Responsabilità della letteratura.

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Responsabilità della letteratura.
Responsabilità della letteratura.
«La vergogna, ecco il sentimento che salva l’uomo». È il protagonista del film Solaris
di Tarkovskij a pronunciare queste parole nel momento culminante della sua presa di
coscienza della condizione umana. Mi sono tornate in mente leggendo su Le Monde
la lettera con la quale quattro insegnanti della banlieue parigina hanno sentito il
dovere di assumersi, per la parte che compete loro, la responsabilità di crimini
perpetrati da assassini cresciuti nella lingua francese, nelle scuole francesi e che
tuttavia non sono stati messi in grado di comprendere e coltivare i valori repubblicani,
perché lasciati ai margini di una società tanto consapevole del privilegio culturale
quanto refrattaria a riconoscersi nella pluralità. Di questa situazione nessuno sembra
disposto ad assumersi la responsabilità, tanto più sotto lo choc di tanto efferate
uccisioni; è più facile ritrovarsi e autogiustificarsi nella retorica del «Je suis Charlie»,
che guardare in faccia la realtà delle cose fino a provarne vergogna: «Quelli di
Charlie Hebdo erano i nostri fratelli, come lo erano gli ebrei uccisi per la loro
religione alla porte de Vincennes: li piangiamo come tali. I loro assassini erano orfani,
in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno ucciso i
nostri fratelli. Tale è l’esatta definizione della tragedia. In qualsiasi cultura questo
provoca un sentimento che non è mai stato evocato in questi giorni: la vergogna. (...)
Affermare solidarietà alle vittime non ci esenterà dalla responsabilità collettiva di
questo assassinio».
Ma non così stanno le cose per gli intellettuali europei propensi a dichiararsi
irresponsabili delle conseguenze delle loro opere, persino di quelle dirette e
prevedibili. Lo scrittore Michel Houellebech, profeta dell’islamizzazione prossima
ventura della Francia, in un’intervista al Corriere della sera rivendica la propria
irresponsabilità, altrimenti, dichiara, «non potrei continuare a scrivere. Il mio ruolo
non è aiutare la coesione sociale. Non sono ne strumentalizzabile, né responsabile».
Quanto a Charlie Hebdo, la sua insegna è «Giornale irresponsabile». Alla luce di ciò
che è successo, e che si poteva mettere in conto, c’è da concludere che la posta in
gioco è così alta, i valori da difendere così decisivi da valere la pena di mettere a
rischio la propria vita. Si tratta dunque della libertà; ma come è potuto succedere che
libertà e irresponsabilità vadano oramai così tranquillamente insieme, al punto da
porre quest’ultima a condizione della libertà d’espressione e dunque del pensiero e
dell’arte? All’inizio degli anni quaranta, Simone Weil accusava gli scrittori francesi di
essersi resi corresponsabili non solo della disfatta della Francia, ma altresì della
sventura del mondo intero «nella misura in cui l’influenza occidentale vi è penetrata».
Tale era per lei la conseguenza, a partire dalla generazione dei surrealisti, di aver
«fatto del pensiero non orientato un modello», di aver «scelto come valore supremo
l’assenza totale di valore», abdicando così alla funzione propria della letteratura,
quella di esprimere la condizione umana indissociabile dall’opposizione del bene e del
male.
C’è dunque, ieri come oggi, lo si voglia o no, una responsabilità della cultura nel suo
insieme e nella specificità delle sue forme, che non ha nulla a che vedere col
moralismo, con la coesione sociale o con la pretesa delle religioni ad uno statuto
protetto, bensì con la capacità o meno di dare senso al proprio tempo illuminandolo
dall’interno, portandone all’evidenza i nodi, le strettoie, le colpe passate e le
impotenze attuali. In discussione non dovrebbero essere i limiti della satira, che è
questione quantitativa, bensì la sua qualità in rapporto alla rimozione di ciò che
impedisce una chiara visione della realtà delle cose. Il problema non è se sia lecito o
meno mettere in berlina Maometto, ma se la satira debba essere fine a se stessa, puro
sberleffo, oppure assumersi la responsabilità di demistificare ogni forma di fobia,
quelle laiche al pari di quelle religiose, in modo da servire da specchio critico per il
proprio tempo. Ciò che al contrario l’irresponsabilità impedisce è che si giunga a
toccare con mano gli snodi drammatici, laddove s’insidia davvero il pericolo, e che si
sia messi in condizione di pensare e di assumersi la responsabilità della cosa pubblica,
come sono stati in grado di fare gli insegnanti parigini. Una letteratura irresponsabile
non sarà mai in grado di condurre il lettore a fare una qualche esperienza della realtà,
dovrà accontentarsi di viaggiare in mondi ad una sola dimensione, quella psicologica.
Giancarlo Gaeta
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quanto impedisce di prendere coscienza della parte di responsabilità che i paesi
europei, a cominciare dalla Francia, hanno nella genesi storica e negli sviluppi della
conflittualità col mondo islamico
Né si può sostenere che la letteratura viva in un ambito ristretto di lettori, perché
raggiunge anche chi non è minimamente interessato ad essa grazie ai potenti
intermediari che ne diffondono i contenuti secondo strategie che per lo più poco
hanno a che fare con l’arte, molto invece con la manipolazione delle coscienze.
In effetti il sentimento della vergogna nasce dal riconoscimento di esser venuti meno
alla responsabilità verso il prossimo nell’esercizio dei compiti che ci si è assunti o, più
ampiamente, di esser diventati parte, attiva o passiva, di progetti che antepongono la
volontà di dominio al soddisfacimento dei reali bisogni umani.