saul_files/saul - fotografi senza frontiere
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IL VENERDI’ – 19 maggio 2006 Saul, gli altri bambini di strada e chi li spinge a fare uno scatto Da dieci anni la Onlus romana Fotografi senza frontiere lavora con i ragazzi del Sud del mondo. Insegnando loro a raccontarsi. Ecco la storia di uno che ha imparato La prima fotografia scattata da Saul raffigurava un giovane lustra-scarpe in una stradina di Madriz, piccola città a Nord del Nicaragua. Era il primo giorno in cui il fotografo Giorgio Palmera, tra i fondatori della onlus “Fotografi senza frontiere”, dopo prolungate ore di teoria, permetteva l’uso della macchina fotografica ai quaranta giovani allievi nicaraguesi tra i 6 ai 18 anni che partecipavano al suo laboratorio. Era il 1996. Abram Saul Palma Cruz aveva 13 anni. “Era il piu’ entusiasta del gruppo – ricorda Palmera – e, nonostante fosse un po’ timido, faceva tante domande ed era curioso di scoprire il procedimento dello sviluppo in camera oscura”. Quel giorno stringeva per la prima volta tra le mani una macchina fotografica ed era ansioso di veder stampato il suo scatto. Senza pensarci un attimo premette il click inquadrando uno “sciuscià” della sua età che, durante una pausa dal lavoro, camminava tenendo sotto il braccio la sua “caja de lustrar” (scatola del lustra-scarpe) nei pressi della tenda che ospitava il seminario. In quell’immagine Saul ritrovò se stesso e scattando d’stinto adempì perfettamente agli insegnamenti di Palmera: l’auto-rappresentazione. All’epoca l’aspirante fotografo di Madriz era un “limpia zapatos”. Guadagnava meno di 10 cordoba al giorno (circa 50 centesimi di euro) e adorava, nonostante faceva lo “sciuscià”, girare scalzo per la sua cittadina. Nello sguardo del suo coetaneo ha rivisto il suo: “un misto di paura, speranza e desiderio di abbandonare un mestiere segnato solo da maltrattamenti nel suo Paese”. Oggi Saul non lavora piu’ in strada, non corre piu’ scalzo con i suoi amici. Ha lasciato Madriz dallo scorso settembre e indossa le scarpe ogni mattina. Ha 23 anni, frequenta il corso di fotografia all’Istituto Europeo di Design a Milano, ha imparato a usare la lavatrice e usa quotidianamente il computer. L’incontro con la fotografia gli ha cambiato la vita. “Al termine del primo laboratorio in Nicaragua - racconta in un timido italiano dall’accento spagnolo - rimasi in contatto con i reporter italiani assumendomi la responsabilità di proseguire la loro opera insegnando fotografia agli altri bambini del villaggio”. Le difficoltà erano tante, ma Saul non si è arreso. Per permettere a tutti i suoi allievi di esercitarsi ha costruito macchinette di latta sul modello arcaico del forostenopeico, una sorta di antenato delle camere moderne che consentiva di scattare grazie alla presenza di carta fotografica all’interno di una scatola con un buco come obiettivo. A distanza di un anno parte del suo sogno era realizzato: lo IED di Milano esponeva le migliori foto dei suoi giovani studenti in una mostra sul Nicaragua. “Proprio in quell’occasione la direttrice dell’Istituto mi ha offerto la borsa di studio che oggi sto utilizzando per studiare. – spiega orgoglioso Saul – Non è stato facile però decidere di trasferirmi a Milano. Ho riflettuto per molti mesi perché non volevo lasciare la mia famiglia, poi proprio per loro sono partito”. “Se riuscirò a costruirmi una professione – pensai - potrò aiutarli economicamente”. Il ricordo di quel momento gli fa illuminare gli occhi. E così il giovane fotografo ogni mattina indossa i jeans, monta sulla bicicletta e va a lezione. Si confronta con gli altri studenti, scatta foto della periferia di Milano e legge i giornali in italiano. Per il momento è ospite nella casa di Emiliano Scatarzi e Andrea Corazzi, “fotografi senza frontiera” che, con Palmera e Gino Bianchi, costituiscono il nucleo centrale del gruppo. A oggi l’onlus ha realizzato due laboratori in Nicaragua, uno in Algeria, con ragazze saharawi che vivono nel campo profughi di Al Ajoun, e uno in Palestina coinvolgendo centinaia di bambini. “I prossimi – annuncia Palmera (a settembre esce per Trolley il suo libro-fotografico “Algidar - The Wall” sulla popolazione palestinese che vive a ridosso del muro) - si svolgeranno con ragazzi kuna, popolazione che vive nelle 50 isole tra Panama e la Colombia, e anche in diverse regioni dell’Africa”. L’obiettivo è ribaltare le regole del reportage facendo sparire ogni filtro nella comunicazione: “trasformare, quindi, l’oggetto della fotografia in soggetto, dare la possibilità a chi vive un disagio di essere contemporaneamente reporter e storia da raccontare e di portare fuori dai confini del loro mondo una denuncia, un grido d’aiuto”. Gli aspiranti reporter “adottati” da “Fotografi senza frontiera”, infatti, raccontano se stessi e il loro società. Non è un caso che i soggetti più frequenti nelle loro foto sono proprio i bambini ripresi mentre svolgono mestieri all’aria aperta. “La nostra realtà è fatta di questo – dice Saul con uno sguardo triste, cercando dentro di se un po’ di coraggio – Noi iniziamo a lavorare per strada sin da piccoli e la nostra infanzia scorre nell’assoluta assenza di gioco e divertimento. Questa condizione purtroppo è la piu’ veritiera rappresentazione di noi stessi”.