la minorazione visiva
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LA MINORAZIONE VISIVA Definizione e caratteristiche Per “minorazione visiva” si intende una riduzione più o meno grave della funzione sensoriale, che consegue a un danno a carico dell’apparato visivo. Il coinvolgimento patologico può interessare non solo il bulbo oculare, ma anche i suoi annessi, le vie nervose che veicolano gli stimoli visivi verso il sistema nervoso centrale, nonché la corteccia cerebrale (Cottini L., 2008). Le persone con deficit visivo sono genericamente quelle affette da una menomazione agli organi e alle strutture riguardanti la vista, o interessate da un’alterazione delle funzioni collegate a questo senso (Gargiulo M.L., Dadone V., 2009). Come punto di partenza, è importante tenere presenti almeno tre diversi aspetti della situazione di minorazione visiva, affinché sia possibile iniziare ad orientarsi La funzione visiva globalmente intesa comprende numerose capacità percettive specifiche, quali l’acutezza visiva, il campo visivo, la sensibilità al contrasto, il riconoscimento dei colori, il senso del rilievo, la resistenza all’abbagliamento, le capacità all’abbagliamento e all’adattamento, la percezione del movimento ecc. Quando si verifica un danno del sistema visivo, alcune capacità percettive possono risultare alterate più di altre e la quantificazione precisa del deficit richiede un esame funzionale completo che non può far parte della comune routine clinica. Dal punto di vista classificatorio, pertanto, occorre valutare soprattutto le due capacità percettive principali, quelle, cioè, che consentono all’individuo di interagire con l’ambiente e di mantenere una completa autonomia nella vita di tutti i giorni: l’acutezza visiva ed il campo visivo. Le altre capacità sono meno importanti, poiché, pur completando e migliorando la qualità della visione, non possiedono un peso così determinante nella funzionalità visiva dell’individuo. L’acutezza visiva è la capacità di riconoscere nei minimi dettagli l’oggetto fissato. Essa dipende dall’elevato potere risolutivo presente nella macula, piccola parte centrale della retina, e dalla integrità delle vie nervose che si originano dai neuroni presenti a questo livello. Il campo visivo è la capacità di percepire in modo indistinto gli oggetti che compongono l’ambiente nel cui centro si trova l’oggetto fissato. Tale capacità dipende dall’intera retina extramaculare, fino alla sua estrema periferia, e dall’integrità delle vie nervose che provengono dai neuroni presenti in tutta la retina, macula esclusa. Si può, quindi, distinguere tra una visione centrale distinta (acutezza visiva), che permette di riconoscere le caratteristiche dell’oggetto fissato, ed una visione periferica (campo visivo) indistinta, che fornisce un’informazione generica sull’ambiente e, grazie alla quale, l’individuo riesce ad orientarsi e a muoversi nello spazio. Si definisce ipovisione una disabilità visiva o, più correttamente, una capacità visiva non completa, bilaterale e irreversibile, conseguente a una minorazione visiva. Dal punto di vista normativo, la legge 155/65, all’art. 2 recita:”si intendono privi della vista coloro che sono colpiti da cecità assoluta o hanno un residuo visivo non superiore a un decimo in entrambe gli occhi con eventuale correzione”. Come si può notare, nella definizione di “privi della vista”sono comprese anche persone che riescono a vedere qualcosa. Questa formula è ripetuta in varie leggi, compresa la normativa sul collocamento lavorativo dei disabili. Il ministero della sanità ha precisato che tale definizione deve intendersi valida per qualsiasi legge che contenga disposizioni a favore dei non vedenti senza altre specificazioni. (Cottini L., 2009). L’azione congiunta del Gruppo Italiano Studio Ipovisione (GISI), dell’Unione Nazionale Ciechi (UIC) e della International Agency for Prevention of Blindness, ha ottenuto la promulgazione della legge 138 del 2001 nella quale, per la prima volta, è stata riconosciuta l’esistenza dell’ipovisione da compromissione periferica (Martinoli C., Delpino E., 2009). Nello specifico, la legge in questione, definisce i concetti di: Cieco assoluto: colui che non vede nulla o al massimo è in grado di percepire una fonte luminosa o il movimento di una mano posta davanti all'occhio; cieco parziale: soggetto con un visus inferiore a 1/10; ipovedente grave: colui che ha un visus compreso tra 1/20 e 1/10 oppure una riduzione del campo visivo tra il 50% ed il 60%; ipovedente medio-grave: colui che ha un visus compreso tra 1/10 e 2/20 oppure una riduzione del campo visivo tra il 30% ed il 50%; ipovedente lieve: colui che ha un visus compreso tra 2/10 e 3/10 oppure una riduzione del campo visivo tra il 10% ed il 30%. Questa classificazione risulta molto importante in ambito scolastico, sia nelle prime fasi organizzative dell'accoglienza, sia nella scelta e nell'utilizzo di metodi e ausili necessari per la didattica. Dati informativi irrinunciabili sono, infatti, la certificazione medica e la diagnosi funzionale redatta dall'equipe multidisciplinare dell'ASL. Senza addentrarsi troppo in questioni di natura clinica, segue un breve elenco relativo ai principali fattori causali delle compromissioni visive in età infantile: patologia congenita: trasmissione genetica di alterazioni organiche e fattori prenatali extraorganici quali infezioni, agenti fisici, intossicazioni, fattori endocrini durante la gravidanza (per esempio, rosolia, toxoplasmosi, accertamenti radiologici ecc.); cause perinatali: anossia, prematurità e relativi trattamenti, diabete materno; cause post-natali: infezioni virali, fattori immunitari, degenerativi e traumatici, tumori e diabete ((Zanobini M., Usai M.C., 2005). La natura multidimensionale della disabilità visiva Nell’ambito della minorazione visiva globalmente intesa, sono necessarie alcune precisazioni. Una prima distinzione è quella tra cecità sensoria, dovuta a cause periferiche o oculari per compromissione della retina o delle vie ottiche e cecità cerebrale, connessa a cause centrali per interessamento dei centri nervosi dei lobi occipitali. La cecità sensoria non compromette il processo delle supplenze sensoriali a differenza di quella cerebrale, forma ben più grave e, fortunatamente, meno rilevante numericamente. Il concetto di supplenza sensoriale si riferisce alle modalità di utilizzazione dei sensi integri da parte del non vedente, per ottenere informazioni sul mondo esterno (Cottini L.,2008). Per un primo approccio all’inquadramento delle problematiche individuali di ciascuna persona, è utile considerare almeno tre variabili, ognuna delle quali descrive una condizione all’interno di un continuum dimensionale. 1. La dimensione percettiva sta ad indicare la quantità e specialmente la qualità delle informazioni visive disponibili per la persona. Vengono, quindi, presi in considerazione fattori riguardanti la cecità rispetto all’ipovisione. 2. La dimensione temporale sta ad indicare la storia clinica della minorazione visiva, il periodo in cui è insorta e si è modificata, la prognosi eventualmente possibile sull’evoluzione futura. Oltre alla localizzazione clinica del deficit sensoriale, infatti, ha importanza anche l’origine temporale dello stesso: diversa è la situazione del soggetto non vedente dalla nascita rispetto a quello diventato cieco dopo un periodo di visione normale. La memoria dell’esperienza visiva, infatti, consente a quest’ultimo la costruzione di un sistema di rappresentazioni molto differente. Tale variabile, quindi, concerne la natura primaria della minorazione rispetto a quella acquisita. 3. la dimensione del funzionamento globale indica la correlazione con altri eventuali fattori di salute o di sviluppo, che possono condizionare le capacità della persona, specialmente se altri deficit vanno a intaccare proprio le risorse utili all’organismo per compensare la minorazione visiva. La variabile, quindi, ha a che fare con la minorazione visiva semplice rispetto alla pluriminorazione (Gargiulo M.L., Dadone V., 2009). La prima dimensione, quella percettiva, dunque, rimanda direttamente alla differenza esistente tra ipovisione e cecità. Le persone ipovedenti, sebbene in grado di utilizzare alcune informazioni visive, possono avere differenti carenze nella loro funzione visiva. Ciò determina una qualità delle immagini visive ed una capacità di utilizzare la vista che varia da persona a persona. Ci possono essere problemi nel riconoscere i colori, le sfumature intermedie tra il chiaro e lo scuro, le forme, le distanze, i dettagli da vicino e da lontano, problemi a vedere immagini poste in una determinata area del campo visivo, o più di una di queste limitazioni messe insieme e con differenti livelli di gravità. Si intuisce, quindi che, mentre è abbastanza comprensibile sul piano percettivo che cosa si intende per “cieco”, non è possibile a priori definire quale sia la condizione visiva di una singola persona ipovedente. È molto difficile, ad esempio, valutare le funzionalità visive dei bambini ipovedenti per vari ordini di fattori. La disponibilità e la capacità di collaborare sono minori, come pure quella di descrivere verbalmente la propria condizione soggettiva e i differenti disturbi possibili. La maggiore sincreticità e una minore differenziazione delle varie funzioni del bambino, inoltre, rende più difficile all’osservatore attribuire la causa dei suoi comportamenti, rispetto alle altre fonti di informazioni. Non ultimo, vi è spesso un grosso problema di tipo emotivo che concorre a complicare le situazioni: i bambini ipovedenti si trovano frequentemente a subire pressioni nel dover dimostrare le proprie prodezze visive, al fine di rassicurare le figure di attaccamento. Così spesso l’utilizzo della vista diviene un obiettivo implicitamente appreso e somiglia sempre più spesso ad un fine da raggiungere, che ad un mezzo per conoscere. La dimensione temporale, ovvero l’età di insorgenza della minorazione visiva, è molto importante per comprendere le condizioni nelle quali si sono sviluppate le varie funzioni psicofisiche. La mancanza della vista, infatti, conduce all’attivazione di una serie di funzioni compensative, sia dal punto di vista percettivo che difensivo. Non esiste un rapporto lineare tra la mancanza della vista dalla nascita ed un ritardo nell’acquisizione delle varie tappe di sviluppo. Il grave deficit visivo primario, tuttavia, come dimostrano le ricerche, funziona come un significativo fattore di rischio. È possibile individuare alcune variazioni statisticamente significative nei tempi di acquisizione di alcune tappe motorie, delle competenze di tipo spaziale, dello sviluppo cognitivo e del linguaggio. Purtroppo non esiste una letteratura ampia, tesa ad osservare qualitativamente e quantitativamente questi fenomeni. Esistono poi ancor meno strumenti di valutazione comparativa dell’andamento evolutivo. Pertanto la valutazione clinica basata sull’osservazione rappresenta spesso l’unico strumento utilizzabile. Anche l’aspetto relazionale viene spesso condizionato dalla minorazione visiva e ciò perché viene alterato il canale primario di comunicazione nelle relazioni, che sono alla base dello sviluppo affettivo. La mancanza della vista diviene un potente fattore di rischio di isolamento tutte le volte che gli adulti significativi non sono in grado o non possono trovare canali di comunicazione alternativi a quelli normali, basati sul contatto oculare. Oltre a ciò ulteriori fattori secondari concorrono a condizionare l’andamento delle relazioni di attaccamento. Si pensi soltanto alla difficoltà da parte dei genitori ad essere un sostegno sicuro, nel momento in cui debbono essi stessi, gestire il dolore e l’ansia connessa al vissuto di una malattia fisica così grave del loro bambino. La mancanza primaria della vista, inoltre, sembra indurre la strutturazione di uno stile di conoscenza basato sulle caratteristiche precipue dei sensi residui (in special modo il tatto, caratterizzato dall’analiticità e dalla mancanza di simultaneità e di globalità). Se da una parte l’insorgenza precoce porta con sé le problematiche specifiche su accennate, dall’altra la plasticità ed adattabilità dell’organismo all’inizio dello sviluppo consentono una possibilità di adattamento che si rivela molto preziosa. La perdita della vista in età successive, sebbene consenta l’acquisizione di esperienze, concetti e funzionalità, propri dei bambini vedenti, può condurre a importanti problemi di adattamento, lutto e perdita, oltre che a tutta una serie di reazioni postraumatiche e legate alla modificazione dell’immagine di sé. Molto spesso i bambini con patologie visive sono costretti a sottoporsi a moltissime attività di diagnosi e cura, con svariati accertamenti ed approfondimenti, in relazione al tipo di situazione clinica. Tutto ciò non è mai privo di significati emotivi di vario genere, con vissuti di ansia e fragilità. I bambini con patologie non stabilizzate vivono spesso una condizione di provvisorietà che favorisce un’attenzione ansiosa da parte degli adulti, condizione particolarmente pesante da sopportare. Analogamente è possibile riscontrare che le consistenti difficoltà di adattamento all’ambiente cui va incontro il bambino privato del canale visivo, sono da mettere in relazione non solo al problema sensoriale in sé, ma anche alla frequenza, qualità e spessore delle relazioni interattive che si stabiliscono nella sfera familiare, educativa e sociale. Pertanto, la trattazione dello sviluppo del bambino cieco non può limitarsi alla sola analisi clinica del danno visivo, ma deve concentrarsi soprattutto sugli impedimenti che rendono difficoltosa la massima promozione personale, in maniera tale da indicare anche alcuni itinerari educativi. Non esiste, in altre parole, il non vedente tipo, in quanto ogni persona privata della funzionalità visiva, è a suo modo speciale (Cottini L., 2008). La disabilità visiva all'interno del contesto socio-familiare La nascita di un figlio cieco o in ogni caso portatore di handicap determina un momento di profonda prostrazione ed angoscia nei genitori. Il trauma deriva dalla discrepanza tra quello che essi si erano mentalmente immaginati durante l’attesa e il bambino minorato che la realtà presenta loro. La scoperta dell’handicap visivo scatena delle reazioni molteplici e di varia natura: quella più frequente è costituita dal bisogno di negare la minorazione con la conseguente ricerca di elementi che la disconfermino, divenendo in alcuni casi la modalità prevalente con cui i genitori reagiscono. In quest’atteggiamento alcuni autori collocano l’insorgere nel figlio di un forte senso d’inadeguatezza che si può considerare il primo e più grave attentato contro una costruzione e una rappresentazione positiva dell’immagine di sé. Le modalità di relazione prima della madre e poi del padre sono responsabili di un più e meno adeguato sviluppo del bambino, perché gli forniscono fiducia e sicurezza nelle proprie possibilità. Di conseguenza è importante che anche il bambino non vedente possa vivere in un ambiente che comprenda i suoi bisogni e risponda ad essi attraverso il coinvolgimento attivo e atteggiamenti di accettazione ed affetto. Non potendo stabilire il contatto oculare e quindi cogliere le informazioni visive, i bambini non vedenti risultano maggiormente limitati nei contatti sociali. Di questo aspetto i genitori devono essere consapevoli altrimenti rischiano di interpretare l'assenza di risposte visive da parte dei bambini come assenza di interesse verso le loro attenzioni affettive. È, infatti, probabile che in un primo momento i genitori si sentano disorientati dovendo imparare a "leggere" le risposte vocali, tattili ed uditive per poter stabilire un'interazione reciproca. Esiste una stretta relazione tra sviluppo e apprendimento, che si intrecciano in un'"interazione circolare". Come sottolinea Fraiberg, i deficit sensoriali implicano un limite immediato alle possibilità del bambino di apprendere spontaneamente, a meno che non vengano organizzati particolari interventi e aiuti. Si comprenda, dunque, come lo sviluppo e l'apprendimento possano essere frenati da scarse relazioni di natura sia fisica che socio affettiva (Benedan S., Faretta E., 2006). La risposta familiare alla minorazione visiva La nascita di un figlio disabile appare, quindi, impegnativa da gestire perché i genitori si trovano a dover rispondere al contempo a bisogni importanti e inattesi sia propri che del bambino. Per questo la coppia non riesce inizialmente ad affrontare da sola la situazione traumatizzante derivante dalla nascita di un figlio con disabilità. Le reazioni psicologiche e i meccanismi di difesa che vengono attivati, spesso inconsapevolmente, possono essere molto diversi e variano in relazione alle caratteristiche della madre e del padre e a quelle del sistema familiare, possono essere individuati e compresi solo tramite l'analisi della struttura della famiglia, al fine di evidenziare le modalità di relazione tra i suoi componenti. Una delle situazioni più frequenti è la lunga ricerca di soluzioni mediche e tecniche per superare il danno provocato dalla perdita della vista, che fa sì che i genitori, completamente orientati alla ricerca di soluzioni che eliminano l’handicap, non si misurano concretamente con la realtà del figlio, non ne rilevano i bisogni e non si impegnano a sufficienza nel trovare delle soluzioni adattative che gli assicurino un adeguato sviluppo. Se da un lato questa reazione è pienamente comprensibile, dall'altro rischia di peggiorare, anziché migliorare, la situazione. Queste ricerche rappresentano l'aspettativa inconscia di una miracolosa restituzione della vista al bambino, che ne ripristini l'integrità a tutti i livelli, e possono nascere dalla difficoltà di accettare ed assumere un ruolo genitoriale nei confronti di un bambino diverso dalle attese. Seguire questo percorso comporta un oneroso dispendio di tempo e di energie e la perdita di occasioni importanti per costruire una relazione affettiva positiva indispensabile per lo sviluppo e l'apprendimento del bambino con gravi ripercussioni sullo sviluppo motorio, sulla capacità d’esplorazione dell’ambiente e sull’adattamento sociale. Gli effetti del deficit sensoriale possono infatti essere aggravati dalla mancanza di interventi efficaci e tempestivi, e ciò può contribuire in diversi bambini alla comparsa di gravi turbe psichiche (ritardo globale, stereotipie, psicosi ecc...). Le ricerche di Fraiberg hanno, infatti, dimostrato il grave rischio psicopatologico al quale è esposto il bambino con minorazione visiva, se viene deprivato delle cure e delle attenzioni di cui ha bisogno. Prendere coscienza al più presto della reali condizioni del bambino è, quindi, il primo passo verso un corretto approccio educativo (Benedan S., Faretta E., 2006). Molto spesso, al rifiuto e alla negazione, subentra, nella maggior parte dei casi, una fase connotata da elementi depressivi; ciò porta, con una madre divenuta abulica, ad un ancor maggiore isolamento del figlio che si presenta generalmente poco espressivo ed in particolare incapace di suscitare le prime comunicazioni ed i primi scambi spontanei che avvengono con lo sguardo. In altri casi, i genitori possono sviluppare con il bambino una particolare relazione caratterizzata da iperprotezione e tendenza a limitarlo nel conseguimento dell’autonomia, con grave rischio psicologico per la maturazione e individuazione di di sé. Una volta che la famiglia ha dichiarato la sua impotenza o la sua inadeguatezza di fronte al problema, si rivolge ai servizi assistenziali pubblici o privati; tale soluzione è solo uno spostamento del problema, in quanto l’unico servizio utile potrebbe darlo una consulenza socio-psico-pedagogica che aiuti la famiglia a prendere coscienza delle peculiarità comportamentali e personologiche che la cecità implica. Con un intervento corretto a livello di stimolazioni psicofisiche, infatti, tali peculiarità possono essere risolte favorendo il conseguimento della meta della normalizzazione intesa come uso dei sensi vicarianti e come capacità di svolgere una regolare vita relazionale. Un simile quadro potrebbe far pensare a dei genitori o a delle madri particolarmente apprensivi, ma per riprendere quanto sostenuto dal Mazzeo, “la madre del bambino non vedente è una donna come le altre ... alla quale è chiesto qualcosa di più ed è offerto, molto spesso, qualcosa di meno”. In realtà occorre comprendere il dramma di una madre spesso isolata nel contesto stesso della sua famiglia e della società. Bisogna, inoltre, tenere presente che ogni accettazione autentica della diversità, si pone come una sorta d’attentato nei confronti del sé: l’alterità può compromettere i modelli positivi del vivere “normale”, alterandone le regole e rimettendo in discussione le più inveterate e consolidate certezze. Nello stesso tempo, nell’odierna società i criteri dominanti sono quelli dei vedenti per cui non si compie lo sforzo di capire le ragioni degli altri, il vedente che s’affianca al non vedente spesso non impara ad osservarne i comportamenti e il modo di rapportarsi con il mondo, non partecipando alla ricerca delle soluzioni che il cieco compie, nel quotidiano, giorno dopo giorno. In tali condizioni possono maturare per il bambino non vedente una serie di effetti deleteri per il suo sviluppo globalmente inteso. Molti studiosi sono concordi nell’affermare che il cieco corre il grave rischio di turbe nello sviluppo della sua personalità, le quali dipendono in misura direttamente proporzionale al modo di percepire e vivere la presenza del disabile visivo da parte dei vedenti. Come dice il Galati nel suo “Vedere con la mente”, “ad una buona soluzione contribuisce, in notevole misura, l’atteggiamento dei familiari e delle persone affettivamente vicine al soggetto. L’accettazione sia cognitiva sia emotiva della cecità deve infatti avvenire anche da parte di queste ultime”. Solo questa doppia accettazione, che coinvolge il soggetto e gli altri attorno a lui, renderà più facile ed agevole il superamento della depressione e dei conseguenti atteggiamenti di autosvalutazione e di isolamento dall’ambiente. Il comportamento migliore di parenti ed amici consiste in un atteggiamento d’accettazione della persona cieca con tutti i cambiamenti che ciò comporta. L’approccio del non vedente Per alcuni studiosi sono principalmente quattro gli aspetti fondamentali che costituiscono le linee d’evoluzione, ma anche d’involuzione, del percorso di una persona di fronte alla sua limitazione visiva: il desiderio di vedere; il rifiuto di conoscere la propria condizione sensoriale; l’esperienza quotidiana del proprio limite sensoriale; il tipo di risposta all’insorgenza della minorazione nei suoi aspetti funzionali. Il desiderio di vedere, sia esso represso o lasciato libero d’espletarsi, è una necessaria valvola di sfogo e di fuga da una realtà che può assumere aspetti frustranti; tuttavia molti accreditati tiflologi ritengono che esso, se incanalato ed accolto, può evolvere da sterile desiderio a stimolo per realizzarsi. Quando esso si evolve non lungo la ricerca della concretezza ma in fantastiche elucubrazioni, la persona non vedente sviluppa alcune esperienze negative, quali il coltivare fantasie di puro desiderio che possono assumere aspetti di paradosso, o isterilirsi in atteggiamenti di rabbia, di rancore verso il mondo, di sfiducia e di depressione. Il desiderio di vedere, invece, se sorretto dall’esterno da comprensione, partecipazione emotiva e da opportuni inviti alla ricerca concreta di una realizzazione di sé e dall’interno, da volontà e forza d’animo per realizzare un rapporto empatico con il mondo del reale e del concreto, diviene grande forza propulsiva e spinta per realizzarsi da parte del cieco che diventa cosciente della propria diversità e la usa per integrarsi. Il secondo aspetto da esaminare è il rifiuto di conoscere la propria condizione sensoriale: premettiamo innanzi tutto che nessun cieco dalla nascita avverte spontaneamente la sua minorazione, è piuttosto il suo ambiente socio-familiare a dare ed a sancire la condizione della discriminazione facendo vivere in forma coatta e cogente la diversità. Sono gli altri, cioè, a trasmettere al cieco i pregiudizi del mondo ed a influenzarne lo sviluppo e lo strutturarsi della personalità. Solo un’autonomia vissuta in modo consapevole, può fare acquisire quella che giustamente il prof. Mazzeo chiama “la coscienza del limite”. Come ribadisce anche il Salmeri, il cieco insofferente rispetto alla propria condizione non è in possesso di un io ben strutturato, perché per lo più non fa altro che esternare inconsapevolmente il rifiuto del contesto in cui interagisce. L’insofferenza favorisce il consolidarsi dell’immagine della cecità come diversità, ma il principio che permette l’accettazione del minorato della vista è la solidarietà che presuppone un incontro nella somiglianza e, in un secondo momento, laddove essa emerga, nella diversità. Bisogna, quindi, intervenire prima sulle famiglie, affinché si rendano conto dei limiti ma anche delle potenzialità e possibilità del bambino, e poi sul bambino stesso che deve essere considerato un bambino come gli altri con un problema in più. Solo così potrà divenire un adulto cieco consapevole della propria minorazione ma cosciente delle sue enormi possibilità di realizzazione e promozione culturale e personale. Il cieco che avrà sviluppato “la coscienza del limite”, non sarà ossessionato dalle cose che non può fare, né tanto meno cercherà di nascondere la propria diversità, assumendo un atteggiamento mimetico, ma cercherà di operare con ogni energia nei campi in cui potrà essere alla pari con gli altri. L’insofferenza, il concepire la cecità come dolore, impediscono al cieco di capire che non occorrono particolari qualità per integrarsi e che è necessario un equilibrio tra ciò che si offre e ciò che si richiede alla società. È anche vero, d’altra parte, che il rifiuto di conoscere, malgrado sia, come abbiamo visto, un aspetto negativo e perturbante della cecità, può svolgere una funzione considerevolmente mitigante nel processo evolutivo di adattamento della persona non vedente di fronte alla propria minorazione. È risaputo, infatti, che l’impatto emotivo con i problemi della cecità varia considerevolmente in relazione all’età in cui insorge la minorazione: la perdita della vista costituisce un trauma che cambia completamente le modalità cognitive e le strategie di adattamento e dà luogo ad una sequenza di comportamenti emotivi che vanno dalla sensazione di perdita e morte di una parte di sé, ad una sensazione di perdita di identità. In un primo periodo di depressione viene messo in atto un vero e proprio comportamento di negazione del problema, un rifiuto di conoscere seguito da un successivo periodo di accettazione a livello cognitivo e di una terza fase di consapevolezza anche a livello emotivo. Per la soluzione del processo, è necessaria e fondamentale la prima fase, quella del rifiuto, perché in questo modo la persona può gradualmente prendere coscienza della nuova realtà con tempi e modi commisurati alla sue possibilità di rispondere con equilibrio. Pertanto il rifiuto di conoscere è una strategia adattativa che merita comprensione, con un atteggiamento da parte dei familiari e degli altri che renda più facile l’accettazione e conferisca al processo un andamento calibrato per ogni individuo, senza comportamenti ostinati e negativi. In tal modo, il rifiuto di conoscere diviene compatibile con la conoscenza della propria condizione sensoriale, assumendo una forma di non rinuncia al superamento dei propri limiti. Con il tempo tale atteggiamento diverrà sinergico e complementare alla conoscenza dei propri limiti: questa e la non rinunciabilità di un superamento dei limiti medesimi, rappresentano la forma più matura di una coscienza in cui realismo e tensione ideale si coniugano serenamente. Il terzo aspetto da esaminare è la qualità dell’esperienza quotidiana del limite sensoriale: ogni persona vive immersa in un suo ambiente psico-sociale e socioculturale che formerà l’individualità tipica di quella persona, la propria identità, il proprio sé. Nel bambino non vedente lo sviluppo psicologico segue un percorso differente da quello del bambino vedente: la mancanza di uno dei canali sensoriali, attraverso i quali si realizzano le esperienze più significative nei primi anni di vita, determina dei ritardi nelle principali fasi evolutive. A questo aspetto gravemente perturbante della minorazione si possono aggiungere interventi errati da parte della famiglia, della scuola o comportamenti ed atteggiamenti epistemologicamente deleteri del gruppo classe. Il non vedente, invece, se aiutato a conoscere le proprie reali possibilità, diviene capace di organizzare una propria identità, equilibrando le esperienze da lui fatte in ambito familiare con quelle più propriamente socio-scolastiche. Quanto affermato supporta la tesi per cui l’handicap sensoriale si manifesta spesso con pertubazioni e complicazioni di per sé non strettamente connesse alla disabilità, ma causate dall’ambiente in cui il cieco vive, e dal tipo di esperienze che vi può fare, da interventi educativi errati o tardivi che si possono tradurre in comportamenti che il Salmeri chiama atteggiamenti di “chiusura propriocettiva”, in base ai quali il non vedente tende a chiudersi nel proprio spazio corporeo perché al di là di esso non sa, o teme di sapere, dell’esistenza di un mondo più grande Gli interventi mitiganti, pertanto, debbono avvenire negli ambienti nei quali il non vedente vive e non appena si scopre l’handicap: tali interventi non devono essere limitati all’offerta di servizi ma devono comprendere consigli, incontri con genitori in situazioni analoghe, confronti di esperienze; soprattutto cercando di far crescere il bambino in un ambiente sereno e ricco di stimoli cognitivi e affettivi. Il quarto ed ultimo aspetto, il tipo di risposta alla minorazione nei suoi aspetti funzionali, ha l’effetto negativo, perturbante di far sentire il cieco, a causa di una errata impostazione dei rapporti familiari, un emarginato. Il risultato è che un soggetto privo della vista risponde al limite sensoriale restringendo il suo spazio vitale, per evitare un confronto frustrante con le difficoltà e con le barriere presenti nella sua condizione. Possiamo affermare che l’effetto perverso di tale aspetto è che la persona risponde al limite limitando la propria esistenza e conseguentemente la propria libertà. Questa risposta, che il prof. Mazzeo chiama “reciprocazione del limite”, nasce dalla poca o nulla fiducia negli strumenti cognitivi posseduti dalla persona non vedente (Grassi N.). LE RISPOSTE DI EQUILIBRAZIONE COGNITIVA NEL BAMBINO NON VEDENTE Sviluppo cognitivo e disabilità visiva Per sviluppo cognitivo si intendono i mutamenti che il bambino realizza nelle sue capacità di processamento dell’informazione e di conoscenza, attraverso l’esperienza in direzione del potenziamento delle capacità e dell’allargamento delle conoscenze: le strutture cognitive, infatti, si modificano sia in relazione al processamento dell’informazione, che all’organizzazione delle rappresentazioni. Il sistema cognitivo è organizzato in funzioni trasversali o dominio generali e in funzioni verticali o dominio-specifiche: esiste, tuttavia, una certa indipendenza, verosimilmente dovuta a predisposizioni genetiche di natura specifica che rendono possibile lo sviluppo delle singole abilità anche in condizioni di deficit cognitivo (Stella, 2000). Le abilità cognitive si riferiscono, in particolare, al riconoscimento e alla memorizzazione di principi di classificazione come per esempio saper distinguere volti noti da volti sconosciuti, essere certo dell’esistenza degli oggetti anche quando spariscono dal campo visivo, tattile o uditivo, saper riconoscere le similitudini e le differenze di esseri viventi, piante, oggetti o eventi, saper completare parti di informazioni in un “insieme sensato”, capire la connessione tra causa ed effetto ecc. (Brambing…). Nella descrizione e nella valutazione del bambino non vedente sembra importante distinguere fra aree di sviluppo direttamente colpite dalla cecità e aree di sviluppo influenzate in modo indiretto dal problema visivo. Secondo Troster e Brambing, le aree del primo tipo includono o presuppongono le capacità di coordinazione visuo-motoria: la loro completa maturazione è, comunque, impedita dalla cecità e difficilmente i deficit che ne conseguono possono essere completamente compensati col procedere dello sviluppo. Tali aree comprendono, ad esempio, le abilità locomotorie e di motricità fine. In contrapposizione, le aree del secondo tipo non presuppongono la coordinazione visuo motoria e quindi gli effetti indiretti nello sviluppo di tali aree, possono essere ampiamente compensati in seguito (per esempio sviluppo del controllo posturale, sviluppo sociale ed emotivo, sviluppo linguistico). Come evidenziato da Hatwell, le conoscenze accumulate negli ultimi decenni sulla visione e sullo sviluppo della percezione nei neonati, hanno rivoluzionato anche le concezioni sui ciechi e sulle loro potenzialità evolutive. Tradizionalmente, infatti, venivano enfatizzati gli svantaggi dei soggetti non vedenti nelle rappresentazioni spaziali ed erano attribuiti alla natura sequenziale dell'udito e del tatto, contrapposte alla presunta simultaneità del sistema visivo. La recente scoperta di due sistemi visivi distinti, quello focale e quello periferico, e della stretta connessione del secondo con il movimento degli occhi e della testa, seppure di breve durata, del processo esplorativo visivo. L'elaborazione dello spazio, che nei ciechi si realizza attraverso l'udito e il tatto, avverrà dunque più lentamente in questi soggetti, ma non in modo sostanzialmente diverso rispetto ai soggetti normodotati. D'altro canto un certo grado di svantaggio dei ciechi nella rappresentazione spaziale potrebbe essere legato alla specializzazione di ciascuna modalità sensoriale nell'elaborare dati provenienti da un campo specifico: il tatto, per esempio, sarebbe predominante per la conoscenza delle proprietà sostanziali dell'oggetto, mentre la vista sarebbe dominante per le conoscenze spaziali (Zanobini M., Usai M.C., ...). Analogamente, secondo la Celani, la cecità congenita ( o precoce) totale implica notevoli difficoltà nelle acquisizioni senso motorie elementari, nelle rappresentazioni simboliche di più alto livello, ecc.., praticamente in tutto ciò che concerne l’elaborazione cognitiva dello spazio. Queste difficoltà sono collegate alle caratteristiche dei due sistemi percettivi che prendono in carico la conoscenza dello spazio: l’udito e il tatto. L’udito è un sistema tele recettore soprattutto adatto alla localizzazione delle sorgenti sonore nello spazio, ma che apporta assai poche informazioni sulle caratteristiche degli oggetti stessi. Inoltre, a differenza di ciò che avviene per la vista, non si può sempre “distogliere l’udito” da ciò che interessa, o controllare le afferenze uditive (Coppa, 1997). In quanto al tatto, esso permette la conoscenza di quasi tutte le proprietà degli oggetti quali forma, grandezza, localizzazione spaziale, rigidità, peso, temperatura e così via. Ma a differenza della vista, il sistema tattile è una modalità di contatto che ha un campo percettivo molto esiguo e che difficilmente potrà compensare completamente gli effetti della minorazione sensoriale visiva: esso è poco adatto alla percezione di oggetti molto grandi o in movimento, del contesto ambientale nel quale questo movimento si svolge e, più in generale, delle conseguenze spaziali delle azioni motrici effettuate dal soggetto stesso. È, comunque, attraverso il tatto che il bambino scopre che il mondo esterno è popolato da oggetti afferrabili, manipolabili, che hanno un nome, un uso e una forma propria. La mano diventa così l’organo primario di percezione, senza perdere perciò la sua funzione esecutrice e il coordinamento visuo- motorio sarà sostituito dal coordinamento bimanuale e dal coordinamento udito-mano. Tuttavia, il bambino cieco attraversa un lungo e difficile cammino per arrivare al punto in cui la mano può localizzare e raggiungere gli oggetti, così da servire come un ponte tra sé e il mondo esterno. Le informazioni necessarie alla costruzione del mondo fenomenico devono quindi essere acquisite dal bambino non vedente oltre che attraverso il tatto, con l’udito e il comportamento motorio. Queste informazioni, unitamente a quelle fornite da descrizioni verbali, concorrono alla formazione di rappresentazioni mnestiche di tipo spaziale (Celani B., …….). Nonostante gli svantaggi a cui si è accennato, “il ritardo cognitivo nel bambino cieco è stato ridimensionato in tempi recenti anche in seguito ai contributi di Vianello che, in bambini con disabilità visiva di età compresa tra i 4 e gli 8 anni, ha riscontrato livelli intellettivi paragonabili a quelli dei bambini con sviluppo tipico. È, quindi, probabile che, in assenza delle eventuali disabilità intellettive associate ai deficit visivi, lo sviluppo cognitivo sia inizialmente ritardato; l’utilizzo del linguaggio verbale tenderebbe a compensare lo svantaggio derivante dal deficit, determinando un recupero delle funzioni cognitive già a partire dal periodo precedente all’inserimento nella scuola primaria. Il bambino non vedente, in altri termini, farebbe,maggiore ricorso alle funzioni linguistiche rispetto ai coetanei a sviluppo normale e questo dato, se da un lato favorisce lo sviluppo cognitivo in base all’elaborazione astratta dei dati, dall’altro può ostacolare lo sviluppo della conoscenza. Il fenomeno dell’iperverbalismo, ad esempio, è comunemente riscontrabile nel bambino cieco ed ipovedente. Esso consiste nel ripetere concetti o frasi che il bambino con disabilità sente utilizzare dagli adulti, senza la comprensione del loro significato. La presenza di questo fenomeno deve essere considerata nell’intervento educativo e anche se sembra attenuarsi con la maturazione cognitiva, è utile fornire spiegazioni chiare delle parole delle quali il bambino non conosce il significato, utilizzando sempre gli stessi termini ed evitando di utilizzare concetti sconosciuti, che potrebbero aumentare la confusione ed il disorientamento. Il mero deficit visivo non rappresenterebbe, quindi, un fattore determinante per il ritardo cognitivo, anche se la deprivazione sensoriale determina peculiari riorganizzazioni del sistema cognitivo che lo diversificano, almeno sul piano qualitativo, da quello del bambino vedente. Diviene, quindi, evidente come tali differenziazioni devono essere considerate nello sviluppo di modelli di intervento utilizzabili nell’ambito dell’integrazione scolastica” (Lo Sapio G., 2012). Se si vuole favorire lo sviluppo cognitivo del bambino non vedente, occorre cercare di garantirgli sufficienti possibilità affinché possa cogliere il massimo di informazioni uditive e soprattutto tattili attraverso oggetti concreti da tastare ed eventi da udire. Dato che l’elaborazione di informazioni tattili e uditive è rallentata, in rapporto all’elaborazione di informazioni visive, esiste il pericolo di una sovra richiesta dei bambini non vedenti quando li esponiamo ad un ambiente troppo ricco di stimoli. Il riconoscimento di principi di classificazione (per esempio il riconoscimento di caratteristiche diverse di due oggetti) è reso più difficile nei bambini non vedenti. Quando vogliamo insegnare similitudini e differenze, si consiglia di usare oggetti di struttura ben definibile e di facile esplorazione tattile. I piccoli non vedenti spesso usano un numero ridotto di oggetti, che adoperano in maniera più intensa rispetto ai coetanei vedenti. Ciò potrebbe indicare un altro processo di apprendimento e cioè che i bambini colgono le informazioni più lentamente, ma le elaborano in maniera più intensa.(Brambing….) Vicarianza dei sensi e vita intellettiva del non vedente Affrontare il tema della singolarità del conoscere in condizioni di cecità implica necessariamente un approfondimento delle modalità percettive attraverso i sensi vicarianti. Rispetto a questa tematica, la letteratura sembra concorde nell’affermare che non esiste una compensazione sensoriale magica. I ciechi non sono dotati di poteri straordinari, né la natura è tanto generosa da togliere un senso (la vista) e in cambio offrire prodigiosi compensi. Ecco perché si parla di potenziamento dei sensi dovuto sia a un laborioso esercizio personale, da cui deriva l’affinamento dei sensi residui, sia all’attenzione che trasforma il vedere in guardare, l’udire in ascoltare, il tastare in toccare. L’olfatto diventa più sensibile, così come l’udito e il tatto. Ognuno di questi sensi propriamente educato, sarà indispensabile nel processo di adattamento ed accettazione e sarà funzionale dal punto di vista pratico per la vita del soggetto. Affinché un individuo non vedente possa entrare in contatto con la realtà del mondo e conoscere, è indispensabile che i sensi residui vengano attivati in maniera complementare(…). In letteratura diversi autori hanno descritto l’udito come il “senso vicario” della vista soprattutto per ciò che concerne la percezione delle distanze e l’orientamento. L’udito è responsabile della localizzazione delle sorgenti sonore nello spazio, della percezione delle distanze e vi è, infatti, un sistema di lettura e scrittura costituito da puntini in rilievo, il sistema Braille, che si adatta perfettamente ai bisogni del tatto, che è più sensibile ai punti rispetto alle linee. Interessante è anche considerare il tatto come un mezzo attraverso il quale entrare in contatto diretto con gli altri. A conferma di ciò, Romagnoli afferma che un cieco, toccando la mano di una persona, riesce a ricavarne una serie di percezioni, difficilmente comunicabili, ma sufficienti per riconoscere. Le inferenze aptiche sono indispensabili nella costruzione delle rappresentazioni mentali dello spazio esterno e, insieme alle sensazioni sensoriali e propriocettive, permettono anche lo sviluppo dello schema corporeo (Dominici R., 2006). L’integrazione tra sensi e cervello permette una conoscenza più o meno verosimile del mondo circostante che è di tipo sequenziale-sincronico. I sensi, infatti, ricompongono a livello mentale immagini, non in maniera immediata, ma attraverso registrazioni successive (Dominici R., 2006). In particolare, il soggetto cieco costruisce la propria immagine del mondo attraverso percezioni significative: informazioni tattili, sonore e olfattive che associa e che costantemente mette in relazione con le esperienze precedenti. Egli organizza il proprio rapporto con il mondo a partire da immagini interne, nate dalle percezioni immagazzinate sottoforma di rappresentazioni mentali, che vengono rievocate dalla memoria in funzione delle esperienze successive. Per il disabile della vista l’esperienza e la memoria sono alla base della costituzione di una mappa cognitiva funzionale. Si tratta evidentemente di un comportamento attivo a cui, senza distinzioni, ricorrono tutti gli individui, ma che impone a chi non vede un più elevato impegno intellettivo (Fiocco A., 2006) Consideriamo ad esempio l’esplorazione tattile: in questo caso, una serie di passaggi percettivi determina la formazione nella mente di un’immagine dell’oggetto. Nel corso dell’esplorazione tattile, il cieco deve tener ferma nella memoria l’immagine schematica ed in essa inserire i particolari che emergono nel corso dell’analisi successiva, uno dietro l’altro. Ciò impegna la memoria, ma la capacità di astrazione: bisogna, infatti, astrarre ogni singolo elemento e metterlo nel posto giusto dell’immagine tattile generale, come avviene nella composizione di un puzzle. Attraverso questo processo si arriva, infine, alla sintesi che permette di formare mentalmente un’immagine tattile dell’oggetto. L’immagine tattile non viene, dunque, colta in modo immediato, ma si realizza nel tempo e non ha né la forza né l’immediatezza di una rappresentazione visiva, non rimane cioè impressa nella memoria in maniera indelebile, ma ha sempre bisogno di essere rinvigorita da nuove ripetizioni (Grassini A., 2006). Assimilazione, accomodamento ed equilibrazione cognitiva “Alla base della teoria piagetiana vi sono due concetti fondamentali che risentono fortemente della sua inclinazione biologica nell’affrontare il problema dello sviluppo cognitivo: assimilazione ed accomodamento. L’assimilazione viene concepita come un processo in virtù del quale ogni nuova informazione presente nella realtà esterna può essere assimilata dal sistema cognitivo, ponendola in relazione alle strutture della conoscenza già esistenti. In questo senso, per Piaget l’apprendimento non è mai una “cruda” associazione di stimoli e risposte, ma presuppone un certo grado di struttura nel sistema, tale da consentirgli di “ appropriarsi” di quella informazione (…). Piaget ritiene, infatti, che, affinché certi apprendimenti si possano verificare, ci debba essere un organismo “preparato” ad accoglierli; il concetto di readiness ha goduto di grande popolarità negli anni sessanta, soprattutto in ambito pedagogico, in relazione a quesiti importanti come quello sull’età in cui un bambino è pronto per affrontare l’apprendimento scolastico. L’accomodamento è il processo complementare, grazie al quale le strutture cognitive esistenti si modificano per adattarsi alla nuova informazione che è stata accolta. È soprattutto nel processo di riorganizzazione interna che sta il fulcro della flessibilità evolutiva del sistema cognitivo, che è, quindi, inteso come un sistema aperto e costretto a ristrutturazioni continue ma regolate in funzione dell’interazione con l’ambiente. Questi due semplici meccanismi sono i processi funzionali invarianti, biologicamente predeterminati, che caratterizzano tutto l’arco dello sviluppo. La loro azione combinata garantisce l’evoluzione del sistema, sia creando il necessario disequilibrio sia ripristinando l’equilibrio, in un processo continuo che Piaget definisce di equilibrazione dinamica, sottolineandone così il carattere provvisorio e la necessità di trovare sempre nuovi punti di equilibrio diversi da quelli raggiunti precedentemente. Piaget, da biologo, assume, infatti, che la tensione verso l’omeostasi sia una necessità biologica dei sistemi “autoregolantisi”. Ogni perturbazione esterna al sistema provoca uno stato transitorio di disequilibrio che il sistema tende ad annullare (tornando a una situazione di equilibrio) attraverso l’azione dei suoi sistemi di autoregolazione (…). Nell’ottica piagetiana, il sistema cognitivo si trova in uno stato quasi permanente di disequilibrio, a causa del meccanismo dell’assimilazione che lo vincola a interagire con l’ambiente, appropriandosene. Lo stato di disequilibrio viene temporaneamente eliminato riorganizzando la propria struttura interna attraverso il meccanismo dell’accomodamento; ma proprio la riorganizzazione pone le basi per nuove assimilazioni che non sarebbero state possibili in precedenza, in un ciclo che viene reiterato indefinitamente. Pertanto, proprio nella percezione del disequilibrio sta il “motore” dello sviluppo, la molla che crea la necessità biologica di ripristinare l’omeostasi del sistema , il che ha importanti ricadute sul piano educativo e sul piano clinico-riabilitativo: l’omeostasi fornisce una importante chiave cognitiva e motivazionale per promuovere, attraverso la creazione “controllata” di situazioni di conflitto cognitivo, l’acquisizione di nuove conoscenze in forme non astratte,.ma assimilabili dal sistema e capaci di innescare processi interni di riorganizzazione che garantiscono durevolezza e stabilità allo sviluppo (Stella G., 2000). Secondo Piaget, i processi di equilibrazione delle strutture cognitive, analogamente a quanto accade sul piano biologico, presentano una variabilità di risposte possibili, correlate in larga misura con le caratteristiche della realtà ambientale. Relativamente all’oggetto di studio del presente lavoro, cioè la condizione del bambino non vedente, è possibile ipotizzare una molteplicità di risposte di equilibrazione cognitiva e, nello stesso tempo, cercare di individuare una correlazione significativa tra ciascuna di queste risposte e le rispettive caratteristiche della realtà ambientale. Secondo Mazzeo è possibile descrivere tre fondamentali tipi di risposta di equilibrazione cognitiva che ricorrono frequentemente nel comportamento adattivo dei bambini non vedenti. È, inoltre, possibile ipotizzare alcune caratteristiche della realtà ambientale che faciliterebbero la comparsa di ciascuna di queste tre risposte. La risposta della reciprocazione del limite La risposta della reciprocazione del limite può essere principalmente riconosciuta nel comportamento sedentario del bambino cieco e in una complessiva riduzione e semplificazione della sua attività epistemofilica. Egli resta volentieri seduto al suo posto e dimostra scarsa curiosità nei confronti della realtà ambientale soprattutto per quanto concerne i sui aspetti propriamente fisici. La sua attenzione è rivolta prevalentemente alle sollecitazioni di tipo uditivo con le quali il bambino interagisce prevalentemente con attività di natura verbale. I suoi movimenti sono stereotipati, ripetitivi, frequentemente svincolati da un'attività propriamente cognitiva e apparentemente connessi più che altro con l'andamento della sua esperienza propriocettiva. Il suo comportamento verbale sembra orientato prevalentemente dall'aspettativa di protrarre la relazione sociale con l'altro ed appare pressoché privo di altre implicazioni operative. La sua attività percettivo-tattile ed immaginativo-motoria si esercita entro i limiti del suo ambiente di vita abitudinario, più che altro in relazione con i suoi bisogni primari e presenta comunque le caratteristiche della ripetitività. Eventuali mutamenti della realtà fisica ambientale non provocano generalmente una risposta di orientamento esplorativo sistematico, bensì una risposta di arresto, seguita da tentativi di ricerca disordinati e ridondanti. Il suo apprendimento ricettivo verbale può fornire performance anche molto apprezzabili, in particolare per quanto concerne la capacità mnemonica e la qualità sintattica dei procedimenti verbali. La risposta di reciprocazione del limite non esclude affatto l'apprendimento della lettura, della scrittura e della capacità di fare i conti, poiché tali attività possono essere apprese in condizioni di sedentarietà e presentano anch'esse caratteristiche ripetitive e stereotipate. In alcuni casi la motricità fine delle attività manuali può anche svilupparsi in attività eccellenti ma pur sempre confinate entro i limiti di un andamento ripetitivo tale da consentire il prevalere delle attività di assimilazione. Tale risposta assume il carattere dell'equilibrazione soltanto se considerata in rapporto con un ambiente di vita ristretto e semplificato, tutelato socialmente da un costante servizio protettivo. Il limite determinato dalla privazione della vista viene controbilanciato principalmente da un impoverimento e da una semplificazione dell'esperienza interattiva con l'ambiente. Sebbene il bambino possa comunque organizzare un processo di adattamento funzionale ed equilibrato, in ogni caso si tratta di un'omeostasi rigida, poco predisposta al cambiamento. L'attività percettivo-tattile viene sostanzialmente esercitata ed acquisita nel bambino ma in una dimensione prevalentemente ricettiva, molto scarsa di implicazioni esplorative. A lungo questo tipo di risposta è stata percepita e considerata un adattamento appropriato e naturale alla condizione di cecità. Generalmente i genitori del bambino cieco vivono con intense emozioni di pericolo le sue condotte di esplorazione e rinforzano la sua condizione di sedentarietà. In questo modo, il bambino cieco prende sistematicamente ad interagire con la realtà dell'ambiente fisico circostante, principalmente sulla base di una mediazione sociale che ovviamente risulta centrata soprattutto sulla comunicazione verbale. Le parole del bambino cieco assumono così i valori simbolici del movimento e diventano espressione naturale della sua vitalità, anche quando appaiono evidentemente prive di validità operativa. La risposta di appropriazione mimetica della funzione visiva Questo tipo di risposta può essere riconosciuta con evidenza nei casi in cui il bambino cieco si comporta in modo da utilizzare attivamente e intenzionalmente la funzionalità visiva delle persone presenti nel suo contesto socio-ambientale, focalizzando su tale iniziativa di recupero l'insieme dei suoi tentativi di integrazione sociale. In questo secondo caso, il bambino cieco non accetta i limiti imposti dalla condizione di sedentarietà e tende a muoversi nel suo ambiente, a rendersi conto della realtà che lo circonda, ma cerca di farlo in modo da non evidenziare gli aspetti più vistosi della propria diversità sensopercettiva. Egli tenta sostanzialmente di conformarsi alla condotta esplorativa dei bambini vedenti, avvalendosi il più possibile delle mediazioni verbali di cui può disporre socialmente. Generalmente si tratta di una condotta molto attenta, energicamente protesa a fare come fanno gli altri, ma decisamente riluttante nei confronti dei procedimenti esplorativi tattili, in particolar modo quando questi ultimi determinano una netta diversificazione sociale. Ecco perché tale risposta può definirsi "mimetica" in quanto in essa il comportamento di imitazione sembra orientare complessivamente la condotta cognitiva del bambino cieco. Si tratta, tuttavia, di una imitazione incongrua e spesso inadeguata, perché in essa i facoltosi tentativi di accomodamento sono più che altro funzionali a realizzare una situazione di conformità psicosociale anche a patto di sacrificare l'esperienza cognitiva. Tale risposta non esclude affatto l'apprendimento della lettura e scrittura Braille, ma implica una marcata preferenza per tutte quelle strategie volte a favorire un comportamento conforme alla condizione di chi vede. La risposta di appropriazione mimetica della funzione visiva tende ad organizzarsi generalmente in un contesto familiare caratterizzato dal rifiuto, più automatico che consapevole, di percepire gli effetti derivanti dalla minorazione visiva. Tale rifiuto viene però controbilanciato da un comportamento estremamente attivo dei familiari che tendono a sollecitare nel bambino l'acquisizione di abilità rilevanti sul piano sociale, tali da suscitare sentimenti di meraviglia ed ammirazione. In simili circostanza familiari, il bambino diviene, per così dire, iperstimolato protettivamente e non ha, pertanto, molte opportunità di sperimentare la propria condizione di solitudine esplorativa. Tale risposta si verifica più frequentemente nel caso di bambini che conservano un residuo visivo minimo, decisamente ipofunzionale ma tale da rinforzare nei familiari e nel bambino stesso le immagini della condizione di cecità. È come se i genitori restassero ancorati alla possibilità di restituire la funzione visiva al proprio figlio. La riposta di potenziamento compensativo Questa terza risposta si verifica quando il bambino non vedente tende a controbilanciare la privazione della vista prevalentemente attraverso una intensificazione della propria attività senso percettiva, confidando nell'iniziativa motoria e nella propria autonomia conoscitiva. In questo caso, il bambino utilizza integralmente l'efficacia esplorativa delle sue mani e interagisce autonomamente nello spazio ambientale circostante organizzando una buona coordinazione motorio-uditiva, diviene consapevole dei propri strumenti di azione e di conoscenza ed è in grado di accomodarli alle caratteristiche della realtà circostante. Nella risposta di potenziamento compensativo, l'attività percettivo-motoria diviene la via principale di emancipazione del bambino cieco così come avviene nel bambino vedente. Considerando anzi che la sensibilità tattile uditiva richiede un'attività percettiva più assida e laboriosa, si potrebbe dire che il bambino cieco dovrà assumere una condotta ancora più attiva di quella necessaria al bambino vedente nel momento in cui intende interagire con la realtà che lo circonda sulla base delle sue effettive e particolari possibilità di conoscenza. In questo caso, le funzioni di immaginazione e di rappresentazione assumono un ruolo cardinale nell'attività cognitiva del bambino cieco, in quanto costituiscono una mediazione preziosa ed insostituibile allo scopo di organizzare efficacemente le sue possibilità di orientamento percettivo motorio. La capacità di operare su strutture immaginative reversibili diviene un'abilità di base caratteristica del bambino cieco mediante la quale egli riesce ad acquisire un comportamento cognitivo ordinato sistematicamente. I MATERIALI TIFLOTECNICI Il Codice di letto-scrittura Braille Imparare a leggere e scrivere è essenziale per interagire con la realtà circostante, per scoprire la propria identità sociale e per esprimere le proprie potenzialità sul piano sia cognitivo che affettivo e creativo. A tal fine, i soggetti con disabilita visiva hanno a disposizione il sistema Braille che, secondo Quatraro e Ventura, può essere considerato come un codice che, a differenza dei codici più usati, non si rivolge all’occhio all’orecchio, ma al tatto (Quatraro E., Ventura E.,). Si basa su punti in rilievo e la sua caratteristica fondamentale è la semplicità con cui sono disposti, ma che, tuttavia, richiede a chi legge di compiere operazioni mentali e interpretare ciò che viene rappresentato sulla carta. I punti in rilievo hanno caratteristiche precise: sono collocati in un rettangolo immaginario con la base minore parallela al lettore e, in base ai numeri e alla collocazione nello spazio, assumono un significato diverso. Questo sistema di scrittura in rilievo che ancora oggi soddisfa pienamente le esigenze dei non vedenti sul piano tattile, fu inventato nel 1825 da Louis Braille. Il Braille “è un particolare strumento la cui acquisizione è fonte di conoscenza, di autonomia, di libertà di pensiero, di studio, di piacere estetico e di riflessione, di comunicazione denotativa e connotativa, di conferma dell’essere uomo attraverso la possibilità espressiva di un comune linguaggio simbolico, riconosciuto e letto dagli altri uomini, vedenti e non vedenti” (Arrighini E., Baudon C., Di Guida G., 2014). Il sistema Braille comprende 64 segni, derivanti dalle possibili combinazioni dei punti, con i quali si possono rappresentare, oltre alle lettere dell’alfabeto, anche i caratteri numerici e la notazione musicale, grazie all’utilizzo di speciali prefissi che non hanno alcun corrispondente nella scrittura ma che marcano il significato del segno che li segue. Ci sono alcuni accorgimenti generali necessari quando si intende insegnare a un alunno non vedente a leggere e a scrivere: innanzitutto si introduce l’alfabeto a partire dalla lettera più semplice, ossia la “a”, che è costituita da un solo puntino. Aggiungendo gradualmente uno o più puntini si costruiscono altre lettere. In ambito scolastico, la lettura e la scrittura Braille, così come l’utilizzo di altri strumenti tiflotecnici, vengono inizialmente presentate in forma di gioco. Le lettere dell’alfabeto possono essere proposte secondo ordini diversi; secondo Zaniboni, il metodo più efficace è quello di introdurre le lettere che permettano nel modo più veloce possibile, di costruire parole note, in modo che il bambino possa legare quell’apprendimento alle sue conoscenze pregresse. Gli altri accorgimenti da applicare sono i seguenti: Presentare in modo distanziato nel tempo le lettere e, i, d, e, f, in quanto sono speculari tra loro ed è facile confonderle; far scrivere e leggere, nella fase di apprendimento iniziale, a spazi separati e righe alternate; eliminare le spaziature eccedenti quando l’alunno sarà in grado di leggere correttamente, in modo che possa imparare a riconoscere e correggere gli errori da solo. Il periodo migliore per insegnare a un bambino cieco a leggere e a scrivere in Braille va dai 6 agli 8 anni. Normalmente, se non sussistono impedimenti particolari, l’alunno impara nella prima classe della scuola primaria come tutti gli altri. Purtroppo, però a volte, si verificano dei “ritardi” per cui si decide di rimandare l’introduzione del sistema Braille o non si forniscono adeguate occasioni per l’esercizio di questi apprendimenti. Nell’utilizzo del sistema Braille esistono anche difficoltà concrete tra cui, ad esempio, quella di non poter sempre disporre degli stessi testi adottati per i vedenti in quanto difficili da reperire. Ma al di là delle difficoltà, non esiste una motivazione valida per ritardare l’insegnamento del sistema, anzi questa scelta educativa comporta conseguenze negative per lo sviluppo del bambino non vedente, in quanto contribuisce ad aumentare le differenze tra lui e i compagni di classe (Bonfigliuoli C., Pinelli M., 2010). Tiflodidattica e ausili La storia della tiflologia, intesa come studio della cecitòà e delle sue molteplici conseguenze (psicologiche, sociali e culturali), è lunga e, a partire dal nostro stesso paese, ci sono stati padri fondatori, veri e propri intellettuali dell’educazione, non vedenti, che hanno svelato al mondo come, attraverso determinati percorsi, metodologie e scelte didattiche, sia possibile costruire un apparato pedagogico volto a portare il non vedente a conquiste culturali alla pari degli altri, a partire dalle proprie potenzialità, possibilità e intelligenza. Nel nostro specifico caso, si tratta di mettere il non vedente nella condizione di sfruttare al meglio le sue potenzialità in nome di un’uguaglianza delle opportunità. Ciò non significa dire che gli individui sono uguali, anzi, fortunatamente sono diversi, ma la scuola deve lavorare affinché tutti gli allievi vengano posti nella condizione di uguaglianza, nel senso di cercare di mettere tutti sulla stessa linea di partenza, tendendo conto dei tempi e delle modalità di ciascuno. Tale considerazione introduce la questione della metodologia e della didattica, degli strumenti necessari che consentono al disabile visivo di “allinearsi” agli altri. Per raggiungere tale obiettivo, occorre mettere in campo l’apparato della specificità della tiflodidattica che non è didattica “altra”, ma è didattica con aspetti differenziati nella scuola di tutti, è didattica a valenza integrata. Si parla di privilegio della specificità per alludere alle procedure, metodologie, strategie didattiche più opportune per far raggiungere al bambino, al disabile visivo, i risultati attesi anche attraverso l’utilizzo di ausili didattici specifici (Abba G.,). Un sussidio didattico si configura come il mezzo, lo strumento essenziale per la realizzazione del processo di apprendimento; il suo utilizzo a scuola ha come obiettivo rinforzare la concretezza delle esperienze e agevolare le rappresentazioni mentali del reale nei processi conoscitivi dell’alunno. Apprendimenti basati unicamente sul verbale sono addirittura dannosi per il non vedente, che ha bisogno di esperienze concrete per poter allacciare rapporti significativi con l’ambiente circostante. Il materiale didattico per non vedenti è finalizzato prevalentemente all’educazione della mano. I sussidi tiflologici hanno, infatti, caratteristiche specifiche che si adeguano alle esigenze della percezione tattile, per cui gli aspetti visivi devono essere subordinati (Bonfigliiuoli…..). A questo proposito, Augusto Romagnoli, da molti considerato l’iniziatore della tiflopedagogia italiana, parlava di parallelismo dei mondi sensoriali per cui anche gli altri sensi offrono informazioni, sono portatori di linguaggi. Egli non viveva nell’era multimediale, però questa affermazione è ancora di grande valore ed attualità. Gli altri sensi, infatti, permettono ed aprono la strada alla conoscenza e quindi all’apprendimento. Quest’ultimo parte dalla ricezione che, per il disabile visivo, è fondamentale e partecipativa. Se è vero che la scuola è una realtà formativa in cui l’allievo è soggetto del processo di crescita, allora è anche vero che tutto ciò che facilita i processi di partecipazione e apprendimento, va intensamente ricercato . Senza voler trascurare le opportunità formative offerte dai nuovi media, in questa sede, si è scelto di focalizzare l’attenzione su alcuni degli ausili tiflodidattici disponibili, individuati in virtù del loro essere centrati sulle modalità esplorative della percezione tattile e, pertanto, idonei a sviluppare le capacità di rappresentazione immaginativa del mondo oggettuale e di apparati simbolici, di elaborazione di processi di astrazione. Il materiale didattico per i disabili visivi si configura come specifico per la minorazione, ma deve “parlare” un linguaggio didattico comune. Quando l’insegnante si trova ad utilizzare tali sussidi, scopre che i processi cognitivi, gli obiettivi da conseguire, sono gli stessi stabiliti per tutto il resto della classe. Nel momento in cui si mette il non vedente nella condizione di leggere e scrivere attraverso il Braille, ad esempio, si sancisce il suo riconoscimento come persona ancora prima che come allievo. Lo stesso avviene quando si forniscono sussidi di ausilio all’apprendimento adeguati. Chi non vede, viene messo nella condizione reale di esprimersi a sé e agli altri affermando la propria individualità. Utilizzare materiali adeguati, concorre anche al mantenimento della motivazione che solitamente è legata al contatto visivo con lo stimolo percettivo. Nel disabile visivo, tale impossibilità provoca una perdita di interesse ed attenzione nei confronti dello stimolo stesso. Il materiale didattico, allora, concepito con caratteristiche di immediatezza percettiva, posto sotto le mani dell’allievo, svolge la funzione di collegamento, pone nella condizione dello “stare dentro”, costruisce il sentimento dell’esserci. (Abba G.) Tra i materiali tiflotecnici disponibili, si è scelto di considerare quelli che trovano applicazione nella scuola primaria e che sono, quindi, finalizzati a dotare il disabile visivo della strumentalità di base. Il Casellario Romagnoli. Si tratta di un casellario di legno formato da 100 prismi colorati, che collocati nelle sedi formate dalle intersezioni dei listelli di legno, compongono lettere e parole. Si tratta di uno strumento molto utile durante il primo approccio al sistema Braille, per gli esercizi di prescrittura, finalizzati all’acquisizione dei concetti di posizione, successione e lateralizzazione. La tavoletta Braille è il principale strumento per scrivere in Braille ed è costituto da tre elementi: una tavoletta con base scanalata, fatta di metallo o di plastica dura, un telaio, fissato alla tavoletta tramite una cerniera e un righello che scorre sul telaio. Tra il telaio e il righello, viene inserito un foglio di carta robusta che si fissa al piano, mentre il righello è costituito da due file di rettangolini, separati gli uni dagli altri da una barra di 1 mm: queste sono le sedi che, assieme alle scalanature della base sottostante, aiutano la persona non vedente a scrivere le lettere in modo ordinato. Le lettere vengono ricavate con un punteruolo non acuminato e, terminate le prime due file di rettangolini presenti sul righello, quest’ultimo viene fatto scorrere in basso. Per controllare ciò che è stato scritto, è necessario aprire la tavoletta, estrarre il foglio e voltarlo. La Dattilobraille è una vera e propria macchina da scrivere per non vedenti: nella versione meccanica vi sono sei tasti corrispondenti ai sei punti Braille, disposti in fila, un tasto per la spaziatura e due tasti funzione. Su ogni tasto-punto deve essere posto un dito: i due indici sui punti 1 e 4, i medi sui punti 2 e 5 e gli anulari sui punti 3 e 6; la spaziatura viene premuta con il pollice. Per scrivere le lettere, i tasti-punti devono essere premuti contemporaneamente, con un unico atto motorio, e si procede da sinistra verso destra. Questo strumento rende la scrittura molto più veloce rispetto alla tavoletta. Secondo Zaniboni, la dattilo braille va introdotta in un secondo momento, solo quando l’alunno avrà fatto proprio il metodo della tavoletta per una serie di motivi: in primo luogo è importante imparare a leggere e a scrivere, in quanto queste abilità consentono di acquisire uno strumento di comunicazione che deve poter essere utilizzato a necessità e quindi in diverse situazioni della vita quotidiana. Inoltre, la tavoletta obbliga chi scrive a compiere operazioni mentali più complesse nel caso dei non vedenti, mentre la scrittura a macchina consente di comporre direttamente le lettere nello stesso modo in cui vengono lette. In terzo luogo, l’apprendimento della letto scrittura implica il possesso di molte altre abilità, come la manualità fine, i concetti topologici e di lateralizzazione e l’orientamento spaziale e temporale. Poiché la sensibilità delle dita raggiunge la massima potenzialità intorno ai sette anni, il mancato esercizio in questa fascia di età ne causa la regressione. Per tutti questi motivi, la sovrapposizione dei due tipi di apprendimento può portare a difficoltà notevoli sul piano rappresentativo. È consigliabile, quindi, proporre i due sistemi in modo graduale, non in contemporanea e in funzione delle abilità del singolo soggetto. Il cubaritmo serve per eseguire operazioni aritmetiche: è composto da un casellario di plastica nelle cui sedi sono collocati piccoli cubi con lo spigolo di un cm. Su cinque facce del cubo vi sono segni Braille che, per rotazione, possono occupare posizioni diverse nello spazio e formare così i caratteri aritmetici desiderati. Il cubaritmo è utile soprattutto per lo svolgimento delle quattro operazioni e per l’incolonnamento in quanto consente una discreta velocità e segue le regole della disposizione in colonna comuni ai non vedenti. Il geopiano viene utilizzato per lo studio delle figure geometriche piane: si tratta di un piano di gomma sul quale sono presenti fori equidistanti e paralleli, all’interno dei quali si inseriscono i chiodi che corrispondono ai vertici della figura da realizzare; per definire i lati, invece, si tende un elastico intorno ai chiodi. Il cuscinetto è un cuscino di gommapiuma piatto e di forma quadrata su cui, tramite spilli, si fissa un cordoncino per poi disegnare figure geometriche o soggetti liberi. . È quindi utile per la coordinazione motoria bimanuale, il rafforzamento dei concetti topologici e lo sviluppo dell’immaginazione. Il cuscinetto si presta anche alla riproduzione di ciò che il soggetto non può toccare direttamente; nonostante ciò presenta anche alcuni svantaggi, fra cui tempi lunghi di realizzazione e l’impossibilità di conservare l’elaborato. In alternativa al cuscinetto, si può utilizzare il piano in velcro, sul quale il cordoncino aderisce perfettamente con una leggera pressione. Il piano in gomma e in feltro consiste in una tavola di legno rivestita da una gomma particolare; si fissa un foglio di plastica sul piano e con una biro a sfera si traccia il disegno che apparirà in rilievo. Le carte in rilievo per geografia, scienze e storia dell’arte rappresentano un tipo di materiale tiflodidattico che fornisce agli alunni non vedenti una conoscenza diretta, analitica e globale della realtà (Bonfigliuoli C., Pinelli M., 2010). Appare opportuno precisare che l’efficacia dei diversi materiali tiflodidattici, non risiede nella loro molteplicità, ma nello stimolo che possono dare all’attività immaginativa dell’alunno; in generale, in aggiunta agli ausili strutturati, sono da favorire sussidi costruiti in collaborazione con il bambino, che rendano piacevole e agevole il processo di conoscenza(Piccardi F.,) In pratica, la funzione di ausilio intrinseca nel materiale didattico, deve stimolare l’attività immaginativa del bambino non vedente, utilizzando la rievocazione e favorendo l’integrazione conoscitiva delle esperienze didattiche dirette e soggettive (Bonfigliuoli C., Pinelli M., 2010). Tutto ciò richiede all’insegnante una conoscenza approfondita della disabilità visiva e delle sue peculiarità non solo rispetto al deficit, ma anche rispetto alle metodologie e agli ausili utilizzabili e relativi alla problematica visiva. Di qui l’esigenza di una preparazione specifica sulle tecniche tiflodidattiche per adattare i contenuti e le metodologie utilizzate dai colleghi nella didattica di classe, che rende l’insegnante di sostegno un punto di riferimento e un mediatore tra i bisogni specifici del bambino e le richieste del contesto educativo comune. Rispetto ai materiali tiflodidattici utilizzati, l’insegnante ha il compito di far riflettere: sulle specifiche modalità dell’esplorare, del conoscere, del potenziamento dell’integrazione intersensoriale, in modo tale che il soggetto acquisisca consapevolezza percettiva. sulle potenzialità espressive e della verbalizzazione in modo tale che il soggetto acquisisca consapevolezza comunicativa. sui dati, sulle esperienze percettive, sulle conoscenze, sulle abilità e competenze in modo tale che il soggetto acquisisca consapevolezza cognitiva e metacognitiva. Più il soggetto acquista fiducia in sé stesso, nelle proprie capacità “alternative”, più sarà capace di utilizzare strategie adeguate alla risoluzione di problemi mettendo in gioco le potenzialità elaborative della mente. Altrettanto importante è la capacità di interazione fra il disabile visivo e gli altri. Il deficit visivo rimane, ma inciderà meno sulle potenzialità intellettive e su tutto l’insieme della personalità. Si può, dunque, affermare che il supporto fornito dal sussidio didattico fonda un criterio di riferimento per affrontare l’integrazione ed è inserito nel processo di normalizzazione in quanto sollecita la scuola a confrontarsi con lo svantaggio e a lavorare per superarlo (Abba G.). EDUCAZIONE DELLA MANO E ORIENTAMENTO SPAZIALE La percezione aptica Si dice: " abbracciare con lo sguardo, afferrare l'immagine, cogliere l'insieme. Abbracciare, afferrare, cogliere sono voci prese dal senso muscolare e tattile, e rimangono a testimoniare che da questi umili sensi l'occhio fu educato. Ma educato da essi, l'occhio li supera ben presto d'acume, prontezza e di sintesi. Cinquecentomila bastoncini della retina entrano in funzione contemporaneamente, eccitati dall'etere vibrante, e in ciascuno di essi chissà quante ancora sensazioni più semplici, con un complesso incalcolabile" Si delinea qui un'analisi della differenza dell'apprendimento e della conoscenza del mondo esterno tra i vedenti e i minorati della vista. A un osservatore superficiale può sembrare facile l'educare il cieco all'osservazione del mondo esterno: basta circondarlo di cose, basta fargliele toccare e descrivergliele per fargliele conoscere. In realtà, la persona cieca è privata del più efficiente sistema percettivo spaziale e deve quotidianamente fare i conti con una importante riduzione delle risorse cognitive; si pensi che oltre novanta per cento delle informazioni che l’individuo normalmente riceve, passano proprio attraverso il canale della vista. Sarebbe, però, errato pensare che la conoscenza del non vedente si avvalga esclusivamente di quel dieci per cento di informazioni restanti. Questi utilizza, invece, tutti quei dati multisensoriali provenienti dai sensi residui di cui il vedente, appagato dal messaggio visivo, fa abitualmente a meno. I sensi rimasti integri, definiti dagli studiosi sensi vicarianti, prendono in carico la ricezione e l’elaborazione combinata delle informazioni provenienti dall’esterno. Il cieco ricorre ad essi per ottenere i dati relativi all’ambiente e per interagire con esso. La realtà percettiva che ne consegue, ”seppur diversa, non è meno concreta ed oggettiva”. Ciascun senso residuo ha carattere proprio e veicola informazioni specifiche, divenendo, per ovvie ragioni di adattamento e di pratica, particolarmente abile ed efficace. Il tatto e l’udito sono ritenuti i più importanti, svolgono un ruolo fondamentale per l’orientamento spaziale; l’olfatto permette di ottenere informazioni momentanee per riconoscere luoghi o cose. Il tatto, seppure abbia il suo agente specifico nella mano, risulta il più esteso organo sensoriale, distribuito com’è sulla pelle dell’intero corpo. Grazie alla sua estensione, i ciechi possono apprendere moltissime informazioni che altrimenti andrebbero perse: ad esempio, sfruttando l’esplorazione tattile del suolo mentre camminano, avvertono variazioni nella pavimentazione che diventano forme significative da interpretare ed utilizzare.(Ceppi E., 1960). L'attività percettiva è governata da leggi specifiche per ogni organo di senso. Seppure il mondo che si presenta all'organo visivo e all’organo tattile sia il medesimo, esso viene tuttavia percepito in modo diverso perché, mentre il senso della vista è immediato e globale, solo per un esame approfondito si sofferma analiticamente sui particolari, la percezione aptica analizza dapprima le singole parti per poi risalire alla struttura unitaria dell’oggetto, attraverso un processo di sintesi. Per questo, il senso visivo tende primariamente alla percezione della forma, laddove quello aptico volge al riconoscimento della struttura (Revezs G., 1950). Elena Romagnoli Coletta, a tal proposito, afferma che la percezione del cieco è naturalmente analitica e, solo più tardi, è possibile passare alla sintesi. Tuttavia, non si deve pensare che l’analitico del non vedente corrisponda ad un’osservazione dell’essenziale, in quanto è solo una distinzione di una parte dell’oggetto. La vera e propria analisi, ossia la conoscenza dei vari elementi che caratterizzano l’oggetto, è frutto appunto di un’osservazione guidata volta a coordinare, in uno schema esatto, le sensazioni tattili e muscolari. Il campo della percezione aptica varia, pur nei limiti dati dall’ampiezza delle braccia, a seconda della volontà del soggetto: i movimenti esplorativi possono limitarsi ad un unico dito, interessare l’intera mano o percorrere l’oggetto con entrambe le mani, strategia che permette di coglierne meglio la spazialità. Le modalità esplorative di base possono, quindi, variare; i ciechi usano maggiormente il «grip», che consiste nel far scorrere contemporaneamente più dita, mentre chi vede sembrerebbe seguire in misura maggiore modalità di «top sweet», esplorazione cioè con il solo dito indice. Nell’esplorazione tattile degli oggetti, i ciechi commettono meno errori rispetto ai vedenti proprio perché la strategia da loro utilizzata fornisce simultaneamente un maggior numero di informazioni. L’uso di tutte le dita e l’uso congiunto di entrambe le mani, agevola la ricognizione di informazioni, anche se in ultima istanza, la modalità favorita sembrerebbe quella del movimento alternato delle mani e delle dita (Asini R., Antonietti A., 1992). Una serie di passaggi percettivi, frutto di un corretto iter educativo, porta alla formazione dell’immagine mentale: si attua dapprima un’esplorazione rapida e veloce per formare nella mente un’immagine estremamente semplificata dell’oggetto (scoprire di cosa si tratta, dargli un nome, inserire l’oggetto dentro una categoria, farsi un’idea globale). Acquisita questa informazione generale, si attua un esame più particolareggiato. Nel corso dell’esplorazione tattile il cieco deve tenere ferma nella memoria l’immagine schematica ed in essa inserire i particolari che emergono nel corso dell’analisi successiva, uno dietro l’altro. Ciò impegna senza dubbio la memoria ma anche la capacità di astrazione: bisogna astrarre ogni singolo elemento e metterlo nel posto giusto dell’immagine tattile generale, come avviene nella composizione di un puzzle. Attraverso questo processo, si arriva, infine, alla sintesi che permette di formare mentalmente un’immagine tattile dell’oggetto. L’immagine tattile non viene, dunque, colta in modo immediato, ma si realizza nel tempo e non ha né la forza né l’immediatezza di una rappresentazione visiva, non rimane cioè impressa nella memoria in modo indelebile, ma ha sempre bisogno di essere rinvigorita da nuove ripetizioni. Diversamente, invece accade per il primo contatto dell’oggetto sotto le dita, la prima sensazione tattile che funge da punto di partenza per la formazione dell’immagine mentale, è l’elemento attorno a cui si forma il concetto ed il futuro ricordo dell’oggetto e resterà indelebile nella memoria. La percezione della figura, che alla fine di un lungo processo intellettivo ricostruisce l’oggetto nella sua unità, è qualcosa di diverso della semplice sensazione, dipende dalla capacità di connettere insieme le diverse parti percepite. In ciò appare evidente come l’intelletto abbia un ruolo da protagonista rispetto al senso (Hatwell Y., 2004). L’educazione della mano: itinerari possibili Da quanto affermato, emerge che, per il bambino non vedente, uno dei pre requisiti fondamentali ai fini dell’apprendimento e, di conseguenza, della sua autonomia, è l’educazione della mano. Le mani sono per lui il mezzo principale di conoscenza e contatto con la realtà; attraverso il tatto, egli può strutturare le immagini sulle quali si basano i concetti e sviluppare di conseguenza la capacità di conoscere e ragionare; pertanto, più tocca e più impara. Le Breton afferma che “ il bambino cieco che non impara a toccare rimane ai margini del mondo, sempre bisognoso dell’altrui assistenza. Le sue mani sono incapaci non per un difetto biologico ma perché non sono state educate”(Le Breton D., 2007). Augusto Romagnoli concepì per primo un intervento educativo e scolastico finalizzato a promuovere l’integrità umana del bambino cieco. Il suo metodo si fondava sulla convinzione che la minorazione visiva non altera il funzionamento psichico nelle sue strutture generali bensì riduce e modifica alcune coordinazioni senso-percettive, così da rendere più lento, contraddittorio e frustrante un normale sviluppo cognitivo e sociale. In tale contesto, Romagnoli considerava di prioritaria importanza l’educazione della mano. L’educazione della mano, che consente, tra l’altro, al bambino non vedente di accedere alla cultura attraverso il possesso del codice Braille, si concretizza nell’educazione alla rotazione del polso, nella prensione palmare, nell’educazione alla discriminazione tattile (sensibilità dei polpastrelli) delle forme, dei pesi, delle grandezze, nonché della diversità e dell’uguaglianza dei materiali che costituiscono gli oggetti (metallo, legno, plastica,ecc.), nella motricità fine, che consiste nell’educare i polpastrelli delle dita a toccare con leggerezza, nella capacità di manipolazione degli oggetti. Per lo sviluppo di queste abilità, si può adoperare il materiale più vario, da quello strutturato ( incastri per costruzioni, solidi geometrici, casellario Romagnoli) a quello occasionale; altrettanto utili sono i vari esercizi relativi all’arrotolare, allo strappare, allo sciogliere dei nodi, al fare delle palline con materiale plastico e schiacciarle tra l’indice ed il pollice, ovvero le dita che serviranno prevalentemente per la lettura. Il bambino va educato non a toccare, a stringere passivamente gli oggetti, bensì a riconoscere, innanzitutto, la realtà per intero, partendo dalla sua forma e passando via via al riconoscimento delle diverse caratteristiche dell’oggetto ( Alliegro M, 1993). Attraverso queste attività, si mira, in pratica allo sviluppo della abilità manuali, ovvero quelle attività di motricità fine svolte con le braccia e con le mani. Quando si parla di attività manuali si fa riferimento ad azioni come l’afferrare, il tenere, il tastare, il prendere, il costruire, l’inserire, il tagliare, l’impastare. A questo proposito, individuare tre tipologie di attività manuali: Le attività in cui si tiene un oggetto. Le attività esplorative. Le attività di coordinazione e manipolazione Per le attività in cui si tiene un oggetto in mano, la vista gioca un ruolo subordinato, mentre nelle attività esplorative, il senso visivo e quello tattile hanno ognuno un ruolo molto specifico. La ruvidità o la consistenza di un oggetto, ad esempio, possono essere valutati meglio con il tatto che con la vista (…). Nell’intervento didattico-educativo è importante concedere ai bambini non vedenti tante occasioni in cui possono fare esperienze tattili diversificate migliorando così le loro abilità manuali e la percezione degli oggetti. Spesso si osserva che i bambini non vedenti sviluppano un’enorme competenza nella percezione degli oggetti, nella maggior parte dei casi basta un leggero tocco di una piccola parte dell’oggetto per far sì che lo riconoscano. I problemi maggiori nello sviluppo delle abilità manuali nel bambino cieco sono le attività di coordinazione e di manipolazione come ad esempio afferrare un oggetto oppure aprire una porta con la chiave: nel primo caso il bambino deve imparare un movimento di afferramento preciso e mirato, mentre nel secondo è richiesto l’uso di un «mezzo»e il «mettere insieme» in maniera adeguata due oggetti in base alla loro funzione. Occorre, pertanto, proporre al bambino disabile visivo delle situazioni in cui possa imparare ad afferrare in maniera mirata. Anche le abilità di manipolazione necessitano di interventi adeguati dal momento che esse richiedono un lavoro coordinato di entrambe le mani come per esempio costruire una torre con dei cubi. Per queste abilità di manipolazione, il bambino ha a disposizione solo le informazioni tattili, cinestesiche e propriocettive che non gli consentono al bambino di svolgere le relative attività con successo, soprattutto quando richiedono una certa precisione nell’esecuzione. Il bambino sarà in grado di svolgere adeguatamente queste attività solo dopo che le avrà comprese grazie ad istruzioni verbali e dimostrazioni pratiche durante le quali gli si guida la mano (Brambing M., 2004). Bonfigliuoli e Pinelli parlano di «guida fisica» per alludere all’assistenza fisica al bambino durante l’attuazione di uno specifico movimento, in modo che possa percepire il ritmo e la coordinazione necessari per eseguirlo. Si tratta di accompagnare e posizionare la parte del corpo del soggetto per mostrargli in modo chiaro i movimenti necessari per realizzare una certa attività. In questo modo, il bambino non vedente riesce meglio a comprendere i feed back propriocettivi che lo stimolo tattile suscita in lui e ciò gli permette di ricavare informazioni su come va effettuato un certo movimento. Se un bambino non vedente non riesce ad apprendere tramite la dimostrazione e non riesce a sfruttare semplicemente le indicazioni verbali, può essere funzionale ricorrere a stimoli tattili in aggiunta alla guida fisica. Secondo le autrici, l’uso di queste strategie educative consiste nel fatto che il bambino non vedente riesce a comprendere meglio i feed back propriocettivi che lo stimolo tattile suscita in lui e ciò gli permette di ricavare informazioni su come va effettuato un certo movimento. In pratica, la guida fisica gli fornisce uno stimolo cinestesico relativo alla propria posizione nello spazio che indirizza verso il movimento corretto, ne aumenta la comprensione e porta il soggetto ad essere più controllato e più consapevole delle proprie azioni; ovviamente gli stimoli tattili e la guida fisica devono essere diminuiti man mano che il bambino acquisisce maggiore sicurezza e progredisce nell’apprendimento (Bonfigliuoli C., Pinelli M., 2010) La progettazione didattica da parte dell’insegnate dovrà essere preceduta da un’attenta osservazione che consentirà di individuare sia il contesto socio-familiare in cui il bambino è inserito, sia le tipologie di esercizi ed attività da proporgli. Un bambino che nel proprio contesto familiare è stato vissuto come non abile, incapace, manifesterà senz’altro rigidità delle falangi, incapacità di manipolazione e sarà carente nella motricità fine; in questo caso, quindi, prima di proporre attività finalizzate all’acquisizione degli apprendimenti di base di lettura, scrittura e calcolo, sarà opportuno lavorare sui pre requisiti quale è l’educazione alla percezione aptica. Al contrario, un bambino che ha imparato a non vivere la propria disabilità come un limite e che quindi non manifesta problemi nella motricità e nella manipolazione, chiaramente potrà essere subito iniziato, ad esempio, all’acquisizione del codice Braille. La presenza di un disabile visivo può essere anche l’occasione per proporre all’intera classe percorsi o attività di consapevolezza sensoriale, di cui può giovare non solo il bambino non vedente, ma anche i suoi compagni ai quali si offre la possibilità di comprendere meglio le difficoltà e competenze del loro compagno, accostandosi gradualmente alle peculiarità di questo canale sensoriale. Incoraggiare tutti i bambini ad usare le mani per conoscere e per fare, è un indirizzo pedagogico affermato che può essere una risorsa per tutti; nel bambino con disabilità visiva, in più c’è la valenza compensativa che promuove un potenziamento della sua conoscenza. Attraverso la condivisione di giochi quali la tombola tattile o il memory tattile, i bambini con gli occhi bendati possono sperimentare l’uso del tatto divertendosi. Nell’ambito di una didattica inclusiva, può essere utile anche la presentazione e condivisione del codice Braille che, come dice Basciani, “è un particolare strumento la cui acquisizione è fonte di conoscenza, autonomia, libertà, pensiero, piacere estetico e riflessione, di conferma dell’essere uomo attraverso la possibilità espressiva di un comune linguaggio simbolico, riconosciuto e letto dagli altri uomini vedenti e non vedenti”. È evidente,quindi, l’importanza del sistema Braille come forma di integrazione all’interno di una classe. Stessa valenza può essere attribuita anche ai libri tattili che nascono per rispondere alle necessità educative dei bambini con minorazione visiva, ma in realtà possono essere fruibili ed utilizzabili da tutti, rispondendo al principio della condivisione plurisensoriale. La lettura plurisensoriale, infatti, attraverso libri che si possono toccare, manipolare, guardare, rappresenta una notevole fonte di sviluppo per ogni alunno, un arricchimento da non sottovalutare anche per i bambini che non hanno problemi di carattere visivo. Sempre nell’ottica di un coinvolgimento dell’intera classe, è possibile realizzare produzioni tattili utilizzando materiali di diverso tipo ed origine come sabbia, sassolini, cartoncini, legno, stoffe; lo stesso utilizzo della colla, ad esempio, diventa occasione per tutti per sperimentare nuove sensazioni. Nelle varie attività proposte, può essere utile dividere la classe in piccoli gruppi in quanto la dimensione del piccolo gruppo è la più consona a rendere il bambino non vedente più partecipe sul piano percettivo, più attivo sul piano operativo, più propositivo sul piano sociale; infatti, nel contesto del piccolo gruppo, l’attribuzione dei ruoli è chiara, la turnazione dei partecipanti è definita e il bambino può sviluppare con maggiore autonomia, la propria partecipazione con i compagni (Arrighini E., Baudon C., Di Guida G., 2014). In conclusione, si può affermare che stimolare la motivazione dell’esplorazione tattile, educarla e sostenerla, condividere con i vedenti i contenuti tattili approfondendo così le relazioni tra vedente e non vedente senza una discriminazione dovuta al deficit visivo, ma anzi puntando sulla condivisione delle due esperienze cognitive, sono alcune delle azioni che si possono intraprendere per superare le barriere culturali e fisiche che riguardano alcune categorie di persone come i disabili visivi e, nel contempo, per avviare un percorso di integrazione del non vedente in un mondo in cui “ l’egemonia della vista è nelle nostre società, il riferimento primo. L’educazione sensoriale diventa il modo attraverso il quale il bambino non vedente si congiunge con il mondo”(Le Breton D., 2007). L’orientamento spaziale: proposte didattiche inclusive Le problematiche attorno alle quali si sviluppa l’idea di crescita e autonomia del bambino con disabilità visiva all’interno del contesto scolastico, sono complesse e diversificate. Della questione della vivibilità del contesto, ad esempio, si è discusso a lungo, cercando di stabilire, anche dopo l’introduzione della legge 517/77, se non fosse meglio continuare a educare i bambini con disabilità visiva all’interno di istituti speciali. Tali luoghi erano, infatti, organizzati in funzione delle loro specifiche esigenze, affinché i bambini si potessero muovere in autonomia e con disinvoltura, sapendo di trovarsi in un ambiente protetto, insieme ai coetanei con lo stesso tipo di deficit. Il concetto pedagogico che veniva perseguito era la «normalizzazione del cieco», prerequisito per l’inserimento in società; fino agli anni quaranta, addirittura, si suggeriva alle famiglie dei ragazzi ospiti degli istituti di non farli rientrare per le vacanze estive, per timore che regredissero negli apprendimenti raggiunti fino a quel momento. Tuttavia gli istituti mancavano di alcune fondamentali qualità quali la crescita equilibrata dei bambini, gli stimoli affettivi e la possibilità di socializzare, in quanto le regole previste al loro interno, ostacolavano la creazione di rapporti profondi, con conseguenze negative sul piano dell’adattamento sociale. Alcuni autori ritengono che, nel caso particolare della disabilità visiva, uno degli aspetti di cui ogni insegnante dovrebbe tener conto nell’ottica di promuovere l’autonomia del bambino, è quello relativo alla mobilità, ovvero il fatto che il bambino deve imparare a muoversi ed orientarsi con disinvoltura sia all’interno degli spazi scolastici sia all’esterno. Risulta, quindi, chiaro come l’ambiente meno strutturato e più naturale della scuola possa offrire ai bambini non vedenti maggiori stimoli educativi; nonostante ciò, il contesto scolastico non sempre è «attrezzato» per rendere efficienti ed efficaci questi stimoli. Per «attrezzato» si intende proprio la strutturazione degli ambienti, delle aule, dei corridoi, che devono garantire al non vedente l’autonomia negli spostamenti. Un bambino che entra per la prima volta in un ambiente sconosciuto come quello scolastico, vive inevitabilmente emozioni di ansia e paura poiché, lontano dagli spazi e dai volti conosciuti e rassicuranti presenti in famiglia; a maggior ragione, se ha una disabilità visiva, vivrà un’ansia e un’angoscia maggiori perché privo di punti di riferimento che possano rassicurarlo sul fatto che si trova in un luogo nuovo ma amichevole e non pericoloso. Di qui l’importanza delle attività di orientamento e mobilità, definite da Brambing come la capacità di spostarsi verso una meta precisa, passando da un luogo all’altro. Si distinguono in abilità di «orientamento spaziale», quando il punto di arrivo è percepibile direttamente da quello di partenza, e «abilità di orientamento geografico» quando, invece, il punto di arrivo non è percepibile nel momento in cui ha inizio il movimento (ad esempio nello spostamento da una stanza all’altra senza l’aiuto di stimoli sonori). Ovviamente la vista rappresenta il canale preferenziale per l’orientamento in quanto permette di percepire contemporaneamente tanti stimoli, di localizzarli e di comprenderne i rapporti spaziali. In particolare, svolge quella che è stata denominata «funzione percettiva», che permette cioè di riconoscere in anticipo un eventuale pericolo. Mentre i bambini vedenti apprendono i rapporti spaziali fra gli oggetti molto prima di camminare autonomamente, quelli con disabilità visiva possono comprendere la struttura spaziale dell’ambiente in cui sono inseriti solamente se capaci di camminare da soli e, quindi, di esplorare autonomamente e attivamente il contesto (Brambing M., 2004). Questo processo di apprendimento per i bambini non vedenti è particolarmente complesso e faticoso perché né il canale uditivo, né quello tattile forniscono la stessa quantità di informazioni rispetto al canale visivo. Mentre il canale visivo fornisce sufficienti informazioni per raggiungere una meta, le informazioni acustiche e tattili devono essere associate a livello cognitivo per poter essere di aiuto al bambino (…). Solo con una maggiore acquisizione di abilità cognitive e di linguaggio, il bambino non vedente sarà in grado di raggiungere alcune abilità di orientamento(Brambing M., 2004). La costruzione immaginativa dello spazio deve costituire, pertanto, una delle maggiori preoccupazioni didattiche dell’insegnante nel periodo della prima scolarizzazione, poiché si tratta di un elemento inderogabile dell’autonomia motoria e dell’autonoma deambulazione (…). La costante e progressiva costituzione di un quadro mentale dello spazio e le correlate immagini propriocettive ed esterocettive, sono connesse alla graduale maturazione del senso percettivo, ovvero dei sensi vicarianti residui il cui idoneo sfruttamento permetterà al soggetto di potersi ben orientare nell’ambiente circostante. Un corretto orientamento spaziale per chi non vede, è un fondamentale traguardo su cui poggiano la capacità di muoversi in maniera finalizzata, l’attitudine all’esplorazione dell’ambiente, la sperimentazione di sempre nuove realtà che saranno per il soggetto, un arricchimento umano e culturale, contribuendo significativamente alla formazione della sua personalità di base. Tutte le percezioni sensoriali, l’individuazione degli ostacoli e delle sorgenti sonore, olfattive e termiche, l’avvertimento delle oscillazioni dell’aria in movimento e degli sforzi muscolari, rappresentano importanti elementi per la costruzione di quadri spaziali immaginativi che l’insegnante deve favorire nell’alunno attraverso situazioni stimolo dal vivo o con l’ausilio di sussidi (casellario Romagnoli, pezzi per costruzioni, mattoncini in legno, carte topografiche in rilievo per i percorsi effettuati o da effettuare da parte del bambino). Il bambino deve essere dotato del maggior numero possibile di immagini guida di inequivocabili e precisi punti di riferimento spaziali nell’approccio con le diverse realtà ambientali. La chiarezza delle indicazioni, la precisione nel descrivere verbalmente i dettagli, la preventiva ricognizione tattile degli ambienti, dei luoghi, dei percorsi, si pongono come fattori imprescindibili per lo sviluppo di chiare idee del mondo circostante. Per i primi contatti con la realtà, è sempre necessaria la ricognizione guidata e graduale di ambienti quotidianamente praticati dal bambino partendo, ad esempio, dall’aula scolastica di cui egli deve conoscere la forma, le dimensioni, le diverse aperture (porte, balconi, finestre) e la disposizione rispetto ad altri punti di riferimento. Occorre, tuttavia, tener presente la necessità di non sostituirsi mai al bambino il quale deve impegnare, esperire ogni sua risorsa per risolvere ogni piccolo problema, sempre sotto il vigile sguardo dell’adulto. Al fine di fornire al bambino un quadro immaginativo dello spazio, possono essere utili alcune situazioni stimolo. Considerato un punto di riferimento spaziale o una realtà ben evidenziata (un pilastro, una finestra ecc.), si invita il bambino a percorrere la propria aula lungo le mura perimetrali, scorrendo con la mano sulle pareti, al fine di rendersi conto della lunghezza di questa, degli eventuali ostacoli costituiti dalla presenza di pilastri, delle deviazioni da compiersi. Ripetuta più volte questa esperienza, si può chiedere al bambino di riprodurre una piantina della realtà osservata, con un disegno sul cuscinetto di gommapiuma, fissandovi il cordoncino con degli spilli, o modellando della creta, o utilizzando pezzi da incastro. La più o meno corretta riproduzione di quanto è stato osservato, fornisce all’insegnante elementi di valutazione utili a stabilire la correttezza del quadro immaginativo spaziale creato dal bambino. Dopo aver appurato la corretta costruzione immaginativa spaziale dell’aula, si può invitare il bambino ad una ricognizione di quanto si trova nell’ambiente, partendo da precisi punti di riferimento e procedendo nell’esplorazione, con un certo ordine direzionale, affinché il soggetto non abbia difficoltà ad orientarsi. È opportuno che le prime esplorazioni ambientali avvengano in luoghi ampi, poveri di arredi e oggetti che potrebbero creare al soggetto degli inconvenienti senso percettivi e nell’orientamento. Fissate delle immagini guida, si chiede al bambino di effettuare dei percorsi finalizzati al raggiungimento di una meta, che può essere l’aula adiacente alla propria, i servizi igienici, la palestra. Anche in questo caso, si procederà alla valutazione della correttezza del quadro immaginativo spaziale (Alliegro M., 1993). In queste attività resta di primaria importanza il coinvolgimento degli altri bambini che, bendati, possono svolgere gli stessi esercizi giungendo, in questo modo, anche a sviluppare una maggiore consapevolezza della condizione di disabilità vissuta dal compagno. Oggetto di altre proposte didattiche possono essere i molteplici pre requisiti alla capacità di orientamento, quali sono ad esempio i rapporti topologici. A tal proposito si possono proporre esercizi quali: invitare i bambini a sollevare in avanti prima, il braccio destro, poi, il sinistro e viceversa. Invitare i bambini a sollevare in avanti prima, la gamba destra, poi, la sinistra e viceversa. Disporsi di fronte a ciascun bambino, invitandolo ad indicare quale sia la destra e quale la sinistra di chi lo osserva, e quale sia la sua destra e quale la sua sinistra (considerando l’età e lo sviluppo intellettivo del bambino, si può affrontare il discorso sull’immagine speculare, che il bambino si troverà a sperimentare direttamente con più di un simbolo dell’alfabeto Braille). disponendo degli oggetti sulla destra e sulla sinistra del bambino, lo si invita ad indicare quale oggetto sia sulla destra e quale sulla sinistra, rispetto a sè stesso e, poi, rispetto a chi lo osserva. chiedere al bambino di camminare in linea retta, segnalandogli la direzione con la voce o con un fischietto, invitandolo, poi, a svoltare sulla destra o sulla sinistra. Trattandosi di abilità legate al processo di lateralizzazione e, come tali, sottese, al processo di acquisizione della letto-scrittura, gli esercizi proposti conservano la loro intrinseca efficacia anche per il resto della classe.