I VIVI DI EBOLA - Sud Chiama Nord

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I VIVI DI EBOLA
Ebola. No, non vuole essere un inizio ad effetto. Ma se leggete ebola, cosa vi viene in mente? Probabilmente tante
immagini viste ai telegiornali in questi ultimi mesi, qualche titolo “Allarme. Caso di ebola in USA ”, oppure il più
recente caso di ebola in Spagna, e quindi quel “Primo caso di ebola in Europa” che vi avrà fatto provare un brivido di
paura per un potenziale rischio.
Oppure qualche falso allarme come un caso sospetto nelle marche o qualche discorso di un politico che vuole creare
allarmismo solo per portare più persone a dire “allora basta immigrati in Italia”.
Ecco, se quando avete letto la parola “ebola” nella vostra mente sono comparse immagini di aeroporti occidentali con
squadre di 20 persone vestite come astronauti per via delle tute protettive… allora no, non sapete cos’è l’ebola.
Innanzitutto di ebola non si muore soltanto, ma di ebola si vive. E questo succede in Sierra Leone, uno dei paesi più
colpiti dall’ epidemia. E di questo voglio raccontare, perché io, grazie a un’esperienza missionaria di due mesi, quel
paese l’ho conosciuto, abbracciato e amato. E perché solo raccontando di questo, riuscirete a capire cosa realmente
sia questa malattia, a riconoscere ciò che fa paura. E non è la morte, non è quel caso che arriva in occidente, ma è la
vita in quel paese.
La Sierra Leone è un piccolo paese dell’africa occidentale, di cui si è sentito parlare per la sua guerra civile decennale.
Commercio di diamanti, bambini soldato, amputazioni. È un paese che ha perso tutto quello che aveva, un paese che è
stato distrutto dalla guerra, dagli interessi delle grande potenze, che da sempre, si sa, schiacciano i piccoli. Si sono fatti
guerra tra loro, uccidendosi gli uni gli altri. I bambini venivano drogati e addestrati a sparare. Ma poi la guerra è finita,
con un’amnistia nel 2001. E da quell’anno il paese ha iniziato a rialzarsi e a ricostruirsi una nuova vita, con il perdono,
con gli orfani che vivevano insieme agli uccisori dei genitori. La Sierra Leone è uno dei paesi più poveri dell’africa, ma
chiunque torni da quel posto si porta a casa una ricchezza che farà fatica a raccontare. L’accoglienza della gente, la
fratellanza, l’amore, il perdono, la fede forte, il vivere insieme, la gioia e il dolore condivisi. La vita nel suo significato
più autentico. La Sierra Leone è la vittoria della vita su tutto. Ma ultimamente non è più così, ultimamente la Sierra
Leone è stata sconfitta; non dalla malattia, non dalla povertà, ma dalla vita.
Le scuole sono chiuse, la gente non esce dalle case, i mercati sono vuoti, non arriva cibo perché il paese è isolato, gli
ospedali sono deserti, non c’è nemmeno più rispetto per i morti, che vengono lasciati ai lati delle strade. Sono vietati i
momenti di aggregazione, quindi non vengono celebrate più messe: chiese e moschee sono deserte.
Provate a immaginare cosa significhi tutto questo. Svegliarsi domattina in un paese dove nulla funziona. Non si lavora,
non si va a scuola, non c’è un ospedale o un medico a cui poter rivolgersi, non c’è cibo.
Non c’è vita.
Il governo sta prendendo misure per controllare l’epidemia, ci sono posti di blocco ovunque nelle strade, ed è ormai
prassi che un sierra leonese, che prima non aveva mai visto in vita sua un termometro, venga fermato per strada, gli
venga misurata la febbre, e, se la temperatura è alta, venga mandato a Kenema, un ospedale a sud del paese dove
vengono indirizzati e trattati i casi di ebola. Ma ora la parola ‘’Kenema’’ per la gente della Sierra Leone significa
“campo di concentramento”, significa andare a morire. E così le persone non vanno più negli ospedali, perché la
febbre che può avere le cause più diverse, come malaria, tifo, colera, viene presa come sintomo di un ‘’caso sospetto’’,
e quindi ‘’Kenema’’.
Non c’è quindi nessun punto d’appoggio, nessuna luce nel buio; non c’è più nel paese tutto quello che serviva per
andare avanti. La gente non può più stare insieme; alla condivisione si è sostituito il terrore.
I casi di ebola aumentano, ma le morti sono molto più numerose rispetto a questi casi, perché qualsiasi malattia
uccide: la fame e le pessime condizioni igieniche rendono le persone più vulnerabili e malaria e tifo diventano mortali
ancora più di prima.
Smettiamo di stupirci di fronte ai morti che aumentano, di sentirci in pericolo se una persona ha contratto l’ebola in
Spagna o in America solo perché il nostro telegiornale manda immagini che colpiscono. Smettiamo di pensare che la
morte sia l’unica conseguenza di questa epidemia. Pensiamo alla vita di quella gente, abbandonata, isolata e
terrorizzata.
Madre Teresa scriveva alla fine del suo “Inno alla vita”: ‘’la vita è vita, difendila.’’
Se non possiamo combattere la morte, se non possiamo creare un vaccino contro l’ebola, cerchiamo allora di
difendere la vita. E in nessun posto come in Sierra Leone, la vita può vincere.
Carolina Campani,
membro della ONLUS Sud Chiama Nord.