Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Opera prima che ha stupito critica, pubblico e festival di tutto il mondo, vincendo premi importantissimi inclusi il
David di Donatello e l'Oscar al miglior film straniero, Il figlio di Saul rivede la vita nei campi di concentramento da
un punto di vista particolarmente scomodo e drammatico, dando vita a un film che ricrea il modo di raccontare
l'orrore dei lager con forza e originalità. A dimostrazione che saper raccontare bene quella storia è ancora e sarà
sempre necessario.
scheda tecnica
titolo originale:
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
musiche:
suono:
scenografia:
formato di ripresa:
distribuzione:
SAUL FIA
107 MINUTI
GERMANIA
2015
LÁSZLÓ NEMES
LÁSZLÓ NEMES, CLARA ROYER
MÁTYÁS ERDÉLY
MATTHIEU TAPONIER
LÁSZLÓ MELIS
TAMÁS ZÁNYI
LÁSZLÓ RAJK
35 mm
TEODORA FILM
interpreti:
GÉZA RÖHRIG (Saul Auslander), LEVENTE MOLNÁR (Abraham Warszawski), URS
RECHN (Biedermann), SÁNDOR ZSÓTÉR (Dottore Miklós Nyiszli), TODD CHARMONT (Braun), CHRISTIAN HARTING
(Busch), KAMIL DOBROWOLSKI (Mietek), ATTILA FRITZ (Yankl), TAMÁS POLGÁR (Landesman).
Festival:
2015, presentato in anteprima in concorso al Festival di Cannes 2015, Gran
Premio Speciale della Giuria, Premio Fipresci, Premio François Chalais; 2016, Golden Globe, Miglior film
straniero; Premio Oscar, Miglior film straniero; David di Donatello, Miglior film dell'Unione Europea.
László Nemes
Nato a Budapest il 18 febbraio 1977, Nemes è uno sceneggiatore e ha debuttato alla regia con Il figlio di Saul.è il
primo regista ungherese a vincere il Golden Globe e il secondo a vincere l'Oscar. Figlio di madre ebrea e del
regista cinematografico e teatrale András Jeles, all'età di 12 anni si è trasferito con la famiglia a Parigi.
Interessatosi al cinema molto presto, cominciò da ragazzino a girare film horror nella cantina della sua casa
parigina. Dopo studi di Storia, Relazioni Internazionali e Sceneggiatura, iniziò a lavorare come assistente alla regia
in Francia e Ungheria. Per due anni fu sul set di Béla Tarr per L'Uomo di Londra.
Dopo aver diretto il suo primo cortometraggio in 35 mm, With a Little Patience, nel 2006 si è trasferito a New
York per studiare regia alla New York University's Tisch School of the Arts. Nel 2011, tracsorre cinque mesi per un
programma di studio finanziato da Cinéfondation, e in quel periodo insieme a Clara Royer sviluppa lo script per Il
figlio di Saul. Nel 2012 proseguono a lavorare intensivamente alla sceneggiatura presso l'Jerusalem International
Film Lab.
Nemes ha citato Michelangelo Antonioni, Andrei Tarkovsky, Ingmar Bergman, Terrence Malick e Stanley Kubrick
fra i suoi registi preferiti.
Note di regia di László Nemes
Voci sotto la cenere
Stavo girando in Corsica L’uomo di Londra di Béla Tarr, con cui lavoravo come assistente alla regia. Le
riprese erano state interrotte per una settimana, avevo molto tempo libero e in libreria ho trovato un
volume pubblicato dal Mémorial de la Shoah con il titolo Des voix sous la cendre(in Italia La voce dei sommersi,
edito da Marsilio, ndt), che raccoglie gli scritti di alcuni membri dei Sonderkommando di Auschwitz. Prima della
loro rivolta del 1944, queste pagine clandestine vennero nascoste sotto terra e ritrovate solo molti anni dopo
la fine della guerra. Si tratta di una testimonianza straordinaria, che descrive i compiti quotidiani dei
Sonderkommando, l’organizzazione del loro lavoro, le regole con cui veniva gestito il campo e lo sterminio
degli ebrei, ma anche come questi uomini riuscirono a creare una certa forma di resistenza. Da questo libro è
venuta l’idea de Il figlio di Saul.
I Sonderkommando
I Sonderkommando erano gruppi di prigionieri scelti dalle SS per accompagnare gli altri alle camere a
gas, dopo averli rassicurati e fatti spogliare. Quindi rimuovevano i cadaveri, ripulivano tutto e bruciavano i
corpi. Tutto ciò era eseguito a gran velocità, in quanto Auschwitz-Birkenau funzionava come una vera e propria
fabbrica di morte a ritmi industriali. Gli storici stimano che nell’estate del 1944 migliaia di ebrei fossero
sterminati ogni giorno. Ai membri dei Sonderkommando spettava un trattamento relativamente
preferenziale: gli era permesso tenere il cibo trovato nei treni e avevano un minimo di libertà di
movimento nell’ambito di un perimetro stabilito. Ma il loro lavoro era estenuante e in ogni caso venivano
regolarmente eliminati ogni 3 o 4 mesi dalle SS per fare in modo che nessun testimone dello sterminio rimanesse
in vita.
La fabbrica della morte
Ho sempre trovato frustranti i film sui campi di concentramento. Provano a costruire storie di
sopravvivenza e eroismo, ma secondo me propongono di fatto una concezione mitica del passato. La
testimonianza dei Sonderkommando è invece qualcosa di concreto e tangibile. Descrive in diretta il
“normale” funzionamento di quella fabbrica di morte: la sua pianificazione, le regole, i turni, i rischi, i ritmi
produttivi. Le SS usavano la parola Stück, pezzo, per riferirsi ai cadaveri, come se fossero oggetti prodotti
in fabbrica. Questa testimonianza, insomma, mi ha permesso di vedere l’accaduto attraverso gli occhi dei
dannati dei campi di concentramento.
Il punto di vista di Saul
Un aspetto molto problematico del film è stato quello di raccontare una storia di finzione partendo dal
contesto di questa testimonianza. Non volevo trasformare nessuno in un eroe, non volevo neanche
assumere il punto di vista dei sopravvissuti, né mostrare troppo di quella fabbrica di morte. Volevo solo
trovare una prospettiva che potesse essere esemplare, ridotta all’essenziale, per raccontare una vicenda il
più possibile semplice e arcaica. Ho scelto il punto di vista di un uomo, Saul Ausländer, un ebreo
ungherese membro di un Sonderkommando, e mi sono attenuto strettamente a questa posizione: mostrare
quello che vede, niente di più e niente di meno. Non si tratta però di una soggettiva pura, poiché sullo
schermo noi vediamo Saul come personaggio: non volevo infatti ridurre il film a un approccio puramente
visuale, che sarebbe stato artificioso, e ho preferito evitare ogni virtuosismo o esercizio di stile. Inoltre,
quest’uomo è il punto di partenza di una storia unica, ossessiva e primitiva: crede di aver riconosciuto il figlio tra
le vittime delle camere a gas ed è deciso a salvarne il corpo dai forni, trovare un rabbino che reciti il Kaddish e
seppellirlo. Tutto quello che fa è legato a questa missione, che sembra completamente priva di scopo
nell’inferno del lager. Il film resta tuttavia sempre legato al suo punto di vista e alla sua linea d’azione.
Questa incrocia poi quella degli altri prigionieri, ma il campo è percepito per intero dalla sua prospettiva.
L’orrore fuori campo
Seguendo i movimenti di Saul, ci fermiamo davanti alla porta della camera a gas, per entrarvi solo a sterminio
avvenuto per la rimozione dei corpi. Le immagini mancanti sono quelle della morte dei prigionieri; immagini
che non possono essere ricostruite, né dovrebbero essere toccate o manipolate in nessun modo. Assumere il
punto di vista di Saul vuol dire anche mostrare solo ciò a cui presta attenzione.
Egli lavora ai forni crematori da quattro mesi e, come riflesso istintivo per proteggersi, sembra non fare
più caso all’orrore in cui è immerso. Per questo motivo tale orrore rimane sullo sfondo o indistinto o
fuori campo. Saul vede solo quello che gli occorre per la sua ricerca: questo dà al film il suo ritmo visivo.
Forme di rivolta
Nel film si svolge un tentativo di rivolta dei prigionieri che ebbe luogo di fatto a Auschwitz nel 1944,
l’unica rivolta armata della storia del campo. Anche il tentativo di scattare delle foto è realmente
accaduto: grazie a una macchina fotografica fatta arrivare ai Sonderkommando di Birkenau dalla resistenza
polacca, 4 foto furono realizzate per testimoniare al mondo esterno quello che succedeva nei campi. Ho
potuto vederle alla mostra del 2001 Mémoire des campse mi hanno colpito profondamente. Saul sceglie
invece una forma diversa di rivolta, che può sembrare irrilevante fuori da quel contesto. Quando sembra
che non ci sia più speranza, la voce interiore del protagonista lo incita a sopravvivere per compiere un
atto che ha un significato, un significato umano, sacro, ancestrale che lo pone all’origine della civiltà umana e di
qualsiasi religione: portare rispetto per il corpo di un morto.
Regole sul set
Insieme al direttore della fotografia e allo scenografo abbiamo deciso, prima di iniziare le riprese, che ci
saremmo attenuti a una serie di regole: “il film non deve essere visivamente bello e accattivante”; “non
possiamo fare un film dell’orrore”; “seguire Saul vuol dire non andare oltre la sua presenza e il suo
campo visivo e uditivo”; “la cinepresa è la sua compagna e lo affianca in questo inferno”. Abbiamo anche scelto
di girare in pellicola 35mm e di usare solo procedimenti fotochimici tradizionali nei vari momenti della
produzione. Era l’unico modo di mantenere una certa instabilità nelle immagini e quindi essere capaci di
filmare quel mondo in modo organico. La sfida era quella di raggiungere il pubblico in termini emotivi,
cosa che il digitale non permette. Queste scelte implicano anche un’illuminazione diffusa, la più semplice
possibile, un unico obiettivo, il 40mm, e un formato ristretto, il classico 1:1.37, che non allarga il campo
visivo come i formati panoramici. Dovevamo restare sempre al livello visivo del protagonista e seguirlo.
Géza Röhrig
Géza non è un attore ma un poeta e scrittore ungherese che vive a New York. L’ho incontrato diversi anni fa. Mi è
venuto in mente per il ruolo di Saul probabilmente perché è una persona in costante movimento, i suoi
lineamenti e il suo corpo cambiano in continuazione. Sembra impossibile capire la sua età, a volte
sembra giovane, a volte vecchio, ma non solo: a volte sembra bello e altre brutto, ordinario e eccezionale,
emotivo e imperturbabile, sagace o lento. Non smette mai di muoversi ma sa anche stare immobile e in silenzio.
Un buco nero
Anche parte della mia famiglia è stata sterminata a Auschwitz. È qualcosa di cui parlavamo ogni giorno.
Quando ero piccolo avevo l’impressione che il Male fosse stato compiuto e lo immaginavo come un buco
nero scavato dentro di noi; qualcosa si era spezzato e la mia incapacità di afferrare esattamente cosa fosse mi
isolava. Non l’ho capito per molti anni. Poi è arrivato il momento di riconnettermi con questa parte della storia
della mia famiglia
Recensioni
Federica Polidoro. xl.repubblica.it
László Nemes era sul set del film di Bela Tarr, L’uomo di Londra, quando per caso, in un giorno di pausa, si ritrovò
in libreria con La voce dei sommersi nelle mani. Quel volume conteneva gli scritti di alcuni membri del
Sonderkommando di Auschwitz: il corpo speciale, formato da ebrei, addetto allo “smaltimento” dei cadaveri
dalle camere a gas alle fornaci. Anche coloro che facevano parte del gruppo venivano, a loro volta, sterminati
ogni tre o quattro mesi, per non lasciare testimonianza degli orrori commessi dal regime.
L’ispirazione per Il figlio di Saul è nata proprio da questo libro. Di tutti i film sull’Olocausto, questo è il più pudico,
e secondo quanto sostenuto dall’ultimo membro del Sonderkommando, anche il più realistico. László Nemes ha
scelto di girarlo con campi stretti, in semi-soggettiva, senza mettere a fuoco le mostruosità dell’estenuante vita
quotidiana che affrontavano i prigionieri. Un uomo di nome Saul crede di riconoscere in un cadavere suo figlio e
per questo si mette alla disperata ricerca di un rabbino che possa dargli le giuste esequie. La caccia assurda al
religioso, nello scenario di morte del campo di concentramento, è un’affermazione di dignità e uno slancio verso
la speranza che supera dolore, repressione e umiliazione. Il film ha vinto a Cannes il Grand Prix e il Premio
Fipresci, ha fatto incetta di premi nei festival di mezzo mondo e dopo aver ricevuto il Golden Globe come Miglior
Film Straniero, ha tutta la strada spianata per prendere l’Oscar nella stessa categoria. Uno dei gioielli
cinematografici dell’anno.
Federico Pontiggia. Il Fatto Quotidiano
Si può raccontare ancora qualcosa che ha riempito migliaia di pagine, fotogrammi, tele e teche? Forse, ma serve
radicalità, coraggio e talento. Non si può ergersi come nani sulle spalle dei giganti, ma quei giganti bisogna
abbatterli, senza cincischiamenti, senza clemenza alcuna. Per raccontare la Shoah come nessuno prima, László
Nemes è la persona giusta.
Ungherese, figlio d’arte, classe 1977, è stato assistente alla regia del sommo Béla Tarr, uno che non ti insegna
solo a fare cinema, ma a guardare il mondo, appunto, come nessuno aveva fatto prima: dopo Dziga Vertov,
l’uomo con la macchina da presa a cavallo tra ‘900 e anni 10 è Tarr. Ma Nemes non lo idolatra, lo assiste per due
anni, girando al contempo alcuni corti, poi passa da Parigi a New York, ancora Parigi e infine Gerusalemme: il
progetto sul tavolo è Il figlio di Saul, Nemes lo scrive a quattro mani con Clara Royer.
Tocca essere iconoclastici, non solo fregarsene, ma demolire il corpus sulla Shoah, e non pare Nemes abbia fatto
fatica: il regista dice di aver sempre trovato frustrante la mitizzazione filmografica sui campi e dichiara un’unica
ispirazione, Va’ e vedi del russo Elem Klimov (1985). Non finisce qui: prima l’ancoraggio familiare, poi quello allo
Zeitgeist. Nemes ha avuto parte della famiglia assassinata ad Auschwitz, e il legame biografico l’ha portato a
cercare la massima aderenza storica, a basarsi sulle testimonianze di veri membri dei Sonderkommando di
Auschwitz, già raccolte ne Le voci sotto la cenere ovvero i Rotoli di Auschwitz.
Il secondo appiglio rimanda a quel fortunato sottogenere pornografico che va sotto il nome di P.O.V., acronimo di
Point of View, punto di vista: soggettive e false soggettive del protagonista maschile, per cui quel che vediamo
noi spettatori è quello che vede lui. Ma la prevalente soggettiva, grimaldello per scassinare “il film
sull’Olocausto”, qui non è solo accorgimento formale, intenzione prospettica, bensì, dispositivo ideologico e,
perdonateci il parolone, euristico: non casualmente, l’equivalente letterario di Son of Saul, Le Benevole di
Jonathan Littell, narra in prima persona la storia di Maximilien Aue, un ufficiale delle SS.
Anche questo un esordio, fa della soggettività il piede di porco per farci entrare, dalla parte dei criminali,
nell’inferno della Soluzione Finale: funzionanti quali campo e controcampo, Son of Saul e Le Benevole trovano
sotto la cenere di troppi film e libri identici il fuoco che ancora brucia della Shoah. E ci si ustiona, perché dietro
qualche – necessario – compiacimento formale, fanno male.
Nemes inquadra il funzionamento dell’Olocausto, lo sterminio e lo smaltimento dei “pezzi”, i cadaveri nel gergo
nichilista delle SS.
(…) Vincitore del Grand Prix a Cannes 2015, del Golden Globe e, assai probabile, dell’Oscar al film straniero, dà
occhi nuovi, i nostri, alla Shoah: formato dell’immagine quasi quadrato, macchina a mano a tallonare Saul,
nessun campo totale, bensì inquadrature ravvicinate, parziali, micidiali e immersive.
Tra il caldo dei forni, il sudario del figlio, i seni dei cadaveri scorciati, le esecuzioni e la fabbrica dell’intesa
estinzione di massa, Son of Saul ci riporta in carne, ossa e dolore alla fine dell’uomo. Carnefice e vittima insieme,
il Sonderkommando abita una no man’s land, letteralmente la terra dello sterminio, e Nemes non fa nulla per
eludere la geometrica mattanza: il fuoricampo è sinistramente evocativo, sentiamo l’odore della carne bruciata, il
fumo ci riempie la gola, offusca gli occhi. Ma stiamo con Saul, fino alla fine: in un universo di morte dare
sepoltura è l’unica forma di vita. Non perdetelo, Il figlio di Saul è un film che rimarrà.
Fabio Ferzetti. Il Messaggero
L’inferno di Auschwitz visto, con gli occhi dell’unico testimone che consenta di rappresentare la Shoah sfuggendo
allo spettacolo. (...) L’inferno in terra (...). Un inferno che il magnifico esordio di László Nemes lascia,
correttamente, quasi fuori campo, assumendo per tutto il film il punto di vista del protagonista, l’ungherese Saul
Ausländer. Saul come lo sfortunato primo re degli Israeliti. Ausländer come straniero in tedesco. (...) il regista ci
porta dentro l’orrore mostrando il minimo indispensabile, tra urla, spari, ordini fuori campo, e immagini
studiatissime ma parziali e sfocate. Scelta geniale grazie a cui Nemes aggira il doppio interdetto che pesa sui lager
al cinema dai tempi del ’Kapò’ di Pontecorvo. Non si ’ricostruisce’ l’irrappresentabile, l’Olocausto non ammette
finzioni. Lo ha detto una volta per tutte Claude Lanzmann, il regista di ’Shoah’. Ma rispettare alla lettera questo
divieto significa condannare le vittime una seconda volta all’oblìo, o poco meno. Se Nemes trova la quadratura
del cerchio è perché guarda (ci fa guardare) non fuori, intorno al suo protagonista, ma dentro di lui.
Marzia Gandolfi. Mymovies.it
(…) Aveva ragione Jacques Rivette, la vocazione dei film che trattano la Shoah è quella di essere discussi, il rischio
quello di essere contestati. Sulla materia esiste un corpo teorico che resiste e non smette di provocare fruttuose
controversie: due articoli ("De l'abjection" di Jacques Rivette e "Le travelling de Kapo" di Serge Daney) e un film
monumentale (Shoah) che hanno articolato ieri la relazione tra l'orrore e la sua rappresentazione, tra la storia dei
campi e quella del cinema. La domanda oggi è sempre la stessa, come fare a raccontare un avvenimento che per
la sua dimensione e il suo peso di orrore sfida il linguaggio? Come rendere conto dell'universo concentrazionario
senza sottostimarne l'orrore?
László Nemes, regista ungherese al suo esordio, prova a rispondere prendendosi il rischio e la responsabilità
formale e morale attraverso un film che sceglie il 4:3 come luogo di composizione e di 'ricomposizione' di un
corpo. Perché al centro di Son of Saul c'è il cadavere di un ragazzino che un padre vuole sottrarre alla voracità dei
forni crematori, un corpo morto tra milioni di corpi morti che Nemes lascia sullo sfondo sfocato e infuocato dalla
furia nazista. Le proporzioni del formato, che limitano lo sguardo e fugano la spettacolarità delle immagini,
rimarcano il punto di vista del protagonista. Ma Saul è anche il bersaglio per il fucile delle SS e per la macchina da
presa. Sulla giacca che indossa è verniciata una ics rossa che lo rende immediatamente distinguibile e vulnerabile
dentro l'inferno della soluzione finale. A un passo dalla rivolta armata messa in atto dai sonderkommando ad
Auschwitz nel 1944, la macchina da presa converge sullo sguardo di Saul che ha scelto un'altra forma di
resistenza: preservare l'integrità e la sacralità del corpo di suo figlio. L'ossessione con cui Saul persegue quella
volontà lo tiene ostinatamente in vita e colma istericamente il trauma di cui è stato complice obbligato e
incolpevole. Alle cremazioni sommarie, indifferenti alla liturgia e al commiato, contrappone un gesto umano che
lo conduce attraverso una Babele concentrazionaria in cui uomini e donne, ridotti a sofferenza e bisogno,
sopravvivono e muoiono per un sì o per un no. In un clima di isteria e assuefazione collettiva, che il regista
restituisce con la sfocatura, emerge Saul che perso a se stesso non ha ancora perso tutto.
Dal fondo in cui giacciono uomini ridotti a 'pezzi' dalla fabbrica della morte, Nemes separa e mette a fuoco Saul,
ricostruendo con lui e attraverso i suoi spostamenti all'interno del campo un luogo al di fuori di ogni senso di
affinità umana. È l'assuefazione a regnare davanti alle porte delle camere a gas, un meccanismo naturale di
protezione che non fa più caso all'orrore che resta fuori campo e delegato ai suoni, ai rumori, alle parole, agli
ordini urlati, alla paura muta, alle preghiere, ai canti sacri. Lo spettatore guarda soltanto l'oggetto della ricerca
del protagonista, ricerca che scandisce il ritmo visuale del film, reso instabile e organico dalla pellicola. Sono i
frammenti raccolti dal suo sguardo che permettono la ricostruzione della visione e di un'idea fissa che guadagna
al film e alla vita di Saul un senso umano, arcaico e sacro. Dentro un formato saturo del meglio e del peggio
dell'essere umano, dentro un formato che riduce il movimento e isola una personale ricerca verso una vita che si
vorrebbe ancora e disperatamente ingrandita, si svolge la sfida di László Nemes.
Consapevole dell'impossibilità di dire qualcosa di definitivo sull'argomento, l'autore ha coscienza dei vuoti
necessari e dei pieni superflui, s'impone dogmi etici ed estetici e prova a resistere dentro un quadro che qualche
volta tracima, aprendo ai lati sui predatori, sulla visione piena di luoghi e azioni, sul realismo insopportabile.
Negativo de La vita è bella, Son of Saul è un incubo a occhi aperti in cui un padre ha perso la battaglia con la vita
ma vuole vincere quella con la morte, ricomponendola con l'assistenza di un rabbino. La follia nazista non può
essere nascosta a quel figlio (probabilmente) mai avuto ma così necessario a riparare il senso di colpa indotto dai
carnefici alle loro vittime. Un figlio che accende la sua unica intenzione e il suo ultimo sorriso.
Alberto Crespi. L'Unità
(...) è un film potente, una metafora non realistica sulla morte che pervade tutto, sulla vita negata (di fronte alle
cose assurde che fa il protagonista senza che le SS se ne accorgano è necessaria una Forte sospensione
dell’incredulità). L’originalità è tutta nello stile: e anche qui, molti hanno scritto che il film è in soggettiva, che noi
vediamo ciò che Saul vede, mentre è vero il contrario. La macchina da presa è costantemente dietro le spalle
dell’attore Géza Röhrig, la sua schiena impalla la nostra visione e noi percepiamo vagamente ciò che accade dai
dettagli ai lati del suo corpo; mentre sentiamo, quello sì, tutto ciò che lui sente (il lavoro sul sonoro è pazzesco, e
per una volta è giusto citare il montatore del suono Tamás Székely e il sound-designer Tamás Zányi). In ultima
analisi ’Il figlio di Saul’ è un film-esperienza, molto doloroso, dal quale si esce profondamente scossi. Con il
dubbio che Auschwitz sia ancora lì, che non sia mai finita.
Roy Menarini. Mymovies.it
Annientare una vita umana è annientarne il corpo. Il mostruoso problema tecnico di Birkenau era costituito dal
disfarsi dei corpi umani. Prima ucciderli (con camere a gas, ma anche per fucilazione o con un colpo alla testa
facendoli poi cadere in una fossa comune), quindi - se il corpo era ancora integro - ridurlo in cenere attraverso un
forno crematorio, poi trasportare le ceneri sulla spiaggia e infine, faticosamente, gettare queste ultime nelle
acque del fiume Vistola.
Il problema morale, ben più innocuo per fortuna, del cinema dedicato alla Shoah è sempre stato quello di
rappresentare l'orrore. Non è il caso di ripercorrerne il dibattito (…). Lo storico dell'arte e filosofo Georges DidiHuberman, nel suo capitale saggio "Le immagini malgrado tutto", si è chiesto in termini analitici fino a che punto
si può giungere nel mostrare e studiare le immagini più orribili. Tra di esse, egli cita e studia un gruppo di
fotografie scattate ad Auschwitz, sopravvissute grazie ad alcuni membri dei Sonderkommando che riuscirono, nel
luglio del 1944, a salvare pochi fotogrammi.
Ebbene il regista ungherese László Nemes non solo ha realizzato un film che propone una risposta sul "come
rappresentare l'orrore" (attraverso la scelta di racchiuderlo negli angoli sfocati del campo o nel fuoricampo) ma
ha citato direttamente il volume di Didi-Huberman e i famigerati scatti, mostrandoci in che momento
probabilmente furono realizzati.Tutto ciò può apparire particolarmente accademico e cerebrale, eppure Il figlio
di Saul opera una prassi totalmente opposta, scaraventandoci fin nelle viscere della fucina degli orrori del
complesso di sterminio collocato a pochi chilometri da Cracovia, nella Polonia occupata dai nazisti - quella stessa
Polonia che oggi vede riaffacciarsi i fantasmi del fascismo. Il ricorso alla camera a mano e ai piani-sequenza,
l'evocazione attraverso una "parte per il tutto" dei delitti indicibili che vi si perpetravano (quasi insopportabile il
saliscendi dei lamenti e delle grida emesse dalle vittime nelle camere a gas), la determinazione a rimanere per
gran parte del tempo attaccato al volto robotico e inespressivo del protagonista sopraffatto, sono altrettante
scelte che dimostrano un partito preso della messa in scena - per dirla con una categoria da vecchia cinefilia.
Vedendo il film, tuttavia, emerge una ulteriore interpretazione. Dopo il primo stordimento traumatico, lo
spettatore comincia a percepire qualcosa che stride, e in effetti alcuni critici hanno attribuito questa sensazione a
problemi di ritmo, di narrazione, di contraddizione formale e altro. La spiegazione, probabilmente, è un'altra. Se i
volti dei sofferenti ci sembrano poco credibili, troppo robusti e in carne; se la rappresentazione di Birkenau ci
sembra talvolta smarrire la credibilità; se la messa in scena degli eccidi rischia la saturazione, ebbene per tutto
questo c'è un motivo.
László Nemes non ha voluto dirigere "la realtà di Auschwitz come non l'avete mai vista", ovvero una sorta di
esperienza immersiva nel buco nero della storia moderna, bensì una sorta di straniante re-enactment. La
forzatura sulla dimensione teatrale, il ricorso a volti evidentemente troppo contemporanei, la recitazione spesso
esasperata, la ricostruzione performativa di uno spazio concentrazionario, sono molto più simili a una
installazione artistica che non a un film realista. La sostanza teorica su cui si basa Nemes è troppo densa per
poter pensare a una sottovalutazione del rischio. Il film più vero del vero finisce con l'essere in fondo un film sulla
rappresentazione. Fosse giusta questa ipotesi, Il figlio di Saul si arricchirebbe di un significato ulteriore: come fare
un film su Auschwitz oggi senza fingere di esserci stati.
Federico Gironi. Comingsoon.it
(...) il film di Nemes si apre sul volto del protagonista, il Saul del titolo, che in breve capiamo essere uno dei
Sonderkommando, impegnato come gli altri nelle operazioni che devono condurre centinaia di ebrei appena
arrivati al campo nelle docce. Nemes ce lo racconta in primo piano, di volto o di nuca, tenendo il diaframma
chiuso per rendere confuso e indistinto quel che avviene attorno a lui, con un piano sequenza che restituisce la
concitazione aberrante di quella situazione e chiuso in un claustrofobico formato in 4:3; e così ce lo racconterà
per tutta l'ora e 47 minuti di Son of Saul, racconto in tempo quasi reale di un orrore che pervade e di un angoscia
che non lascia scampo, lontanissimo dalla retorica del dolore della maggior parte del cinema che ha raccontato lo
sterminio degli ebrei e i campi di concentramento.
Non c'è tempo per il dolore, in Son of Saul. E l'orrore non è tanto quello delle aberrazioni che avvengono attorno
al protagonista, quanto quello di una realtà infernale, dove si corre senza avere via di scampo, dove la
sopravvivenza è mero gesto abitudinario e istintuale, poiché la vita, oramai, è da un altra parte. La vita è oramai
un'illusione, un miraggio, come forse quello di Saul, che crede di vedere nel ragazzino sopravvissuto al gas (e
prontamente soffocato manualmente da un medico nazista) un figlio che forse non ha mai avuto, o forse sì: poco
importa. Perché quello che importa è che da quando quel ragazzo sopravvissuto per morire capita sotto gli occhi
dell'uomo, questi si attiva mettendo a rischio la sua vita e quella dei suoi compagni per trafugarne il cadavere,
cercare di dargli sepoltura, trovare un rabbino che ne celebri il funerale.
Comincia così la corsa senza fiato di Son of Saul, che segue il suo protagonista e noi con lui. Saul cerca di portare
a termine il suo piano, con disperata determinazione, silenziosa e testarda, ma per farlo deve fare lo slalom tra gli
orrori del campo che noi percepiamo in maniera ancora più terribile sullo sfondo: tra i corpi nudi a terra, le pile di
abiti, il saccheggio dei beni, i depositi di valige, i forni crematori, i cumuli di ceneri da smaltire, i kapò, i nuovi
arrivi di deportati, i colpi alla testa, le fosse comuni, i ricatti tra prigionieri, le gerarchie, i piani segreti di rivolta, le
piccole e grandi corruzioni degli altri e delle anime.
Corre, Saul, senza respiro, perché solo i vivi respirano, e lui in fondo non lo è; sfiorando a più riprese quella morte
alla quale comunque è destinato e che sta già vivendo nell'inferno del presente. "Deludi i vivi per dare la
precedenza ai morti," gli dice un altro prigioniero: ma resta da vedere chi è davvero vivo, e chi è già morto.
Corre, Saul. Si affanna, si arrangia, si barcamena, testardo: nell'illusione che dare sepoltura a quel ragazzo (a un
ragazzo) possa essere un sollievo, una salvezza, il recupero di un'umanità abbrutita e umiliata, bruciata e
dispersa. E noi corriamo con lui, storditi dal susseguirsi degli eventi e dal girone infernale senza fine che abita.
E sorride una volta sola, alla fine della corsa, di fronte alla sublimazione improvvisa e inaspettata dei suoi
fantasmi, all'imminenza di una morte che è l'unica consolazione possibile di fronte a tanto orrore