Leggi la storia completa

Transcript

Leggi la storia completa
DA TRENTO ALLA SIERRA LEONE PASSANDO PER
LA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
Freetown, Sierra Leone, 28 dicembre 2014 ore 2
del mattino (forse), a noi due!
E’ una bella serata di inizio marzo a Freetown, la
capitale della Sierra Leone, uno dei tre paesi
dell’Africa Occidentale colpiti dalla peggiore
epidemia di Ebola della storia (almeno da
quando il virus e’ stato identificato nel 1976 e
se ne tengono le tracce). Il vento fresco che
proviene dall’Oceano Atlantico alle mie spalle
pulisce me e la veranda dell’ufficio dal caldo e
dalla fatica della giornata.
La Sierra Leone ha dichiarato ufficialmente
l’Emergenza Ebola il 26 maggio 2014, anche se
l’epidemia aveva cominciato a propagarsi
prima, dopo aver avuto inizio in Dicembre 2013
in una zona della Guinea Conakry molto vicina
alla frontiera con la Sierra Leone e la Liberia.
L’ebola e’ un virus estremamente contagioso e
con un tasso di mortalita’ che varia tra il 50% a
picchi ben superiori. E’ un virus che ha origine
animale (pare dal pipistrello della frutta) ma, a
differenza per esempio della malaria, e’
trasmissibile da uomo a uomo, tramite tutti i
liquidi corporei che un essere umano puo’
produrre (saliva, sudore, sangue, diarrea,
vomito, sperma, e cosi’ via). Quella dell’Africa
Occidentale non e’ la prima epidemia di ebola
della storia, ma e’ la prima ad aver assunto
dimensioni tali, in termini di persone infette e di
morti, e ad essersi diffusa sull’intero territorio
di tre Stati. Precedenti scoppi di ebola nella
Repubblica Democratica del Congo (RDC), in
Uganda e altrove sono rimasti piu’ o meno
isolati, contenuti ed estintisi da se’ dopo aver
fatto il loro corso in zone poco popolate, spesso
villaggi sperduti in mezzo alla savana o alla
giungla a centinaia di chilometri (a piedi, in
genere) da centri abitati di maggiori dimensioni
se non dalle capitali, condizione che ha
contribuito a limitare la diffusione del virus su
scala piu’ ampia. Al contrario, i tre paesi
interessati dall’attuale epidemia sono
strettamente collegati uno all’altro per ragioni
commerciali, le loro dimensioni sono tali da
permettere uno scambio piu’ diretto e assiduo
con le capitali di quanto non succeda altrove.
Infine, il fatto che l’ebola non fosse mai
comparsa prima in Africa Occidentale, ha
contribuito al ritardo con cui l’emergenza e’
stata riconosciuta, ammessa ufficialmente, e le
Sono arrivata in Sierra Leone quasi 2 mesi fa, la
notte del 28 dicembre 2014, dopo un vero e
proprio viaggio della speranza composto di
macchina, tre voli via Roma e Casablanca,
atterraggio all’aeroporto all’1 di notte (o forse
le 2, non me lo ricordo), furgoncino anni ‘60 e
barca/motoscafo con in dotazione un giubbotto
di salvataggio giallo sbiadito da indossare
comunque (“non si sa mai”), e infine mezzora di
traversata per approdare sul lato della baia su
cui sorge Freetown. Mettendo piede sulla
terraferma non riuscivo a credere che fosse
vero: partita 24 ore prima da Trento con
l’influenza, il volo tra Casablanca e Freetown
passato senza riuscire a respirare a causa di un
raffreddore tremendo, intrappolata al mio
posto accanto al finestrino a causa di un vicino
addormentato con tanto di auricolari e
paraocchi, ero sicura che mi avrebbero bloccata
alla frontiera in aeroporto. Invece no! Timbro
sul passaporto (vedremo che reazioni suscitera’
questo timbro ai controlli dei prossimi viaggi...),
solito questionario sullo stato di salute
compilato (beh certo che sono in buona salute e
che nelle ultime 72 ore non ho avuto niente di
lontanamente simile a tosse, mal di gola, mal di
testa, ecc.), il primo controllo della temperatura
con il termometro no-touch, primo di una lunga
serie quotidiana, fatto (e superato!), e via,
prime misure di contenimento del contagio e
adeguamento del sistema sanitario dei 3 paesi
interessati messe in atto sia dai rispettivi
governi che dai vari attori internazionali,
parallelamente alla diffusione di messaggi
chiave a tutta la popolazione rispetto a
accorgimenti basilari per limitare il piu’ possibile
la trasmissione dell’ebola da una persona
all’altra.
Nonostante qualche progresso, in questo
momento in Sierra Leone l’epidemia e’ ancora
ben lontana da potersi definire finalmente alla
fase finale. Non lo e’. Per quanto non si
registrino piu’ picchi di oltre 500 nuovi casi a
settimana come tra novembre e dicembre 2014,
i nuovi casi di contagio continuano a essere
quotidiani, in particolare in alcune aree. Serie e
reali misure di prevenzione e controllo delle vie
di trasmissione da uomo a uomo devono
continuare a essere messe in pratica e
rispettate se si vuole sperare di fermare questo
virus devastante, e la risposta sanitaria
dev’essere accompagnata da interventi in altri
settori: acqua, igiene, sicurezza alimentare,
nutrizione, attivita’ di sensibilizzazione,
distribuzione di alcuni articoli essenziali
(quando c’e’ un caso di ebola in una famiglia,
gran parte dei suoi averi sono distrutti e
bruciati), sostegno psicologico ai sopravvissuti,
alle famiglie delle vittime, a tutte le persone
indirettamente toccate dall’Ebola etc. Pensate a
un paese con intere zone in quarantena, le
persone non possono andare a coltivare i loro
campi, ne’ vendere i prodotti al mercato, e
quindi generare reddito, ne’ recarsi al mercato
per comprare, le attivita’ commerciali chiuse o a
orario ridotto, le scuole e le universita’ chiuse
da mesi, moltissime persone hanno perso il
proprio lavoro e cercano di arrangiarsi, in un
paese gia’ molto povero e da poco uscito da una
sanguinosa guerra civile. Le persone non si
recano piu’ alle varie cliniche, dispensari,
ospedali, centri di trattamento, perche’ hanno
paura di essere contagiate o di essere
immediatamente associate all’ebola, anche se
la ragione della consultazione sarebbe tutt’altra
(nel frattempo malaria, dengue, malattie gastro
intestinali, malnutrizione e cosi’ via non sono
miracolosamente sparite), e le morti non
direttamente correlate all’ebola si mantengono
su livelli molto alti. Le gravidanze tra le
adolescenti stanno aumentando, la
vulnerabilita’ di gruppi gia’ vulnerabili (donne,
bambini, anziani, persone disabili, disoccupati
etc.) anche. Questa non e’ che una piccola
sintesi non esaustiva, per cercare di dare
un’idea della situazione in cui si trova la Sierra
Leone in questo momento.
ETU – Ebola Treatment Center dell’ERU della Croce Rossa
Norvegese, per la Federazione Internazionale di CR
Bene, e io qui come ci sono finita? Spero di
avere l’occasione di raccontarlo a viva voce a chi
e’ interessato o perche’ vuole intraprendere lo
stesso percorso, per curiosita’, o semplicemente
per capire un po’ meglio questa
“cooperazione”, questo “aiuto umanitario”,
questi “operatori umanitari”, che cosa vogliono
dire.
Elicottero delle Nazioni Unite per recarsi nell’entroterra
Non e’ possibile riassumere in poche righe una
scelta di vita, la quasi realizzazione di un sogno,
un lavoro estremamente complesso. In ogni
caso, il prologo e’ relativamente semplice: una
volta finito un liceo classico scelto perche’
convinta che fosse la prima tappa per diventare
l’archeologa Indiana Jones del XXI secolo, a 19
anni mi sono resa conto che forse avrei dovuto
rivedere le mie aspirazioni in chiave piu’
realistica. Non saprei elencare tutti i fattori che
hanno contribuito alla mia scelta in quel paio di
mesi concitati tra la maturita’ e
l’immatricolazione in una lontana estate del
2005, tra i quali rientra anche il non sapere
troppo che pesci pigliare. Bene, mi sono
ritrovata iscritta a scienze politiche, sola in una
ancora sconosciuta Firenze. Se dovessi dire
dove tutto questo ha avuto inizio, dovrei dire
estate 2005, Firenze. In realta’ la piega che il
mondo aveva cominciato a prendere negli anni
immediatamente precedenti, dall’11 settembre
2001 alle invasioni di Afghanistan e Iraq e
rispettive guerre, Guantanamo, fino al Darfur e
a tante eco confuse (per me all’epoca) di notizie
provenienti da tante altre parti del mondo,
avevano corrisposto ai miei 14, 15, 16 anni e
alle prime vere domande sul mondo in cui
viviamo, a un primo vero abbozzato
ragionamento su quale avrebbe potuto essere il
mio ruolo, se avessi potuto contribuire a
renderlo un po’ migliore, al di la’ dei confini
della citta’ in cui stavo crescendo. La mia scelta
in parte casuale per scienze politiche non ha
fatto che completare il quadro e raffinarlo: un
esame di diritto internazionale al secondo anno
di universita’ mi ha fatto conoscere la Croce
Rossa Internazionale al di la’ delle uniche due
espressioni conosciute da chiunque non ne
faccia parte o non ne sia venuto per qualche
motivo in contatto: “crocerossina” e “sparare
sulla croce rossa”. Quel corso, quell’esame, mi
hanno aperto un mondo e nei mesi che sono
seguiti ho capito che cosa volevo fare della mia
vita. Mi sono iscritta al corso d’ingresso al
Comitato Locale di Firenze (in un bellissimo
palazzo rinascimentale, e quell’anno abitavo a
500 metri di distanza... una prima fortunata
coincidenza): all’epoca esistevano ancora le
componenti e cosi’ nel giugno del 2007 ero
ufficialmente (e per caso) una pioniera della
Croce Rossa Italiana.
Dopo, il percorso unversitario e quello in Croce
Rossa (piu’ quello personale) sono proseguiti su
binari paralleli ma che hanno finito per
incontrarsi: 2011, laurea magistrale in Diritto
Internazionale Umanitario (ebbene si’, il
fatidico, fantomatico DIU con cui voi tutti
rompete il ghiaccio quando entrate in CR), 5
mesi nel CARA di Mineo in Sicilia durante
l’emergenza sbarchi del 2011, 5 mesi al
Consolato d’Italia a Parigi per “assaggiare”
anche la parte governativa delle relazioni
internazionali (e capire presto che non fa per
me, o quanto meno non in questa fase della mia
vita), mesi a bussare a varie porte e provare a
partire sul “terreno” (gergo dell’ambiente
cooperazione/umanitario, passatemelo), magari
non gratis – impossibile... quindi... che fare? 2
mesi a mie spese in Togo per uno stage con una
ONG locale (il Togo per rompere il ghiaccio con
l’Africa subsahariana e’ un ottimo
compromesso, tra l’altro. E con “rompere il
ghiaccio con l’Africa subsahariana” non contano
i vari Zanzibar, resort, Safari organizzati in
Kenya o in Tanzania, ma la vera Africa. Meglio
smettere di raccontarsi storie da subito e
guardare le cose come stanno, per non rischiare
di partire e voler tornare indietro dopo due
giorni quando ci si scontra con la realta’, che e’,
lo confermo, dura), per poi tentare l’ultimo
grande investimento per intraprendere questa
carriera: un master in cooperazione
internazionale, il Master in Cooperazione
Internazionale, Sviluppo ed Emergenze, dell’ISPI
(Istituto per gli Studi di Politica Internazionale)
di Milano. Mi sono detta: se dopo questo
ancora niente, allora basta, continuero’ con il
mio volontariato ma mi guadagnero’ da vivere
altrimenti. Per fortuna non e’ stato cosi’. Grazie
al Master ho capito che e’ vero: la Cooperazione
Internazionale, sia quella orientata allo sviluppo
che la risposta alle emergenze, ha bisogno di
persone competenti, di professionisti, e che le
buone intenzioni e un grande entusiasmo non
bastano. Lo dico per esperienza diretta: per la
difficolta’ del lavoro in se’, per le difficili e
provanti condizioni di vita a cui si e’ sottoposti
nel 90% delle missioni, per le enormi
responsabilita’ che si hanno, ognuno
singolarmente e le missioni in generale
(letteralmente, dalle nostre azioni e decisioni
puo’ dipendere se non la vita quanto meno il
benessere di centinaia di persone nelle zone in
cui interveniamo, soprattutto in emergenza ma
non solo), e che non e’ un mestiere per
“cambiare vita quando l’Europa ci va stretta”, o
da “tentare quando si vuole fare un po’ di bene
per un certo periodo”. No, ed e’ normale che sia
cosi’ difficile entrare, soprattutto all’inizio,
soprattutto nelle organizzazioni piu’ serie.
Io in elicottero, direzione una delle nostre basi all’interno
del paese!
Insomma, un ultimo anno di “scuola”, un
viaggio in Palestina, e poi finalmente un vero
stage con una grande ONG, Cesvi (piccola a
livello internazionale in termini di fondi e
progetti se confrontata alle “big”, ma la
seconda in Italia, conosciuta e rispettata e
sicuramente un buon compromesso per farsi le
ossa: il fatto che non sia enorme permette di
avere uno spazio e di occuparsi di cose di cui
non ci si occuperebbe da stagisti/prima
missione in organizzazioni piu’ grandi, ma e’
sufficientemente grande e strutturata da dare
un’idea realistica del mondo della cooperazione
e dell’umanitario). Tre mesi di tirocinio a
Kinshasa, la capitale della Repubblica
Democratica del Congo (il peggior paese per
rompere il famoso ghiaccio, se volete un
consiglio) seguiti da 11 mesi con un vero
contratto (un vero contratto! Il mio primo vero
contratto, a 27 anni!) a Bunia, nella Provincia
Orientale della RDC, una delle zone piu’
pullulanti di milizie e gruppi armati dell’Africa:
quindi, in totale, 14 mesi in Congo. Stressante?
Si’. Difficile? Si’, difficilissimo. Pericoloso? Certo,
ma non piu’ di tanti altri lavori, anche in Europa.
Malaria? Si’, anche se non sapro’ mai se e’ stata
malaria o dengue e faro’ del mio meglio per non
riprenderla mai piu’, qualunque cosa sia stata.
Ma anche estremamente interessante,
stimolante, istruttivo. Due mesi in Europa a
smaltire i 14 precedenti e a fare un po’ di
vacanze (e a inviare CV), un mese per
completare il processo di reclutamento per
un’altra ONG, ed eccomi, a tre mesi dal rientro
dal Congo, in partenza per la Sierra Leone,
Emergenza Ebola, come Grant and Reporting
Officer per Action Contre la Faim (ACF, una
delle piu’ grandi ONG attive, francese di origine
e poi sviluppatasi in un network internazionale
che copre tra i 40 e i 45 paesi in giro per il
mondo). Da guerriglia perenne e gruppi armati
a un’emergenza di tipo sanitario. Da una
minaccia ben visibile e in genere rappresentata
da un kalashnikov in mano a ragazzini di
nemmeno 20 anni, a una minaccia invisibile,
impalpabile, ma comunque presente e che
silenziosamente ha ucciso piu’ di 3.000 persone
in Sierra Leone, circa 10.000 in totale. Un nuovo
capitolo che si apre, un nuovo capitolo che non
vedo l’ora di vivere, una nuova sfida.
Ebola Training a Freetown
Questo lavoro e’ una sfida continua, sotto
molteplici punti di vista. I compromessi da fare
sono molti, i sacrifici anche. Ma le esperienze
che si vivono ti segnano per sempre, e alcune
sono uniche. Si vedono angoli del mondo
sconosciuti ai piu’ o conosciuti solo a causa
delle tragedie che li segnano, quasi mai per le
loro specificita’, per la cultura, le tradizioni, le
bellezze naturali, etc. Il tuo passaporto si
riempie di timbri, alcuni condivisi solo con
persone che fanno il tuo stesso mestiere, si
fanno incontri incredibili, e si mangiano cose
incredibili. Si e’ perennemente stimolati a dover
rivedere i propri pregiudizi, le proprie
convinzioni e stereotipi che, inutile cercare di
negarlo, tutti noi abbiamo. Le sorprese sono
quasi quotidiane: la birra prodotta in Congo e’
buonissima e c’e’ un’ampia scelta – qualcosa di
buono i Belgi lo hanno lasciato –, farsi fare i
vestiti su misura dai sarti con le loro macchine
da cucire di ferro che in Europa troviamo solo
nei musei, vedere delfini spuntare al tramonto
sull’oceano Atlantico, chiacchierare del piu’ e
del meno con i tuoi colleghi nazionali e
internazionali e scoprire moltissime cose
interessanti dei rispettivi paesi, sorvolare
l’Africa in elicottero, e tante altre. Certo,
tornare non e’ semplice. Ripartire nemmeno.
Cercare di mantenere delle relazioni normali
con gli amici in Europa e’ complicato, e ancora
di piu’ mantenere una relazione sentimentale. I
rischi che si corrono sono infiniti, la sofferenza e
la disperazione davanti alle quali ci si trova
confrontati spesso rischiano di andare al di la’
della nostra immaginazione e comprensione e
di farci dimenticare tutto il resto, anche se non
e’ questo l’atteggiamento con cui si potra’
cambiare qualcosa. Ammesso che qualcosa
possa cambiare. Io, e migliaia di persone che
fanno questo lavoro, in sviluppo e in
emergenza, crediamo che qualcosa, forse
insignificante se confrontata agli enormi
problemi del nostro mondo di oggi, si possa
cambiare. Se non fosse cosi’, non rischieremmo
la pelle in mezzo a epidemie, guerre, guerriglie,
attentati, fame, catastrofi naturali e via
dicendo. Diventare professionisti del settore e
partire rappresenta una scelta professionale e
di vita, ma la differenza la possiamo fare tutti,
anche dall’Europa, anche occupandoci di
tutt’altro nella nostra vita personale e
professionale, come noi tutti volontari di CRI
sappiamo benissimo.
A presto, colleghi, un abbraccio piu’ che virtuale
(no touch policy... J) dal bellissimo golfo di
Guinea.
Eloisa
Freetown, 4 marzo 2015
Lakka, una delle spiagge appena fuori Freetown.
River Number 2, un’altra spiaggia poco fuori Freetown