Commenti: "L`assiuolo" - "Il gelsomino notturno"

Transcript

Commenti: "L`assiuolo" - "Il gelsomino notturno"
Il gelsomino notturno.
E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
5 Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
10 l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.
Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
15La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
20 brilla al primo piano: s’è spento...
È l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
Il componimento, datato 1901, anche se se ne registrano degli abbozzi dei due anni precedenti, è
uno dei più famosi dell’intera produzione di Pascoli. Si tratta di un epitalamio, ode destinata alla
celebrazione nuziale che Pascoli dedica all’amico Gabriele Briganti, bibliotecario di Lucca. Tale
evento fu sicuramente lieto, ma appare fin troppo partecipato dal poeta. Egli può vedere la casa
“romita” dei due giovani coniugi che stanno per manifestare nella loro più segreta intimità il
sentimento che li ha uniti, che si concluderà con il concepimento del piccolo Dante Gabriele,
avvenimento citato dall’autore stesso, che lo menziona in una nota al testo nei “Canti di
Castelvecchio”. La lirica si apre con un’immagine serale: è l’ora in cui i gelsomini, fiori notturni
che hanno grandi petali, rossi dall’esterno e bianchi all’interno, si schiudono impregnando l’aria del
loro profumo come di fragole e il poeta si raccoglie in se stesso e pensa ai suoi cari venuti a
mancare. Ed ecco che tra i viburni punteggiati da fiori bianchi, appaiono le farfalle notturne. Da
tempo tutto tace, soltanto in una casa, quella dei due novelli sposi, si odono ancora bisbigli. Gli
uccellini dormono sotto le ali della madre, come gli occhi protetti dal velo delle ciglia. Ancora un
segno di vita nel silenzio, e nel frattempo l’erba, ravvivata dalla rugiada della notte, cresce sopra le
tombe: è la natura che rinasce sulle tombe, la vita che s’innesta su ciò che è morte. Il silenzio è così
profondo che si riesce a percepire il sussurro di un’ape giunta in ritardo, che vede occupate tutte le
celle dell’alveare. A quel lieve ronzio risponde la voce lontana del cielo con il suo “pigolio di
stelle” la costellazione delle Pleiadi risplende nel cielo, simile ad una piccola chioccia seguita dai
suoi pulcini, che procedono disordinati. Si vede una luce solare per la scala, giunge al primo piano,
poi si spegne. In quella luce che non c’è più intuiamo l’intimità dell’atto d’amore tra i due sposi. Al
sopraggiungere dell’alba i petali si richiudono, lievemente gualciti. Dentro un’urna umida e segreta,
il grembo materno, è germogliata una nuova vita.
Da una prima lettura esplorativa si capisce il massiccio volume di sensazioni e suggestioni che
Pascoli offre al lettore. Subito all’inizio, nella prima strofa, ecco schiudersi i candidi gelsomini e si
vedono apparire le farfalle notturne. Con un sapiente uso della liquida vibrante e della spirante è
resa l’idea del loro lievissimo e impercettibile svolazzo, mentre sbattono le ali. Nella seconda strofa
si fa uso del verbo “bisbiglia” con valore onomatopeico, così come viene fatto nella quarta, dove
troviamo il verbo ”sussurra”, mentre nella terza e nella quinta ci sono allitterazioni di sibilanti che si
insinuano fruscianti. Spesso troviamo il contrasto tra timbri vocalici cupi e chiusi (“notturni”,
viburni”, “sussurra”) con timbri aperti (“farfalle”, “calici”, “alba”), pronti a ricreare la sommessa
polifonia della natura che non vuole sembrare indiscreta alla coppietta che sta per trascorrere
finalmente insieme la prima notte di nozze. Il ricorso alle figure di suono per il Pascoli è uno dei
marchi di fabbrica della sua produzione ed egli è spesso magistralmente abile nell’ottenere effetti
retorici non solamente con il linguaggio tradizionale, quello della lingua corrente, ma anche con
quello pre-grammaticale e post-grammaticale, come sostiene Contini. Questa è la sua vera
rivoluzione: già tanti tardo-romantici avevano fatto esperienza di ciò che è definito linguaggio postgrammaticale, ovvero il linguaggio specialistico dei nomi propri, fitto di riferimenti ipertestuali;
Pascoli, però, risulta il solo ad unirvi il linguaggio pre-grammaticale, ovvero il linguaggio del suono
e della suggestione, eterno ed internazionale.
Da un punto di vista morfologico e lessicale il componimento non presenta difficoltà o particolari
ricercatezze formali, ogni singola parola si inserisce nell’ingranaggio di un sofisticato orologio
perfettamente funzionante. Volendo dividere i sostantivi in tre categorie, ne troveremmo alcuni che
esprimono gioia e rinascita (“fiori”, “erba”, “felicità”), alcuni che esprimono la morte e il ricordo
(“cari”, “casa”, “fosse”) e altri che servono soltanto a creare immagini suggestive e potenti analogie
(“ape”, “occhi”, “stelle”). La poesia è basata sulla forte dicotomia tra vita e morte, che spesso però
si assottiglia fino a diventare l’una causa dell’altra e viceversa. Inoltre la definizione di “Pascoli
impressionista” ben si addice all’autore in questo caso, in quanto, leggendo la composizione si
contano numerose pennellate tra di loro giustapposte, senza una vera logica né una continuità
causale. Possiamo vederlo meglio attraverso l’analisi degli aggettivi. Tra di essi registriamo che tra i
qualificativi, molti hanno un significato semplice e strettamente denotativo. Il fiore, ad esempio, è
“notturno” (v 1), mentre le farfalle sono “crepuscolari”(v 4), aggettivi necessari per rimarcare le
loro peculiarità. L’analisi si fa allora interessante se ciò che l’autore inserisce è superfluo o
totalmente arbitrario. L’informazione che le fragole siano “rosse” è totalmente ininfluente ai fini
della frase in cui è inserita. Ed è per questo che appare come una pennellata pittorica
intenzionalmente adottata affinché il quadro prodotto evochi significati-altri e crei sensazioni
plurisensoriali. I verbi sono utilizzati con tempo presente, per la maggior parte, ma se ne
individuano anche due al passato prossimo (v 3 e 20) e uno al passato remoto (v 5). Quest’ultimo è
usato per ricordare che ormai gli schiamazzi della festa sono da tempo cessati, a testimonianza
implicita che il poeta ha avuto occasione di vedere i due giovani coniugi per tutta la giornata, e
come vedremo, anche il primissimo pensiero dell’alba del giorno seguente è rivolto a loro. Tutti le
forme verbali sono alla terza persona (sia singolare che plurale); c’è solo un’occasione in cui
Pascoli inserisce il proprio io narrante: quando si abbandona al ricordo dei propri cari nel secondo
verso. Nell’ora che penso ai miei cari è un verso struggente un verso sfuggente e isolato che riesce
comunque a schiudere un varco nell’universo della psicologia dell’autore in cui ci addentreremo
dopo.
Dal punto di vista della sintassi, Pascoli non smentisce il suo stile. Troviamo infatti una struttura
molto semplice, ad altissima prevalenza di paratassi o addirittura frammentata in frasi di poche
parole (v 21-24), solo l’incipit viene costruito congiunzione partendo dalla coordinante “e”, in
modo da creare un inizio in medias res. Può sfuggire alle prime letture più rapide e superficiali, ma
il significato è chiaro: la produzione dell’opera dedicata ai due sposini non è estemporanea, il poeta
piuttosto sembra proseguire una propria linea di pensiero già ben configurata nella sua mente.
Probabilmente da tempo voleva parlare d’amore, ma non ne aveva mai avuto occasione:
l’epitalamio potrebbe essere in questo senso un semplice pretesto. Non ci sono strutture artificiose,
se non qualche figura di inversione. E’ facilmente individuabile l’iperbato al terzo e quarto verso,
necessario probabilmente a isolare in un unico verso l’immagine delle farfalle, che così acquistano
una potente carica plastica. Meno evidenti, ma comunque costanti, sono le anastrofi tra soggetto e
verbo (s’aprono i fiori/ sono apparse… le farfalle/ si tacquero i gridi, ecc.). Solamente nella quarta
strofa, viene invertita questa tendenza, ristabilendo il normale ordine sintattico. Probabilmente
questo è dovuto al fatto che la strofa ha contenuti prettamente analogici, per cui è possibile credere
che il poeta abbia voluto semplificare il suo linguaggio per rendere più immediate le immagini
dell’ape e della costellazione delle Pleiadi. Il lessico è semplice ed elementare, il solo vocabolo
ricercato è “viburni”, possibile omaggio a Virgilio e alle sue Bucoliche, ipotesto necessariamente
presente nella poetica di Pascoli, il quale partecipò e vinse anche molte gare di produzione in lirica
latina.
La poesia si sviluppa in ventiquattro novenari con rima alternata raggruppati in sei quartine.
Tuttavia si registra che il verso ventuno è ipermetro, poiché, essendo sdrucciola la parola “petali”, la
vocale finale si elide con quella iniziale della parola di apertura del verso successivo “un”. C’è un
gioco costante e sapiente dell’autore che costruisce i primi due con ictus che cadono sempre sulla
2°, 5° e 8° sillaba e i secondi due in cui invece cadono su 3°, 5° e 8°. Il componimento ha versi
brevi e rapidi, ma ben ritmati, sia per l’espediente poc’anzi illustrato, sia per il fatto che ben diciotto
dei ventiquattro versi totali hanno una pausa determinata da un segno di interpunzione alla fine del
verso mentre figurano tre inarcature: ai versi tre- quattro, nove- dieci e diciassette- diciotto. Il ritmo
risulta quindi lento, regolare, quasi come il respiro della natura durante la notte.
Benché “Il gelsomino notturno” sia un componimento non particolarmente ampio, risulta
ricchissimo di artifici retorici che proverò ad analizzare uno per uno seguendo lo sviluppo della
tessitura poetica. La prima figura retorica che incontriamo è un’inversione, che pospone il soggetto
“fiori notturni” al verbo che ne rappresenta lo schiudersi insolito, nell’ora del crepuscolo, momento
che favorisce nel poeta il ricordo dei familiari venuti a mancare (e non può non sentirsi l’eco dei
versi danteschi con l’immagine dell’ora che volge al desio\ ai navicanti e intenerisce il core
dell’ottavo canto del Purgatorio, dove appare struggente, proprio come nel caso di Pascoli la
nostalgia). Subito dopo troviamo una metafora, ai versi tre e quattro: le farfalle notturne sono
accostate ai fiori del gelsomino poiché hanno una vita brevissima, di addirittura una notte e nulla
più. Ci sono poi due metonimie (come sostiene Ferroni): la prima al verso sei, la seconda al verso
sette. A bisbigliare non è ovviamente la casa ma i suoi inquilini e sotto le ali della madre-uccello
non dormono i nidi, ma i pulcini. In parallelo si delinea, così, l’immagine della natura tutt’intorno
alla casa che diventa silenziosa (perfino gli uccelli che al tramonto avevano intrecciato voli e canti)
e si assopisce, e quella della casa stessa, all’interno della quale, invece, si infittiscono i bisbigli dei
due sposi, che si immaginano in affettuose schermaglie d’amore, che preludono all’unione. Una
similitudine fortissima è presente al verso otto. Appare inquietante e inatteso l’occhio simbolista,
descritto largo, esterrefatto nell’altra poesia pascoliana “Lampo”. L’autore avrebbe potuto scegliere
soggetti più calzanti, ma nessuno più di quest’occhio può rappresentare la sua apprensione in modo
più significativo. Al verso dieci c’è invece una forte sinestesia che associa il dolce odore delle
fragole al loro colore acceso. Il risultato è un sovraccarico sensoriale nella mente del lettore. Va
anche aggiunto che quando Pascoli canta l’Eros spesso fa riferimenti olfattivi, privilegiando questo
senso sugli altri. Ne è un esempio la “Digitale Purpurea”, il cui odore è tanto dolce e intenso da
inebriare. Nella quarta strofa sono presenti le figure più ardite: si tratta di due analogie. La prima
associa il poeta ad un’ape lasciata fuori dall’alveare, che suggerisce una possibile interpretazione
psicoanalitica che tratteremo dopo; la seconda invece trasforma una costellazione in una gallina
ruspante che razzola nel cielo e sembra pigolare con il breve baluginare delle sue stelle. Per altro
“pigolio di stelle” è un’altra sinestesia. A questo proposito, è interessante la teoria di Squarotti, il
quale afferma che le numerose analogie con il mondo ornitologico all’interno delle varie produzioni
pascoliane non siano casuali, ma abbiano un significato preciso. Gli uccelli, avendo la facoltà di
volare, possono evadere da situazioni sconfortanti o di incompatibilità, realizzando l’utopia che
Pascoli bramerebbe per sé. Oltre a questo si può aggiungere che l’universo ornitologico è sempre
stato connotato di mistero ed ha sempre stimolato l’immaginazione. Si pensi, ad esempio, all’analisi
del volo degli stormi a scopo divinatorio. Al ventesimo verso c’è una reticenza che porta ad una
ellissi molto discreta ed elegante che lascia da soli i due giovani sposi. Nell’ultima strofa compare
un’altra analogia in cui si mettono in stretto rapporto il ventre della donna e il calice del fiore.
Entrambi, fecondati, daranno nuova vita e nuova felicità, a cui il poeta però non può partecipare in
pieno.
Ora che abbiamo esaminato la poesia da un punto di vista stilistico possiamo procedere alla lettura
più profonda, per capire i messaggi nascosti di Pascoli e ciò che la sua psiche celava. Il
componimento in questione è il paradigma del simbolismo Pascoliano, della visione del mondo con
occhi nuovi, puri , non ancora filtrati dai gravami della storia o dai codici della letteratura. Sono gli
occhi del “fanciullino”, un fanciullino che rimane piccolo anche quando noi ingrossiamo e
arrugginiamo nella voce. In questo modo il poeta vede il mondo in modo irrazionale e intuitivo,
stupendosi e meravigliandosi di tutto, anche delle piccole cose. Il procedimento, spesso e volentieri,
implica l’abbandono della ragione, così da decretare la fine del positivismo. Non sempre, infatti,
vengono colti i rapporti causa\effetto delle cose e ogni singola immagine con questa mentalità
gioiosamente infantile diventa un simbolo, scatenando l’immaginazione di chi partecipa a tali
ragionamenti. Come prima anticipato, intendo ora riferirmi alla ragione dell’accostamento tra il
nido popolato di pulcini e l’occhio protetto dalle ciglia. L’occhio è ricorrente nella poesia
pascoliana: in “Lampo”, ma anche in “X Agosto”[…] Anche un uomo tornava al suo nido:\
l'uccisero: disse: Perdono;\ e restò negli aperti occhi un grido\ portava due bambole in dono...[…].
L’occhio diventa indiscutibilmente un simbolo che esprime inquietudine, angoscia, desiderio di
sicurezza, garantita dalle mura domestiche. E’ l’occhio del padre rimasto attonito di fronte alla
crudeltà del mondo e della gente, ma è anche quello di ogni innocente colpito ingiustamente che lui
ha poi trasferito in altre sue poesie. Inoltre c’è il riferimento a Rimbaud e alla sua “Vocali”:[…] - O
l'Omega, raggio viola dei suoi Occhi![…].
Un altro nodo molto dibattuto di questa poesia è l’approccio di Pascoli alla sessualità che traspare
dalle righe, sia pure in maniera allusiva. Si potrebbe accusare Pascoli di voyeurismo, date le
circostanze, ma sappiamo dalla storia che così non è dal momento che questa poesia era
chiaramente destinata ad un vasto pubblico, poiché doveva figurare nell’invito alle nozze fatto dai
due sposi. Tuttavia l’atto della fecondazione viene descritto in maniera indiretta, usando analogie
naturali. Così la tematica sessuale viene svolta per rimandi ed appare oscura e indissolubilmente
legata alla morte, come nel binomio classico di Eros e Thanatos, che troviamo chiaramente indicato
dal vocabolo urna, descritta come molle e segreta, ad indicare sia l’ovario del fiore e il grembo
della sposa, sia l’urna funeraria. Alla pulsione erotica naturale che spinge alla riproduzione, dunque,
troviamo congiunta una pulsione di morte, altrettanto naturale e inevitabile. Per questo l’autore
sembra provare attrazione e insieme timore verso la sessualità, ma da questa sua consapevolezza
scaturisce il rimpianto, che si evince dall’ape tardiva nella quale adombra se stesso. D’altra parte
egli teme il male del mondo (come si legge in Novembre), teme di essere ancora ferito e si trattiene
perciò dal tuffarsi nel flusso della vita: è per questo che il nido familiare rappresenta l’ancoraggio,
la serenità o, quanto meno, la protezione dal pericolo del vivere, anche se ciò comporta la
privazione di possibili gioie o dello svelamento dell’amore nelle sue declinazioni più intense.
BIBLIOGRAFIA:
G. FERRONI- A. CORTELLESSA- I. PANTANI- S. TATTI, Storia e testi della letteratura italiana,
Milano, Einaudi editore, pp 532-535
G. CONTINI, Il linguaggio di Pascoli, Torino, Einaudi editore, pp 222- 226
A. MOMIGLIANO, Storia della letteratura italiana, Principato edizioni, Milano- Messina, pp
584- 589, da La critica e Pascoli, a cura di Antonio Prete, pp 113- 119
C. SALINARI, Miti e coscienza del decadentismo italiano, Feltrinelli edizioni, Milano, pp.
119- 121, , da La critica e Pascoli, a cura di Antonio Prete, pp 125- 126
G. BARBERI SQUAROTTI, Simboli e strutture della poesia del Pascoli, D’Anna edizioni,
Messina- Firenze, pp 23-27 30-31, 36-37, 67-71, da La critica e Pascoli, a cura di Antonio
Prete, pp 170- 180
L'ASSIUOLO
1 Dov’era la luna? ché il cielo
2 notava in un’alba di perla,
3 ed ergersi il mandorlo e il melo
4 parevano a meglio vederla.
5 Venivano soffi di lampi
6 da un nero di nubi laggiù;
7 veniva una voce dai campi:
8 chiù...
9 Le stelle risplendevano rare
10 tra mezzo alla nebbia di latte:
11 sentivo il cullare del mare,
12 sentivo un fru fru tra le fratte;
13 sentivo nel cuore un sussulto,
14 com’eco d’un grido che fu.
15 Sonava lontano il singulto:
16 chiù...
17 Su tutte le lucide vette
18 tremava un sospiro di vento:
19 squassavano le cavallette
20 finissimi sistri d’argento
21 (tintinni a invisibili porte
22 che forse non s’aprono più?...);
23 e c’era quel pianto di morte...
24 chiù...
La poesia si apre subito con una frase interrogativa in cui Pascoli, tuffato nel ricordo, si chiede dove
fosse la luna,in quell'alba imprecisata quando, in solitari momenti di inquieta contemplazione,
vedeva il cielo tinto della sua luce tenue e perlacea. Il mandorlo e il melo sembrava drizzassero i
loro rami per cercare di scoprire dove fosse la luna, che non si era nascosta, ma la cui presenza si
intuiva dal chiarore diffuso all'intorno. Un ammasso di nuvoloni scuri preannunciavano la tempesta,
mentre dai campi si sentiva un grido: era il verso dell' assiuolo, un piccolo rapace notturno, simile al
gufo e alla civetta. Poche stelle brillavano nel chiarore quasi lattiginoso, che effondeva la luna. Si
sentiva il dolce suono delle onde del mare, il fruscio prodotto dai cespugli che si muovevano per il
vento, e un sussulto nel cuore, come la risonanza di un grido. Da lontano si sentiva ancora quello
strano suono. Un soffio di vento sopraggiungeva sulle cime dei monti, visibili e lucenti, poiché
illuminate dalla luna. Le cavallette emettevano un verso stridulo, con il frullare delle ali. E il poeta
si pone una nuova domanda, che inserisce in un inciso: il suono prodotto da questi animaletti evoca
quello dei sistri, antichi strumenti legati a rituali religiosi ed egli li associa a quello immaginato
proveniente da porte invisibili (forse quelle della morte?) che si chiede se mai si sarebbero riaperte.
Il componimento si chiude con il verso dell'assiuolo, interpretato da una credenza popolare come un
presagio di morte.
La poesia è composta da tre strofe di novenari, ad eccezione dell'ultimo verso di ogni strofa
composto da un monosillabo onomatopeico che rima con il sesto verso tronco. Le rime sono
alternate secondo lo schema ababcxc (dove la x è appunto la rima in ù). Nella prima ottava, infatti, i
due enjambement ai versi uno e tre sfalsano la cadenza ritmica costante che presenta il resto del
componimento, obbligando la voce a inseguire la sintassi, mentre la triplice anafora ai versi undici,
dodici e tredici la rinforzano, rendendola avvolgente. Ben sei versi su otto, nella seconda strofa,
terminano con un segno di interpunzione. Sul piano fonologico la poesia è tanto ricca di spunti di
osservazione da risultare un paradigma per l'intera produzione pascoliana. Il primo artificio a saltare
all'occhio è l'inserimento in fine di verso di ogni strofa del grido dell'assiuolo. Non si tratta di una
vera parola, poiché non ha un valore semantico in sé per sé. Si tratta di una onomatopea
particolarmente forte, frutto di una ricerca fono-espressività da parte del poeta che compie lo stesso
procedimento per il fru fru delle frasche al verso dodici. In questo caso si discende nel linguaggio
pre-grammaticale, componente ancestrale e slegata da qualunque normativizzazione logica della
lingua. Fu questo l'aspetto che fece di Pascoli un grande innovatore nella letteratura italiana.
L'autore ha, infatti, lo sguardo del fanciullino, capace di cogliere aspetti e significati della realtà che
la cultura e il disincanto dell'età adulta rendono inaccessibili. Il fanciullino si stupisce del verso
appena udito e lo carica di significato: l'assiuolo è il proverbiale uccello del malaugurio, poiché il
suo grido è associato alla morte, a cui Pascoli, suo malgrado è anche troppo legato. Ci sono poi altri
tre vocaboli onomatopeici (sussulto al verso tredici, sospiro al verso diciannove, squassavano al
verso diciannove e tintinni al verso ventuno) e un accorto utilizzo dei timbri vocalici, spesso chiusi ,
come la u e la o ( versi sei, tredici e ventidue): efficacissimo, inoltre, il gioco della ripetizione
esasperata del timbro vocalico medio della i ai versi venti e ventuno, dove i finissimi sistri e i
tintinni invisibili obbligano a una pronuncia a denti stretti, resa ancora più singolare dal gioco delle
allitterazioni della sibilante e della dentale, cosicché la voce quasi riproduce il suono dell'antico
strumento che si trasforma in un suono misterioso. Ulteriori allitterazioni contribuiscono alla ricca
trama fonica di questa poesia: quella della nasale n al verso sei (in particolare) e al verso dieci dove
si incrocia con la liquida l, che risuona anche nei versi nove e undici, collocandosi in posizione
centrale nel cullare del mare. Ho già detto della spirante f ( il fru fru tra le fratte ) che davvero
riproduce il fruscio improvviso tra le piante. Da un punto di vista morfologico la poesia presenta
alcune peculiarità molto interessanti. L'aggettivazione è scarna e in due casi viene usata con
funzione predicativa del soggetto in sostituzione degli avverbi che compaiono, invece, al verso
quattro ( meglio ) e al verso sei ( laggiù ). Quest'ultimo, essendo un deittico, di per sé senza
significato (asinsemantico), sembra adottato dal poeta per farci vedere meglio, indicandoci con il
dito. Un solo aggettivo è al grado superlativo ( finissimi ) e, non a caso, si riferisce ai sistri, che
rivestono grande importanza nel testo, quasi stangati per introduci in un'altra dimensione. Tra i
sostantivi registriamo il già menzionato impiego del linguaggio pre-grammaticale di continiana
definizione e un verbo utilizzato come nome ( il sostantivato “cullare” dal verso undici), ma anche
altri nomi sono utilizzati per determinare la qualità in sostituzione dell'aggettivo (l'alba di perla al
verso due, nero di nubi al verso sei, la nebbia di latte al verso dieci, il pianto di morte al verso 26).
I verbi sono quasi tutti all'imperfetto: il poeta stesso descrive un paesaggio visto precedentemente ,
inevitabilmente modificato ed edulcorato dall'immaginazione e reso nostalgico dal ricordo. C'è
soltanto un verso all'indicativo presente (s'aprono del verso 22), che si ricollega alla morte senza
resurrezione: l'ossessivo verso lamentoso dell'assiuolo è quasi un memento mori, visto che l'uccello
è considerato presagio di morte.
La sintassi è assolutamente elementare e piana: si notano solamente i costrutti paratattici che si
susseguono per asindeto, in quanto le rare subordinate (per esempio la finale “a meglio vederla” del
verso quattro o la relativa “che forse non s'aprono” del verso ventidue) appaiano come assorbite
dalle principali. Questa scelta può risultare significativa ai fini dell'immediatezza della descrizione,
che viene effettuata con pennellate tra loro giustapposte, non necessariamente legate da un rapporto
causa-effetto rigoroso. Ecco il Pascoli impressionista.
Numerose sono le figure retoriche. Subito nella prima strofa troviamo una personificazione (verso
tre), una metafora (verso due) e una sinestesia (verso cinque). È presente una metafora al verso dieci
e una similitudine al verso quattordici, mentre nell'ultima strofa si registra una analogia, marchio di
fabbrica della poesia decadente e del fanciullino pascoliano. Subito ci accorgiamo di quanto l'autore
sia abile a coinvolgere più sfere sensoriali: vista, tatto e udito. Tra di esse non c'è, però, un confine
così netto e insormontabile: esse spesso si intersecano o si sovrappongono proprio come nella realtà
in cui facciamo esperienza simultaneamente di più sensazioni. Dalle suddette personificazioni e da
altre scelte ( il “cullare” del mare) abbiamo l'impressione che la natura intera assuma atteggiamenti
tipicamente umani per partecipare al dolore del poeta. Egli è profondamente solo e alla deriva, nel
grande mare del dolore e dell'incertezza: non figura nessun personaggio umano ad attenuare il senso
di solitudine e di esclusione del poeta. L'assiuolo è, inserito come monito o anticipazione della
morte verso la quale Pascoli prova una insopprimibile pulsione. Se dunque la maggior parte degli
animali citati nella produzione pascoliana sono uccelli , animali dotati della capacità di volare via
per salvaguardarsi da situazioni potenzialmente pericolose o di disagio e comunque molto legati al
mondo del misticismo e dell'arte divinatoria, l'assiuolo è quello che rappresenta più di tutti il
richiamo della morte.
Infine il lessico è piano e accessibile, con nessun vocabolo ardito, se non “sistri” al verso venti.
COMMENTO
Secondo la critica moderna questa lirica si può considerare la più perfetta dell'arte pascoliana per il
suo linguaggio simbolico. Essa è frutto di una lunga elaborazione, documentata da una prima
stesura in prosa e poi da varie versioni nelle quali si può constatare il lavoro di limatura e di ricerca
lessicale. Pubblicata per la prima volta nella rivista Il Marzocco, nel gennaio del 1897, venne più
tardi inserita nella quarta edizione (sempre del '97) della raccolta Myricae, nella sezione intitolata In
campagna, a testimonianza dell'argomento generale che in essa si può rintracciare, benché si deduca
chiaramente come il motivo descrittivo sia soprattutto un pretesto. L'assiuolo è dunque, una poesia
che, a una prima superficiale lettura, appare un semplice quadretto oleografico, elegante, ma anche
facilmente leggibile, se non addirittura rivolto a un pubblico di ragazzini, soprattutto per le
onomatopee che vi sono disseminate. È questo, forse, il grande equivoco che è toccato a Pascoli per
molto tempo: essere considerato un poeta che scrive cose semplici per onori semplici. Oggi, invece,
sappiamo che non è per niente così e che, anzi, egli è un poeta modernissimo, le cui inquietudini
sono spesso anticipazioni di quelle della poesia successiva: questo componimento lo dimostra in
modo esemplare, proprio con la trasfigurazione dal paesaggio reale (già filtrato dal ricordo) a quello
dell'anima, fatto di simboli e popolato di misteri. Il tema principale del componimento è quello della
tensione, con un susseguirsi convulso di sensazione visive ( luna, alba, lampi, nubi, stelle, nebbia)
presenti fino al verso dieci e poi anche sensazioni uditive (voce dai campi, il cullare del mare, il
grido, il singulto, il suono dei finissimi sistri d'argento) fino al verso ventitré. Dai sistri d'argento
del verso venti scaturisce l' altra tematica altrettanto importante: quella del mistero dell'esistenza. I
sistri erano infatti usati dagli Egiziani nel culto di Iside, dea della maternità e fertilità, ma
soprattutto della resurrezione, nella quale il poeta non sembra credere, come parrebbe dalle
invisibili porte, presumibilmente dell'aldilà, che forse non s'aprono più, laddove il punto di
domanda e il forse hanno lo scopo di attenuare una drammatica realtà.
I temi prevalenti della nostra poesia, ovvero il mistero e la morte sono trattati anche in altre liriche.
Una di questa ad esempio è Sapienza, in cui il poeta spiega che il sapere, nella sua essenza, rimarrà
per noi umani sempre un mistero nonostante che ognuno di noi cerchi di dare risposta ai tanti
interrogativi dell'esistenza. Anche in Novembre e in Nebbia rintracciamo tali tematiche.
A. Gianni – M. Balestrieri – A. Pasquali, Antologia delle letteratura italiana, vol. III, MessinaFirenze, Cada Editrice D’Anna, 1968
G. Ferroni- A. Cortellessa- I. Pantani- S. Tatti, Storia e testi della letteratura italiana, vol. III A,
Milano, Einaudi, 2004
F. Civile – P. Floriani – C. Forti – A. Ricci, Leggere e scrivere, Torino, Loescher, 1991
A.Rosa Guerriero- N. Palmieri, Scenari, Letteratura e linguaggi tra fine Ottocento e primo
Novecento, Vol III A, Milano RCS per La Nuova Italia, 2005