C`è una bolla in mezzo al mare

Transcript

C`è una bolla in mezzo al mare
C'è una bolla in mezzo al mare
C'è una bolla in mezzo al mare
Pietro Spirito
"Le multinazionali del mare" di Sergio Bologna: i cambiamenti dell'economia
marittima; le portacontainer come fabbriche post-fordiste; gli effetti della crisi
Le grandi navi porta container come fabbriche post-fordiste in alto mare; una bolla marittima
parallela alla bolla immobiliare e a quella finanziaria; un gigantismo che si è poi ripiegato su se
stesso al momento dello scoppio della crisi, lasciando in acqua parecchie vittime. Il libro di Sergio
Bologna, “Le multinazionali del mare”, ci accompagna nei processi di profondo cambiamento di
assetto industriale che hanno caratterizzato l'organizzazione del sistema marittimo e portuale,
dagli anni d'oro della globalizzazione alla crisi dei giorni nostri.
I fenomeni di delocalizzazione produttiva e di globalizzazione che si sono determinati con
intensità nel corso degli ultimi decenni non sarebbero stati possibili se l'economia portuale e
marittima avesse conservato le caratteristiche proprie dell'economia fordista. Nel paradigma della
prima industrializzazione, i porti erano soprattutto punti di agglomerazione dei grandi apparati
produttivi di base, che si localizzavano a ridosso delle banchine per sfruttare le economie
logistiche possibili nel ciclo tra approvvigionamenti di materie prime e distribuzione del prodotto
finito. Prevaleva in quella fase la dimensione del porto industriale, ribaltando una tradizione che
aveva visto il sistema degli interessi essere piuttosto originariamente orientato al modello del
porto commerciale, all'interno del quale i flussi di merce erano governati dalla domanda del
territorio retrostante (hinterland), generando, all'interno del sistema portuale, tutta una serie di
attività di servizio e di intermediazione che erano state l'origine dei tanti mestieri cresciuti attorno
al traffico marittimo ed alle banchine.
L'unitizzazione dei carichi, indotta dalla diffusione del container, ha determinato, nei decenni più
recenti, una sostanziale discontinuità nel sistema dei trasporti, che, assieme ai processi di
deindustrializzazione degli insediamenti portuali, ha mutato radicalmente il volto ed il modello
organizzativo di una delle attività economiche più antiche dell'uomo. I terminal container hanno
consentito un processo di industrializzazione dell'attività portuale, determinando l'eliminazione
dei fabbricati di magazzino sulla banchina, la costruzione di ampi piazzali per lo stoccaggio dei
contenitori, l'automazione dei processi di trasferimento intermodale della merce. E' cambiato
radicalmente, in un tempo relativamente breve, il panorama portuale, sostanzialmente oggi
caratterizzato contemporaneamente, nei porti che hanno maggiore storia, da aree
deindustrializzate che hanno subito processi di riqualificazione urbana del
waterfront, e nuovi insediamenti di terminal specializzati per la gestione dei carichi.
Il traffico dei container è diventato il termometro della globalizzazione e della
internazionalizzazione dei flussi logistici, anche se, come ci ricorda Sergio Bologna nel suo libro, i
traffici di rinfuse solide e di general cargo sono parte ancora rilevante dei flussi globali di merce.
Dal 1990 al 2007, il volume dei contenitori movimentato nei porti è passato da 25 a 125 milioni di
TEU (
twenty equivalent unit, il container da venti piedi che è l'unità di misura del traffico). Ed è
cambiato profondamente, per effetto dell'avvento dei container, il mercato del trasporto marittimo,
attraverso un processo di concentrazione proprietaria di dimensioni radicali: oggi 15 compagnie
controllano il 66% della flotta full container mondiale, pari al 77% della capacità offerta, se si
considerano solo le navi con capacità superiore ai 1.000 TEU. Tra le prime cinque compagnie del
Documento esportato da www.sbilanciamoci.info
1 di 4
mondo, quattro sono europee (Maersk, MSC, CMA-CGM ed Hapag Lloyd).
Più della metà dell'armamento utilizzato per il trasporto dei contenitori non è però di proprietà
degli armatori stessi: il 51,4% delle navi a disposizione dei primi 15 operatori mondiali è
noleggiato, il 47% in termini di capacità. La crisi degli ultimi due anni ha non solo rallentato i
programmi di investimento, ma ha anche determinato il fermo di una parte consistente della flotta
operativa: a maggio del 2009 erano ferme 576 navi e 78 ordini erano stati revocati.
In tale gigantesco cambiamento, non tutti i porti hanno reagito allo stesso modo. Anzi, i modelli di
funzionamento operativo dei porti europei sono profondamente differenti. Scrive Bologna: “A
differenza dei grandi porti italiani, che distano in media più di cento chilometri dai maggiori
mercati, e utilizzano soprattutto il camion, Anversa ed Amburgo smistano la maggioranza dei
container in import e in export su strada in un'area distante non più di 50 chilometri dal porto,
utilizzando intensamente il treno per le medie-lunghe distanze”.
Insomma, mentre i porti italiani sono al servizio sostanzialmente esclusivo del sistema produttivo
nazionale, se si escludono i casi dei nostri porti di
transhipment, che svolgono una funzione nella rete globale dei collegamenti marittimi (Gioia
Tauro e Taranto), i porti di Nord Europa sono al servizio dell'intero sistema produttivo europeo,
avendo puntato su modelli di organizzazione basati sulla efficienza e sulla riduzione dei tempi
medi di sosta dei contenitori (
dwell time).
Vale la pena di sottolineare che, se la capacità del terminal portuale lo consente, soste
prolungate, oltre il periodo di franchigia – di solito una settimana –, possono essere una fonte di
introiti per il terminal altrettanto interessante rispetto quelli generati dalle operazioni di sbarco e di
imbarco. Quando si sostiene che i porti italiani potrebbero essere attrattivi nei traffici
transoceanici per evitare il giro di navigazione necessario per giungere ai porti del Nord Europa,
risparmiando 4-5 giorni di transit time, si omette di segnalare che i tempi di sosta dei container nei
porti italiani assumono dimensioni temporali ben più dilatate (sino a 15-20 giorni), forse anche per
l'interesse dei gestori dei terminal a giocare la propria redditività sull'allungamento dei tempi di
sosta, piuttosto che non sulla efficienza del periodo di attraversamento. Come si legge nel libro,
“l'immagine idilliaca di una
supply chain come sistema dove tutti ci guadagnano, si scontra con una realtà fatta di astuzie e
di molte zone d'ombra, dove il concetto di efficienza è tutt'altro che lineare, e talvolta contraddice
l'idea del guadagno”.
La trasformazione del modello industriale proprio dell'economia marittima e portuale modifica la
centralità dei soggetti che compongono la catena del valore: se prima era il
carrier, il soggetto che trasporta la merce per mare da porto e porto, ad essere l'elemento
strategico di riferimento, oggi sempre maggiore rilevanza assume lo
stevedor, il soggetto che scarica e carica la merce nei porti. Così come si è formato un mercato
oligopolistico degli armatori, negli ultimi due decenni si è consolidato un mercato oligopolistico dei
gestori dei terminal, con processi di concentrazione, di privatizzazione e di liberalizzazione delle
banchine portuali.
Documento esportato da www.sbilanciamoci.info
2 di 4
Si è affermato un modello di integrazione orizzontale, che ha visto i principali armatori
protagonisti diretti anche nella gestione dei terminal. In tempi più recenti, il focus si sta
ulteriormente spostando sui collegamenti terrestri, con l'affermazione del concetto di
“regionalizzazione del porto”, inteso come area vasta di governo del retroterra logistico. Il porto
diventa uno snodo tra i flussi marittimi e l'inoltro verso le destinazioni finali della merce, in un
corridoio che deve gestito secondo una dimensione integrata.
Insomma, il ciclo economico tende ad integrare attività marittime, portuali e terrestri in una regia
unitaria. Se osserviamo la lista dei primi 20 gestori di terminal, oltre il 50% sono espressione
proprietaria di interessi armatoriali. Il processo di concentrazione che si è realizzato assume
proporzioni davvero robuste: circa tre quarti del traffico globale di container nei porti del mondo è
trattato in terminal nei quali i primi cinque operatori hanno una quota pari almeno al 10%. Il
modello proprietario ha visto la presenza crescente di operatori privati, che agiscono
generalmente come soggetti concessionari; va però sottolineato che i primi due terminalisti del
mondo, PSA (Port of Singapore Authority) e DPW (Dubai Ports World), sono società pubbliche
controllate da due Stati.
Nell'analisi di Bologna è particolare interessante, anche perché poco studiata, la dimensione
finanziaria dello
shipping, che riproduce le stesse dinamiche perverse della speculazione sperimentata nel settore
immobiliare. Nella sola Germania, i crediti finanziari al settore, a fine 2006, erano pari a quasi 80
miliardi di euro, di cui 28,5 sottoscritti nello stesso 2006.
Cavalcando l'onda di tassi di crescita significativi per tutto lo shipping, e con previsioni che ancora
segnalavano un'onda lunga di futuri incrementi, si sono cominciate a costruire navi anche senza
aver sottoscritto impegni di noleggio con gli armatori, nella convinzione che fosse l'offerta e
generare la domanda, nella migliore delle tradizioni neo-classiche che precede sempre
l'esplosione delle bolle speculative.
Scrive il Lloyd's Annual Report 2008, nel libro: “La maggior parte della flotta mondiale
commerciale, valutata 1,3 trilioni di dollari poco prima della crisi, ha subito una svalutazione,
aprendo una fase di
moral hazard, cioè di tentativi di frode da parte di proprietari poco scrupolosi”. Nel 2008 il valore
medio delle richieste di indennizzo era raddoppiato, costringendo alcune società assicuratrici a
cercare di uscire dal mercato: AIG (il colosso assicurativo statunitense), travolta dalla crisi, ha
ceduto le sue attività nel settore marittimo.
Con questi e molti altri spunti , il libro di Sergio Bologna apre il nostro sguardo al mondo
complesso dell'economia marittima, in una fase di passaggio dalla globalizzazione trionfante alla
crisi di un modello di sviluppo di cui non si vede ancora la traiettoria di uscita.
Sergio Bologna,
Le multinazionali del mare, Egea, 2010, 28 euro
Sì
Documento esportato da www.sbilanciamoci.info
3 di 4
Documento esportato da www.sbilanciamoci.info
4 di 4