ACQUARIO ROMANO Roma 22 maggio 2006 Presentazione Caos

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ACQUARIO ROMANO Roma 22 maggio 2006 Presentazione Caos
ACQUARIO ROMANO
Roma 22 maggio 2006
FRANCESCA SERAFINI
Presentazione Caos Calmo
Nel 1996, Sandro Veronesi apriva la sua introduzione a uno studio degli Scrausi sulla lingua
della canzone scrivendo “I ragazzi sono tornati”. All’epoca si riferiva al fatto che qualche tempo
prima avevamo scritto un altro saggio e in quell’occasione tornavamo, appunto, sullo stesso
argomento.
Sempre nel ’96, in occasione del cinquantenario dello Strega, gli Scrausi candidavano il suo Live
al premio. Ora, a dieci anni esatti da quell’esperienza, i ragazzi sono tornati un’altra volta. Un
po’ meno ragazzi di allora, ma insomma, almeno con intatto lo stesso entusiasmo di un tempo.
Solo che, come si può leggere nella pagina di apertura del blog (http://caoscrauso.blogspot.com/)
con cui festeggiamo questo evento, in realtà non si torna da nessuna parte, perché per certi versi il
ritorno non è che un equivoco sentimentale, almeno per due ragioni opposte, eppure entrambi
plausibili, come un ossimoro riuscito.
La prima è che il tempo cambia il luogo dell’incontro fino a renderlo un altro: e in un posto dove
non si è mai stati non si torna mica. La seconda è che nel luogo del primo incontro chi c’è, o c’è
stato anche solo una volta, con purezza di cuore, forse non se n’è mai andato per davvero e dunque
non ha bisogno di tornare.
È questo qui il caso degli Scrausi.
È vero che molte cose sono cambiate dal 1996. È incredibile la quantità di ferite ma anche di
cose belle che si possono accumulare in una manciata di anni. Mentre intorno a noi, nel bene e
nel male, cambia anche tutto il resto.
All’epoca, per esempio, nessuno di noi poteva immaginare che un ministro della repubblica
avrebbe causato un incidente diplomatico mostrando una maglietta sconveniente. Nessuno, a
dirla tutta, avrebbe potuto immaginare che un uomo di quel genere potesse aspirare alla carica di
ministro, ma tant’è. Nel 1996, in molti dicevano che gli arbitri favorivano la Juventus, ma
nessuno poteva immaginare fino a che punto e neanche che quel punto potesse essere scoperto.
Nel ‘96, presentando Live, mi capitò di citare il pezzo scritto da Sandro su suo nonno, che avevo
trovato bellissimo, perché ci ritrovavo il mio, altrettanto speciale, che all’epoca aveva ancora
dieci anni esatti per starmi vicino con le sue frasi giuste e l’incanto del suo attaccamento alla
vita.
In quell’occasione, di Live, qualcuno aveva detto che non si trattava di letteratura ma di
giornalismo, come se la letterarietà, la bellezza di un’opera, non consistesse solo nello stile e
nello sguardo sul mondo del suo autore, che con la sua capacità di creare metafore può
trasformare, d’incanto, in letteratura qualunque cosa, per il modo stesso in cui la guarda e la
racconta.
C’è un passo di una canzone bellissima di De André − per tornare su un terreno che ci appartiene
e ci lega, Sandro e noi Scrausi − che dice «in un vortice di polvere altri vedevan siccità / a me
ricordava la gonna di Jenny in un valzer di tanti anni fa». Per quanto mi riguarda, per me è
questa la letteratura: la magia che di colpo, per il modo in cui la guardi, trasforma una manciata
di sabbia in una storia e un pezzetto di vita vissuta. A patto, naturalmente, che si sia abbastanza
generosi e disposti a mettere in gioco la parte più intima di sé.
È questa la specialità della scrittura di Veronesi. Può essere consapevole come tutti che il vortice
di sabbia sia solo l’effetto della siccità, ma quel che riesce a comunicare, attraverso la sua lente
deformante, è l’effetto che quel vortice procura in lui, accendendo tante storie.
Caos calmo in questo senso non fa eccezione. Tante sono le metafore che contiene a partire da
quella che offre la stessa chiave di lettura del romanzo. E cioè quella cosa che la maestra spiega a
Claudia, la figlia del protagonista, a proposito del fatto che «in matematica ci sono certe
operazioni reversibili e certe altre irreversibili». E che «anche nella vita è lo stesso. E che è
molto meglio fare cose reversibili, se si può scegliere».
Il punto è che al centro del libro c’è una di quelle cose che non si possono scegliere. E che sono
definitivamente, irrinunciabilmente, irreversibili, come la morte.
Ma è una morte che non vediamo, che non viene messa in scena, è off-screen, come si direbbe
dalla mie parti, cioè dalle parti della fiction. Perché mentre quella morte avviene − quella della
quasi-moglie di Pietro, il protagonista, che costituirà il presupposto fondamentale della
narrazione − lui è intento a salvare un’altra donna dalla sua quasi-morte, ancora reversibile, come
si rivelerà dopo che proprio Pietro l’avrà salvata.
In questa simmetria di eventi, perfetta, esatta, c’è tutta quanta la potenza del romanzo, esaltata da
una raffinata spia linguistica che è il contraltare del titolo, perfetto ossimoro allitterante.
A un certo punto, infatti, sulla spiaggia in cui Pietro e il fratello si stanno riposando dopo aver
fatto surf, sopraggiunge la richiesta di soccorso per due donne che stanno affogando e che
scatena immediata una «stasi frenetica», in cui tutti urlano e nessuno fa niente. Tranne Pietro e
suo fratello, che si gettano in acqua per scongiurare il peggio.
Il peggio, però, contemporaneamente, avveniva da un’altra parte, visto che mentre Pietro salvava
la donna, appunto, quella che avrebbe dovuto sposare qualche giorno dopo moriva intanto sotto
gli occhi della loro figlia senza che lui potesse fare niente.
È da qui che comincia il “caos calmo”. Quella condizione per cui, dentro, è tutto smosso,
caotico, difficile da accettare e comprendere, eppure calmo. Come chi aspetta che la botta arrivi,
senza avere mai la forza di farla arrivare e piuttosto prova a ricomporre il mosaico
intrattenendosi con delle liste che non facciano pensare al tassello mancante.
Quello che colpisce a me di questo romanzo è proprio l’efficacia con cui si mette in scena
l’impossibilità, l’incapacità, di trattare il dolore. Non si può. Di fronte al dolore, il romanzo ci
suggerisce che si possono fare due cose. Si può decidere di rifiutarlo, sputandolo fuori, addosso a
chiunque e, più colpevolmente, a chi ne ha uno molto più grande. Come fanno tutti i personaggi
− alcuni, peraltro, bellissimi − che ruotano intorno a Pietro e lo raggiungono nel suo esilio
proprio per questo: per riversargli addosso ciò che non riescono a capire e ad affrontare.
L’altra strada è proprio quella di Pietro: statico, immobile, nel suo esilio, disposto a dare ascolto
al dolore di tutti piuttosto che affrontare il suo. Senza fare niente, se non rimandare
l’appuntamento con la botta che dovrebbe arrivare eppure non arriva mai, in un ideale
prolungamento dell’attesa dei Tartari a cui condannare un nuovo Giovanni Drogo, salvato questa
volta dalla sua morte, ma non da quella di sua moglie.
È in questa sospensione che sta, per me, la bellezza del libro. Un libro che noi Scrausi, ognuno
per un motivo diverso, abbiamo amato fin dal primo momento. Va anche detto che siamo in
tanti, e tutti con delle opinioni molto personali e circostanziate e per questo − tutti noi
irrinunciabilmente veronesiani − ci siamo anche divisi in un gioco allegro del tipo “a chi vuoi più
bene a mamma o papà”. Nel senso che per alcuni la vetta insuperata di Veronesi resta il Venite
venite B-52 e altri invece si domandano se Sandro riuscirà a stupirci ancora, magari tra altri dieci
anni, con un libro altrettanto compiuto e necessario come Caos calmo.
Io sono tra questi. Penso che tra tanti libri davvero belli, Sandro ci abbia regalato con questo il
migliore; che è, dal mio punto di vista, tanto più eversivo del Venite venite con cui lui aveva
messo in discussione l’impianto stesso del romanzo tradizionale.
Perché in Caos calmo Veronesi vola ancora più in alto e ci regala un libro sulla morte che nega e
sovverte addirittura i principi della tragedia classica, in modo ancora meno catartico e
consolatorio di quanto non avesse già fatto Moretti nella sua Stanza del figlio. Anche lì la morte
è off-screen. Anche lì il protagonista è incapace di prendere atto del dolore e della perdita. E
tuttavia l’arrivo dell’amica del figlio se non permette una catarsi, almeno ne annuncia il
tentativo. Il terzo atto non manca.
Come manca invece in Caos calmo. Il cui protagonista non si sposta mai in tutto il suo arco
narrativo da quell’istante lunghissimo in cui «tutt’a un tratto, tutto insieme, vedo tutto questo,
perché non c’è niente da fare: al centro della scena, a casa mia, davanti a mia figlia, a due miei
dipendenti, a due coppie di miei vicini e a mio fratello appena arrivato insieme a me, con
un’ambulanza lampeggiante parcheggiata sullo sfondo accanto alla mia macchina, tutto questo
c’è».
E io ringrazio Sandro di questo, di aver rifiutato programmaticamente ogni forma di
consolazione, come invece chiedono sempre di fare a me, quando scrivo di fiction. E di averla
rifiutata con quella frase perfetta che chiude il libro: “E ora mi passate Lara, per piacere?”.
È per questo che sono orgogliosa di testimoniare allo Strega insieme agli altri Scrausi
l’importanza di questo romanzo. I premi letterari, in fondo, a questo servono. Sono delle buone
occasioni per segnalare alla comunità dei lettori la bellezza di un libro che varrebbe la pena
leggere.
Mi sento, in questo, come certe infermiere delle cliniche di chirurgia plastica iraniane. Ho letto
da qualche parte che in Iran c’è la più alta percentuale del mondo di rinoplastiche. Un dato che
colpisce e a cui si può trovare, a pensarci, una spiegazione plausibile, perché in un posto in cui le
donne possono mostrare solo il naso, è importante che quel naso sia bello. Pare, in proposito, che
ben l’80% delle infermiere che lavorano in queste cliniche abbiano a loro volta il naso rifatto,
perché se ne mostrano uno sistemato bene allora tante più donne decideranno di affidarsi allo
stesso chirurgo per raggiungere quel risultato.
Ecco, vorrei che almeno una cosa tra quelle che ho detto, forse un po’ troppo a lungo, vi facesse
venire la voglia di prenotare un posto nella nostra clinica per rifarvi il palato, o di piantare − per
uscire da una metafora travasandomi in un’altra − una tenda nel nostro caoscrauso.