Giovanni Pascoli - Istituto Nostra Signora

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Giovanni Pascoli - Istituto Nostra Signora
Giovanni Pascoli
Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna nel 1855. Il padre era amministratore di una tenuta
dei prìncipi Torlonia. Fece i primi studi col fratello nel collegio degli Scolopi a Urbino.
Nel 1867 l’assassinio del padre sconvolse la sua vita e ne segnò dolorosamente la sensibilità: la madre
morì un anno dopo, e i quattro figli dovettero affrontare un periodo di difficoltà e ristrettezze economiche.
Pascoli lasciò il collegio, finì gli studi a Rimini, poi ebbe una borsa di studio per l’Università di Bologna,
dove fu suo maestro Giosue Carducci.
A Bologna cominciò a interessarsi di politica: si iscrisse al partito socialista e fino al 1879 dette prova di
un attivo impegno politico, che gli costò anche un periodo di carcere per “manifestazioni sovversive”. Dopo
il 1879 abbandonò la politica attiva e tornò agli studi.
Si laureò nel 1882, e divenne professore di liceo. Dopo vari spostamenti di sede, poté stabilirsi nella casa
di Castelvecchio, dove visse serenamente con la sorella Maria. Intanto era diventato professore universitario,
e cominciò a raggiungere notorietà come poeta, con la pubblicazione della raccolta Myricae (1891), a cui
seguirono i Primi poemetti (1897) e i Canti di Castelvecchio (1903).
Nei Poemi conviviali (1904) si ispirò all’antichità classica. In Odi e inni (1906) e nei Nuovi poemetti
(1909) cantò temi storici e civili. Scrisse anche opere in prosa, dedicate a temi civili e soprattutto alla critica
letteraria, in particolare al commento di Dante. Morì a Bologna nel 1912.
Secondo il Pascoli in ogni uomo si nasconde un’anima infantile, un “fanciullino”, che scompare nell’età
adulta. Questo “fanciullino” resta però vivo e presente nello spirito del poeta, che è perciò capace di
guardare il mondo con lo stupore e la purezza di sentimenti dell’età infantile: in questa visione, le tematiche
della natura e degli affetti familiari acquistano un valore simbolico.
NEBBIA
Il poeta invita la nebbia a nascondere il mondo intero, a fare da velo
tra lui e i dolorosi ricordi del passato e ciò che sta al di là della
siepe. Desidera solo stare nella serenità della sua casa, nel suo
piccolo mondo di affetti e di abitudini.
Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli
d’aeree frane!
Nascondi le cose lontane
che vogliono ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane...
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura ch’ha piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Da G. Pascoli, in Canti di Castelvecchio
1
L’ASSIUOLO
La lirica è divisa in tre strofe, scandite dall’onomatopea chiù, che
riproduce il verso dell’uccello ed è anche il nome con cui esso viene
chiamato nel dialetto romagnolo. Le immagini con cui il poeta
rappresenta il paesaggio notturno, abbozzate e sfumate, e i suoni che lo
percorrono,
sono
il
simbolo
di
uno
stato
d’animo
dominato
dall’inquietudine di fronte all’ignoto.
Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù...
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?...);
e c’era quel pianto di morte...
chiù...
Da G. Pascoli, in Myricae
Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù...
IL NUNZIO
La lirica è divisa in tre ballate piccole di senari. Il ronzio di un
insetto richiama l’attenzione del poeta. I pensieri si confondono e il
bombo diventa “messaggero”, nunzio appunto, di misteriose verità che
l’uomo non può penetrare (Silenzio infinito).
Un murmure, un rombo…
Che brontoli, o bombo?
Son solo: ho la testa
confusa di tetri
pensieri. Mi desta
quel murmure ai vetri.
Che brontoli, o bombo?
Che avviene nel mondo
Silenzio infinito.
Ma insiste profondo,
solingo smarrito,
quel lugubre rombo.
Che nuove mi porti?
E cadono l’ore
Giù giù, con un lento
gocciare. Nel cuore
lontane risento
parole di morti…
Da G. Pascoli, in Myricae