L`impatto emotivo della crisi… economica

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L`impatto emotivo della crisi… economica
Monza, 6 marzo 2010
“IMPATTO EMOTIVO ED ELABORAZIONE DELLA CRISI”
a cura della dott.ssa Sara Fallini
e dello Studio di Psicoterapia Consulenza e Formazione di Parma
Vorrei condividere con voi, oltre a questo momento emozionante e interessante, la
specificità del nostro approccio ai fenomeni psicologici.
Mi farò aiutare dal racconto di due notizie, diverse ma anche simili tra loro, che
hanno “bucato” la mia attenzione per la violenza, la disperazione e il senso
d’impotenza che mi hanno comunicato.
Il primo marzo sul “Corriere della sera” è comparso in prima pagina un articolo di
Dario di Vico dal titolo Gli undici imprenditori caduti sul lavoro. Scrive di Vico:
“fino all’ultimo gli artigiani (n.d.r. del nordest) rifiutano di disfarsi dei propri
collaboratori tanto da arrivare ad un tragico paradosso: preferiscono uccidersi
piuttosto che licenziare e venire meno al loro senso di responsabilità”. Si registra
infatti che al 30% in meno di fatturato, non corrisponde nelle piccole imprese un
30% in meno di posti occupati. Raccogliendo scarne biografie di questi imprenditori
il giornalista dice che si trattava di persone già in parte consumate da altri dolorosi
strappi in famiglia o nella comunità di appartenenza, strappi che avevano minato le
loro sicurezze di fondo.
E’ invece di un programma del sabato mattina di “radio3” il racconto della storia di
una donna londinese, moglie di un manager che aveva da qualche tempo perso la
propria posizione. Questa donna, senza quasi accorgersene, si è ritrovata a
“scivolare” in un vortice di furti sempre più frequenti di beni non di prima
necessità, ma di quei beni di lusso a cui si era abituata nel tempo. Solo dopo una
serie di denunce pare sia riuscita a rivolgersi ad una psicoterapeuta che ora la sta
aiutando ad elaborare quanto le è capitato. A lato viene data anche la notizia che
in Inghilterra sono vertiginosamente aumentati i furti di questo tipo.
Sicuramente ci si potrebbe concentrare sui probabili gravi sintomi depressivi delle
persone in oggetto, o anche dell’influenza di problemi familiari, di abbandoni o
perdite, che hanno sicuramente aggravato la loro situazione, ma si farebbero solo
delle “letture” a distanza che ci coinvolgono meno direttamente. In entrambi i
racconti però emerge un altro aspetto come sul quale vorrei spostare la vostra
attenzione, per capire un po’ meglio cosa succede a tutti noi in certi frangenti. In
queste storie c’è l’impressione di uno strano ingranaggio collettivo che “tira
dentro”, una cultura e dei valori del lavoro, e del successo, integralisti, ai quali
non si riesce a “venir meno”, anche a costo di mettere seriamente a rischio non
solo la propria vita, ma anche tutto ciò a cui si teneva.
Poiché è ancora un po’ inusuale che degli psicoterapeuti, oltre a proporre delle
letture psicologiche sui fenomeni sociali, escano dai propri studi e affrontino un
problema come l’impatto emotivo della crisi economica (così come del controllo
mafioso del territorio), è importante che mi soffermi un attimo su questo aspetto.
Con riferimento particolare alla psicoanalisi argentina (Bleger, Pichon-Riviere,
Puget) ma anche alla gruppo-analisi, io e molti colleghi con cui lavoro siamo
convinti che mondo interno e mondo sociale non siano realtà antinomiche. Anzi,
crediamo che coniugare mondo intrapsichico, intersoggettivo e sociale (1) sia oggi
più che mai un impegno ineludibile, fino a pensare che i nostri “clienti” dovrebbero
essere sempre più le persone nel corso della loro attività quotidiana, piuttosto che
chi arriva già ferito nei nostri studi.
Alcuni altri concetti sono fondamentali per parlare di esperienze emotive
collettive.
Parlando in termini di psicologia evolutiva, oggi siamo ormai certi che l'ambito
trans-soggettivo, ovvero la relazione con il contesto, il momento storico, il luogo e
la società in cui si nasce, non si sviluppi “dopo” la nascita della soggettività
individuale, ma che esista già dall'inizio della vita, insieme al primo ambiente
materno e familiare. Si pensa infatti che il bambino si viva inizialmente come un
“tutt’uno indifferenziato” rispetto al suo contesto, senza la possibilità di
distinguere che cosa proviene dall’interno del proprio corpo e che cosa
dall’esterno, anche se le ricerche più recenti riscontrano modalità molto specifiche
di ciascun neonato di iniziare a rapportarsi con il proprio ambiente. E’ l’inizio della
soggettività dell’individuo che, a partire da questa socialità indifferenziata, si
precisa e si discrimina solo progressivamente rispetto a ciò che la circonda.
Questa concezione, ormai assolutamente accettata, comporta molte conseguenze
nella compresione dei rapporti tra individuo e collettività, ancora in buona parte
da esplorare.
Possiamo paragonare l’ambito trans-soggettivo all’acqua per il pesce.
Crescendo l’essere umano si sviluppa come persona con un suo pensiero e un suo
modo di sentire le cose, relativamente autonomo rispetto al mondo esterno e agli
altri con cui interagisce. Resta però nella sua mente un “nucleo” profondo,
caratterizzato da modalità relazionali e di appartenenza, dette sincretiche, simili a
quelle infantili e dunque indifferenziate e immediate.
Siccome quando furono fatte queste esperienze originarie il soggetto non aveva il
pensiero e il linguaggio verbale che gli permettessero di capirle razionalmente e
poterle comunicare, anche successivamente le esperienze del “trans-soggettivo”
continuano a essere percepite attraverso modalità non verbali, potremmo dire
“subliminali”. Esse hanno la particolarità di apparire come ovvie e scontate al
soggetto che le prova e questo spiega i sentimenti di familiarità e di continuità che
si provano per il mondo esterno.
Silvia Amati Sas, anche lei psicoanalista di origine argentina, ritiene che questo
sentimento di “ovvietà” sia responsabile di un fenomeno molto potente, ambiguo,
che definisce con l’espressione "adattarsi a qualsiasi cosa". Questo sentimento di
“ovvietà” è talmente necessario e scontato che, se da un lato funziona in
condizioni normali per cui ci adattiamo continuamente alle trasformazioni della
realtà, per il soggetto risulta possibile adattarsi inconsciamente anche alle
circostanze più sordide, degradanti e pericolose, alle situazioni sociali più estreme,
come ad esempio le dittature. Pensiamo ad esempio come tante terribili notizie
riportate ogni giorno dai mass-media, siano divenute per noi tutti, ovvie, pur
essendo profondamente inquietanti e perturbanti.
E’ soltanto quando il cambiamento è molto brutale, molto incisivo, che possiamo a
volte accorgerci di questa nostra strana malleabilità.
Torniamo ora ai due casi accennati sopra.
A partire dalle premesse fatte e anticipando quanto dirò, non si può propriamente
dire che gli undici imprenditori del nordest (e probabilmente molti altri, tra cui
diversi operai) siano stati uccisi dalla “crisi”, così come la signora londinese non si
è ritrovata a rubare, con la stessa naturalezza con cui prima faceva shopping, per
via della crisi.
Sembra che queste persone si siano trovate nell’impossibilità di distinguersi, di
districarsi da un contesto sociale di appartenenza rigido, incentrato sul valore del
lavoro e del successo, spaventato dall’eventualità del fallimento, più confuso che
complesso, impoverito dal punto di vista umano e relazionale e privo soprattutto di
fiducia nel cambiamento. Questo contesto sociale non li ha minimamente aiutati a
riconoscere la crisi come opportunità evolutiva e ad affrontarla.
La nostra tesi è che in momenti di grossa vulnerabilità, quando tutto cambia quando si è stressati e sono richieste grosse fatiche e una straordinaria capacità di
problem solving – in questi momenti, la mentalità del contesto sociale entra in
risonanza automatica e silenziosa con il nucleo più antico delle persone, facendole
così sentire “dentro” all’ordine sociale, ma rendendo molto difficile
un’elaborazione alternativa di quello che sta loro capitando.
Le gravi difficoltà economiche, la cosiddetta “Crisi” e le sue conseguenze
continuamente paventate - a livello di redditi, di occupazione ma anche di
successo -, sarebbero state percepite da queste persone come ineluttabili, “ovvie”,
unici aspetti di un mondo inospitale a cui doversi adattare, senza spazi di libertà,
andando avanti comunque e come prima, a qualunque costo. Le morti o il degrado
esistenziale di cui ho parlato, tanto quanto la cassa integrazione, la mobilità o i
licenziamenti di operai o impiegati, sono esattamente ciò che era previsto, sono
“ovvie”, sono il mantenimento drammatico, ma adattato e coerente, di una
potente lettura collettiva, spesso solo “economica”, della realtà.
Ciò che è fondamentale è contrastare la stereotipia. E l’esperienza della crisi, dal
punto di vista psicologico, è proprio l’opposto dell’adattarsi a qualsiasi cosa. E’ la
possibilità di rompere il sentimento di scontato. Se si guarda all’etimologia greca
della parola, si scopre che crisi significa “scelta, decisione”, rimandando ad una
condizione, a uno stato d’animo che richiede di fermarsi e fare una scelta, rispetto
ad un percorso precedente, conosciuto e abituale.
Uso nuovamente ancora come spunto il lavoro di un giornalista, Mario Calabresi.
Nel suo recente libro La fortuna non esiste che parla della recessione negli Stati
Uniti, Calabresi sostiene che mentre il segreto degli americani è da sempre la
capacità che hanno di reinventarsi da zero con tenacia incrollabile, una tendenza
degli italiani davanti alle grosse crisi è piuttosto quella di aspettare la fortuna e nel
frattempo di cercare di affidarsi alle istituzioni già esitenti, senza assumere un
atteggiamento veramente trasformativo.
In entrambi i casi mi chiedo: non ci sarà il rischio che la crisi non venga assunta
fino in fondo da nessuno? In effetti spesso è troppo duro affrontare il “lavoro” che
andare in crisi richiede e dirsi che anche in sé qualcosa non va, qualcosa manca. Ci
si riassesta dunque più o meno velocemente, spesso con grandi rinunce, senza
intercettare il messaggio più profondo e l’opportunità che la crisi offre di mettersi
di nuovo alla ricerca di quale sia il proprio progetto e la “propria differenza”.
E’ in questa visuale che la crisi potrebbe essere a tutti gli effetti una risorsa.
E’ una risorsa che richiede di essere assunta su di sé da singole persone che,
essendo parte della società, rispondendo a quella chiamata, possono stimolare
anche altri a cambiare. Ma anche la società deve poter nutrire ed educare ad
essere contenitori “capaci”(2), adulti in grado di assumersi responsabilità
complesse.
C’è da dire che l’esperienza della crisi attiva emozioni forti, che bisogna potersi
permettere di affrontare.
Al centro di tutto c’è la “mancanza”. L’esperienza della mancanza è l’evento
critico per eccellenza, la cellula germinale da cui si possono originare, a seconda
delle nostre reazioni, tanti sviluppi, ma anche tanti in-viluppi. Il venir meno di
qualcosa, sia esso una parte cruciale della propria identità, un progetto
professionale o uno stipendio sicuro, richiedono una dolorosa elaborazione del
lutto, che possa far morire una parte di sé, per lasciar spazio a qualcosa di nuovo.
Nel caso degli imprenditori di cui si è parlato, purtroppo la risposta a questa
mancanza è stata una morte “reale”, sintomo drammatico di un lutto impossibile.
Nella crisi affiorano parti fragili, anti-estetiche, “intestinali”, vulnerabili, deboli,
vissute dal soggetto, prima di tutto, con vergogna. Questo sentimento lo proviamo
non tanto perché cose poco belle di noi diventano visibili all’esterno.
La vergogna che proviamo in questi momenti è l’esito emotivo di una sorta di
ammonimento - da parte del nostro sentimento di appartenenza al contesto sociale
- contro la nostra verità nascente, perché la crisi è questo, è l’esperienza
dell’andar nascendo.
Da qui deriva anche un altro sentimento, sempre presente in questi frangenti,
ovvero la paura della solitudine, che tanto ricorda l’angoscia arcaica di essere
abbandonati nel bosco, o nel deserto, di cui parlano tante fiabe famose.
Il lavoro della crisi è un’esperienza di responsabilità individuale dunque, ma che si
deve poter fare “con” gli altri, in gruppo, con il sostegno e il riconoscimento della
società.
I gruppi con i quali condividere la fatica potrebbero essere i gruppi naturali, come
le famiglie, le realtà lavorative o le associazioni di categoria, ma anche dei gruppi
artificiali, come dei gruppi di sostegno psicologico all’esperienza di crisi e del
cambiamento, coordinati da uno o più psicoterapeuti esperti nel rapporto tra
l’individuo e il suo contesto, chiamati ad intervenire in quella situazione specifica.
Il lavoro che la psicoanalisi attiva è analogo al processo di sviluppo della mente
individuale, ovvero un lavoro di elaborazione e discriminazione delle emozioni
arcaiche e indifferenziate in cui si è immersi, favorendo contemporaneamente e
pazientemente il forgiarsi di un contenitore sufficientemente capiente per
contenerle.
Sarebbe auspicabile che anche la società potesse mettere questa lente per
guardare la crisi.
Il compito delle nostre comunità dovrebbe essere quello di fare spazio alla verità
nascente di ciascun cittadino, offrendo l’opportunità a chi se la sente di fare
questo “lavoro della crisi” al meglio, sentendosi responsabile del proprio percorso,
ma senza vergogna o senso di colpa, senza sentirsi umiliato, sentendosi piuttosto
capito, sponsorizzato e valorizzato.
(1) Provo a sintetizzare la differenza tra questi tre ambiti: se per spazio intrapsichico si
intende il rapporto tra l'Io e la rappresentazione interiorizzata delle persone con cui il
soggetto ha una relazione nella vita, per spazio intersoggettivo si intende lo spazio delle
relazioni interpersonali, ossia dei legami tra il soggetto e un altro soggetto. Per spazio
trans-soggettivo si intende invece l'ambito dei rapporti tra il soggetto e il contesto sociale a
cui appartiene.
(2) Parlando del travaglio della crisi, ho usato volutamente il termine “lavoro”,
nell’accezione del socioanalista anglo-canadese Elliott Jaques, per il quale l’essenza, e
dunque la parte più faticosa di qualunque lavoro, è proprio l’esercizio della libertà di
scelta. Nel suo Lavoro creatività e giustizia sociale, Jaques racconta che se l’educazione
(scolastica e universitaria) favorisse, oltre all’apprendimento di conoscenze o di esperienze
già acquisite da altri, anche una maggiore dimestichezza con le preoccupazioni e le
incertezze emotive connesse al lavoro e alla soluzione di problemi “senza risposte certe”,
sarebbe possibile crescere delle persone più capaci di affrontare le crisi della crescita e
della vita, lavorativa, ma non solo.