la minorazione visiva

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la minorazione visiva
LA MINORAZIONE VISIVA
Definizione e caratteristiche
Per “minorazione visiva” si intende una riduzione più o meno grave della funzione
sensoriale, che consegue a un danno a carico dell’apparato visivo. Il coinvolgimento
patologico può interessare non solo il bulbo oculare, ma anche i suoi annessi, le vie nervose
che veicolano gli stimoli visivi verso il sistema nervoso centrale, nonché la corteccia
cerebrale (Cottini L., 2008). Le persone con deficit visivo sono genericamente quelle affette
da una menomazione agli organi e alle strutture riguardanti la vista, o interessate da
un’alterazione delle funzioni collegate a questo senso (Gargiulo M.L., Dadone V., 2009).
Come punto di partenza, è importante tenere presenti almeno tre diversi aspetti della
situazione di minorazione visiva, affinché sia possibile iniziare ad orientarsi
La funzione visiva globalmente intesa comprende numerose capacità percettive specifiche,
quali l’acutezza visiva, il campo visivo, la sensibilità al contrasto, il riconoscimento dei
colori, il senso del rilievo, la resistenza all’abbagliamento, le capacità all’abbagliamento e
all’adattamento, la percezione del movimento ecc. Quando si verifica un danno del sistema
visivo, alcune capacità percettive possono risultare alterate più di altre e la quantificazione
precisa del deficit richiede un esame funzionale completo che non può far parte della
comune routine clinica.
Dal punto di vista classificatorio, pertanto, occorre valutare soprattutto le due capacità
percettive principali, quelle, cioè, che consentono all’individuo di interagire con l’ambiente
e di mantenere una completa autonomia nella vita di tutti i giorni: l’acutezza visiva ed il
campo visivo. Le altre capacità sono meno importanti, poiché, pur completando e
migliorando la qualità della visione, non possiedono un peso così determinante nella
funzionalità visiva dell’individuo.
L’acutezza visiva è la capacità di riconoscere nei minimi dettagli l’oggetto fissato. Essa
dipende dall’elevato potere risolutivo presente nella macula, piccola parte centrale della
retina, e dalla integrità delle vie nervose che si originano dai neuroni presenti a questo
livello.
Il campo visivo è la capacità di percepire in modo indistinto gli oggetti che compongono
l’ambiente nel cui centro si trova l’oggetto fissato. Tale capacità dipende dall’intera retina
extramaculare, fino alla sua estrema periferia, e dall’integrità delle vie nervose che
provengono dai neuroni presenti in tutta la retina, macula esclusa. Si può, quindi,
distinguere tra una visione centrale distinta (acutezza visiva), che permette di riconoscere le
caratteristiche dell’oggetto fissato, ed una visione periferica (campo visivo) indistinta, che
fornisce un’informazione generica sull’ambiente e, grazie alla quale, l’individuo riesce ad
orientarsi e a muoversi nello spazio.
Si definisce ipovisione una disabilità visiva o, più correttamente, una capacità visiva non
completa, bilaterale e irreversibile, conseguente a una minorazione visiva.
Dal punto di vista normativo, la legge 155/65, all’art. 2 recita:”si intendono privi della vista
coloro che sono colpiti da cecità assoluta o hanno un residuo visivo non superiore a un
decimo in entrambe gli occhi con eventuale correzione”. Come si può notare, nella
definizione di “privi della vista”sono comprese anche persone che riescono a vedere
qualcosa. Questa formula è ripetuta in varie leggi, compresa la normativa sul collocamento
lavorativo dei disabili. Il ministero della sanità ha precisato che tale definizione deve
intendersi valida per qualsiasi legge che contenga disposizioni a favore dei non vedenti
senza altre specificazioni. (Cottini L., 2009).
L’azione congiunta del Gruppo Italiano Studio Ipovisione (GISI), dell’Unione Nazionale
Ciechi (UIC) e della International Agency for Prevention of Blindness, ha ottenuto la
promulgazione della legge 138 del 2001 nella quale, per la prima volta, è stata riconosciuta
l’esistenza dell’ipovisione da compromissione periferica (Martinoli C., Delpino E., 2009).
Nello specifico, la legge in questione, definisce i concetti di:
 Cieco assoluto: colui che non vede nulla o al massimo è in grado di percepire una
fonte luminosa o il movimento di una mano posta davanti all'occhio;
 cieco parziale: soggetto con un visus inferiore a 1/10;
 ipovedente grave: colui che ha un visus compreso tra 1/20 e 1/10 oppure una
riduzione del campo visivo tra il 50% ed il 60%;
 ipovedente medio-grave: colui che ha un visus compreso tra 1/10 e 2/20 oppure una
riduzione del campo visivo tra il 30% ed il 50%;
 ipovedente lieve: colui che ha un visus compreso tra 2/10 e 3/10 oppure una riduzione
del campo visivo tra il 10% ed il 30%.
Questa classificazione risulta molto importante in ambito scolastico, sia nelle prime fasi
organizzative dell'accoglienza, sia nella scelta e nell'utilizzo di metodi e ausili necessari per
la didattica. Dati informativi irrinunciabili sono, infatti, la certificazione medica e la
diagnosi funzionale redatta dall'equipe multidisciplinare dell'ASL.
Senza addentrarsi troppo in questioni di natura clinica, segue un breve elenco relativo ai
principali fattori causali delle compromissioni visive in età infantile:
 patologia congenita: trasmissione genetica di alterazioni organiche e fattori prenatali
extraorganici quali infezioni, agenti fisici, intossicazioni, fattori endocrini durante la
gravidanza (per esempio, rosolia, toxoplasmosi, accertamenti radiologici ecc.);
 cause perinatali: anossia, prematurità e relativi trattamenti, diabete materno;
 cause post-natali: infezioni virali, fattori immunitari, degenerativi e traumatici,
tumori e diabete ((Zanobini M., Usai M.C., 2005).
La natura multidimensionale della disabilità visiva
Nell’ambito della minorazione visiva globalmente intesa, sono necessarie alcune
precisazioni. Una prima distinzione è quella tra cecità sensoria, dovuta a cause periferiche o
oculari per compromissione della retina o delle vie ottiche e cecità cerebrale, connessa a
cause centrali per interessamento dei centri nervosi dei lobi occipitali. La cecità sensoria
non compromette il processo delle supplenze sensoriali a differenza di quella cerebrale,
forma ben più grave e, fortunatamente, meno rilevante numericamente. Il concetto di
supplenza sensoriale si riferisce alle modalità di utilizzazione dei sensi integri da parte del
non vedente, per ottenere informazioni sul mondo esterno (Cottini L.,2008).
Per un primo approccio all’inquadramento delle problematiche individuali di ciascuna
persona, è utile considerare almeno tre variabili, ognuna delle quali descrive una condizione
all’interno di un continuum dimensionale.
1. La dimensione percettiva sta ad indicare la quantità e specialmente la qualità delle
informazioni visive disponibili per la persona. Vengono, quindi, presi in
considerazione fattori riguardanti la cecità rispetto all’ipovisione.
2. La dimensione temporale sta ad indicare la storia clinica della minorazione visiva, il
periodo in cui è insorta e si è modificata, la prognosi eventualmente possibile
sull’evoluzione futura. Oltre alla localizzazione clinica del deficit sensoriale, infatti,
ha importanza anche l’origine temporale dello stesso: diversa è la situazione del
soggetto non vedente dalla nascita rispetto a quello diventato cieco dopo un periodo
di visione normale. La memoria dell’esperienza visiva, infatti, consente a
quest’ultimo la costruzione di un sistema di rappresentazioni molto differente. Tale
variabile, quindi, concerne la natura primaria della minorazione rispetto a quella
acquisita.
3. la dimensione del funzionamento globale indica la correlazione con altri eventuali
fattori di salute o di sviluppo, che possono condizionare le capacità della persona,
specialmente se altri deficit vanno a intaccare proprio le risorse utili all’organismo
per compensare la minorazione visiva. La variabile, quindi, ha a che fare con la
minorazione visiva semplice rispetto alla pluriminorazione (Gargiulo M.L., Dadone
V., 2009).
La prima dimensione, quella percettiva, dunque, rimanda direttamente alla differenza
esistente tra ipovisione e cecità. Le persone ipovedenti, sebbene in grado di utilizzare alcune
informazioni visive, possono avere differenti carenze nella loro funzione visiva. Ciò
determina una qualità delle immagini visive ed una capacità di utilizzare la vista che varia
da persona a persona. Ci possono essere problemi nel riconoscere i colori, le sfumature
intermedie tra il chiaro e lo scuro, le forme, le distanze, i dettagli da vicino e da lontano,
problemi a vedere immagini poste in una determinata area del campo visivo, o più di una di
queste limitazioni messe insieme e con differenti livelli di gravità.
Si intuisce, quindi che, mentre è abbastanza comprensibile sul piano percettivo che cosa si
intende per “cieco”, non è possibile a priori definire quale sia la condizione visiva di una
singola persona ipovedente.
È molto difficile, ad esempio, valutare le funzionalità visive dei bambini ipovedenti per vari
ordini di fattori. La disponibilità e la capacità di collaborare sono minori, come pure quella
di descrivere verbalmente la propria condizione soggettiva e i differenti disturbi possibili.
La maggiore sincreticità e una minore differenziazione delle varie funzioni del bambino,
inoltre, rende più difficile all’osservatore attribuire la causa dei suoi comportamenti, rispetto
alle altre fonti di informazioni. Non ultimo, vi è spesso un grosso problema di tipo emotivo
che concorre a complicare le situazioni: i bambini ipovedenti si trovano frequentemente a
subire pressioni nel dover dimostrare le proprie prodezze visive, al fine di rassicurare le
figure di attaccamento. Così spesso l’utilizzo della vista diviene un obiettivo implicitamente
appreso e somiglia sempre più spesso ad un fine da raggiungere, che ad un mezzo per
conoscere.
La dimensione temporale, ovvero l’età di insorgenza della minorazione visiva, è molto
importante per comprendere le condizioni nelle quali si sono sviluppate le varie funzioni
psicofisiche. La mancanza della vista, infatti, conduce all’attivazione di una serie di funzioni
compensative, sia dal punto di vista percettivo che difensivo. Non esiste un rapporto lineare
tra la mancanza della vista dalla nascita ed un ritardo nell’acquisizione delle varie tappe di
sviluppo. Il grave deficit visivo primario, tuttavia, come dimostrano le ricerche, funziona
come un significativo fattore di rischio. È possibile individuare alcune variazioni
statisticamente significative nei tempi di acquisizione di alcune tappe motorie, delle
competenze di tipo spaziale, dello sviluppo cognitivo e del linguaggio. Purtroppo non esiste
una letteratura ampia, tesa ad osservare qualitativamente e quantitativamente questi
fenomeni. Esistono poi ancor meno strumenti di valutazione comparativa dell’andamento
evolutivo. Pertanto la valutazione clinica basata sull’osservazione rappresenta spesso
l’unico strumento utilizzabile.
Anche l’aspetto relazionale viene spesso condizionato dalla minorazione visiva e ciò perché
viene alterato il canale primario di comunicazione nelle relazioni, che sono alla base dello
sviluppo affettivo. La mancanza della vista diviene un
potente fattore di rischio di
isolamento tutte le volte che gli adulti significativi non sono in grado o non possono trovare
canali di comunicazione alternativi a quelli normali, basati sul contatto oculare.
Oltre a ciò ulteriori fattori secondari concorrono a condizionare l’andamento delle relazioni
di attaccamento. Si pensi soltanto alla difficoltà da parte dei genitori ad essere un sostegno
sicuro, nel momento in cui debbono essi stessi, gestire il dolore e l’ansia connessa al vissuto
di una malattia fisica così grave del loro bambino.
La mancanza primaria della vista, inoltre, sembra indurre la strutturazione di uno stile di
conoscenza basato sulle caratteristiche precipue dei sensi residui (in special modo il tatto,
caratterizzato dall’analiticità e dalla mancanza di simultaneità e di globalità).
Se da una parte l’insorgenza precoce porta con sé le problematiche specifiche su accennate,
dall’altra la plasticità ed adattabilità dell’organismo all’inizio dello sviluppo consentono una
possibilità di adattamento che si rivela molto preziosa.
La perdita della vista in età successive, sebbene consenta l’acquisizione di esperienze,
concetti e funzionalità, propri dei bambini vedenti, può condurre a importanti problemi di
adattamento, lutto e perdita, oltre che a tutta una serie di reazioni postraumatiche e legate
alla modificazione dell’immagine di sé. Molto spesso i bambini con patologie visive sono
costretti a sottoporsi a moltissime attività di diagnosi e cura, con svariati accertamenti ed
approfondimenti, in relazione al tipo di situazione clinica. Tutto ciò non è mai privo di
significati emotivi di vario genere, con vissuti di ansia e fragilità. I bambini con patologie
non stabilizzate vivono spesso una condizione di provvisorietà che favorisce un’attenzione
ansiosa da parte degli adulti, condizione particolarmente pesante da sopportare.
Analogamente è possibile riscontrare che le consistenti difficoltà di adattamento
all’ambiente cui va incontro il bambino privato del canale visivo, sono da mettere in
relazione non solo al problema sensoriale in sé, ma anche alla frequenza, qualità e spessore
delle relazioni interattive che si stabiliscono nella sfera familiare, educativa e sociale.
Pertanto, la trattazione dello sviluppo del bambino cieco non può limitarsi alla sola analisi
clinica del danno visivo, ma deve concentrarsi soprattutto sugli impedimenti che rendono
difficoltosa la massima promozione personale, in maniera tale da indicare anche alcuni
itinerari educativi. Non esiste, in altre parole, il non vedente tipo, in quanto ogni persona
privata della funzionalità visiva, è a suo modo speciale (Cottini L., 2008).
La disabilità visiva all'interno del contesto socio-familiare
La nascita di un figlio cieco o in ogni caso portatore di handicap determina un momento di
profonda prostrazione ed angoscia nei genitori. Il trauma deriva dalla discrepanza tra quello
che essi si erano mentalmente immaginati durante l’attesa e il bambino minorato che la
realtà presenta loro. La scoperta dell’handicap visivo scatena delle reazioni molteplici e di
varia natura: quella più frequente è costituita dal bisogno di negare la minorazione con la
conseguente ricerca di elementi che la disconfermino, divenendo in alcuni casi la modalità
prevalente con cui i genitori reagiscono. In quest’atteggiamento alcuni autori collocano
l’insorgere nel figlio di un forte senso d’inadeguatezza che si può considerare il primo e più
grave attentato contro una costruzione e una rappresentazione positiva dell’immagine di sé.
Le modalità di relazione prima della madre e poi del padre sono responsabili di un più e
meno adeguato sviluppo del bambino,
perché gli forniscono fiducia e sicurezza nelle
proprie possibilità. Di conseguenza è importante che anche il bambino non vedente possa
vivere in un ambiente che comprenda i suoi bisogni e risponda ad essi attraverso il
coinvolgimento attivo e atteggiamenti di accettazione ed affetto. Non potendo stabilire il
contatto oculare e quindi cogliere le informazioni visive, i bambini non vedenti risultano
maggiormente limitati nei contatti sociali. Di questo aspetto i genitori devono essere
consapevoli altrimenti rischiano di interpretare l'assenza di risposte visive da parte dei
bambini come assenza di interesse verso le loro attenzioni affettive. È, infatti, probabile che
in un primo momento i genitori si sentano disorientati dovendo imparare a "leggere" le
risposte vocali, tattili ed uditive per poter stabilire un'interazione reciproca.
Esiste una stretta relazione tra sviluppo e apprendimento, che si intrecciano in
un'"interazione circolare". Come sottolinea Fraiberg, i deficit sensoriali implicano un limite
immediato alle possibilità del bambino di apprendere spontaneamente, a meno che non
vengano organizzati particolari interventi e aiuti. Si comprenda, dunque, come lo sviluppo e
l'apprendimento possano essere frenati da scarse relazioni di natura sia fisica che socio
affettiva (Benedan S., Faretta E., 2006).
La risposta familiare alla minorazione visiva
La nascita di un figlio disabile appare, quindi, impegnativa da gestire perché i genitori si
trovano a dover rispondere al contempo a bisogni importanti e inattesi sia propri che del
bambino. Per questo la coppia non riesce inizialmente ad affrontare da sola la situazione
traumatizzante derivante dalla nascita di un figlio con disabilità. Le reazioni psicologiche e i
meccanismi di difesa che vengono attivati, spesso inconsapevolmente, possono essere molto
diversi e variano in relazione alle caratteristiche della madre e del padre e a quelle del
sistema familiare, possono essere individuati e compresi solo tramite l'analisi della struttura
della famiglia, al fine di evidenziare le modalità di relazione tra i suoi componenti. Una
delle situazioni più frequenti è la lunga ricerca di soluzioni mediche e tecniche per superare
il danno provocato dalla perdita della vista, che fa sì che i genitori, completamente orientati
alla ricerca di soluzioni che eliminano l’handicap, non si misurano concretamente con la
realtà del figlio, non ne rilevano i bisogni e non si impegnano a sufficienza nel trovare delle
soluzioni adattative che gli assicurino un adeguato sviluppo. Se da un lato questa reazione è
pienamente comprensibile, dall'altro rischia di peggiorare, anziché migliorare, la situazione.
Queste ricerche rappresentano l'aspettativa inconscia di una miracolosa restituzione della
vista al bambino, che ne ripristini l'integrità a tutti i livelli, e possono nascere dalla difficoltà
di accettare ed assumere un ruolo genitoriale nei confronti di un bambino diverso dalle
attese. Seguire questo percorso comporta un oneroso dispendio di tempo e di energie e la
perdita di occasioni importanti per costruire una relazione affettiva positiva indispensabile
per lo sviluppo e l'apprendimento del bambino con gravi ripercussioni sullo sviluppo
motorio, sulla capacità d’esplorazione dell’ambiente e sull’adattamento sociale. Gli effetti
del deficit sensoriale possono infatti essere aggravati dalla mancanza di interventi efficaci e
tempestivi, e ciò può contribuire in diversi bambini alla comparsa di gravi turbe psichiche
(ritardo globale, stereotipie, psicosi ecc...). Le ricerche di Fraiberg hanno, infatti, dimostrato
il grave rischio psicopatologico al quale è esposto il bambino con minorazione visiva, se
viene deprivato delle cure e delle attenzioni di cui ha bisogno. Prendere coscienza al più
presto della reali condizioni del bambino è, quindi, il primo passo verso un corretto
approccio educativo (Benedan S., Faretta E., 2006).
Molto spesso, al rifiuto e alla negazione, subentra, nella maggior parte dei casi, una fase
connotata da elementi depressivi; ciò porta, con una madre divenuta abulica, ad un ancor
maggiore isolamento del figlio che si presenta generalmente poco espressivo ed in
particolare incapace di suscitare le prime comunicazioni ed i primi scambi spontanei che
avvengono con lo sguardo.
In altri casi, i genitori possono sviluppare con il bambino una particolare relazione
caratterizzata da iperprotezione e tendenza a limitarlo nel conseguimento dell’autonomia,
con grave rischio psicologico per la maturazione e individuazione di
di sé.
Una volta che la famiglia ha dichiarato la sua impotenza o la sua inadeguatezza di fronte
al problema, si rivolge ai servizi assistenziali pubblici o privati; tale soluzione è solo uno
spostamento del problema, in quanto l’unico servizio utile potrebbe darlo una consulenza
socio-psico-pedagogica che aiuti la famiglia a prendere coscienza delle peculiarità
comportamentali e personologiche che la cecità implica.
Con un intervento corretto a livello di stimolazioni psicofisiche, infatti, tali peculiarità
possono essere risolte favorendo il conseguimento della meta della normalizzazione
intesa come uso dei sensi vicarianti e come capacità di svolgere una regolare vita
relazionale. Un simile quadro potrebbe far pensare a dei genitori o a delle madri
particolarmente apprensivi, ma per riprendere quanto sostenuto dal Mazzeo, “la madre
del bambino non vedente è una donna come le altre ... alla quale è chiesto qualcosa di più
ed è offerto, molto spesso, qualcosa di meno”. In realtà occorre comprendere il dramma
di una madre spesso isolata nel contesto stesso della sua famiglia e della società.
Bisogna, inoltre, tenere presente che ogni accettazione autentica della diversità, si pone
come una sorta d’attentato nei confronti del sé: l’alterità può compromettere i modelli
positivi del vivere “normale”, alterandone le regole e rimettendo in discussione le più
inveterate e consolidate certezze. Nello stesso tempo, nell’odierna società i criteri
dominanti sono quelli dei vedenti per cui non si compie lo sforzo di capire le ragioni
degli altri, il vedente che s’affianca al non vedente spesso non impara ad osservarne i
comportamenti e il modo di rapportarsi con il mondo, non partecipando alla ricerca delle
soluzioni che il cieco compie, nel quotidiano, giorno dopo giorno.
In tali condizioni possono maturare per il bambino non vedente una serie di effetti deleteri
per il suo sviluppo globalmente inteso. Molti studiosi sono concordi nell’affermare che il
cieco corre il grave rischio di turbe nello sviluppo della sua personalità, le quali dipendono
in misura direttamente proporzionale al modo di percepire e vivere la presenza del disabile
visivo da parte dei vedenti. Come dice il Galati nel suo “Vedere con la mente”, “ad una
buona soluzione contribuisce, in notevole misura, l’atteggiamento dei familiari e delle
persone affettivamente vicine al soggetto. L’accettazione sia cognitiva sia emotiva della
cecità deve infatti avvenire anche da parte di queste ultime”. Solo questa doppia
accettazione, che coinvolge il soggetto e gli altri attorno a lui, renderà più facile ed agevole
il superamento della depressione e dei conseguenti atteggiamenti di autosvalutazione e di
isolamento dall’ambiente. Il comportamento migliore di parenti ed amici consiste in un
atteggiamento d’accettazione della persona cieca con tutti i cambiamenti che ciò comporta.
L’approccio del non vedente
Per alcuni studiosi sono principalmente quattro gli aspetti fondamentali che costituiscono
le linee d’evoluzione, ma anche d’involuzione, del percorso di una persona di fronte alla
sua limitazione visiva:
il desiderio di vedere;
il rifiuto di conoscere la propria condizione sensoriale;
l’esperienza quotidiana del proprio limite sensoriale;
il tipo di risposta all’insorgenza della minorazione nei suoi aspetti funzionali.
Il desiderio di vedere, sia esso represso o lasciato libero d’espletarsi, è una necessaria
valvola di sfogo e di fuga da una realtà che può assumere aspetti frustranti; tuttavia molti
accreditati tiflologi ritengono che esso, se incanalato ed accolto, può evolvere da sterile
desiderio a stimolo per realizzarsi. Quando esso si evolve non lungo la ricerca della
concretezza ma in fantastiche elucubrazioni, la persona non vedente sviluppa alcune
esperienze negative, quali il coltivare fantasie di puro desiderio che possono assumere
aspetti di paradosso, o isterilirsi in atteggiamenti di rabbia, di rancore verso il mondo, di
sfiducia e di depressione. Il desiderio di vedere, invece, se sorretto dall’esterno da
comprensione, partecipazione emotiva e da opportuni inviti alla ricerca concreta di una
realizzazione di sé e dall’interno, da volontà e forza d’animo per realizzare un rapporto
empatico con il mondo del reale e del concreto, diviene grande forza propulsiva e spinta
per realizzarsi da parte del cieco che diventa cosciente della propria diversità e la usa per
integrarsi.
Il secondo aspetto da esaminare è il rifiuto di conoscere la propria condizione sensoriale:
premettiamo innanzi tutto che nessun cieco dalla nascita avverte spontaneamente la sua
minorazione, è piuttosto il suo ambiente socio-familiare a dare ed a sancire la condizione
della discriminazione facendo vivere in forma coatta e cogente la diversità. Sono gli altri,
cioè, a trasmettere al cieco i pregiudizi del mondo ed a influenzarne lo sviluppo e lo
strutturarsi della personalità. Solo un’autonomia vissuta in modo consapevole, può fare
acquisire quella che giustamente il prof. Mazzeo chiama “la coscienza del limite”. Come
ribadisce anche il Salmeri, il cieco insofferente rispetto alla propria condizione non è in
possesso di un io ben strutturato, perché per lo più non fa altro che esternare
inconsapevolmente il rifiuto del contesto in cui interagisce. L’insofferenza favorisce il
consolidarsi dell’immagine della cecità come diversità, ma il principio che permette
l’accettazione del minorato della vista è la solidarietà che presuppone un incontro nella
somiglianza e, in un secondo momento, laddove essa emerga, nella diversità.
Bisogna, quindi, intervenire prima sulle famiglie, affinché si rendano conto dei limiti ma
anche delle potenzialità e possibilità del bambino, e poi sul bambino stesso che deve
essere considerato un bambino come gli altri con un problema in più. Solo così potrà
divenire un adulto cieco consapevole della propria minorazione ma cosciente delle sue
enormi possibilità di realizzazione e promozione culturale e personale.
Il cieco che avrà sviluppato “la coscienza del limite”, non sarà ossessionato dalle cose
che non può fare, né tanto meno cercherà di nascondere la propria diversità, assumendo
un atteggiamento mimetico, ma cercherà di operare con ogni energia nei campi in cui
potrà essere alla pari con gli altri.
L’insofferenza, il concepire la cecità come dolore, impediscono al cieco di capire che non
occorrono particolari qualità per integrarsi e che è necessario un equilibrio tra ciò che si
offre e ciò che si richiede alla società. È anche vero, d’altra parte, che il rifiuto di
conoscere, malgrado sia, come abbiamo visto, un aspetto negativo e perturbante della
cecità, può svolgere una funzione considerevolmente mitigante nel processo evolutivo di
adattamento della persona non vedente di fronte alla propria minorazione. È risaputo,
infatti, che l’impatto emotivo con i problemi della cecità varia considerevolmente in
relazione all’età in cui insorge la minorazione: la perdita della vista costituisce un trauma
che cambia completamente le modalità cognitive e le strategie di adattamento e dà luogo
ad una sequenza di comportamenti emotivi che vanno dalla sensazione di perdita e morte
di una parte di sé, ad una sensazione di perdita di identità.
In un primo periodo di depressione viene messo in atto un vero e proprio comportamento
di negazione del problema, un rifiuto di conoscere seguito da un successivo periodo di
accettazione a livello cognitivo e di una terza fase di consapevolezza anche a livello
emotivo. Per la soluzione del processo, è necessaria e fondamentale la prima fase, quella
del rifiuto, perché in questo modo la persona può gradualmente prendere coscienza della
nuova realtà con tempi e modi commisurati alla sue possibilità di rispondere con
equilibrio. Pertanto il rifiuto di conoscere è una strategia adattativa che merita
comprensione, con un atteggiamento da parte dei familiari e degli altri che renda più
facile l’accettazione e conferisca al processo un andamento calibrato per ogni individuo,
senza comportamenti ostinati e negativi. In tal modo, il rifiuto di conoscere diviene
compatibile con la conoscenza della propria condizione sensoriale, assumendo una forma
di non rinuncia al superamento dei propri limiti. Con il tempo tale atteggiamento diverrà
sinergico e complementare alla conoscenza dei propri limiti: questa e la non
rinunciabilità di un superamento dei limiti medesimi, rappresentano la forma più matura
di una coscienza in cui realismo e tensione ideale si coniugano serenamente.
Il terzo aspetto da esaminare è la qualità dell’esperienza quotidiana del limite sensoriale:
ogni persona vive immersa in un suo ambiente psico-sociale e socioculturale che formerà
l’individualità tipica di quella persona, la propria identità, il proprio sé. Nel bambino non
vedente lo sviluppo psicologico segue un percorso differente da quello del bambino
vedente: la mancanza di uno dei canali sensoriali, attraverso i quali si realizzano le
esperienze più significative nei primi anni di vita, determina dei ritardi nelle principali fasi
evolutive. A questo aspetto gravemente perturbante della minorazione si possono
aggiungere interventi errati da parte della famiglia, della scuola o comportamenti ed
atteggiamenti epistemologicamente deleteri del gruppo classe.
Il non vedente, invece, se aiutato a conoscere le proprie reali possibilità, diviene capace
di organizzare una propria identità, equilibrando le esperienze da lui fatte in ambito
familiare con quelle più propriamente socio-scolastiche.
Quanto affermato supporta la tesi per cui l’handicap sensoriale si manifesta spesso con
pertubazioni e complicazioni di per sé non strettamente connesse alla disabilità, ma causate
dall’ambiente in cui il cieco vive, e dal tipo di esperienze che vi può fare, da interventi
educativi errati o tardivi che si possono tradurre in comportamenti che il Salmeri chiama
atteggiamenti di “chiusura propriocettiva”, in base ai quali il non vedente tende a chiudersi
nel proprio spazio corporeo perché al di là di esso non sa, o teme di sapere, dell’esistenza di
un mondo più grande Gli interventi mitiganti, pertanto, debbono avvenire negli ambienti nei
quali il non vedente vive e non appena si scopre l’handicap: tali interventi non devono
essere limitati all’offerta di servizi ma devono comprendere consigli, incontri con genitori in
situazioni analoghe, confronti di esperienze; soprattutto cercando di far crescere il bambino
in un ambiente sereno e ricco di stimoli cognitivi e affettivi.
Il quarto ed ultimo aspetto, il tipo di risposta alla minorazione nei suoi aspetti funzionali,
ha l’effetto negativo, perturbante di far sentire il cieco, a causa di una errata impostazione
dei rapporti familiari, un emarginato. Il risultato è che un soggetto privo della vista
risponde al limite sensoriale restringendo il suo spazio vitale, per evitare un confronto
frustrante con le difficoltà e con le barriere presenti nella sua condizione. Possiamo
affermare che l’effetto perverso di tale aspetto è che la persona risponde al limite
limitando la propria esistenza e conseguentemente la propria libertà. Questa risposta, che
il prof. Mazzeo chiama “reciprocazione del limite”, nasce dalla poca o nulla fiducia negli
strumenti cognitivi posseduti dalla persona non vedente (Grassi N.).
LE RISPOSTE DI EQUILIBRAZIONE COGNITIVA NEL BAMBINO
NON VEDENTE
Sviluppo cognitivo e disabilità visiva
Per sviluppo cognitivo si intendono i mutamenti che il bambino realizza nelle sue
capacità di processamento dell’informazione e di conoscenza, attraverso
l’esperienza in direzione del potenziamento delle capacità e dell’allargamento
delle conoscenze: le strutture cognitive, infatti, si modificano sia in relazione al
processamento dell’informazione, che all’organizzazione delle rappresentazioni.
Il sistema cognitivo è organizzato in funzioni trasversali o dominio generali e in
funzioni verticali o dominio-specifiche: esiste, tuttavia, una certa indipendenza,
verosimilmente dovuta a predisposizioni genetiche di natura specifica che
rendono possibile lo sviluppo delle singole abilità anche in condizioni di deficit
cognitivo (Stella, 2000). Le abilità cognitive si riferiscono, in particolare, al
riconoscimento e alla memorizzazione di principi di classificazione come per
esempio saper distinguere volti noti da volti sconosciuti, essere certo
dell’esistenza degli oggetti anche quando spariscono dal campo visivo, tattile o
uditivo, saper riconoscere le similitudini e le differenze di esseri viventi, piante,
oggetti o eventi, saper completare parti di informazioni in un “insieme sensato”,
capire la connessione tra causa ed effetto ecc. (Brambing…).
Nella descrizione e nella valutazione del bambino non vedente sembra
importante distinguere fra aree di sviluppo direttamente colpite dalla cecità e aree
di sviluppo influenzate in modo indiretto dal problema visivo. Secondo Troster e
Brambing, le aree del primo tipo includono o presuppongono le capacità di
coordinazione visuo-motoria: la loro completa maturazione è, comunque,
impedita dalla cecità e difficilmente i deficit che ne conseguono possono essere
completamente compensati col procedere dello sviluppo. Tali aree comprendono,
ad esempio, le abilità locomotorie e di motricità fine. In contrapposizione, le aree
del secondo tipo non presuppongono la coordinazione visuo motoria e quindi gli
effetti indiretti nello sviluppo di tali aree, possono essere ampiamente compensati
in seguito (per esempio sviluppo del controllo posturale, sviluppo sociale ed
emotivo, sviluppo linguistico).
Come evidenziato da Hatwell, le conoscenze accumulate negli ultimi decenni
sulla visione e sullo sviluppo della percezione nei neonati, hanno rivoluzionato
anche
le
concezioni
sui
ciechi
e
sulle
loro
potenzialità
evolutive.
Tradizionalmente, infatti, venivano enfatizzati gli svantaggi dei soggetti non
vedenti nelle rappresentazioni spaziali ed erano attribuiti alla natura sequenziale
dell'udito e del tatto, contrapposte alla presunta simultaneità del sistema visivo.
La recente scoperta di due sistemi visivi distinti, quello focale e quello periferico,
e della stretta connessione del secondo con il movimento degli occhi e della testa,
seppure di breve durata, del processo esplorativo visivo. L'elaborazione dello
spazio, che nei ciechi si realizza attraverso l'udito e il tatto, avverrà dunque più
lentamente in questi soggetti, ma non in modo sostanzialmente diverso rispetto ai
soggetti normodotati. D'altro canto un certo grado di svantaggio dei ciechi nella
rappresentazione spaziale potrebbe essere legato alla specializzazione di ciascuna
modalità sensoriale nell'elaborare dati provenienti da un campo specifico: il tatto,
per esempio, sarebbe predominante per la conoscenza delle proprietà sostanziali
dell'oggetto, mentre la vista sarebbe dominante per le conoscenze spaziali
(Zanobini M., Usai M.C., ...).
Analogamente, secondo la Celani, la cecità congenita ( o precoce) totale implica
notevoli
difficoltà
nelle
acquisizioni
senso
motorie
elementari,
nelle
rappresentazioni simboliche di più alto livello, ecc.., praticamente in tutto ciò che
concerne l’elaborazione cognitiva dello spazio. Queste difficoltà sono collegate
alle caratteristiche dei due sistemi percettivi che prendono in carico la
conoscenza dello spazio: l’udito e il tatto.
L’udito è un sistema tele recettore soprattutto adatto alla localizzazione delle
sorgenti sonore nello spazio, ma che apporta assai poche informazioni sulle
caratteristiche degli oggetti stessi. Inoltre, a differenza di ciò che avviene per la
vista, non si può sempre “distogliere l’udito” da ciò che interessa, o controllare le
afferenze uditive (Coppa, 1997). In quanto al tatto, esso permette la conoscenza
di quasi tutte le proprietà degli oggetti quali forma, grandezza, localizzazione
spaziale, rigidità, peso, temperatura e così via. Ma a differenza della vista, il
sistema tattile è una modalità di contatto che ha un campo percettivo molto
esiguo e che difficilmente potrà compensare completamente gli effetti della
minorazione sensoriale visiva: esso è poco adatto alla percezione di oggetti molto
grandi o in movimento, del contesto ambientale nel quale questo movimento si
svolge e, più in generale, delle conseguenze spaziali delle azioni motrici
effettuate dal soggetto stesso.
È, comunque, attraverso il tatto che il bambino scopre che il mondo esterno è
popolato da oggetti afferrabili, manipolabili, che hanno un nome, un uso e una
forma propria. La mano diventa così l’organo primario di percezione, senza
perdere perciò la sua funzione esecutrice e il coordinamento visuo- motorio sarà
sostituito dal coordinamento bimanuale e dal coordinamento udito-mano.
Tuttavia, il bambino cieco attraversa un lungo e difficile cammino per arrivare al
punto in cui la mano può localizzare e raggiungere gli oggetti, così da servire
come un ponte tra sé e il mondo esterno. Le informazioni necessarie alla
costruzione del mondo fenomenico devono quindi essere acquisite dal bambino
non vedente oltre che attraverso il tatto, con l’udito e il comportamento motorio.
Queste informazioni, unitamente a quelle fornite da descrizioni verbali,
concorrono alla formazione di rappresentazioni mnestiche di tipo spaziale
(Celani B., …….).
Nonostante gli svantaggi a cui si è accennato, “il ritardo cognitivo nel bambino
cieco è stato ridimensionato in tempi recenti anche in seguito ai contributi di
Vianello che, in bambini con disabilità visiva di età compresa tra i 4 e gli 8 anni,
ha riscontrato livelli intellettivi paragonabili a quelli dei bambini con sviluppo
tipico. È, quindi, probabile che, in assenza delle eventuali disabilità intellettive
associate ai deficit visivi, lo sviluppo cognitivo sia inizialmente ritardato;
l’utilizzo del linguaggio verbale tenderebbe a compensare lo svantaggio
derivante dal deficit, determinando un recupero delle funzioni cognitive già a
partire dal periodo precedente all’inserimento nella scuola primaria. Il bambino
non vedente, in altri termini, farebbe,maggiore ricorso alle funzioni linguistiche
rispetto ai coetanei a sviluppo normale e questo dato, se da un lato favorisce lo
sviluppo cognitivo in base all’elaborazione astratta dei dati, dall’altro può
ostacolare lo sviluppo della conoscenza.
Il fenomeno dell’iperverbalismo, ad esempio, è comunemente riscontrabile nel
bambino cieco ed ipovedente. Esso consiste nel ripetere concetti o frasi che il
bambino con disabilità sente utilizzare dagli adulti, senza la comprensione del
loro significato.
La presenza di questo fenomeno deve essere considerata nell’intervento
educativo e anche se sembra attenuarsi con la maturazione cognitiva, è utile
fornire spiegazioni chiare delle parole delle quali il bambino non conosce il
significato, utilizzando sempre gli stessi termini ed evitando di utilizzare concetti
sconosciuti, che potrebbero aumentare la confusione ed il disorientamento.
Il mero deficit visivo non rappresenterebbe, quindi, un fattore determinante per il
ritardo cognitivo, anche se la deprivazione sensoriale determina peculiari
riorganizzazioni del sistema cognitivo che lo diversificano, almeno sul piano
qualitativo, da quello del bambino vedente. Diviene, quindi, evidente come tali
differenziazioni devono essere considerate nello sviluppo di modelli di intervento
utilizzabili nell’ambito dell’integrazione scolastica” (Lo Sapio G., 2012).
Se si vuole favorire lo sviluppo cognitivo del bambino non vedente, occorre
cercare di garantirgli sufficienti possibilità affinché possa cogliere il massimo di
informazioni uditive e soprattutto tattili attraverso oggetti concreti da tastare ed
eventi da udire. Dato che l’elaborazione di informazioni tattili e uditive è
rallentata, in rapporto all’elaborazione di informazioni visive, esiste il pericolo di
una sovra richiesta dei bambini non vedenti quando li esponiamo ad un ambiente
troppo ricco di stimoli. Il riconoscimento di principi di classificazione (per
esempio il riconoscimento di caratteristiche diverse di due oggetti) è reso più
difficile nei bambini non vedenti. Quando vogliamo insegnare similitudini e
differenze, si consiglia di usare oggetti di struttura ben definibile e di facile
esplorazione tattile. I piccoli non vedenti spesso usano un numero ridotto di
oggetti, che adoperano in maniera più intensa rispetto ai coetanei vedenti. Ciò
potrebbe indicare un altro processo di apprendimento e cioè che i bambini
colgono le informazioni più lentamente, ma le elaborano in maniera più
intensa.(Brambing….)
Vicarianza dei sensi e vita intellettiva del non vedente
Affrontare il tema della singolarità del conoscere in condizioni di cecità implica
necessariamente un approfondimento delle modalità percettive attraverso i sensi
vicarianti. Rispetto a questa tematica, la letteratura
sembra concorde
nell’affermare che non esiste una compensazione sensoriale magica. I ciechi non
sono dotati di poteri straordinari, né la natura è tanto generosa da togliere un
senso (la vista) e in cambio offrire prodigiosi compensi. Ecco perché si parla di
potenziamento dei sensi dovuto sia a un laborioso esercizio personale, da cui
deriva l’affinamento dei sensi residui, sia all’attenzione che trasforma il vedere in
guardare, l’udire in ascoltare, il tastare in toccare. L’olfatto diventa più sensibile,
così come l’udito e il tatto. Ognuno di questi sensi propriamente educato, sarà
indispensabile nel processo di adattamento ed accettazione e sarà funzionale dal
punto di vista pratico per la vita del soggetto. Affinché un individuo non vedente
possa entrare in contatto con la realtà del mondo e conoscere, è indispensabile
che i sensi residui vengano attivati in maniera complementare(…). In letteratura
diversi autori hanno descritto l’udito come il “senso vicario” della vista
soprattutto per ciò che concerne la percezione delle distanze e l’orientamento.
L’udito è responsabile della localizzazione delle sorgenti sonore nello spazio,
della percezione delle distanze e
vi è, infatti, un sistema di lettura e scrittura
costituito da puntini in rilievo, il sistema Braille, che si adatta perfettamente ai
bisogni del tatto, che è più sensibile ai punti rispetto alle linee. Interessante è
anche considerare il tatto come un mezzo attraverso il quale entrare in contatto
diretto con gli altri. A conferma di ciò, Romagnoli afferma che un cieco,
toccando la mano di una persona, riesce a ricavarne una serie di percezioni,
difficilmente comunicabili, ma sufficienti per riconoscere. Le inferenze aptiche
sono indispensabili nella costruzione delle rappresentazioni mentali dello spazio
esterno e, insieme alle sensazioni sensoriali e propriocettive, permettono anche lo
sviluppo dello schema corporeo (Dominici R., 2006).
L’integrazione tra sensi e cervello permette una conoscenza più o meno
verosimile del mondo circostante che è di tipo sequenziale-sincronico. I sensi,
infatti, ricompongono a livello mentale immagini, non in maniera immediata, ma
attraverso registrazioni successive (Dominici R., 2006). In particolare, il soggetto
cieco costruisce la propria immagine del mondo attraverso percezioni
significative: informazioni tattili, sonore e olfattive che associa e che
costantemente mette in relazione con le esperienze precedenti. Egli organizza il
proprio rapporto con il mondo a partire da immagini interne, nate dalle
percezioni immagazzinate sottoforma di rappresentazioni mentali, che vengono
rievocate dalla memoria in funzione delle esperienze successive. Per il disabile
della vista l’esperienza e la memoria sono alla base della costituzione di una
mappa cognitiva funzionale. Si tratta evidentemente di un comportamento attivo
a cui, senza distinzioni, ricorrono tutti gli individui, ma che impone a chi non
vede un più elevato impegno intellettivo (Fiocco A., 2006) Consideriamo ad
esempio l’esplorazione tattile: in questo caso, una serie di passaggi percettivi
determina la formazione nella mente di un’immagine dell’oggetto. Nel corso
dell’esplorazione tattile, il cieco deve tener ferma nella memoria l’immagine
schematica ed in essa inserire i particolari che emergono nel corso dell’analisi
successiva, uno dietro l’altro. Ciò impegna la memoria, ma la capacità di
astrazione: bisogna, infatti, astrarre ogni singolo elemento e metterlo nel posto
giusto dell’immagine tattile generale, come avviene nella composizione di un
puzzle. Attraverso questo processo si arriva, infine, alla sintesi che permette di
formare mentalmente un’immagine tattile dell’oggetto. L’immagine tattile non
viene, dunque, colta in modo immediato, ma si realizza nel tempo e non ha né la
forza né l’immediatezza di una rappresentazione visiva, non rimane cioè
impressa nella memoria in maniera indelebile, ma ha sempre bisogno di essere
rinvigorita da nuove ripetizioni (Grassini A., 2006).
Assimilazione, accomodamento ed equilibrazione cognitiva
“Alla base della teoria piagetiana vi sono due concetti fondamentali che risentono
fortemente della sua inclinazione biologica nell’affrontare il problema dello
sviluppo cognitivo: assimilazione ed accomodamento. L’assimilazione viene
concepita come un processo in virtù del quale ogni nuova informazione presente
nella realtà esterna può essere assimilata dal sistema cognitivo, ponendola in
relazione alle strutture della conoscenza già esistenti. In questo senso, per Piaget
l’apprendimento non è mai una “cruda” associazione di stimoli e risposte, ma
presuppone un certo grado di struttura nel sistema, tale da consentirgli di “
appropriarsi” di quella informazione (…). Piaget ritiene, infatti, che, affinché
certi apprendimenti si possano verificare, ci debba essere un organismo
“preparato” ad accoglierli; il concetto di readiness ha goduto di grande popolarità
negli anni sessanta, soprattutto in ambito pedagogico, in relazione a quesiti
importanti come quello sull’età in cui un bambino è pronto per affrontare
l’apprendimento scolastico.
L’accomodamento è il processo complementare, grazie al quale le strutture
cognitive esistenti si modificano per adattarsi alla nuova informazione che è stata
accolta. È soprattutto nel processo di riorganizzazione interna che sta il fulcro
della flessibilità evolutiva del sistema cognitivo, che è, quindi, inteso come un
sistema aperto e costretto a ristrutturazioni continue ma regolate in funzione
dell’interazione con l’ambiente.
Questi due semplici meccanismi sono i processi funzionali invarianti, biologicamente
predeterminati, che caratterizzano tutto l’arco dello sviluppo. La loro azione combinata
garantisce l’evoluzione del sistema, sia creando il necessario disequilibrio sia ripristinando
l’equilibrio, in un processo continuo che Piaget definisce di equilibrazione dinamica,
sottolineandone così il carattere provvisorio e la necessità di trovare sempre nuovi punti di
equilibrio diversi da quelli raggiunti precedentemente. Piaget, da biologo, assume, infatti,
che la tensione verso l’omeostasi sia una necessità biologica dei sistemi “autoregolantisi”.
Ogni perturbazione esterna al sistema provoca uno stato transitorio di disequilibrio che il
sistema tende ad annullare (tornando a una situazione di equilibrio) attraverso l’azione dei
suoi sistemi di autoregolazione (…). Nell’ottica piagetiana, il sistema cognitivo si trova in
uno stato quasi permanente di disequilibrio, a causa del meccanismo dell’assimilazione che
lo vincola a interagire con l’ambiente, appropriandosene. Lo stato di disequilibrio viene
temporaneamente eliminato riorganizzando la propria struttura interna attraverso
il meccanismo dell’accomodamento; ma proprio la riorganizzazione pone le basi
per nuove assimilazioni che non sarebbero state possibili in precedenza, in un
ciclo che viene reiterato indefinitamente. Pertanto, proprio nella percezione del
disequilibrio sta il “motore” dello sviluppo, la molla che crea la necessità
biologica di ripristinare l’omeostasi del sistema , il che ha importanti ricadute sul
piano educativo e sul piano clinico-riabilitativo: l’omeostasi fornisce una
importante chiave cognitiva e motivazionale per promuovere, attraverso la
creazione “controllata” di situazioni di conflitto cognitivo, l’acquisizione di
nuove conoscenze in forme non astratte,.ma assimilabili dal sistema e capaci di
innescare processi interni di riorganizzazione che garantiscono durevolezza e
stabilità allo sviluppo (Stella G., 2000).
Secondo Piaget, i processi di equilibrazione delle strutture cognitive,
analogamente a quanto accade sul piano biologico, presentano una variabilità di
risposte possibili, correlate in larga misura con le caratteristiche della realtà
ambientale. Relativamente all’oggetto di studio del presente lavoro, cioè la
condizione del bambino non vedente, è possibile ipotizzare una molteplicità di
risposte di equilibrazione cognitiva e, nello stesso tempo, cercare di individuare
una correlazione significativa tra ciascuna di queste risposte e le rispettive
caratteristiche della realtà ambientale. Secondo Mazzeo è possibile descrivere tre
fondamentali tipi di risposta di equilibrazione cognitiva che ricorrono
frequentemente nel comportamento adattivo dei bambini non vedenti. È, inoltre,
possibile
ipotizzare
alcune
caratteristiche
della
realtà
ambientale
che
faciliterebbero la comparsa di ciascuna di queste tre risposte.
 La risposta della reciprocazione del limite
La risposta della reciprocazione del limite può essere principalmente riconosciuta
nel comportamento sedentario del bambino cieco e in una complessiva riduzione
e semplificazione della sua attività epistemofilica. Egli resta volentieri seduto al
suo posto e dimostra scarsa curiosità nei confronti della realtà ambientale
soprattutto per quanto concerne i sui aspetti propriamente fisici. La sua
attenzione è rivolta prevalentemente alle sollecitazioni di tipo uditivo con le quali
il bambino interagisce prevalentemente con attività di natura verbale. I suoi
movimenti sono stereotipati, ripetitivi, frequentemente svincolati da un'attività
propriamente cognitiva e apparentemente connessi più che altro con l'andamento
della sua esperienza propriocettiva. Il suo comportamento verbale sembra
orientato prevalentemente dall'aspettativa di protrarre la relazione sociale con
l'altro ed appare pressoché privo di altre implicazioni operative.
La sua attività percettivo-tattile ed immaginativo-motoria si esercita entro i limiti
del suo ambiente di vita abitudinario, più che altro in relazione con i suoi bisogni
primari e presenta comunque le caratteristiche della ripetitività. Eventuali
mutamenti della realtà fisica ambientale non provocano generalmente una
risposta di orientamento esplorativo sistematico, bensì una risposta di arresto,
seguita da tentativi di ricerca disordinati e ridondanti. Il suo apprendimento
ricettivo verbale può fornire performance anche molto apprezzabili, in particolare
per quanto concerne la capacità mnemonica e la qualità sintattica dei
procedimenti verbali.
La risposta di reciprocazione del limite non esclude affatto l'apprendimento della
lettura, della scrittura e della capacità di fare i conti, poiché tali attività possono
essere apprese in condizioni di sedentarietà e presentano anch'esse caratteristiche
ripetitive e stereotipate. In alcuni casi la motricità fine delle attività manuali può
anche svilupparsi in attività eccellenti ma pur sempre confinate entro i limiti di
un andamento ripetitivo tale da consentire il prevalere delle attività di
assimilazione. Tale risposta assume il carattere dell'equilibrazione soltanto se
considerata in rapporto con un ambiente di vita ristretto e semplificato, tutelato
socialmente da un costante servizio protettivo. Il limite determinato dalla
privazione
della
vista
viene
controbilanciato
principalmente
da
un
impoverimento e da una semplificazione dell'esperienza interattiva con
l'ambiente. Sebbene il bambino possa comunque organizzare un processo di
adattamento funzionale ed equilibrato, in ogni caso si tratta di un'omeostasi
rigida, poco predisposta al cambiamento.
L'attività percettivo-tattile viene sostanzialmente esercitata ed acquisita nel
bambino ma in una dimensione prevalentemente ricettiva, molto scarsa di
implicazioni esplorative. A lungo questo tipo di risposta è stata percepita e
considerata un adattamento appropriato e naturale alla condizione di cecità.
Generalmente i genitori del bambino cieco vivono con intense emozioni di
pericolo le sue condotte di esplorazione e rinforzano la sua condizione di
sedentarietà. In questo modo, il bambino cieco prende sistematicamente ad
interagire con la realtà dell'ambiente fisico circostante, principalmente sulla base
di una mediazione sociale che ovviamente risulta centrata soprattutto sulla
comunicazione verbale. Le parole del bambino cieco assumono così i valori
simbolici del movimento e diventano espressione naturale della sua vitalità,
anche quando appaiono evidentemente prive di validità operativa.
 La risposta di appropriazione mimetica della funzione visiva
Questo tipo di risposta può essere riconosciuta con evidenza nei casi in cui il
bambino cieco si comporta in modo da utilizzare attivamente e intenzionalmente
la funzionalità visiva delle persone presenti nel suo contesto socio-ambientale,
focalizzando su tale iniziativa di recupero l'insieme dei suoi tentativi di
integrazione sociale.
In questo secondo caso, il bambino cieco non accetta i limiti imposti dalla
condizione di sedentarietà e tende a muoversi nel suo ambiente, a rendersi conto
della realtà che lo circonda, ma cerca di farlo in modo da non evidenziare gli
aspetti più vistosi della propria diversità sensopercettiva. Egli tenta
sostanzialmente di conformarsi alla condotta esplorativa dei bambini vedenti,
avvalendosi il più possibile delle mediazioni verbali di cui può disporre
socialmente. Generalmente si tratta di una condotta molto attenta, energicamente
protesa a fare come fanno gli altri, ma decisamente riluttante nei confronti dei
procedimenti esplorativi tattili, in particolar modo quando questi ultimi
determinano una netta diversificazione sociale. Ecco perché tale risposta può
definirsi "mimetica" in quanto in essa il comportamento di imitazione sembra
orientare complessivamente la condotta cognitiva del bambino cieco. Si tratta,
tuttavia, di una imitazione incongrua e spesso inadeguata, perché in essa i
facoltosi tentativi di accomodamento sono più che altro funzionali a realizzare
una situazione di conformità psicosociale anche a patto di sacrificare l'esperienza
cognitiva. Tale risposta non esclude affatto l'apprendimento della lettura e
scrittura Braille, ma implica una marcata preferenza per tutte quelle strategie
volte a favorire un comportamento conforme alla condizione di chi vede.
La risposta di appropriazione mimetica della funzione visiva tende ad
organizzarsi generalmente in un contesto familiare caratterizzato dal rifiuto, più
automatico che consapevole, di percepire gli effetti derivanti dalla minorazione
visiva. Tale rifiuto viene però controbilanciato da un comportamento
estremamente attivo dei familiari che tendono a sollecitare nel bambino
l'acquisizione di abilità rilevanti sul piano sociale, tali da suscitare sentimenti di
meraviglia ed ammirazione. In simili circostanza familiari, il bambino diviene,
per così dire, iperstimolato protettivamente e non ha, pertanto, molte opportunità
di sperimentare la propria condizione di solitudine esplorativa.
Tale risposta si verifica più frequentemente nel caso di bambini che conservano
un residuo visivo minimo, decisamente ipofunzionale ma tale da rinforzare nei
familiari e nel bambino stesso le immagini della condizione di cecità. È come se i
genitori restassero ancorati alla possibilità di restituire la funzione visiva al
proprio figlio.
 La riposta di potenziamento compensativo
Questa terza risposta si verifica quando il bambino non vedente tende a
controbilanciare la privazione della vista prevalentemente attraverso una
intensificazione della propria attività senso percettiva, confidando nell'iniziativa
motoria e nella propria autonomia conoscitiva. In questo caso, il bambino utilizza
integralmente l'efficacia esplorativa delle sue mani e interagisce autonomamente
nello spazio ambientale circostante organizzando una buona coordinazione
motorio-uditiva, diviene consapevole dei propri strumenti di azione e di
conoscenza ed è in grado di accomodarli alle caratteristiche della realtà
circostante.
Nella risposta di potenziamento compensativo, l'attività percettivo-motoria
diviene la via principale di emancipazione del bambino cieco così come avviene
nel bambino vedente. Considerando anzi che la sensibilità tattile uditiva richiede
un'attività percettiva più assida e laboriosa, si potrebbe dire che il bambino cieco
dovrà assumere una condotta ancora più attiva di quella necessaria al bambino
vedente nel momento in cui intende interagire con la realtà che lo circonda sulla
base delle sue effettive e particolari possibilità di conoscenza. In questo caso, le
funzioni di immaginazione e di rappresentazione assumono un ruolo cardinale
nell'attività cognitiva del bambino cieco, in quanto costituiscono una mediazione
preziosa ed insostituibile allo scopo di organizzare efficacemente le sue
possibilità di orientamento percettivo motorio. La capacità di operare su strutture
immaginative reversibili diviene un'abilità di base caratteristica del bambino
cieco mediante la quale egli riesce ad acquisire un comportamento cognitivo
ordinato sistematicamente.
I MATERIALI TIFLOTECNICI
Il Codice di letto-scrittura Braille
Imparare a leggere e scrivere è essenziale per interagire con la realtà circostante, per
scoprire la propria identità sociale e per esprimere le proprie potenzialità sul piano sia
cognitivo che affettivo e creativo. A tal fine, i soggetti con disabilita visiva hanno a
disposizione il sistema Braille che, secondo Quatraro e Ventura, può essere considerato
come un codice che, a differenza dei codici più usati, non si rivolge all’occhio all’orecchio,
ma al tatto (Quatraro E., Ventura E.,).
Si basa su punti in rilievo e la sua caratteristica fondamentale è la semplicità con cui sono
disposti, ma che, tuttavia, richiede a chi legge di compiere operazioni mentali e interpretare
ciò che viene rappresentato sulla carta. I punti in rilievo hanno caratteristiche precise: sono
collocati in un rettangolo immaginario con la base minore parallela al lettore e, in base ai
numeri e alla collocazione nello spazio, assumono un significato diverso.
Questo sistema di scrittura in rilievo che ancora oggi soddisfa pienamente le esigenze dei
non vedenti sul piano tattile, fu inventato nel 1825 da Louis Braille. Il Braille “è un
particolare strumento la cui acquisizione è fonte di conoscenza, di autonomia, di libertà di
pensiero, di studio, di piacere estetico e di riflessione, di comunicazione denotativa e
connotativa, di conferma dell’essere uomo attraverso la possibilità espressiva di un comune
linguaggio simbolico, riconosciuto e letto dagli altri uomini, vedenti e non vedenti”
(Arrighini E., Baudon C., Di Guida G., 2014).
Il sistema Braille comprende 64 segni, derivanti dalle possibili combinazioni dei punti, con i
quali si possono rappresentare, oltre alle lettere dell’alfabeto, anche i caratteri numerici e la
notazione musicale, grazie all’utilizzo di speciali prefissi che non hanno alcun
corrispondente nella scrittura ma che marcano il significato del segno che li segue.
Ci sono alcuni accorgimenti generali necessari quando si intende insegnare a un alunno non
vedente a leggere e a scrivere: innanzitutto si introduce l’alfabeto a partire dalla lettera più
semplice, ossia la “a”, che è costituita da un solo puntino. Aggiungendo gradualmente uno o
più puntini si costruiscono altre lettere.
In ambito scolastico, la lettura e la scrittura Braille, così come l’utilizzo di altri strumenti
tiflotecnici, vengono inizialmente presentate in forma di gioco.
Le lettere dell’alfabeto possono essere proposte secondo ordini diversi; secondo Zaniboni, il
metodo più efficace è quello di introdurre le lettere che permettano nel modo più veloce
possibile, di costruire parole note, in modo che il bambino possa legare quell’apprendimento
alle sue conoscenze pregresse. Gli altri accorgimenti da applicare sono i seguenti:
 Presentare in modo distanziato nel tempo le lettere e, i, d, e, f, in quanto sono
speculari tra loro ed è facile confonderle;
 far scrivere e leggere, nella fase di apprendimento iniziale, a spazi separati e righe
alternate;
 eliminare le spaziature eccedenti quando l’alunno sarà in grado di leggere
correttamente, in modo che possa imparare a riconoscere e correggere gli errori da
solo.
Il periodo migliore per insegnare a un bambino cieco a leggere e a scrivere in Braille va dai
6 agli 8 anni. Normalmente, se non sussistono impedimenti particolari, l’alunno impara
nella prima classe della scuola primaria come tutti gli altri. Purtroppo, però a volte, si
verificano dei “ritardi” per cui si decide di rimandare l’introduzione del sistema Braille o
non si forniscono adeguate occasioni per l’esercizio di questi apprendimenti.
Nell’utilizzo del sistema Braille esistono anche difficoltà concrete tra cui, ad esempio,
quella di non poter sempre disporre degli stessi testi adottati per i vedenti in quanto difficili
da reperire.
Ma al di là delle difficoltà, non esiste una motivazione valida per ritardare l’insegnamento
del sistema, anzi questa scelta educativa comporta conseguenze negative per lo sviluppo del
bambino non vedente, in quanto contribuisce ad aumentare le differenze tra lui e i compagni
di classe (Bonfigliuoli C., Pinelli M., 2010).
Tiflodidattica e ausili
La storia della tiflologia, intesa come studio della cecitòà e delle sue molteplici conseguenze
(psicologiche, sociali e culturali), è lunga e, a partire dal nostro stesso paese, ci sono stati
padri fondatori, veri e propri intellettuali dell’educazione, non vedenti, che hanno svelato al
mondo come, attraverso determinati percorsi, metodologie e scelte didattiche, sia possibile
costruire un apparato pedagogico volto a portare il non vedente a conquiste culturali alla
pari degli altri, a partire dalle proprie potenzialità, possibilità e intelligenza. Nel nostro
specifico caso, si tratta di mettere il non vedente nella condizione di sfruttare al meglio le
sue potenzialità in nome di un’uguaglianza delle opportunità. Ciò non significa dire che gli
individui sono uguali, anzi, fortunatamente sono diversi, ma la scuola deve lavorare affinché
tutti gli allievi vengano posti nella condizione di uguaglianza, nel senso di cercare di
mettere tutti sulla stessa linea di partenza, tendendo conto dei tempi e delle modalità di
ciascuno.
Tale considerazione introduce la questione della metodologia e della didattica, degli
strumenti necessari che consentono al disabile visivo di “allinearsi” agli altri. Per
raggiungere tale obiettivo, occorre mettere in campo l’apparato della specificità della
tiflodidattica che non è didattica “altra”, ma è didattica con aspetti differenziati nella scuola
di tutti, è didattica a valenza integrata. Si parla di privilegio della specificità per alludere
alle procedure, metodologie, strategie didattiche più opportune per far raggiungere al
bambino, al disabile visivo, i risultati attesi anche attraverso l’utilizzo di ausili didattici
specifici (Abba G.,).
Un sussidio didattico si configura come il mezzo, lo strumento essenziale per la
realizzazione del processo di apprendimento; il suo utilizzo a scuola ha come obiettivo
rinforzare la concretezza delle esperienze e agevolare le rappresentazioni mentali del reale
nei processi conoscitivi dell’alunno. Apprendimenti basati unicamente sul verbale sono
addirittura dannosi per il non vedente, che ha bisogno di esperienze concrete per poter
allacciare rapporti significativi con l’ambiente circostante.
Il materiale didattico per non vedenti è finalizzato prevalentemente all’educazione della
mano. I sussidi tiflologici hanno, infatti, caratteristiche specifiche che si adeguano alle
esigenze della percezione tattile, per cui gli aspetti visivi devono essere subordinati
(Bonfigliiuoli…..). A questo proposito, Augusto Romagnoli, da molti considerato
l’iniziatore della tiflopedagogia italiana, parlava di parallelismo dei mondi sensoriali per cui
anche gli altri sensi offrono informazioni, sono portatori di linguaggi. Egli non viveva
nell’era multimediale, però questa affermazione è ancora di grande valore ed attualità. Gli
altri sensi, infatti, permettono ed aprono la strada alla conoscenza e quindi
all’apprendimento. Quest’ultimo parte dalla ricezione che, per il disabile visivo, è
fondamentale e partecipativa. Se è vero che la scuola è una realtà formativa in cui l’allievo è
soggetto del processo di crescita, allora è anche vero che tutto ciò che facilita i processi di
partecipazione e apprendimento, va intensamente ricercato .
Senza voler trascurare le opportunità formative offerte dai nuovi media, in questa sede, si è
scelto di focalizzare l’attenzione su alcuni degli ausili tiflodidattici disponibili, individuati in
virtù del loro essere centrati sulle modalità esplorative della percezione tattile e, pertanto,
idonei a sviluppare le capacità di rappresentazione immaginativa del mondo oggettuale e di
apparati simbolici, di elaborazione di processi di astrazione. Il materiale didattico per i
disabili visivi si configura come specifico per la minorazione, ma deve “parlare” un
linguaggio didattico comune. Quando l’insegnante si trova ad utilizzare tali sussidi, scopre
che i processi cognitivi, gli obiettivi da conseguire, sono gli stessi stabiliti per tutto il resto
della classe. Nel momento in cui si mette il non vedente nella condizione di leggere e
scrivere attraverso il Braille, ad esempio, si sancisce il suo riconoscimento come persona
ancora prima che come allievo. Lo stesso avviene quando si forniscono sussidi di ausilio
all’apprendimento adeguati. Chi non vede, viene messo nella condizione reale di esprimersi
a sé e agli altri affermando la propria individualità. Utilizzare materiali adeguati, concorre
anche al mantenimento della motivazione che solitamente è legata al contatto visivo con lo
stimolo percettivo. Nel disabile visivo, tale impossibilità provoca una perdita di interesse ed
attenzione nei confronti dello stimolo stesso. Il materiale didattico, allora, concepito con
caratteristiche di immediatezza percettiva, posto sotto le mani dell’allievo, svolge la
funzione di collegamento, pone nella condizione dello “stare dentro”, costruisce il
sentimento dell’esserci. (Abba G.)
Tra i materiali tiflotecnici disponibili, si è scelto di considerare quelli che trovano
applicazione nella scuola primaria e che sono, quindi, finalizzati a dotare il disabile visivo
della strumentalità di base.
 Il Casellario Romagnoli. Si tratta di un casellario di legno formato da 100 prismi
colorati, che collocati nelle sedi formate dalle intersezioni dei listelli di legno,
compongono lettere e parole.
Si tratta di uno strumento molto utile durante il primo approccio al sistema Braille,
per gli esercizi di prescrittura, finalizzati all’acquisizione dei concetti di posizione,
successione e lateralizzazione.
 La tavoletta Braille è il principale strumento per scrivere in Braille ed è costituto da
tre elementi: una tavoletta con base scanalata, fatta di metallo o di plastica dura, un
telaio, fissato alla tavoletta tramite una cerniera e un righello che scorre sul telaio. Tra
il telaio e il righello, viene inserito un foglio di carta robusta che si fissa al piano,
mentre il righello è costituito da due file di rettangolini, separati gli uni dagli altri da
una barra di 1 mm: queste sono le sedi che, assieme alle scalanature della base
sottostante, aiutano la persona non vedente a scrivere le lettere in modo ordinato. Le
lettere vengono ricavate con un punteruolo non acuminato e, terminate le prime due
file di rettangolini presenti sul righello, quest’ultimo viene fatto scorrere in basso. Per
controllare ciò che è stato scritto, è necessario aprire la tavoletta, estrarre il foglio e
voltarlo.
 La Dattilobraille è una vera e propria macchina da scrivere per non vedenti: nella
versione meccanica vi sono sei tasti corrispondenti ai sei punti Braille, disposti in fila,
un tasto per la spaziatura e due tasti funzione. Su ogni tasto-punto deve essere posto
un dito: i due indici sui punti 1 e 4, i medi sui punti 2 e 5 e gli anulari sui punti 3 e 6;
la spaziatura viene premuta con il pollice.
Per scrivere le lettere, i tasti-punti devono essere premuti contemporaneamente, con un
unico atto motorio, e si procede da sinistra verso destra. Questo strumento rende la scrittura
molto più veloce rispetto alla tavoletta. Secondo Zaniboni, la dattilo braille va introdotta in
un secondo momento, solo quando l’alunno avrà fatto proprio il metodo della tavoletta per
una serie di motivi: in primo luogo è importante imparare a leggere e a scrivere, in quanto
queste abilità consentono di acquisire uno strumento di comunicazione che deve poter
essere utilizzato a necessità e quindi in diverse situazioni della vita quotidiana. Inoltre, la
tavoletta obbliga chi scrive a compiere operazioni mentali più complesse nel caso dei non
vedenti, mentre la scrittura a macchina consente di comporre direttamente le lettere nello
stesso modo in cui vengono lette. In terzo luogo, l’apprendimento della letto scrittura
implica il possesso di molte altre abilità, come la manualità fine, i concetti topologici e di
lateralizzazione e l’orientamento spaziale e temporale. Poiché la sensibilità delle dita
raggiunge la massima potenzialità intorno ai sette anni, il mancato esercizio in questa fascia
di età ne causa la regressione. Per tutti questi motivi, la sovrapposizione dei due tipi di
apprendimento può portare a difficoltà notevoli sul piano rappresentativo. È consigliabile,
quindi, proporre i due sistemi in modo graduale, non in contemporanea e in funzione delle
abilità del singolo soggetto.
 Il cubaritmo serve per eseguire operazioni aritmetiche: è composto da un casellario di
plastica nelle cui sedi sono collocati piccoli cubi con lo spigolo di un cm. Su cinque
facce del cubo vi sono segni Braille che, per rotazione, possono occupare posizioni
diverse nello spazio e formare così i caratteri aritmetici desiderati.

Il cubaritmo è utile soprattutto per lo svolgimento delle quattro operazioni e per
l’incolonnamento in quanto consente una discreta velocità e segue le regole della
disposizione in colonna comuni ai non vedenti.
 Il geopiano viene utilizzato per lo studio delle figure geometriche piane: si tratta di un
piano di gomma sul quale sono presenti fori equidistanti e paralleli, all’interno dei
quali si inseriscono i chiodi che corrispondono ai vertici della figura da realizzare; per
definire i lati, invece, si tende un elastico intorno ai chiodi.
 Il cuscinetto è un cuscino di gommapiuma piatto e di forma quadrata su cui, tramite
spilli, si fissa un cordoncino per poi disegnare figure geometriche o soggetti liberi. .
È quindi utile per la coordinazione motoria bimanuale, il rafforzamento dei concetti
topologici e lo sviluppo dell’immaginazione. Il cuscinetto si presta anche alla
riproduzione di ciò che il soggetto non può toccare direttamente; nonostante ciò
presenta anche alcuni svantaggi, fra cui tempi lunghi di realizzazione e
l’impossibilità di conservare l’elaborato. In alternativa al cuscinetto, si può
utilizzare il piano in velcro, sul quale il cordoncino aderisce perfettamente con una
leggera pressione.
 Il piano in gomma e in feltro consiste in una tavola di legno rivestita da una gomma
particolare; si fissa un foglio di plastica sul piano e con una biro a sfera si traccia il
disegno che apparirà in rilievo.
 Le carte in rilievo per geografia, scienze e storia dell’arte rappresentano un tipo di
materiale tiflodidattico che fornisce agli alunni non vedenti una conoscenza diretta,
analitica e globale della realtà (Bonfigliuoli C., Pinelli M., 2010).
Appare opportuno precisare che l’efficacia dei diversi materiali tiflodidattici, non risiede
nella loro molteplicità, ma nello stimolo che possono dare all’attività immaginativa
dell’alunno; in generale, in aggiunta agli ausili strutturati, sono da favorire sussidi costruiti
in collaborazione con il bambino, che rendano piacevole e agevole il processo di
conoscenza(Piccardi F.,) In pratica, la funzione di ausilio intrinseca nel materiale didattico,
deve stimolare l’attività immaginativa del bambino non vedente, utilizzando la rievocazione
e favorendo l’integrazione conoscitiva delle esperienze didattiche dirette e soggettive
(Bonfigliuoli C., Pinelli M., 2010).
Tutto ciò richiede all’insegnante una conoscenza approfondita della disabilità visiva e delle
sue peculiarità non solo rispetto al deficit, ma anche rispetto alle metodologie e agli ausili
utilizzabili e relativi alla problematica visiva. Di qui l’esigenza di una preparazione
specifica sulle tecniche tiflodidattiche per adattare i contenuti e le metodologie utilizzate dai
colleghi nella didattica di classe, che rende l’insegnante di sostegno un punto di riferimento
e un mediatore tra i bisogni specifici del bambino e le richieste del contesto educativo
comune.
Rispetto ai materiali tiflodidattici utilizzati, l’insegnante ha il compito di far riflettere:
 sulle specifiche modalità dell’esplorare, del conoscere, del potenziamento
dell’integrazione intersensoriale, in modo tale che il soggetto acquisisca
consapevolezza percettiva.
 sulle potenzialità espressive e della verbalizzazione in modo tale che il soggetto
acquisisca consapevolezza comunicativa.
 sui dati, sulle esperienze percettive, sulle conoscenze, sulle abilità e competenze in
modo tale che il soggetto acquisisca consapevolezza cognitiva e metacognitiva.
Più il soggetto acquista fiducia in sé stesso, nelle proprie capacità “alternative”, più sarà
capace di utilizzare strategie adeguate alla risoluzione di problemi mettendo in gioco le
potenzialità elaborative della mente. Altrettanto importante è la capacità di interazione fra il
disabile visivo e gli altri. Il deficit visivo rimane, ma inciderà meno sulle potenzialità
intellettive e su tutto l’insieme della personalità. Si può, dunque, affermare che il supporto
fornito dal sussidio didattico fonda un criterio di riferimento per affrontare l’integrazione ed
è inserito nel processo di normalizzazione in quanto sollecita la scuola a confrontarsi con lo
svantaggio e a lavorare per superarlo (Abba G.).
EDUCAZIONE DELLA MANO E ORIENTAMENTO SPAZIALE
La percezione aptica
Si dice: " abbracciare con lo sguardo, afferrare l'immagine, cogliere l'insieme. Abbracciare,
afferrare, cogliere sono voci prese dal senso muscolare e tattile, e rimangono a testimoniare
che da questi umili sensi l'occhio fu educato. Ma educato da essi, l'occhio li supera ben
presto d'acume, prontezza e di sintesi. Cinquecentomila bastoncini della retina entrano in
funzione contemporaneamente, eccitati dall'etere vibrante, e in ciascuno di essi chissà
quante ancora sensazioni più semplici, con un complesso incalcolabile" Si delinea qui
un'analisi della differenza dell'apprendimento e della conoscenza del mondo esterno tra i
vedenti e i minorati della vista. A un osservatore superficiale può sembrare facile l'educare
il cieco all'osservazione del mondo esterno: basta circondarlo di cose, basta fargliele toccare
e descrivergliele per fargliele conoscere. In realtà, la persona cieca è privata del più
efficiente sistema percettivo spaziale e deve quotidianamente fare i conti con una importante
riduzione delle risorse cognitive; si pensi che oltre novanta per cento delle informazioni che
l’individuo normalmente riceve, passano proprio attraverso il canale della vista. Sarebbe,
però, errato pensare che la conoscenza del non vedente si avvalga esclusivamente di quel
dieci per cento di informazioni restanti. Questi utilizza, invece, tutti quei dati multisensoriali
provenienti dai sensi residui di cui il vedente, appagato dal messaggio visivo, fa
abitualmente a meno. I sensi rimasti integri, definiti dagli studiosi sensi vicarianti,
prendono in carico la ricezione e l’elaborazione combinata delle informazioni provenienti
dall’esterno. Il cieco ricorre ad essi per ottenere i dati relativi all’ambiente e per interagire
con esso. La realtà percettiva che ne consegue, ”seppur diversa, non è meno concreta ed
oggettiva”.
Ciascun senso residuo ha carattere proprio e veicola informazioni specifiche, divenendo, per
ovvie ragioni di adattamento e di pratica, particolarmente abile ed efficace. Il tatto e l’udito
sono ritenuti i più importanti, svolgono un ruolo fondamentale per l’orientamento spaziale;
l’olfatto permette di ottenere informazioni momentanee per riconoscere luoghi o cose.
Il tatto, seppure abbia il suo agente specifico nella mano, risulta il più esteso organo
sensoriale, distribuito com’è sulla pelle dell’intero corpo. Grazie alla sua estensione, i ciechi
possono apprendere moltissime informazioni che altrimenti andrebbero perse: ad esempio,
sfruttando l’esplorazione tattile del suolo mentre camminano, avvertono variazioni nella
pavimentazione che diventano forme significative da interpretare ed utilizzare.(Ceppi E.,
1960).
L'attività percettiva è governata da leggi specifiche per ogni organo di senso. Seppure il
mondo che si presenta all'organo visivo e all’organo tattile sia il medesimo, esso viene
tuttavia percepito in modo diverso perché, mentre il senso della vista è immediato e globale,
solo per un esame approfondito si sofferma analiticamente sui particolari, la percezione
aptica analizza dapprima le singole parti per poi risalire alla struttura unitaria dell’oggetto,
attraverso un processo di sintesi. Per questo, il senso visivo tende primariamente alla
percezione della forma, laddove quello aptico volge al riconoscimento della struttura
(Revezs G., 1950). Elena Romagnoli Coletta, a tal proposito, afferma che la percezione del
cieco è naturalmente analitica e, solo più tardi, è possibile passare alla sintesi. Tuttavia, non
si deve pensare che l’analitico del non vedente corrisponda ad un’osservazione
dell’essenziale, in quanto è solo una distinzione di una parte dell’oggetto. La vera e propria
analisi, ossia la conoscenza dei vari elementi che caratterizzano l’oggetto, è frutto appunto
di un’osservazione guidata volta a coordinare, in uno schema esatto, le sensazioni tattili e
muscolari. Il campo della percezione aptica varia, pur nei limiti dati dall’ampiezza delle
braccia, a seconda della volontà del soggetto: i movimenti esplorativi possono limitarsi ad
un unico dito, interessare l’intera mano o percorrere l’oggetto con entrambe le mani,
strategia che permette di coglierne meglio la spazialità. Le modalità esplorative di base
possono, quindi, variare; i ciechi usano maggiormente il «grip», che consiste nel far scorrere
contemporaneamente più dita, mentre chi vede sembrerebbe seguire in misura maggiore
modalità di «top sweet», esplorazione cioè con il solo dito indice. Nell’esplorazione tattile
degli oggetti, i ciechi commettono meno errori rispetto ai vedenti proprio perché la strategia
da loro utilizzata fornisce simultaneamente un maggior numero di informazioni. L’uso di
tutte le dita e l’uso congiunto di entrambe le mani, agevola la ricognizione di informazioni,
anche se in ultima istanza, la modalità favorita sembrerebbe quella del movimento alternato
delle mani e delle dita (Asini R., Antonietti A., 1992).
Una serie di passaggi percettivi, frutto di un corretto iter educativo, porta alla formazione
dell’immagine mentale: si attua dapprima un’esplorazione rapida e veloce per formare nella
mente un’immagine estremamente semplificata dell’oggetto (scoprire di cosa si tratta, dargli
un nome, inserire l’oggetto dentro una categoria, farsi un’idea globale). Acquisita questa
informazione generale, si attua un esame più particolareggiato. Nel corso dell’esplorazione
tattile il cieco deve tenere ferma nella memoria l’immagine schematica ed in essa inserire i
particolari che emergono nel corso dell’analisi successiva, uno dietro l’altro. Ciò impegna
senza dubbio la memoria ma anche la capacità di astrazione: bisogna astrarre ogni singolo
elemento e metterlo nel posto giusto dell’immagine tattile generale, come avviene nella
composizione di un puzzle. Attraverso questo processo, si arriva, infine, alla sintesi che
permette di formare mentalmente un’immagine tattile dell’oggetto. L’immagine tattile non
viene, dunque, colta in modo immediato, ma si realizza nel tempo e non ha né la forza né
l’immediatezza di una rappresentazione visiva, non rimane cioè impressa nella memoria in
modo indelebile, ma ha sempre bisogno di essere rinvigorita da nuove ripetizioni.
Diversamente, invece accade per il primo contatto dell’oggetto sotto le dita, la prima
sensazione tattile che funge da punto di partenza per la formazione dell’immagine mentale,
è l’elemento attorno a cui si forma il concetto ed il futuro ricordo dell’oggetto e resterà
indelebile nella memoria. La percezione della figura, che alla fine di un lungo processo
intellettivo ricostruisce l’oggetto nella sua unità, è qualcosa di diverso della semplice
sensazione, dipende dalla capacità di connettere insieme le diverse parti percepite. In ciò
appare evidente come l’intelletto abbia un ruolo da protagonista rispetto al senso (Hatwell
Y., 2004).
L’educazione della mano: itinerari possibili
Da quanto affermato, emerge che, per il bambino non vedente, uno dei pre requisiti
fondamentali ai fini dell’apprendimento e, di conseguenza, della sua autonomia, è
l’educazione della mano. Le mani sono per lui il mezzo principale di conoscenza e contatto
con la realtà; attraverso il tatto, egli può strutturare le immagini sulle quali si basano i
concetti e sviluppare di conseguenza la capacità di conoscere e ragionare; pertanto, più
tocca e più impara. Le Breton afferma che “ il bambino cieco che non impara a toccare
rimane ai margini del mondo, sempre bisognoso dell’altrui assistenza. Le sue mani sono
incapaci non per un difetto biologico ma perché non sono state educate”(Le Breton D.,
2007).
Augusto Romagnoli concepì per primo un intervento educativo e scolastico finalizzato a
promuovere l’integrità umana del bambino cieco. Il suo metodo si fondava sulla
convinzione che la minorazione visiva non altera il funzionamento psichico nelle sue
strutture generali bensì riduce e modifica alcune coordinazioni senso-percettive, così da
rendere più lento, contraddittorio e frustrante un normale sviluppo cognitivo e sociale. In
tale contesto, Romagnoli considerava di prioritaria importanza l’educazione della mano.
L’educazione della mano, che consente, tra l’altro, al bambino non vedente di accedere alla
cultura attraverso il possesso del codice Braille, si concretizza nell’educazione alla rotazione
del polso, nella prensione palmare, nell’educazione alla discriminazione tattile (sensibilità
dei polpastrelli) delle forme, dei pesi, delle grandezze, nonché della diversità e
dell’uguaglianza dei materiali che costituiscono gli oggetti (metallo, legno, plastica,ecc.),
nella motricità fine, che consiste nell’educare i polpastrelli delle dita a toccare con
leggerezza, nella capacità di manipolazione degli oggetti. Per lo sviluppo di queste abilità,
si può adoperare il materiale più vario, da quello strutturato ( incastri per costruzioni, solidi
geometrici, casellario Romagnoli) a quello occasionale; altrettanto utili sono i vari esercizi
relativi all’arrotolare, allo strappare, allo sciogliere dei nodi, al fare delle palline con
materiale plastico e schiacciarle tra l’indice ed il pollice, ovvero le dita che serviranno
prevalentemente per la lettura. Il bambino va educato non a toccare, a stringere
passivamente gli oggetti, bensì a riconoscere, innanzitutto, la realtà per intero, partendo
dalla sua forma e passando via via al riconoscimento delle diverse caratteristiche
dell’oggetto ( Alliegro M, 1993). Attraverso queste attività, si mira, in pratica allo sviluppo
della abilità manuali, ovvero quelle attività di motricità fine svolte con le braccia e con le
mani. Quando si parla di attività manuali si fa riferimento ad azioni come l’afferrare, il
tenere, il tastare, il prendere, il costruire, l’inserire, il tagliare, l’impastare. A questo
proposito, individuare tre tipologie di attività manuali:
 Le attività in cui si tiene un oggetto.
 Le attività esplorative.
 Le attività di coordinazione e manipolazione
Per le attività in cui si tiene un oggetto in mano, la vista gioca un ruolo subordinato, mentre
nelle attività esplorative, il senso visivo e quello tattile hanno ognuno un ruolo molto
specifico. La ruvidità o la consistenza di un oggetto, ad esempio, possono essere valutati
meglio con il tatto che con la vista (…). Nell’intervento didattico-educativo è importante
concedere ai bambini non vedenti tante occasioni in cui possono fare esperienze tattili
diversificate migliorando così le loro abilità manuali e la percezione degli oggetti. Spesso si
osserva che i bambini non vedenti sviluppano un’enorme competenza nella percezione degli
oggetti, nella maggior parte dei casi basta un leggero tocco di una piccola parte dell’oggetto
per far sì che lo riconoscano. I problemi maggiori nello sviluppo delle abilità manuali nel
bambino cieco sono le attività di coordinazione e di manipolazione come ad esempio
afferrare un oggetto oppure aprire una porta con la chiave: nel primo caso il bambino deve
imparare un movimento di afferramento preciso e mirato, mentre nel secondo è richiesto
l’uso di un «mezzo»e il «mettere insieme» in maniera adeguata due oggetti in base alla loro
funzione. Occorre, pertanto, proporre al bambino disabile visivo delle situazioni in cui possa
imparare ad afferrare in maniera mirata. Anche le abilità di manipolazione necessitano di
interventi adeguati dal momento che esse richiedono un lavoro coordinato di entrambe le
mani come per esempio costruire una torre con dei cubi. Per queste abilità di manipolazione,
il bambino ha a disposizione solo le informazioni tattili, cinestesiche e propriocettive che
non gli consentono al bambino di svolgere le relative attività con successo, soprattutto
quando richiedono una certa precisione nell’esecuzione. Il bambino sarà in grado di
svolgere adeguatamente queste attività solo dopo che le avrà comprese grazie ad istruzioni
verbali e dimostrazioni pratiche durante le quali gli si guida la mano (Brambing M., 2004).
Bonfigliuoli e Pinelli parlano di «guida fisica» per alludere all’assistenza fisica al bambino
durante l’attuazione di uno specifico movimento, in modo che possa percepire il ritmo e la
coordinazione necessari per eseguirlo. Si tratta di accompagnare e posizionare la parte del
corpo del soggetto per mostrargli in modo chiaro i movimenti necessari per realizzare una
certa attività. In questo modo, il bambino non vedente riesce meglio a comprendere i feed
back propriocettivi che lo stimolo tattile suscita in lui e ciò gli permette di ricavare
informazioni su come va effettuato un certo movimento. Se un bambino non vedente non
riesce ad apprendere tramite la dimostrazione e non riesce a sfruttare semplicemente le
indicazioni verbali, può essere funzionale ricorrere a stimoli tattili in aggiunta alla guida
fisica. Secondo le autrici, l’uso di queste strategie educative consiste nel fatto che il
bambino non vedente riesce a comprendere meglio i feed back propriocettivi che lo stimolo
tattile suscita in lui e ciò gli permette di ricavare informazioni su come va effettuato un certo
movimento. In pratica, la guida fisica gli fornisce uno stimolo cinestesico relativo alla
propria posizione nello spazio che indirizza verso il movimento corretto, ne aumenta la
comprensione e porta il soggetto ad essere più controllato e più consapevole delle proprie
azioni; ovviamente gli stimoli tattili e la guida fisica devono essere diminuiti man mano che
il bambino acquisisce maggiore sicurezza e progredisce nell’apprendimento (Bonfigliuoli
C., Pinelli M., 2010)
La progettazione didattica da parte dell’insegnate dovrà essere preceduta da un’attenta
osservazione che consentirà di individuare sia il contesto socio-familiare in cui il bambino è
inserito, sia le tipologie di esercizi ed attività da proporgli. Un bambino che nel proprio
contesto familiare è stato vissuto come non abile, incapace, manifesterà senz’altro rigidità
delle falangi, incapacità di manipolazione e sarà carente nella motricità fine; in questo caso,
quindi, prima di proporre attività finalizzate all’acquisizione degli apprendimenti di base di
lettura, scrittura e calcolo, sarà opportuno lavorare sui pre requisiti quale è l’educazione alla
percezione aptica. Al contrario, un bambino che ha imparato a non vivere la propria
disabilità come un limite e che quindi non manifesta problemi nella motricità e nella
manipolazione, chiaramente potrà essere subito iniziato, ad esempio, all’acquisizione del
codice Braille.
La presenza di un disabile visivo può essere anche l’occasione per proporre all’intera classe
percorsi o attività di consapevolezza sensoriale, di cui può giovare non solo il bambino non
vedente, ma anche i suoi compagni ai quali si offre la possibilità di comprendere meglio le
difficoltà e competenze del loro compagno, accostandosi gradualmente alle peculiarità di
questo canale sensoriale. Incoraggiare tutti i bambini ad usare le mani per conoscere e per
fare, è un indirizzo pedagogico affermato che può essere una risorsa per tutti; nel bambino
con disabilità visiva, in più c’è la valenza compensativa che promuove un potenziamento
della sua conoscenza. Attraverso la condivisione di giochi quali la tombola tattile o il
memory tattile, i bambini con gli occhi bendati possono sperimentare l’uso del tatto
divertendosi. Nell’ambito di una didattica inclusiva, può essere utile anche la presentazione
e condivisione del codice Braille che, come dice Basciani, “è un particolare strumento la cui
acquisizione è fonte di conoscenza, autonomia, libertà, pensiero, piacere estetico e
riflessione, di conferma dell’essere uomo attraverso la possibilità espressiva di un comune
linguaggio simbolico, riconosciuto e letto dagli altri uomini vedenti e non vedenti”. È
evidente,quindi, l’importanza del sistema Braille come forma di integrazione all’interno di
una classe. Stessa valenza può essere attribuita anche ai libri tattili che nascono per
rispondere alle necessità educative dei bambini con minorazione visiva, ma in realtà
possono essere fruibili ed utilizzabili da tutti, rispondendo al principio della condivisione
plurisensoriale. La lettura plurisensoriale, infatti, attraverso libri che si possono toccare,
manipolare, guardare, rappresenta una notevole fonte di sviluppo per ogni alunno, un
arricchimento da non sottovalutare anche per i bambini che non hanno problemi di carattere
visivo.
Sempre nell’ottica di un coinvolgimento dell’intera classe, è possibile realizzare produzioni
tattili utilizzando materiali di diverso tipo ed origine come sabbia, sassolini, cartoncini,
legno, stoffe; lo stesso utilizzo della colla, ad esempio, diventa occasione per tutti per
sperimentare nuove sensazioni. Nelle varie attività proposte, può essere utile dividere la
classe in piccoli gruppi in quanto la dimensione del piccolo gruppo è la più consona a
rendere il bambino non vedente più partecipe sul piano percettivo, più attivo sul piano
operativo, più propositivo sul piano sociale; infatti, nel contesto del piccolo gruppo,
l’attribuzione dei ruoli è chiara, la turnazione dei partecipanti è definita e il bambino può
sviluppare con maggiore autonomia, la propria partecipazione con i compagni (Arrighini E.,
Baudon C., Di Guida G., 2014).
In conclusione, si può affermare che stimolare la motivazione dell’esplorazione tattile,
educarla e sostenerla, condividere con i vedenti i contenuti tattili approfondendo così le
relazioni tra vedente e non vedente senza una discriminazione dovuta al deficit visivo, ma
anzi puntando sulla condivisione delle due esperienze cognitive, sono alcune delle azioni
che si possono intraprendere per superare le barriere culturali e fisiche che riguardano
alcune categorie di persone come i disabili visivi e, nel contempo, per avviare un percorso
di integrazione del non vedente in un mondo in cui “ l’egemonia della vista è nelle nostre
società, il riferimento primo. L’educazione sensoriale diventa il modo attraverso il quale il
bambino non vedente si congiunge con il mondo”(Le Breton D., 2007).
L’orientamento spaziale: proposte didattiche inclusive
Le problematiche attorno alle quali si sviluppa l’idea di crescita e autonomia del bambino
con disabilità visiva all’interno del contesto scolastico, sono complesse e diversificate. Della
questione della vivibilità del contesto, ad esempio, si è discusso a lungo, cercando di
stabilire, anche dopo l’introduzione della legge 517/77, se non fosse meglio continuare a
educare i bambini con disabilità visiva all’interno di istituti speciali. Tali luoghi erano,
infatti, organizzati in funzione delle loro specifiche esigenze, affinché i bambini si potessero
muovere in autonomia e con disinvoltura, sapendo di trovarsi in un ambiente protetto,
insieme ai coetanei con lo stesso tipo di deficit. Il concetto pedagogico che veniva
perseguito era la «normalizzazione del cieco», prerequisito per l’inserimento in società;
fino agli anni quaranta, addirittura, si suggeriva alle famiglie dei ragazzi ospiti degli istituti
di non farli rientrare per le vacanze estive, per timore che regredissero negli apprendimenti
raggiunti fino a quel momento. Tuttavia gli istituti mancavano di alcune fondamentali
qualità quali la crescita equilibrata dei bambini, gli stimoli affettivi e la possibilità di
socializzare, in quanto le regole previste al loro interno, ostacolavano la creazione di
rapporti profondi, con conseguenze negative sul piano dell’adattamento sociale.
Alcuni autori ritengono che, nel caso particolare della disabilità visiva, uno degli aspetti di
cui ogni insegnante dovrebbe tener conto nell’ottica di promuovere l’autonomia del
bambino, è quello relativo alla mobilità, ovvero il fatto che il bambino deve imparare a
muoversi ed orientarsi con disinvoltura sia all’interno degli spazi scolastici sia all’esterno.
Risulta, quindi, chiaro come l’ambiente meno strutturato e più naturale della scuola possa
offrire ai bambini non vedenti maggiori stimoli educativi; nonostante ciò, il contesto
scolastico non sempre è «attrezzato» per rendere efficienti ed efficaci questi stimoli. Per
«attrezzato» si intende proprio la strutturazione degli ambienti, delle aule, dei corridoi, che
devono garantire al non vedente l’autonomia negli spostamenti. Un bambino che entra per la
prima volta in un ambiente sconosciuto come quello scolastico, vive inevitabilmente
emozioni di ansia e paura poiché, lontano dagli spazi e dai volti conosciuti e rassicuranti
presenti in famiglia; a maggior ragione, se ha una disabilità visiva, vivrà un’ansia e
un’angoscia maggiori perché privo di punti di riferimento che possano rassicurarlo sul fatto
che si trova in un luogo nuovo ma amichevole e non pericoloso.
Di qui l’importanza delle attività di orientamento e mobilità, definite da Brambing come la
capacità di spostarsi verso una meta precisa, passando da un luogo all’altro. Si distinguono
in abilità di «orientamento spaziale», quando il punto di arrivo è percepibile direttamente da
quello di partenza, e «abilità di orientamento geografico» quando, invece, il punto di arrivo
non è percepibile nel momento in cui ha inizio il movimento (ad esempio nello spostamento
da una stanza all’altra senza l’aiuto di stimoli sonori). Ovviamente la vista rappresenta il
canale
preferenziale
per
l’orientamento
in
quanto
permette
di
percepire
contemporaneamente tanti stimoli, di localizzarli e di comprenderne i rapporti spaziali. In
particolare, svolge quella che è stata denominata «funzione percettiva», che permette cioè di
riconoscere in anticipo un eventuale pericolo.
Mentre i bambini vedenti apprendono i rapporti spaziali fra gli oggetti molto prima di
camminare autonomamente, quelli con disabilità visiva possono comprendere la struttura
spaziale dell’ambiente in cui sono inseriti solamente se capaci di camminare da soli e,
quindi, di esplorare autonomamente e attivamente il contesto (Brambing M., 2004). Questo
processo di apprendimento per i bambini non vedenti è particolarmente complesso e
faticoso perché né il canale uditivo, né quello tattile forniscono la stessa quantità di
informazioni rispetto al canale visivo. Mentre il canale visivo fornisce sufficienti
informazioni per raggiungere una meta, le informazioni acustiche e tattili devono essere
associate a livello cognitivo per poter essere di aiuto al bambino (…). Solo con una
maggiore acquisizione di abilità cognitive e di linguaggio, il bambino non vedente sarà in
grado di raggiungere alcune abilità di orientamento(Brambing M., 2004).
La costruzione immaginativa dello spazio deve costituire, pertanto, una delle maggiori
preoccupazioni didattiche dell’insegnante nel periodo della prima scolarizzazione, poiché si
tratta di un elemento inderogabile dell’autonomia motoria e dell’autonoma deambulazione
(…). La costante e progressiva costituzione di un quadro mentale dello spazio e le correlate
immagini propriocettive ed esterocettive, sono connesse alla graduale maturazione del senso
percettivo, ovvero dei sensi vicarianti residui il cui idoneo sfruttamento permetterà al
soggetto di potersi ben orientare nell’ambiente circostante. Un corretto orientamento
spaziale per chi non vede, è un fondamentale traguardo su cui poggiano la capacità di
muoversi
in
maniera
finalizzata,
l’attitudine
all’esplorazione
dell’ambiente,
la
sperimentazione di sempre nuove realtà che saranno per il soggetto, un arricchimento
umano e culturale, contribuendo significativamente alla formazione della sua personalità di
base. Tutte le percezioni sensoriali, l’individuazione degli ostacoli e delle sorgenti sonore,
olfattive e termiche, l’avvertimento delle oscillazioni dell’aria in movimento e degli sforzi
muscolari, rappresentano importanti elementi per la costruzione di quadri spaziali
immaginativi che l’insegnante deve favorire nell’alunno attraverso situazioni stimolo dal
vivo o con l’ausilio di sussidi (casellario Romagnoli, pezzi per costruzioni, mattoncini in
legno, carte topografiche in rilievo per i percorsi effettuati o da effettuare da parte del
bambino). Il bambino deve essere dotato del maggior numero possibile di immagini guida
di inequivocabili e precisi punti di riferimento spaziali nell’approccio con le diverse realtà
ambientali. La chiarezza delle indicazioni, la precisione nel descrivere verbalmente i
dettagli, la preventiva ricognizione tattile degli ambienti, dei luoghi, dei percorsi, si
pongono come fattori imprescindibili per lo sviluppo di chiare idee del mondo circostante.
Per i primi contatti con la realtà, è sempre necessaria la ricognizione guidata e graduale di
ambienti quotidianamente praticati dal bambino partendo, ad esempio, dall’aula scolastica
di cui egli deve conoscere la forma, le dimensioni, le diverse aperture (porte, balconi,
finestre) e la disposizione rispetto ad altri punti di riferimento. Occorre, tuttavia, tener
presente la necessità di non sostituirsi mai al bambino il quale deve impegnare, esperire
ogni sua risorsa per risolvere ogni piccolo problema, sempre sotto il vigile sguardo
dell’adulto.
Al fine di fornire al bambino un quadro immaginativo dello spazio, possono essere utili
alcune situazioni stimolo.
 Considerato un punto di riferimento spaziale o una realtà ben evidenziata (un
pilastro, una finestra ecc.), si invita il bambino a percorrere la propria aula lungo le
mura perimetrali, scorrendo con la mano sulle pareti, al fine di rendersi conto della
lunghezza di questa, degli eventuali ostacoli costituiti dalla presenza di pilastri, delle
deviazioni da compiersi. Ripetuta più volte questa esperienza, si può chiedere al
bambino di riprodurre una piantina della realtà osservata, con un disegno sul
cuscinetto di gommapiuma, fissandovi il cordoncino con degli spilli, o modellando
della creta, o utilizzando pezzi da incastro. La più o meno corretta riproduzione di
quanto è stato osservato, fornisce all’insegnante elementi di valutazione utili a
stabilire la correttezza del quadro immaginativo spaziale creato dal bambino.

Dopo aver appurato la corretta costruzione immaginativa spaziale
dell’aula, si può invitare il bambino ad una ricognizione di quanto si trova
nell’ambiente,
partendo
da
precisi
punti
di
riferimento
e
procedendo
nell’esplorazione, con un certo ordine direzionale, affinché il soggetto non abbia
difficoltà ad orientarsi. È opportuno che le prime esplorazioni ambientali avvengano
in luoghi ampi, poveri di arredi e oggetti che potrebbero creare al soggetto degli
inconvenienti senso percettivi e nell’orientamento.

Fissate delle immagini guida, si chiede al bambino di effettuare dei
percorsi finalizzati al raggiungimento di una meta, che può essere l’aula adiacente
alla propria, i servizi igienici, la palestra. Anche in questo caso, si procederà alla
valutazione della correttezza del quadro immaginativo spaziale (Alliegro M., 1993).
In queste attività resta di primaria importanza il coinvolgimento degli altri bambini che,
bendati, possono svolgere gli stessi esercizi giungendo, in questo modo, anche a sviluppare
una maggiore consapevolezza della condizione di disabilità vissuta dal compagno.
Oggetto di altre proposte didattiche possono essere i molteplici pre requisiti alla capacità di
orientamento, quali sono ad esempio i rapporti topologici. A tal proposito si possono
proporre esercizi quali:
 invitare i bambini a sollevare in avanti prima, il braccio destro, poi, il sinistro e
viceversa.
 Invitare i bambini a sollevare in avanti prima, la gamba destra, poi, la sinistra e
viceversa.
 Disporsi di fronte a ciascun bambino, invitandolo ad indicare quale sia la destra e
quale la sinistra di chi lo osserva, e quale sia la sua destra e quale la sua sinistra
(considerando l’età e lo sviluppo intellettivo del bambino, si può affrontare il
discorso sull’immagine speculare, che il bambino si troverà a sperimentare
direttamente con più di un simbolo dell’alfabeto Braille).
 disponendo degli oggetti sulla destra e sulla sinistra del bambino, lo si invita ad
indicare quale oggetto sia sulla destra e quale sulla sinistra, rispetto a sè stesso e, poi,
rispetto a chi lo osserva.
 chiedere al bambino di camminare in linea retta, segnalandogli la direzione con la
voce o con un fischietto, invitandolo, poi, a svoltare sulla destra o sulla sinistra.
Trattandosi di abilità legate al processo di lateralizzazione e, come tali, sottese, al processo
di acquisizione della letto-scrittura, gli esercizi proposti conservano la loro intrinseca
efficacia anche per il resto della classe.