Untitled - Barz and Hippo
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Opera prima che ha stupito critica, pubblico e festival di tutto il mondo, vincendo premi importantissimi inclusi il David di Donatello e l'Oscar al miglior film straniero, Il figlio di Saul rivede la vita nei campi di concentramento da un punto di vista particolarmente scomodo e drammatico, dando vita a un film che ricrea il modo di raccontare l'orrore dei lager con forza e originalità. A dimostrazione che saper raccontare bene quella storia è ancora e sarà sempre necessario. scheda tecnica titolo originale: durata: nazionalità: anno: regia: sceneggiatura: fotografia: montaggio: musiche: suono: scenografia: formato di ripresa: distribuzione: SAUL FIA 107 MINUTI GERMANIA 2015 LÁSZLÓ NEMES LÁSZLÓ NEMES, CLARA ROYER MÁTYÁS ERDÉLY MATTHIEU TAPONIER LÁSZLÓ MELIS TAMÁS ZÁNYI LÁSZLÓ RAJK 35 mm TEODORA FILM interpreti: GÉZA RÖHRIG (Saul Auslander), LEVENTE MOLNÁR (Abraham Warszawski), URS RECHN (Biedermann), SÁNDOR ZSÓTÉR (Dottore Miklós Nyiszli), TODD CHARMONT (Braun), CHRISTIAN HARTING (Busch), KAMIL DOBROWOLSKI (Mietek), ATTILA FRITZ (Yankl), TAMÁS POLGÁR (Landesman). Festival: 2015, presentato in anteprima in concorso al Festival di Cannes 2015, Gran Premio Speciale della Giuria, Premio Fipresci, Premio François Chalais; 2016, Golden Globe, Miglior film straniero; Premio Oscar, Miglior film straniero; David di Donatello, Miglior film dell'Unione Europea. László Nemes Nato a Budapest il 18 febbraio 1977, Nemes è uno sceneggiatore e ha debuttato alla regia con Il figlio di Saul.è il primo regista ungherese a vincere il Golden Globe e il secondo a vincere l'Oscar. Figlio di madre ebrea e del regista cinematografico e teatrale András Jeles, all'età di 12 anni si è trasferito con la famiglia a Parigi. Interessatosi al cinema molto presto, cominciò da ragazzino a girare film horror nella cantina della sua casa parigina. Dopo studi di Storia, Relazioni Internazionali e Sceneggiatura, iniziò a lavorare come assistente alla regia in Francia e Ungheria. Per due anni fu sul set di Béla Tarr per L'Uomo di Londra. Dopo aver diretto il suo primo cortometraggio in 35 mm, With a Little Patience, nel 2006 si è trasferito a New York per studiare regia alla New York University's Tisch School of the Arts. Nel 2011, tracsorre cinque mesi per un programma di studio finanziato da Cinéfondation, e in quel periodo insieme a Clara Royer sviluppa lo script per Il figlio di Saul. Nel 2012 proseguono a lavorare intensivamente alla sceneggiatura presso l'Jerusalem International Film Lab. Nemes ha citato Michelangelo Antonioni, Andrei Tarkovsky, Ingmar Bergman, Terrence Malick e Stanley Kubrick fra i suoi registi preferiti. Note di regia di László Nemes Voci sotto la cenere Stavo girando in Corsica L’uomo di Londra di Béla Tarr, con cui lavoravo come assistente alla regia. Le riprese erano state interrotte per una settimana, avevo molto tempo libero e in libreria ho trovato un volume pubblicato dal Mémorial de la Shoah con il titolo Des voix sous la cendre(in Italia La voce dei sommersi, edito da Marsilio, ndt), che raccoglie gli scritti di alcuni membri dei Sonderkommando di Auschwitz. Prima della loro rivolta del 1944, queste pagine clandestine vennero nascoste sotto terra e ritrovate solo molti anni dopo la fine della guerra. Si tratta di una testimonianza straordinaria, che descrive i compiti quotidiani dei Sonderkommando, l’organizzazione del loro lavoro, le regole con cui veniva gestito il campo e lo sterminio degli ebrei, ma anche come questi uomini riuscirono a creare una certa forma di resistenza. Da questo libro è venuta l’idea de Il figlio di Saul. I Sonderkommando I Sonderkommando erano gruppi di prigionieri scelti dalle SS per accompagnare gli altri alle camere a gas, dopo averli rassicurati e fatti spogliare. Quindi rimuovevano i cadaveri, ripulivano tutto e bruciavano i corpi. Tutto ciò era eseguito a gran velocità, in quanto Auschwitz-Birkenau funzionava come una vera e propria fabbrica di morte a ritmi industriali. Gli storici stimano che nell’estate del 1944 migliaia di ebrei fossero sterminati ogni giorno. Ai membri dei Sonderkommando spettava un trattamento relativamente preferenziale: gli era permesso tenere il cibo trovato nei treni e avevano un minimo di libertà di movimento nell’ambito di un perimetro stabilito. Ma il loro lavoro era estenuante e in ogni caso venivano regolarmente eliminati ogni 3 o 4 mesi dalle SS per fare in modo che nessun testimone dello sterminio rimanesse in vita. La fabbrica della morte Ho sempre trovato frustranti i film sui campi di concentramento. Provano a costruire storie di sopravvivenza e eroismo, ma secondo me propongono di fatto una concezione mitica del passato. La testimonianza dei Sonderkommando è invece qualcosa di concreto e tangibile. Descrive in diretta il “normale” funzionamento di quella fabbrica di morte: la sua pianificazione, le regole, i turni, i rischi, i ritmi produttivi. Le SS usavano la parola Stück, pezzo, per riferirsi ai cadaveri, come se fossero oggetti prodotti in fabbrica. Questa testimonianza, insomma, mi ha permesso di vedere l’accaduto attraverso gli occhi dei dannati dei campi di concentramento. Il punto di vista di Saul Un aspetto molto problematico del film è stato quello di raccontare una storia di finzione partendo dal contesto di questa testimonianza. Non volevo trasformare nessuno in un eroe, non volevo neanche assumere il punto di vista dei sopravvissuti, né mostrare troppo di quella fabbrica di morte. Volevo solo trovare una prospettiva che potesse essere esemplare, ridotta all’essenziale, per raccontare una vicenda il più possibile semplice e arcaica. Ho scelto il punto di vista di un uomo, Saul Ausländer, un ebreo ungherese membro di un Sonderkommando, e mi sono attenuto strettamente a questa posizione: mostrare quello che vede, niente di più e niente di meno. Non si tratta però di una soggettiva pura, poiché sullo schermo noi vediamo Saul come personaggio: non volevo infatti ridurre il film a un approccio puramente visuale, che sarebbe stato artificioso, e ho preferito evitare ogni virtuosismo o esercizio di stile. Inoltre, quest’uomo è il punto di partenza di una storia unica, ossessiva e primitiva: crede di aver riconosciuto il figlio tra le vittime delle camere a gas ed è deciso a salvarne il corpo dai forni, trovare un rabbino che reciti il Kaddish e seppellirlo. Tutto quello che fa è legato a questa missione, che sembra completamente priva di scopo nell’inferno del lager. Il film resta tuttavia sempre legato al suo punto di vista e alla sua linea d’azione. Questa incrocia poi quella degli altri prigionieri, ma il campo è percepito per intero dalla sua prospettiva. L’orrore fuori campo Seguendo i movimenti di Saul, ci fermiamo davanti alla porta della camera a gas, per entrarvi solo a sterminio avvenuto per la rimozione dei corpi. Le immagini mancanti sono quelle della morte dei prigionieri; immagini che non possono essere ricostruite, né dovrebbero essere toccate o manipolate in nessun modo. Assumere il punto di vista di Saul vuol dire anche mostrare solo ciò a cui presta attenzione. Egli lavora ai forni crematori da quattro mesi e, come riflesso istintivo per proteggersi, sembra non fare più caso all’orrore in cui è immerso. Per questo motivo tale orrore rimane sullo sfondo o indistinto o fuori campo. Saul vede solo quello che gli occorre per la sua ricerca: questo dà al film il suo ritmo visivo. Forme di rivolta Nel film si svolge un tentativo di rivolta dei prigionieri che ebbe luogo di fatto a Auschwitz nel 1944, l’unica rivolta armata della storia del campo. Anche il tentativo di scattare delle foto è realmente accaduto: grazie a una macchina fotografica fatta arrivare ai Sonderkommando di Birkenau dalla resistenza polacca, 4 foto furono realizzate per testimoniare al mondo esterno quello che succedeva nei campi. Ho potuto vederle alla mostra del 2001 Mémoire des campse mi hanno colpito profondamente. Saul sceglie invece una forma diversa di rivolta, che può sembrare irrilevante fuori da quel contesto. Quando sembra che non ci sia più speranza, la voce interiore del protagonista lo incita a sopravvivere per compiere un atto che ha un significato, un significato umano, sacro, ancestrale che lo pone all’origine della civiltà umana e di qualsiasi religione: portare rispetto per il corpo di un morto. Regole sul set Insieme al direttore della fotografia e allo scenografo abbiamo deciso, prima di iniziare le riprese, che ci saremmo attenuti a una serie di regole: “il film non deve essere visivamente bello e accattivante”; “non possiamo fare un film dell’orrore”; “seguire Saul vuol dire non andare oltre la sua presenza e il suo campo visivo e uditivo”; “la cinepresa è la sua compagna e lo affianca in questo inferno”. Abbiamo anche scelto di girare in pellicola 35mm e di usare solo procedimenti fotochimici tradizionali nei vari momenti della produzione. Era l’unico modo di mantenere una certa instabilità nelle immagini e quindi essere capaci di filmare quel mondo in modo organico. La sfida era quella di raggiungere il pubblico in termini emotivi, cosa che il digitale non permette. Queste scelte implicano anche un’illuminazione diffusa, la più semplice possibile, un unico obiettivo, il 40mm, e un formato ristretto, il classico 1:1.37, che non allarga il campo visivo come i formati panoramici. Dovevamo restare sempre al livello visivo del protagonista e seguirlo. Géza Röhrig Géza non è un attore ma un poeta e scrittore ungherese che vive a New York. L’ho incontrato diversi anni fa. Mi è venuto in mente per il ruolo di Saul probabilmente perché è una persona in costante movimento, i suoi lineamenti e il suo corpo cambiano in continuazione. Sembra impossibile capire la sua età, a volte sembra giovane, a volte vecchio, ma non solo: a volte sembra bello e altre brutto, ordinario e eccezionale, emotivo e imperturbabile, sagace o lento. Non smette mai di muoversi ma sa anche stare immobile e in silenzio. Un buco nero Anche parte della mia famiglia è stata sterminata a Auschwitz. È qualcosa di cui parlavamo ogni giorno. Quando ero piccolo avevo l’impressione che il Male fosse stato compiuto e lo immaginavo come un buco nero scavato dentro di noi; qualcosa si era spezzato e la mia incapacità di afferrare esattamente cosa fosse mi isolava. Non l’ho capito per molti anni. Poi è arrivato il momento di riconnettermi con questa parte della storia della mia famiglia Recensioni Federica Polidoro. xl.repubblica.it László Nemes era sul set del film di Bela Tarr, L’uomo di Londra, quando per caso, in un giorno di pausa, si ritrovò in libreria con La voce dei sommersi nelle mani. Quel volume conteneva gli scritti di alcuni membri del Sonderkommando di Auschwitz: il corpo speciale, formato da ebrei, addetto allo “smaltimento” dei cadaveri dalle camere a gas alle fornaci. Anche coloro che facevano parte del gruppo venivano, a loro volta, sterminati ogni tre o quattro mesi, per non lasciare testimonianza degli orrori commessi dal regime. L’ispirazione per Il figlio di Saul è nata proprio da questo libro. Di tutti i film sull’Olocausto, questo è il più pudico, e secondo quanto sostenuto dall’ultimo membro del Sonderkommando, anche il più realistico. László Nemes ha scelto di girarlo con campi stretti, in semi-soggettiva, senza mettere a fuoco le mostruosità dell’estenuante vita quotidiana che affrontavano i prigionieri. Un uomo di nome Saul crede di riconoscere in un cadavere suo figlio e per questo si mette alla disperata ricerca di un rabbino che possa dargli le giuste esequie. La caccia assurda al religioso, nello scenario di morte del campo di concentramento, è un’affermazione di dignità e uno slancio verso la speranza che supera dolore, repressione e umiliazione. Il film ha vinto a Cannes il Grand Prix e il Premio Fipresci, ha fatto incetta di premi nei festival di mezzo mondo e dopo aver ricevuto il Golden Globe come Miglior Film Straniero, ha tutta la strada spianata per prendere l’Oscar nella stessa categoria. Uno dei gioielli cinematografici dell’anno. Federico Pontiggia. Il Fatto Quotidiano Si può raccontare ancora qualcosa che ha riempito migliaia di pagine, fotogrammi, tele e teche? Forse, ma serve radicalità, coraggio e talento. Non si può ergersi come nani sulle spalle dei giganti, ma quei giganti bisogna abbatterli, senza cincischiamenti, senza clemenza alcuna. Per raccontare la Shoah come nessuno prima, László Nemes è la persona giusta. Ungherese, figlio d’arte, classe 1977, è stato assistente alla regia del sommo Béla Tarr, uno che non ti insegna solo a fare cinema, ma a guardare il mondo, appunto, come nessuno aveva fatto prima: dopo Dziga Vertov, l’uomo con la macchina da presa a cavallo tra ‘900 e anni 10 è Tarr. Ma Nemes non lo idolatra, lo assiste per due anni, girando al contempo alcuni corti, poi passa da Parigi a New York, ancora Parigi e infine Gerusalemme: il progetto sul tavolo è Il figlio di Saul, Nemes lo scrive a quattro mani con Clara Royer. Tocca essere iconoclastici, non solo fregarsene, ma demolire il corpus sulla Shoah, e non pare Nemes abbia fatto fatica: il regista dice di aver sempre trovato frustrante la mitizzazione filmografica sui campi e dichiara un’unica ispirazione, Va’ e vedi del russo Elem Klimov (1985). Non finisce qui: prima l’ancoraggio familiare, poi quello allo Zeitgeist. Nemes ha avuto parte della famiglia assassinata ad Auschwitz, e il legame biografico l’ha portato a cercare la massima aderenza storica, a basarsi sulle testimonianze di veri membri dei Sonderkommando di Auschwitz, già raccolte ne Le voci sotto la cenere ovvero i Rotoli di Auschwitz. Il secondo appiglio rimanda a quel fortunato sottogenere pornografico che va sotto il nome di P.O.V., acronimo di Point of View, punto di vista: soggettive e false soggettive del protagonista maschile, per cui quel che vediamo noi spettatori è quello che vede lui. Ma la prevalente soggettiva, grimaldello per scassinare “il film sull’Olocausto”, qui non è solo accorgimento formale, intenzione prospettica, bensì, dispositivo ideologico e, perdonateci il parolone, euristico: non casualmente, l’equivalente letterario di Son of Saul, Le Benevole di Jonathan Littell, narra in prima persona la storia di Maximilien Aue, un ufficiale delle SS. Anche questo un esordio, fa della soggettività il piede di porco per farci entrare, dalla parte dei criminali, nell’inferno della Soluzione Finale: funzionanti quali campo e controcampo, Son of Saul e Le Benevole trovano sotto la cenere di troppi film e libri identici il fuoco che ancora brucia della Shoah. E ci si ustiona, perché dietro qualche – necessario – compiacimento formale, fanno male. Nemes inquadra il funzionamento dell’Olocausto, lo sterminio e lo smaltimento dei “pezzi”, i cadaveri nel gergo nichilista delle SS. (…) Vincitore del Grand Prix a Cannes 2015, del Golden Globe e, assai probabile, dell’Oscar al film straniero, dà occhi nuovi, i nostri, alla Shoah: formato dell’immagine quasi quadrato, macchina a mano a tallonare Saul, nessun campo totale, bensì inquadrature ravvicinate, parziali, micidiali e immersive. Tra il caldo dei forni, il sudario del figlio, i seni dei cadaveri scorciati, le esecuzioni e la fabbrica dell’intesa estinzione di massa, Son of Saul ci riporta in carne, ossa e dolore alla fine dell’uomo. Carnefice e vittima insieme, il Sonderkommando abita una no man’s land, letteralmente la terra dello sterminio, e Nemes non fa nulla per eludere la geometrica mattanza: il fuoricampo è sinistramente evocativo, sentiamo l’odore della carne bruciata, il fumo ci riempie la gola, offusca gli occhi. Ma stiamo con Saul, fino alla fine: in un universo di morte dare sepoltura è l’unica forma di vita. Non perdetelo, Il figlio di Saul è un film che rimarrà. Fabio Ferzetti. Il Messaggero L’inferno di Auschwitz visto, con gli occhi dell’unico testimone che consenta di rappresentare la Shoah sfuggendo allo spettacolo. (...) L’inferno in terra (...). Un inferno che il magnifico esordio di László Nemes lascia, correttamente, quasi fuori campo, assumendo per tutto il film il punto di vista del protagonista, l’ungherese Saul Ausländer. Saul come lo sfortunato primo re degli Israeliti. Ausländer come straniero in tedesco. (...) il regista ci porta dentro l’orrore mostrando il minimo indispensabile, tra urla, spari, ordini fuori campo, e immagini studiatissime ma parziali e sfocate. Scelta geniale grazie a cui Nemes aggira il doppio interdetto che pesa sui lager al cinema dai tempi del ’Kapò’ di Pontecorvo. Non si ’ricostruisce’ l’irrappresentabile, l’Olocausto non ammette finzioni. Lo ha detto una volta per tutte Claude Lanzmann, il regista di ’Shoah’. Ma rispettare alla lettera questo divieto significa condannare le vittime una seconda volta all’oblìo, o poco meno. Se Nemes trova la quadratura del cerchio è perché guarda (ci fa guardare) non fuori, intorno al suo protagonista, ma dentro di lui. Marzia Gandolfi. Mymovies.it (…) Aveva ragione Jacques Rivette, la vocazione dei film che trattano la Shoah è quella di essere discussi, il rischio quello di essere contestati. Sulla materia esiste un corpo teorico che resiste e non smette di provocare fruttuose controversie: due articoli ("De l'abjection" di Jacques Rivette e "Le travelling de Kapo" di Serge Daney) e un film monumentale (Shoah) che hanno articolato ieri la relazione tra l'orrore e la sua rappresentazione, tra la storia dei campi e quella del cinema. La domanda oggi è sempre la stessa, come fare a raccontare un avvenimento che per la sua dimensione e il suo peso di orrore sfida il linguaggio? Come rendere conto dell'universo concentrazionario senza sottostimarne l'orrore? László Nemes, regista ungherese al suo esordio, prova a rispondere prendendosi il rischio e la responsabilità formale e morale attraverso un film che sceglie il 4:3 come luogo di composizione e di 'ricomposizione' di un corpo. Perché al centro di Son of Saul c'è il cadavere di un ragazzino che un padre vuole sottrarre alla voracità dei forni crematori, un corpo morto tra milioni di corpi morti che Nemes lascia sullo sfondo sfocato e infuocato dalla furia nazista. Le proporzioni del formato, che limitano lo sguardo e fugano la spettacolarità delle immagini, rimarcano il punto di vista del protagonista. Ma Saul è anche il bersaglio per il fucile delle SS e per la macchina da presa. Sulla giacca che indossa è verniciata una ics rossa che lo rende immediatamente distinguibile e vulnerabile dentro l'inferno della soluzione finale. A un passo dalla rivolta armata messa in atto dai sonderkommando ad Auschwitz nel 1944, la macchina da presa converge sullo sguardo di Saul che ha scelto un'altra forma di resistenza: preservare l'integrità e la sacralità del corpo di suo figlio. L'ossessione con cui Saul persegue quella volontà lo tiene ostinatamente in vita e colma istericamente il trauma di cui è stato complice obbligato e incolpevole. Alle cremazioni sommarie, indifferenti alla liturgia e al commiato, contrappone un gesto umano che lo conduce attraverso una Babele concentrazionaria in cui uomini e donne, ridotti a sofferenza e bisogno, sopravvivono e muoiono per un sì o per un no. In un clima di isteria e assuefazione collettiva, che il regista restituisce con la sfocatura, emerge Saul che perso a se stesso non ha ancora perso tutto. Dal fondo in cui giacciono uomini ridotti a 'pezzi' dalla fabbrica della morte, Nemes separa e mette a fuoco Saul, ricostruendo con lui e attraverso i suoi spostamenti all'interno del campo un luogo al di fuori di ogni senso di affinità umana. È l'assuefazione a regnare davanti alle porte delle camere a gas, un meccanismo naturale di protezione che non fa più caso all'orrore che resta fuori campo e delegato ai suoni, ai rumori, alle parole, agli ordini urlati, alla paura muta, alle preghiere, ai canti sacri. Lo spettatore guarda soltanto l'oggetto della ricerca del protagonista, ricerca che scandisce il ritmo visuale del film, reso instabile e organico dalla pellicola. Sono i frammenti raccolti dal suo sguardo che permettono la ricostruzione della visione e di un'idea fissa che guadagna al film e alla vita di Saul un senso umano, arcaico e sacro. Dentro un formato saturo del meglio e del peggio dell'essere umano, dentro un formato che riduce il movimento e isola una personale ricerca verso una vita che si vorrebbe ancora e disperatamente ingrandita, si svolge la sfida di László Nemes. Consapevole dell'impossibilità di dire qualcosa di definitivo sull'argomento, l'autore ha coscienza dei vuoti necessari e dei pieni superflui, s'impone dogmi etici ed estetici e prova a resistere dentro un quadro che qualche volta tracima, aprendo ai lati sui predatori, sulla visione piena di luoghi e azioni, sul realismo insopportabile. Negativo de La vita è bella, Son of Saul è un incubo a occhi aperti in cui un padre ha perso la battaglia con la vita ma vuole vincere quella con la morte, ricomponendola con l'assistenza di un rabbino. La follia nazista non può essere nascosta a quel figlio (probabilmente) mai avuto ma così necessario a riparare il senso di colpa indotto dai carnefici alle loro vittime. Un figlio che accende la sua unica intenzione e il suo ultimo sorriso. Alberto Crespi. L'Unità (...) è un film potente, una metafora non realistica sulla morte che pervade tutto, sulla vita negata (di fronte alle cose assurde che fa il protagonista senza che le SS se ne accorgano è necessaria una Forte sospensione dell’incredulità). L’originalità è tutta nello stile: e anche qui, molti hanno scritto che il film è in soggettiva, che noi vediamo ciò che Saul vede, mentre è vero il contrario. La macchina da presa è costantemente dietro le spalle dell’attore Géza Röhrig, la sua schiena impalla la nostra visione e noi percepiamo vagamente ciò che accade dai dettagli ai lati del suo corpo; mentre sentiamo, quello sì, tutto ciò che lui sente (il lavoro sul sonoro è pazzesco, e per una volta è giusto citare il montatore del suono Tamás Székely e il sound-designer Tamás Zányi). In ultima analisi ’Il figlio di Saul’ è un film-esperienza, molto doloroso, dal quale si esce profondamente scossi. Con il dubbio che Auschwitz sia ancora lì, che non sia mai finita. Roy Menarini. Mymovies.it Annientare una vita umana è annientarne il corpo. Il mostruoso problema tecnico di Birkenau era costituito dal disfarsi dei corpi umani. Prima ucciderli (con camere a gas, ma anche per fucilazione o con un colpo alla testa facendoli poi cadere in una fossa comune), quindi - se il corpo era ancora integro - ridurlo in cenere attraverso un forno crematorio, poi trasportare le ceneri sulla spiaggia e infine, faticosamente, gettare queste ultime nelle acque del fiume Vistola. Il problema morale, ben più innocuo per fortuna, del cinema dedicato alla Shoah è sempre stato quello di rappresentare l'orrore. Non è il caso di ripercorrerne il dibattito (…). Lo storico dell'arte e filosofo Georges DidiHuberman, nel suo capitale saggio "Le immagini malgrado tutto", si è chiesto in termini analitici fino a che punto si può giungere nel mostrare e studiare le immagini più orribili. Tra di esse, egli cita e studia un gruppo di fotografie scattate ad Auschwitz, sopravvissute grazie ad alcuni membri dei Sonderkommando che riuscirono, nel luglio del 1944, a salvare pochi fotogrammi. Ebbene il regista ungherese László Nemes non solo ha realizzato un film che propone una risposta sul "come rappresentare l'orrore" (attraverso la scelta di racchiuderlo negli angoli sfocati del campo o nel fuoricampo) ma ha citato direttamente il volume di Didi-Huberman e i famigerati scatti, mostrandoci in che momento probabilmente furono realizzati.Tutto ciò può apparire particolarmente accademico e cerebrale, eppure Il figlio di Saul opera una prassi totalmente opposta, scaraventandoci fin nelle viscere della fucina degli orrori del complesso di sterminio collocato a pochi chilometri da Cracovia, nella Polonia occupata dai nazisti - quella stessa Polonia che oggi vede riaffacciarsi i fantasmi del fascismo. Il ricorso alla camera a mano e ai piani-sequenza, l'evocazione attraverso una "parte per il tutto" dei delitti indicibili che vi si perpetravano (quasi insopportabile il saliscendi dei lamenti e delle grida emesse dalle vittime nelle camere a gas), la determinazione a rimanere per gran parte del tempo attaccato al volto robotico e inespressivo del protagonista sopraffatto, sono altrettante scelte che dimostrano un partito preso della messa in scena - per dirla con una categoria da vecchia cinefilia. Vedendo il film, tuttavia, emerge una ulteriore interpretazione. Dopo il primo stordimento traumatico, lo spettatore comincia a percepire qualcosa che stride, e in effetti alcuni critici hanno attribuito questa sensazione a problemi di ritmo, di narrazione, di contraddizione formale e altro. La spiegazione, probabilmente, è un'altra. Se i volti dei sofferenti ci sembrano poco credibili, troppo robusti e in carne; se la rappresentazione di Birkenau ci sembra talvolta smarrire la credibilità; se la messa in scena degli eccidi rischia la saturazione, ebbene per tutto questo c'è un motivo. László Nemes non ha voluto dirigere "la realtà di Auschwitz come non l'avete mai vista", ovvero una sorta di esperienza immersiva nel buco nero della storia moderna, bensì una sorta di straniante re-enactment. La forzatura sulla dimensione teatrale, il ricorso a volti evidentemente troppo contemporanei, la recitazione spesso esasperata, la ricostruzione performativa di uno spazio concentrazionario, sono molto più simili a una installazione artistica che non a un film realista. La sostanza teorica su cui si basa Nemes è troppo densa per poter pensare a una sottovalutazione del rischio. Il film più vero del vero finisce con l'essere in fondo un film sulla rappresentazione. Fosse giusta questa ipotesi, Il figlio di Saul si arricchirebbe di un significato ulteriore: come fare un film su Auschwitz oggi senza fingere di esserci stati. Federico Gironi. Comingsoon.it (...) il film di Nemes si apre sul volto del protagonista, il Saul del titolo, che in breve capiamo essere uno dei Sonderkommando, impegnato come gli altri nelle operazioni che devono condurre centinaia di ebrei appena arrivati al campo nelle docce. Nemes ce lo racconta in primo piano, di volto o di nuca, tenendo il diaframma chiuso per rendere confuso e indistinto quel che avviene attorno a lui, con un piano sequenza che restituisce la concitazione aberrante di quella situazione e chiuso in un claustrofobico formato in 4:3; e così ce lo racconterà per tutta l'ora e 47 minuti di Son of Saul, racconto in tempo quasi reale di un orrore che pervade e di un angoscia che non lascia scampo, lontanissimo dalla retorica del dolore della maggior parte del cinema che ha raccontato lo sterminio degli ebrei e i campi di concentramento. Non c'è tempo per il dolore, in Son of Saul. E l'orrore non è tanto quello delle aberrazioni che avvengono attorno al protagonista, quanto quello di una realtà infernale, dove si corre senza avere via di scampo, dove la sopravvivenza è mero gesto abitudinario e istintuale, poiché la vita, oramai, è da un altra parte. La vita è oramai un'illusione, un miraggio, come forse quello di Saul, che crede di vedere nel ragazzino sopravvissuto al gas (e prontamente soffocato manualmente da un medico nazista) un figlio che forse non ha mai avuto, o forse sì: poco importa. Perché quello che importa è che da quando quel ragazzo sopravvissuto per morire capita sotto gli occhi dell'uomo, questi si attiva mettendo a rischio la sua vita e quella dei suoi compagni per trafugarne il cadavere, cercare di dargli sepoltura, trovare un rabbino che ne celebri il funerale. Comincia così la corsa senza fiato di Son of Saul, che segue il suo protagonista e noi con lui. Saul cerca di portare a termine il suo piano, con disperata determinazione, silenziosa e testarda, ma per farlo deve fare lo slalom tra gli orrori del campo che noi percepiamo in maniera ancora più terribile sullo sfondo: tra i corpi nudi a terra, le pile di abiti, il saccheggio dei beni, i depositi di valige, i forni crematori, i cumuli di ceneri da smaltire, i kapò, i nuovi arrivi di deportati, i colpi alla testa, le fosse comuni, i ricatti tra prigionieri, le gerarchie, i piani segreti di rivolta, le piccole e grandi corruzioni degli altri e delle anime. Corre, Saul, senza respiro, perché solo i vivi respirano, e lui in fondo non lo è; sfiorando a più riprese quella morte alla quale comunque è destinato e che sta già vivendo nell'inferno del presente. "Deludi i vivi per dare la precedenza ai morti," gli dice un altro prigioniero: ma resta da vedere chi è davvero vivo, e chi è già morto. Corre, Saul. Si affanna, si arrangia, si barcamena, testardo: nell'illusione che dare sepoltura a quel ragazzo (a un ragazzo) possa essere un sollievo, una salvezza, il recupero di un'umanità abbrutita e umiliata, bruciata e dispersa. E noi corriamo con lui, storditi dal susseguirsi degli eventi e dal girone infernale senza fine che abita. E sorride una volta sola, alla fine della corsa, di fronte alla sublimazione improvvisa e inaspettata dei suoi fantasmi, all'imminenza di una morte che è l'unica consolazione possibile di fronte a tanto orrore