Come leggere la poesia II

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Come leggere la poesia II
DISCIPLINE
Come leggere la poesia. 2
Un esempio d’analisi
Prima parte
Emilio Manzotti – Luciano Zampese
Prosegue qui la pubblicazione di «Come leggere
la poesia», una guida all’analisi,
alla comprensione, all’interpretazione
del testo poetico. Questa seconda puntata
e la successiva del prossimo numero
propongono, ad esemplificare metodo
e strumentario, la rilettura approfondita in
chiave di linguistica testuale (ma non solo)
di una lirica pascoliana tra le più frequentate:
«Nebbia», dai Canti di Castelvecchio.
Non sarà inutile avvertire che al lettore
di queste pagine viene chiesto uno sforzo
di concentrazione e d’astrazione commisurato
alla densità formale e concettuale caratteristica
del testo poetico.
2.1. Il testo analizzato: G. Pascoli, «Nebbia»
In questa seconda tappa del nostro percorso vogliamo dare un
esempio concreto del metodo e degli strumenti linguistici di
analisi che proponiamo. Lo faremo mediante una lettura – in
chiave linguistica – di una lirica pascoliana molto antologizzata e molto studiata dei Canti di Castelvecchio (nel séguito CC):
«Nebbia», che cronologicamente si situa giusto a cavallo tra
Ottocento e Novecento. La composizione di «Nebbia» risale in
effetti, secondo i testimoni descritti dalla edizione critica1 dei CC
per cura di N. Ebani, al 1899, e già del 20 settembre dello stesso
anno è la prima stampa nella rivista napoletana «Flegrea»; in CC
«Nebbia» entra, con minime varianti di punteggiatura o grafiche rispetto al testo della rivista2), sin dalla prima edizione della
primavera del 1903, in cui essa occupa la terza posizione, dopo
«La poesia» proemiale e «The hammerless gun» (a partire dalla
III edizione del 1905, «Nebbia» passerà, interposti nell’apertura
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NEBBIA
Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli
d’aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
Ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura ch’ha piene le crepe
di valerïane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
che vogliono ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane...
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.
(I)
5
(II)
10
(III)
15
(IV)
20
25
30
V)
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della raccolta ciclica “per stagioni” due altri testi autunnali, in
quinta posizione).
Leggiamo in primo luogo (nella veste dunque definitiva di
CC) il testo: cinque strofe di 6 versi – quattro novenari dattilici, un trisillabo e un senario in 4a e ultima posizione, con
schema di rime ABCbCa (si noterà che il 1° verso di ogni
strofa è sempre identico, e che il 4° e 6° verso compongono
le due parti dislocate di un ulteriore novenario).
2.2. Che cosa dice,
secondo la critica, la poesia
«Nebbia» viene comunemente ritenuta dalla critica un testo
paradigmatico della poetica dell’autore: una sorta di «allegoria generale del mondo poetico pascoliano» (G. Contini),
una definizione esemplare dell’«immagine […] che della
propria condizione ha il poeta» (G. Nava). I principali commenti3 individuano nel componimento il tema centrale dell’autolimitazione al cantuccio protettivo del nido, con corrispondente rifiuto-rimozione della realtà esterna, di tutto ciò
che è lontano nello spazio o nel tempo. «Nebbia» si pone
così come «elogio dell’otium, dei piaceri del “cantuccio”,
inteso come hortus del dismagamento che consola dal triste
bagaglio dei ricordi familiari» (F. Latini); è un «richiamo alla
realtà “che si tocca” contro quella che “non si vede”, un
freno messo alla tentazione dell’infinito» (C. Garboli).
Simili formule critiche si fondano su tecniche euristiche e
argomentative ben provate: l’intertestualità (nella fattispecie
il confronto con «L’ora di Barga» e con «L’infinito» leopardiano) e il confronto coi materiali genetici (che esplicitano ad
esempio il “richiamo dei morti” e gli “allettamenti dei vivi”).
Tra gli ulteriori temi e aspetti formali che vengono di
regola rilevati vi sono la dialettica (sulla scorta di
un’osservazione di Contini) tra indeterminato e determinato (le cose, ad esempio, rispetto a i due peschi e a i due
meli), il motivo leopardiano della “siepe” (la siepe e la
mura), e naturalmente, vista la ripetizione degli incipit
strofici, la struttura iterativa e il dominante principio
binario, coi due peschi e i due meli, il doppio vocativo tu
nebbia e tu fumo, la doppia aggettivazione – impalpabile e
scialba – di nebbia, il doppio complemento di origine da’
lampi, da’ crolli e così via. Cui si aggiungono le usuali
notazioni metriche e fonico-timbriche; ad esempio, come
in una autorevole antologia scolastica4, il fatto che i lampi
Abstract
The publication of “How to Read Poetry”, a guide to the analysis,
comprehension and interpretation of poetic works, continues here. This
second chapter and the one in the next issue propose, as an example of
method and instruments, an in-depth rereading on a text-linguistic basis of
one of the best known poems by Pascoli: “Nebbia”, from the Canti di
Castelvecchio. Readers should be warned that efforts of concentration and
abstraction are required in relation to the formal and above conceptual
density that is typical of the poem.
del v. 5 siano «anticipati anagrammaticamente da IMPALpabile
e da rAMPolLI».
Tutto è ineccepibile,
certo. E tuttavia, accanto o a monte di questo
discorso critico classico
dovrebbe trovar posto,
crediamo, una analisi
più basilare, più “linguistica”, che consenta
di capire in profondità
il testo fondandosi sulla
sua
configurazione
espressiva di superficie
Copertina dei Canti di
e di costruire ragionaCastelvecchio,
menti sensati a partire
edizione Zanichelli 1903.
da dati precisi, ancorati
il più possibile alla lettera del testo – che consenta ad esempio di individuare e descrivere i fenomeni formali e i rapporti di significato tra sezioni
della poesia. La particolare sequenza di soluzioni espressive
che veicolano e al contempo determinano il pensiero dell’autore costituisce in effetti in larga parte l’unicità di ogni prodotto testuale. Non si tratta di analizzare sistematicamente tutti i
livelli – morfologico, sintattico, semantico, comunicativo, ecc.
– che compongono la grammatica di una lingua, quanto di
selezionare i concetti teorici e i piani di osservazione più adeguati in relazione agli oggetti linguistici e alle architetture formali e di significato presenti nel testo.
Il paragrafo che segue propone un esempio di una simile lettura linguistica in senso esteso del testo.
1. La Nuova Italia («Edizione nazionale delle Opere di Giovanni Pascoli | Poesie italiane – 4»), Firenze 2001, vol. II, p. 481.
2. In «Flegrea» le lezioni differenziali seguenti: v. 1 «lontane»; v. 4 «sull’alba»; v. 6
«aëree» e v. 28 «solo;».
3. I commenti o “letture” di «Nebbia» di cui, tra i molti, si è tenuto conto sono quelli
di G. Nava, M. Perugi, N. Ebani, F. Latini e C. Garboli; nell’ordine (cronologico): (i) G.
Pascoli, Canti di Castelvecchio, introduzione e note di G. Nava, Rizzoli («Biblioteca
Universale», L 403), Milano 1983 (una prima versione già nell’antologia curata dallo
stesso Nava: Poesie, Minerva Italica, Bergamo ecc. 1971, pp. 161-62); (ii) G. Pascoli,
Opere, a c. di M. Perugi, vol I, Ricciardi («La letteratura italiana – Storia e Testi», 61),
Milano-Napoli 1980; (iii) N. Ebani, «Lettura di un testo pascoliano: Nebbia», in Da
Dante a Pascoli, a c. di P. Paganuzzi, Nuova Cartografica, Brescia 1994, pp. 213-24
(e in una precedente redazione in http://www.ccdc.it/UpLoadDocumenti/920219Ebani.pdf); (iv) G. Pascoli, Poesie – Myricae | Canti di Castelvecchio, a c. di
I. Ciani e F. Latini, UTET («Classici italiani»), Torino 2002; (v) G. Pascoli, Poesie e prose
scelte. Progetto editoriale, introduzione e commento di C. Garboli, vol II, Mondadori
(«I Meridiani»), Milano 2002.
4. C. Segre e C. Martignoni, Leggere il mondo. Letteratura, testi, culture. Vol 6. «Dal
realismo al simbolismo», s.l., Paravia Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 367-68 (la
sezione pascoliana è curata da A. Longoni e G. Lavezzi).
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2.3. I primi passi dell’analisi linguistica
Iniziamo la nostra analisi da un dato di assoluta evidenza:
dal fatto cioè che l’architettura formale e concettuale di
«Nebbia» è dominata dalla ripetizione identica (a meno
della punteggiatura) del verso iniziale delle cinque strofe:
Nascondi le cose lontane
Quello ripetuto
cinque volte è un
verso, ma un
verso sintatticamente compiuto,
cioè una frase di
un particolare
tipo sintattico e
semantico-interattivo. L’effetto
della ripetizione
è naturalmente
un’intensifi ca zione a tutti i
livelli di forma e
di
contenuto;
in
particolare
un’insistenza sul
significato del
verbo nascondere,
che è un verbo
d’azione (non di
stato, come ad
esempio essere
nascosto; non di
Redazione anteriore manoscritta di
processo, come
«Nebbia», Archivio di Casa Pascoli,
Castelvecchio di Barga (Cassetta LIII,
ad esempio nabusta 10, ms 132).
scondersi detto di
entità inanimate;
ecc.), e d’azione in qualche modo negativa: il “non far vedere”,
il “non permettere a qualcuno di vedere”.
Il secondo dato di grande evidenza, che come il primo ha nel
componimento pascoliano valore strutturante, è la ripetizione, all’inizio del 3° verso nelle tre strofe centrali e all’inizio
del secondo emistichio del 3° verso dell’ultima strofa, della
formula ottativa Ch’io veda. La frase introdotta da questa formula esaurisce sintatticamente la seconda parte della strofa,
e il suo verbo centrale è proprio quel vedere sottinteso che era
negato nella prima parte della strofa.
Uno sguardo ad altri componimenti accerterebbe subito che
questo procedere per ripetizioni iniziali di unità, per anafo68 NUOVA SECONDARIA - N. 6 2010 - ANNO XXVII
re o riprese anaforiche, come si usa dire5, non è in Pascoli un
caso isolato: basterà il rimando alla chiusa de «La canzone
della granata» di CC: «[…] insegni | ch’è bella, se pura, la
vita. || Insegni, con l’acre tua cura […] || Insegni, tu sacra ad
un rogo […] » (dove il rilievo grafico è nostro).
Ripetizioni, quindi. Ripetizioni tuttavia non semplicemente
puntuali (di singole parole e sintagmi) e non disseminate
qui e là nel testo, ma che si configurano in parallelismo
(sinonimico6) di strutture: di versi, di parti di strofa, di frasi
e periodi, dando cioè luogo a istanze particolarmente evidenti di quella «figura dominante e definitoria della struttura della poesia»7 che è il parallelismo formale: la somiglianza e
quasi l’equivalenza di segmenti successivi di significanti.
Le ripetizioni sistematiche – i parallelismi – vengono così ad
articolare il nostro componimento in due successioni o serie
alternate Ai e Bi : la serie Ai del “nascondere”, del “non far vedere” (Nascondi le cose ecc.), e quella Bi del “far vedere” (Ch’io veda
ecc). Va da sé poi che le due serie sono strettamente legate tra
loro da relazioni di significato; la più ovvia di tali relazioni,
anche se forse la meno significativa, è proprio l’opposizione già
rilevata tra il “vedere” di Bi e il “non vedere” di Ai ; la meno
ovvia, ma più rilevante, è il fatto che Bi vale da specificazione
in positivo di Ai , come sua conseguenza e concretizzazione.
2.4. L’approfondimento dell’analisi
linguistica
Entriamo ora nel vivo dell’analisi. Il componimento, strutturato come si è visto in due serie fortemente intrecciate, mette
in scena una interazione verbale tra un “io” molto autobiografico e il “tu” della nebbia (la nebbia del titolo) ed eventualmente del fumo (v. i vv. 2 e 3: «tu nebbia …, | tu fumo che
…»). L’interazione è però a senso unico: l’io “parla”, cioè agisce verbalmente: formula delle richieste o esprime i propri
desideri, mentre l’interlocutore tace, continuando forse a fare
quello che per natura è destinato a fare: nascondere gli aspetti del mondo. L’“io” poetico, a differenza del “tu”, non è nel
testo oggetto di caratterizzazione esplicita, manifestandosi
solo attraverso segnali pronominali (mi, io, io, mio, io, io, mio)
e morfologici (la prima persona singolare di alcuni predicati); esso inoltre assume nell’interazione verbale il ruolo
subordinato di colui che chiede, che prega, e che dunque
attende dall’interlocutore – la nebbia ! – la realizzazione dei
propri desideri. Le stesse predicazioni che si riferiscono
all’“io” possiedono un grado minimo di agentività8 – veda (e
5. L’anafora viene definita in retorica come la ripetizione di una o più parole all’inizio
di unità sintattiche o metriche successive. Altra è la nozione tecnica di anafora nella
linguistica contemporanea.
6. Una delle specie di parallelismo individuate da G.W. Allen; v. la Princeton
Encyclopedia of Poetry and Poetics. Enlarged Edition, edited by A. Preminger,
Princeton U.P., Princeton 1974, s.v. «Parallelism».
7. Così il Dizionario di linguistica diretto da G.L. Beccaria, Einaudi, Torino 1994, s.v.
«Parallelismo».
8. La proprietà caratteristica dei verbi di azione, analizzabile in termini di “dinamicità”,
di “controllo” da parte del soggetto, di “finalizzazione” ad un obiettivo, e così via.
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non guardi, osservi, che del resto sarebbero strane in una frase
ottativa) – o sono rette da una necessità esterna – ho da fare; lo
stesso valore agentivo di ami e vada viene inserito in un contesto di deprecata volontà esterna (vogliono).
La nebbia e il suo ipotetico doppio, il fumo, ricevono nella
prima strofa, ai vv. 2-4, dopo la richiesta iniziale, una caratterizzazione descrittiva retta dai due tu: per la nebbia mediante
due qualificativi sensoriali (gli aggettivi impalpabile e scialba),
per il fumo nei termini del processo di formazione (rampolli =
“scaturisci”, intransitivo), delle sue circostanze temporali
(l’avverbiale su l’alba) e della duplice origine (… da’ … e da’ …,
cioè, con apocope9 della preposizione articolata: “…dai … e
dai …”) dai lampi notturni e dai crolli d’aeree frane:
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli
d’aeree frane!
2
5
Subito si pone, sul piano della comprensione letterale, il problema del rapporto tra i membri della coppia vocativa nebbia
e fumo. Si tratta di due tipi diversi di vapori? Di una endiadi
che dissocia in due termini una sola sostanza? O di una specificazione in fumo della nebbia – come a dire “tu nebbia che
sei o ti manifesti sotto forma di fumo”? O di altro ancora? È
prezioso in casi simili, assieme alla analisi sincronica e diacronica del significato dei due termini, il ricorso alle eventuali
fonti e ai materiali genetici10, che chiariscono, se si è fortunati,
e se non sono intervenuti per via mutamenti d’intenzione,
cosa il poeta volesse veramente dire. In una precedente redazione del nostro testo, che riportiamo parzialmente qui sotto11:
Nascondi le cose lontane,
nascondile,
冢
tu [due volte]
con
冢
冣
che scialba
o nebbia, al mio cuore [cassato]
1
冣
col fumo che ancora rampolli,
sull’alba
da’
冢
lampi
tuoni
2
3
4
冣
notturni e da’ crolli
d’aeree frane dell’aride [variante in margine]
5
6
alla nebbia si chiedeva in effetti qualcosa di parzialmente
diverso: si chiedeva di “nascondere le cose lontane” col
fumo, cioè “mediante” il fumo, che la stessa nebbia fa rampollare (rampolla: con un notevole uso transitivo12 del dantesco intransitivo rampollare). Il fumo sembrerebbe all’altezza
di questa redazione una particolare modalità o strumento
della nebbia, la traccia che ancora persiste sul far dell’alba
(sull’alba)13 del temporale notturno cui allude la perifrasi
«da’ tuoni → lampi notturni | e da’ crolli | d’aeree frane»
(crolli ecc. che sono naturalmente i tuoni14). E altrove in
Pascoli il nembo, il maltempo (o il temporale), si manifesta
proprio tramite il fumo: v. «The hammerless gun» di CC, vv.
27-28 «O monte, che regni tra il fumo | del nembo ecc.». Dei
metereologi potrebbero ipotizzare che in «Nebbia» vengano
evocate da una parte una nebbia da irraggiamento dal
basso, un fenomeno meteorologico caratteristico delle albe,
e dall’altra, dopo il temporale notturno e sempre sul far dell’alba, una nebbia d’avvezione, che viene dall’alto.
Ma un esame più esteso di situazioni poetiche analoghe accerta che la nebbia pascoliana tende generalmente ad essere una
“nebbia che fuma”, che sale – che rampolla – dal basso, dalla
terra o dall’acqua15. Si vedano sempre in CC «The hammerless
gun», vv. 21-22 «Su la nebbia che fuma dal sonoro | Serchio,
leva la Pania ecc.» e «Nell’orto» (= «Diario autunnale», VII), v.
6 «la nebbia fuma, fredda punge l’aria»; e in Myricae, «Arano»,
v. 3 «la nebbia mattinal fumare» e che, come ne «Il sogno della
vergine», v. 70 e ne «I gattici», vv. 3-4, «si sfuma» o «sfuma» al
sopravvenire dell’alba». Se poi si rivolge lo sguardo alle possibili fonti, il luogo più pertinente per la coppia nebbia-fumo (alla
luce in particolare del poemetto «Pietole») appare Georgiche, II,
v. 217, in cui una terra particolarmente atta alla coltura tenuem
exhalat nebulam fumosque volucres (una imitazione da Lucrezio,
V, v. 254, dove in luogo di fumos comparivano nubes): “esala
una nebbia sottile e vapori volanti”, cioè, “che salgano dalla
terra a spirale”16. Il che ci riconduce in definitiva all’idea iniziale di una specificazione o concretizzazione della nebbia “in
fumo”: di fumo, all’apparenza, essendo le forme concrete che
assume la nebbia che sale dai campi o che trascorre a folate.
Non entità distinte, quindi; non endiadi in senso stretto, ma
una “nebbia coi suoi fumi”. (Continua sul prossimo numero)
Emilio Manzotti - Luciano Zampese,
Università di Ginevra
[email protected]; [email protected]
9. L’apocope (vocalica) postvocalica, un fenomeno caratteristico della lingua letteraria,
oltre che dell’uso toscano, è la “caduta – etimologicamente il “taglio” – di una vocale
in fine di parola”, “postvocalica” qualificandone la specie mediante la posizione dopo
un’altra vocale. Sul fenomeno v. L. Serianni, Introduzione alla lingua poetica italiana,
Carocci («Università | 281 Lingua e letteratura italiana»), Firenze 2001, pp. 108-20.
10. Resi disponibili dalla citata edizione critica.
11. Modificando, per più immediata leggibilità, i criteri di trascrizione dell’edizione critica. Le varianti in rigo, in particolare, sono qui racchiuse da parentesi tonde: si intenderà così, ad esempio, che nel v. 2 che scialba sostituisce la lezione o nebbia, al mio
cuore, la quale a differenza del doppio tu di v. 3 è stata cassata.
12. Forse un calco sintattico del lucreziano e virgiliano exhalat – v. sotto.
13. Anche se l’enunciazione è piuttosto, in «Nebbia», onnitemporale.
14. v. appunto «Il tuono» di Myricae: «a un tratto, col fragor d’arduo dirupo | che
frana, il tuono rimbombò di schianto».
15. Si ricorderà la nebbia carducciana di San Martino, la quale «piovigginando sale».
16. È l’interpretazione proposta dall’Enciclopedia virgiliana, s.v. fumus.
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