi argomenti toccano in profondità il vissuto delle persone e la loro intimità, che possono essere gestiti in piccoli gruppi. Non è una conferenza massificante, il luogo in cui provare a narrare, a tirar fuori il vissuto e a provare ad analizzarlo. Né l’educatore può forzare l’apertura di questo forziere, che è la coscienza, che va rispettata in modo religioso, soprattutto in queste cose. Sia pure lavorando con piccoli numeri, dovremmo avere capito che il nostro lavoro più efficace è quello dell’accompagnamento dei volti concreti delle persone. Dal punto evolutivo l’altra esigenza è quella dell’educazione che tenga conto di tutte le stagioni della vita. Se si aiuta una persona in giovinezza ad imparare l’arte di amare, non è corretto pensare che, in qualche modo, quei valori acquisiti in un momento di passaggio dell’esistenza, possano bastare per tutta la vita. L’arte di amare è un pellegrinaggio di tutta la vita, non può essere confinata in un aspetto o in un altro. Ad esempio cosa facciamo per la questione della vedovanza? Eppure ci sono persone nelle nostre comunità che vivono la loro affettività in una situazione di “legame spezzato”, non per scelta, ma per un evento drammatico. Un prete anziano che mi confessava da ragazzo guardava con disincanto le cose che mi sembravano importanti e mi diceva che sarei stato giudicato sull’amore. L’affettività è importantissima ma non vale se non è nella prospettiva dell’amore. Se un’attenzione alle questioni della casistica della sessualità importante, lo è di più il riferimento all’amore. Quando si annunciano questi valori bisogna saper sin dall’inizio che si va controcorrente. Le mie considerazioni sono in controtendenza rispetto alla “telepredicazione” quotidiana che giunge come ospite fisso nelle nostre case. Sta avvenendo un cambiamento culturale a livello di sensibilità etica, impercettibile ma profondo. Uno stillicidio e un relativismo che quotidianamente vediamo e non per demonizzare la tv. L’educatore deve sapere di nuotare controvento perché il Vangelo oggi è controvento. L’amore secondo il Vangelo con la sua esigenza di totalità che il Signore ha chiesto, è controvento. Dobbiamo conoscere questa difficoltà che abbiamo e confidare in tutti gli strumenti umani. Ci sono tanti centri, risorse di carattere educativo che la comunità cristiana ha a disposizione per l’educazione all’amore. Ci sono alcuni che hanno maturato nella comunità cristiana competenza specifica sia nell’associazione ma anche nella comunità più grande. Quando da solo non ce la fai, fatti aiutare dalla Chiesa. Le comunità cristiane hanno consultori, esperti e soprattutto hanno sposi che hanno maturato una competenza, non solo di vita, ma anche culturale. Le nostre diocesi sono ricche di persone che non solo hanno il bagaglio della loro esperienza ma hanno studi che permettono una consapevolezza esplicita di questi valori. Quando l’educatore sa di non bastare in un aspetto, chiede aiuto alla Chiesa, all’associazione, alla sua parrocchia, alla sua diocesi. Non c’è cosa più bella di avere il coraggio di chiedere, quando da soli non si è capaci. Accanto a questi strumenti di ordine antropologico, non va dimenticata la grazia di Dio. Senza la grazia di Dio, l’educazione cristiana sarebbe perdente. Tenete presente che l’educatore che prova a vivere in grazia di Dio, da quella familiarità con il mistero di Cristo attinge una forza che gli permette discernimento, attenzione e volontà. Voi pensate che tra sessualità e eucaristia non vi sia connessione, che la nostra partecipazione all’eucaristia, ogni giorno non ci insegni uno stile affettivo. Ma Gesù risorto nell’eucaristia ci dice: “Questo è il mio corpo”. Il nostro problema affettivo non è nella stessa linea. La spiritualità cristiana costituisce un grandissimo 8
bagaglio a cui l’educatore deve attingere continuamente. Senza la grazia di Dio non ci può essere educazione cristiana. Confidate nei mezzi della grazia di Dio, nella potenza dell’eucaristia, nella preghiera e nell’incontro con il Signore. Questo segreto vale non solo per l’educatore ma anche nella prospettiva delle persone che bisogna aiutare. Educare all’affettività non significa solo fare formazione umana; significa mettere nelle mani delle persone il Vangelo. Dobbiamo provare a fare un’azione educativa in cui la dimensione umana e la dimensione di grazia, insieme, vengono contemplati. Se provassimo a pensare che l’educazione all’affettività è una questione psico‐pedagogica o una questione di tipo biologico, andremmo lontano dalla verità. Non si tratta solo di informare ma di formare e per formare bisogna considerare questi dati umani alla luce del Vangelo e sotto l’egida della grazia e della potenza di Dio. Non dobbiamo scoraggiarci per le difficoltà, ma dobbiamo piuttosto tener conto della fiducia che la comunità cristiana ha riposto nelle nostre mani! Se crediamo che l’educazione sia una vocazione, che l’educatore sia lì non perché si è candidato, ma perché il Signore attraverso la comunità lo ha scelto, questo costituisce motivo di gratitudine a Dio e alla Chiesa ma anche motivo per continuare con gioia e responsabilità a fare fino in fondo il nostro dovere. 9