Ljubic, i sensi di colpa più forti dell`amore Tito Andronico e il sangue

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Ljubic, i sensi di colpa più forti dell`amore Tito Andronico e il sangue
Ljubic, i sensi di colpa più forti dell’amore
Tito Andronico e il sangue nella ex Jugoslavia
Salvatore Lo Iacono
nevitabile, dopo la lettura di “Mare calmo” (188 pagine, 14,50
euro), pensare a “La figlia”, il capolavoro della spagnola Clara
Usòn, che già da qualche mese è possibile trovare nelle librerie,
grazie a Sellerio. Appena pubblicato da Keller, raffinata casa editrice di Rovereto, e tradotto dal tedesco all’italiano da Franco Filice, “Mare Calmo”, romanzo del poco più che quarantenne Nicol
Ljubic, ha uno scenario spazio-temporale identico: la guerra dei
Balcani e le sue eredità – in ogni senso – con spaccato familiare
nei nuclei di due criminali di guerra, e tonnellate di sensi di colpa
che schiacciano le giovani protagoniste femminili, omonime, si chiamano entrambe Ana: Ana
Mladić, erede del macellaio di Srebenica, ragazza realmente esistita e suicidatasi, ne “La figlia”; Ana Šimić, figlia di Zlatko Šimić, alla
sbarra al tribunale dell’Aja e accusato d’essere
coinvolto nell’omicidio di quarantadue persone,
musulmani arsi vivi, nel 1992 a Visegrad, nella
Bosnia devastata dalla pulizia etnica. Il libro di
Ljubic, nella sue edizione originale, risale al
2010, mentre quella di Usòn è del 2012. E non
è la sola differenza. Quanto “La figlia” è massimalista, a tratti magmatico e complesso nell’intreccio, tanto “Mare calmo” – senza per questo
non concedersi flashback – è asciutto ed essenziale, e non solo per lo stile chiaro e preciso.
Qualche dinamica e alcuni meccanismi, però,
sono identici: sono entrambi romanzi coraggiosi, sensibili, senza punti di visti scontati, e
hanno alcuni ripetuti riferimenti letterari, a cominciare da Ivo Andrić. E poi hanno un’anima
shakespeariana di fondo, che in “Mare calmo” è incarnata da
Šimić, che prima della disintegrazione della Jugoslavia era un anglista di fama, innamorato del Bardo; poi, invece, i riferimenti al
drammaturgo hanno ben altro significato, visto che Zlatko comincia a immedesimarsi in Tito Andronico, efferato e macabro vendicatore dell’omonima tragedia di William Shakespeare. Quasi a
metà del romanzo si legge: «”Io sono Tito Andronico” non esprimeva forse la pretesa di non volersi limitare al ruolo di spettatore?
Non dava forse la precisa idea del desiderio di essere qualcuno in
grado di provocare, da par suo, delle tragedie, qualcuno che
avesse la forza di non annientare se stesso ma altri? Ana aveva
I
potuto eludere questi quesiti?». Più avanti Ana dice parole indelebili al ragazzo che ama, parole che dimostrano come Ljubic
non creda alla letteratura come portatrice di verità o valori, ma
come qualcosa in grado di portare in superficie quello che resta
in profondità: «Nel posto dove sono nata sarei anche potuta venire al mondo come bosniaca. Sarei stata la stessa persona,
eppure tu mi avresti guardata con occhi diversi – come vittima.
In quanto serba, tutti mi vedono come potenziale carnefice,
senza sapere niente della mia vita e dimenticando che ci sono
vittime anche tra i carnefici e che le vittime diventano carnefici nel momento in cui ne hanno
l’opportunità». L’episodio di Visegrad – eccidio
di uomini e donne di ogni età – è reale, Šimić è
un personaggio immaginario (forse ispirato da
più figure), eppure vivo e verosimile sulla pagina, a cominciare dall’indifferenza, dalla spocchia e dalla sfrontatezza con cui affronta il
processo. Lo accusa una ragazza, l’unica sopravvissuta (anche nella realtà ci fu una sola superstite). A fare le spese dei suoi guai sono la
giovane figlia, guardarobiera di un teatro, e il
suo amore con Robert, tedesco, figlio di croati
che hanno azzerato passato, lingua, usi e costumi pur di “salvarlo”. Il loro è un sentimento
senza pregiudizi, nato lontano dai bombardamenti, a Berlino. Il rapporto s’incrina quando
Robert – che ha visto solo in tv la guerra nei Balcani – scopre per caso alcune lettere dal carcere del padre di Ana, che lei, incapace di
riferire l’indicibile, lascia in bella vista. Non è un
dettaglio insignificante, mette in discussione tutto, esplodono il
dolore d’essere stato “tradito” da una parte, dall’altra il rimorso
per le colpe altrui. Robert vuole capire di più e va all’Aja, mescolato a studenti di Giurisprudenza, per assistere al processo,
dove sfilano testimoni dell’accusa e della difesa.
Nelle pagine di “Mare calmo” – troppo semplice “venderlo”
come una versione aggiornata di Romeo e Giulietta – l’amore
finisce per essere calpestato dal peso della guerra, dall’impossibilità di scrollarsi il passato di dosso, dalle ombre di un passato tutt’altro che remoto che soffocano i sentimenti e
precipitano i tre protagonisti in un gorgo fatale per due dei tre.
Nessuno sa dell’aborto terapeutico, il romanzo civile di Sparaco
n romanzo civile, figlio di una testimonianza dolorosa e di
una scelta complessa. L’autrice è romana, si chiama Simona Sparaco, è anche sceneggiatrice e ha alle spalle un
paio di romanzi per Newton Compton. L’ultimo, però, è un salto di
qualità: “Nessuno sa di noi” (256 pagine, 12 euro) ha anche conquistato la ribalta della finale del premio Strega (stritolato tra i
grandi editori, ma riflettendo di luce propria, non di accordi sottobanco o anche pubblici) e migliaia di lettori, mettendo in scena un
dolore probabilmente vissuto sulla pelle, il gesto estremo di una
coppia che rinuncia alla nascita di un figlio. Sì perché Luce, la protagonista di “Nessuno di noi” – pubblicato dall’editore Giunti – si
trova davanti alla possibilità di ricorrere all’aborto terapeutico al
settimo mese di gravidanza, una scelta che avrebbe ripercussioni
U
indelebili sul corpo e sulla mente. C’è disperazione, ma anche
coraggio, c’è dolore – dinanzi alla ferocia di una diagnosi che
non dà speranza di vita – ma anche forza d’animo, in un contesto, quello italiano, che è piuttosto restrittivo in tema di bioetica. E la maternità (tema che da Fallaci a Maraini a, in misura
minore, Parrella, in Italia, ha sempre fatto discutere) è centrale
nell’esperienza di chi scrive, ma lo diventa soprattutto per chi
legge.
Qualcosa di non particolarmente riuscito? La figura di Pietro –
l’altra metà della coppia – figlio d’industriale, solo all’apparenza
forte e razionale nel calvario. Ma è una piccola pecca di un romanzo che prende, fa riflettere, merita d’essere letto.
S.L.I.
22luglio2013 asud’europa
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