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Arte e Cultura
Pascoli e il nido distrutto:
quando la morte oscura la vita
di Emilio Torchio
Giovanni Pascoli è il primo scrittore italiano
che fa della sua vita un tema centrale
della sua poesia.
È un autobiografismo più scoperto, più accurato, più intimo sia di quello medievale (l’amore di Dante per Beatrice o di Petrarca per Laura) sia di quello romantico (i furori di Ortis-Foscolo).
La famiglia Pascoli è benestante: a San Mauro, in Romagna, il padre Ruggero amministra una fattoria del principe
Alessandro Torlonia. Il 10 agosto 1867, va a Cesena per
incontrare un incaricato di don Alessandro, ma all’appuntamento non si presenta nessuno. Sulla strada del ritorno
Ruggero viene ucciso a colpi di doppietta: gli assassini sono acquatati nei campi. Chi è il mandante? Tutti lo sanno,
ma nessuno parla. Gli orfani sono sei. Agli affanni e agli stenti della povertà improvvisa si aggiunge la rabbia per l’impunità del colpevole. L’anno successivo muoiono una sorella e la madre di Giovanni. Impossibile non pensare che
senza quell’omicidio sarebbero ancora in vita. E ancora altri morti: un fratello di meningite (’71), e uno di tifo (’76).
Giovanni, chiamato Giovannino, o Zvanì in dialetto, è nato
l’ultimo giorno del 1855. Quando il padre viene ucciso, si trova in collegio a Urbino. È un ragazzino d’ingegno, bisogna
farlo studiare. Si iscrive all’Università di Bologna sperando
di ottenere una borsa di studio. La commissione che le assegna è presieduta da Giosuè Carducci. Il giorno del concorso, i candidati sono in una sala e attendono i risultati. Se
Pascoli non è tra i vincitori, dovrà cercarsi un lavoro.
Gli esaminatori erano tutti lì: la fiera testa del poeta [Carducci] si volgeva da parte, come indifferente. Gandino, il
A fronte, in alto Giovanni Pascoli a Castelvecchio.
Sotto Foto di gruppo dei docenti dell’Università di Bologna.
Giovanni Pascoli è seduto in prima fila a sinistra.
In alto Ritratto di Emilio Lepido, Museo Archeologico Nazionale di Luni.
severo e sereno Gandino [il professore di latino], con quel
volto che sembra preso a una medaglia romana, scandendo le parole con la sua voce armoniosa, ammonì: «Leggerò i nomi dei candidati secondo l’ordine di merito: i primi
sei s’intende che hanno conseguito il sussidio comunale».
Pausa. Al ragazzo romagnolo [è lo stesso Pascoli, che sta
raccontando in terza persona] batteva il cuore; ma solo, per
così dire, in anticipazione del palpito che lo avrebbe scosso in quel momento che era per separare il quinto nome
dal sesto. Sonò il primo nome nel silenzio della sala... Era
il suo. In quell’attimo egli, il povero ragazzo, vide lampeggiare un sorriso. Sì: la testa del poeta si era illuminata d’un
sorriso subito spento.
Nei primi anni a Bologna Pascoli segue i corsi di Carducci e fa la bohème. Diventa amico di Andrea Costa, il futuro fondatore del Partito socialista, e si lega ai circoli di sinistra. È un attivista politico: probabilmente vuol fare il giornalista. Gli studi ne soffrono e gli viene tolto il sussidio universitario. Ma Pascoli rimane a Bologna: conosce la miseria vera, quella della pancia vuota, che lo spinge anche a
elemosinare: «avevo tanto bisogno | di pane e di compassione, | che mangiavo solo nel sogno, | svegliandomi al primo boccone» (La voce). Dopo una manifestazione politica
viene arrestato: quattro mesi di carcere preventivo. Al processo viene assolto, anche grazie alla testimonianza favorevole di Carducci. Da quel momento si rimette in carreggiata e si laurea. Ci sono voluti nove anni: «come per l’assedio di Troia», ironizza lo stesso Pascoli.
Inizia a fare l’insegnante nelle scuole. Dopo due anni a Matera, approda in Toscana. Nel 1884, a Massa, affitta una
casa e prende con sé le due sorelle minori, Ida e Maria,
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detta Mariù. Ricostruisce il «nido», quello che era stato distrutto dalla violenza degli uomini. La vita familiare dei fratelli Pascoli incomincia con grande gioia. Giovanni celebra
un tinello piccolo borghese, trillante della vita di due giovani donne ventenni. Ida è la sorella bionda e allegra:
Al suo passare le scarabattole [armadi a vetrina]
fremono e i bricchi lustranti squillano;
la grave padella
col buon paiòl favella [parla]:
La bruna Mariù, invece, è più triste, riflessiva e umorale,
facile al pianto:
[...] dolce Maria, sovente stroscia [scroscia]
la tempesta dai miti occhi dolenti
e t’empie il cuor che languido s’abbioscia [si avvilisce];
ma poi che, un tratto, dileguò la nera
nuvola, i tuoi pensieri alti e fiorenti
sorridono alla nuova primavera.
Giovanni ha l’orgoglio di aver ricucito la famiglia lacerata e
dispersa dai colpi di fucile. Nella poesia Sera, si descrive
seduto a tavola, dopo la cena, intento a disegnare un maniero medievale fatato:
[...] Io, la speranza,
mentre fumo, volar vedo nell’aria;
ed ambedue [le sorelle], per opera d’incanto,
conduco nella riposata stanza
d’un bel castello che disegno intanto.
La carriera poetica di Pascoli parte lentamente: fino ai trentacinque anni è «un poeta perditempo, un poeta per pochi [...], quasi inedito e quasi celebre» (Garboli). Pubblica
poco, in riviste di non grande diffusione. In queste poesie
non si parla dei morti della famiglia, o almeno non se ne
parla con quella frequenza e quell’intensità che saranno tipiche del Pascoli più famoso. Il tempo passa: le sorelle crescono e Giovanni si innamora. Ida coglie il momento e accetta la corte di un amico di Zvanì: anche lei vuole crearsi una sua famiglia. Il fratello ne rimane profondamente tur-
La camera da letto di Giovanni Pascoli, proveniente dalla casa
di Bologna e ricostruita nella casa di Castelvecchio.
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bato. L’unico modo per uscire dall’impasse è una partita
doppia: lui rinuncia alla sua innamorata e, parallelamente, Ida liquida il suo spasimante. Il nido ritorna calmo: nessuno è fuggito. Mariù commenta così questo momento di
ricostituzione: «Uscivamo tutti come da una malattia, pieni di dolcezza per la nostra ricuperata pace, e di bisogno
d’aria e di sole».
Ma «il nido non si fonda più sulla gioia immemore di vivere insieme e sull’emozione del futuro, [...] ma sull’esercizio
forzato del sacrificio. [...] una misteriosa vedovanza e un senso inspiegabile di lutto s’impossessano di un poeta che sembrava così felice» (Garboli). Nel 1891 viene stampata la prima edizione di Myricae: sono ventidue poesie, ma coll’andare del tempo cresceranno fino a centocinquantasei.
In questa sua prima raccolta poetica Pascoli mette a punto la sua strepitosa bravura nel creare trame incantevoli di
suoni, che accompagnano il significato dei versi rendendolo più intenso. Nel Piccolo bucato Pascoli descrive il vento freddo («sizza») che investe gli alberi secchi dell’autunno e i cespugli («fratte»):
Come tetra la sizza che combatte
gli alberi brulli e fa schioccar le rame
secche, e sottile fischia tra le fratte!
In Novembre l’aria è serena, silenziosa: si riesce a sentire
il fruscio delle foglie che cadono. Il terreno è una tomba
che risuona secca sotto i passi.
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
fredda, dei morti.
I suoni aspri della stagione (seCCo, PRuno, STeCCHiTE, TRame), inseguono quelli dolci (FOglie, FRagile, FRedda), mentre la punteggiatura spezza la sintassi creando sospensione e silenzio. Montale avrebbe imparato moltissimo da versi come questi.
Il 1895 è l’annus horribilis della vita pascoliana. A ventotto anni Ida decide di sposarsi. Il nido viene distrutto non
dalla violenza degli uomini, ma da una decisione deliberata di chi ne fa parte. Il fratello le scrive: «il darti una specie di dotina [dote poco consistente], il pensare che tu avrai
ogni mese quattrini dal tuo Giovanni che t’adora, il pensare che tu penserai quindi un poco anche a me, è la cosa
più bella che ci sia per me nel tuo matrimonio». E poi, pensando ai genitori: «Io mi volgo ai due martiri santi [...]: datemi la forza di lavorare serenemente per far essere felice
questa vostra fanciulla, datemi la forza di vincere questo
pensiero che mi assedia e mi strazia, che io lavoro per far
sì che ella ami un altro più di me».
In un’altra lettera, Pascoli si fa sfuggire la verità: «io ho pen-
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sato e penso che se già in altri tempi ci fossimo presi i nostri mariti e la nostra moglie, tutti o quasi tutti, noi non piangeremmo mica se una rimasta senza, poi lo prendesse il
suo sposo: no, non piangeremmo». Tradotto: “se io e te («tutti o quasi tutti») ci fossimo sposati a suo tempo, ora non
saremmo così infelici. Con Mariù («una rimasta senza») ce
la saremmo arrangiata in qualche modo”.
Scrivendo a Maria pochi giorni dopo, Pascoli prevede il proprio futuro e la propria condanna: «La mia felicità sta in te.
Tu mi ami, io ti amo. Si tratta per noi d’un affetto che possa
cedere a un altro maggiore più vivo più caldo? Io so che da
parte tua non è possibile. [...] Io ho messo su casa, ho portato via tutte e due, ho lavorato e vissuto... solo per te. Tu
hai voluto, e io che ti amavo ho voluto con te, tutto. Non ricordi? è così: tutto. L’Ida mi lascia, l’Ida non sarebbe venuta con me. [...] La mamma non mi ha fatto invano, perché
mi ha destinato il più piccolino dei frutti del suo ventre!». E
conclude: «Lasceremo la vita a chi vuol viverla». I due fratelli si trasferiscono a Castelvecchio, minuscolo borgo dell’Appennino toscano, alle spalle delle Apuane: vivranno parte dell’anno in quell’isolamento montano, e parte nelle città in cui
Pascoli insegna all’Università (Messina, Pisa, Bologna).
Da questo momento in poi, il tema funebre dilaga nella poesia pascoliana: «è sorprendente che il contraccolpo sentimentale di una tragedia che risaliva quasi alla puerizia [l’assassinio del padre, nel 1867], l’ombra dolorosa di fatti antichi e lontani fosse cresciuta con gli anni invece di attenuarsi, raggiungendo il massimo di estensione e d’intensità nei Canti di Castelvecchio» (Garboli), che sono scritti negli anni a cavallo del secolo e pubblicati nel 1903.
Come si spiega questo paradosso? «A resuscitare i morti
fu la progressiva consapevolezza di avere investito e gettato via la propria esistenza in un sogno sbagliato, irrealizzabile, in un sacrificio compiuto invano: è il fallimento del
nido a chiamare i morti. La felicità famigliare sconosciuta
nell’infanzia non può essere ricostruita». I lutti familiari sono dunque uno schermo, «una finzione, un velo, un filtro
con il quale il Pascoli si difende da un’esperienza del presente, il filtro che permette di esprimere una storia di dolore e di tenerla segreta» (Garboli).
E così il poeta torna a rivivere il 10 agosto, il giorno della
fucilata, imprigionato in una coazione a ripetere da cui non
sa scappare:
Andavano e tornavano le rondini,
intorno alle grondaie della Torre,
ai rondinotti nuovi. Era d’agosto. [...]
Era un dolce mattino, era un bel giorno:
di San Lorenzo. Il babbo disse: «Io vo». [...]
Mio padre prese la sua bimba in collo,
col suo gran pianto ch’era di già roco;
e la baciò, la ribaciò negli occhi
zuppi di già per non so che martoro [sofferenza].
«Non vuoi che vada?» «No!» «Perché non vuoi?»
«No! no!» «Ti porto tante belle cose!» [...]
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Ed aspettò. Aspetta ancora. Il babbo
non tornò più. Non si rivide a casa.
Lo portarono a sera in camposanto,
lo stesero in un tavolo di marmo,
dissero, oh! sì! dissero ch’era sano,
e che avrebbe vissuto anche molti anni.
Ma uno squarcio aveva egli nel capo,
ma piena del suo sangue era una mano. (Un ricordo)
L’ossessione del passato genera il desiderio di esserne protetto. In uno dei più famosi Canti di Castelvecchio, Pascoli invoca la nebbia affinché gli impedisca di ricordare il passato doloroso:
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
Ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura ch’ha piene le crepe
di valerïane
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane. (Nebbia)
Il poeta vuole chiudersi nella realtà rassicurante del presente («la siepe dell’orto», i «peschi» e i «meli»), dalla quale sa distillare quella poesia (i «mieli») che gli consente di
vivere. Cerca di proteggersi dalla vita che si svolge all’esterno della «siepe»: il mondo potrebbe coinvolgerlo nei suoi
meccanismi. L’unico futuro possibile è la morte:
Nascondi le cose lontane
che vogliono ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane...
In un’altra poesia celeberrima, La mia sera, il campanile
che batte le ore notturne inverte la direzione del tempo. I
rintocchi diventano voci immerse nel buio; Pascoli, che le
ascolta nel suo letto, torna ad essere un bimbo cullato dalla madre. E poi il tempo regredisce ancora: l’inesistenza che
precede la nascita è uguale a quella del sonno eterno e senza speranza della morte:
Don... Don... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era...
sentivo mia madre... poi nulla...
sul far della sera.
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