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Diritto Civile Contemporaneo
Rivista trimestrale online ad accesso gratuito ISSN 2384-8537
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Anno III, numero I, gennaio/marzo 2016
Divieto del patto commissorio, contratto di «sale and lease back» e autonomia
privata
Alberto Lunetta
Divieto del patto commissorio, contratto di «sale and lease back» e
autonomia privata
di Alberto Lunetta
La controversia sulla quale la Suprema Corte si è pronunciata (Cass. 28 gennaio
2015 n. 1625) concerne la validità di un contratto di sale and lease-back, contenente
la clausola marciana, stipulato da due società (la sentenza si trova anche pubblicata
in Riv. not., 2015, p. 182 ss.; in Il fallimento, 7/2015, p. 791 ss. con nota di M.
SPADARO; in Giur. it., 2015, p. 2341 ss., con nota di V. VITI; M. NATALE,
Lease-back e strutture utili di patto marciano, in Riv. dir. civ., 6/2015, p. 1595 ss.).
La questione sollevata innanzi alla Suprema Corte s’innesta nell’ambito di un
ricorso proposto dal creditore fallimentare, ossia la società concedente il leasingacquirente, avverso il decreto che aveva respinto la sua opposizione allo stato
passivo del fallimento della società alienante-utilizzatrice. Il giudice del fallimento
aveva ritenuto che il contratto di sale and lease-back fosse nullo perché in violazione
del divieto di patto commissorio (e ciò sia in quanto, all’epoca della conclusione
del contratto, la parte alienante era insolvente, sia per la sproporzione tra valore
del bene e prezzo convenuto), tralasciando di considerare la sussistenza in esso
della cautela marciana.
La Suprema Corte è chiamata a decidere sulla compatibilità del contratto di leaseback con il divieto sancito dall’art. 2744 c.c.
I giudici di legittimità prendono in esame la figura del contratto di sale and leaseback nella sua astratta tipicità sociale (secondo alcuni, peraltro, il contratto sarebbe
implicitamente tipizzato all’art. 2425-bis c.c.: così, ad es., G. DI ROSA,
L’operazione di sale and lease back tra normotipo astratto e fattispecie concreta, in Riv. dir.
civ., 2015, p. 1136 ss., spec. p. 1137) e, accogliendo la lettura oggi dominante (per
tutti G. DE NOVA, Il lease-back, in Riv. it. leasing, 1987, n. 3, p. 517 ss., spec. p.
523; in giurisprudenza v., ad es., Cass., 22 marzo 2007, n. 6969, in I contratti,
1/2008, p. 33 ss., con nota di F. ARCARI, e Cass., 14 marzo 2006, n. 5438 in
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Giur. it., 2007, p. 1952 ss., con note di L. STRONA e di M. LASCIALFARI), la
ritiene fattispecie lecita, non integrante in quanto tale un’alienazione a scopo di
garanzia vietata, perché dotata di una precipua utilità economica, giacché permette
all’imprenditore lo smobilizzo di capitali al fine di ottenere maggiore liquidità non
rinunciando, tuttavia, al godimento del bene strumentale alienato. Sottolinea,
tuttavia, che tale contratto può prestarsi alla elusione del divieto del patto
commissorio, quando configurato dalle parti in modo da non perseguire (tanto) la
funzione tipica del lease-back quanto piuttosto una finalità di garanzia. In questa
ipotesi, secondo la S.C., si rende necessario verificare caso per caso l’esistenza di
un nesso funzionale che valga a piegare il contratto all’elusione del divieto di patto
commissorio. Soffermandosi sull’art. 2744 c.c., i giudici ne mettono in evidenza la
natura di norma materiale – che esprime un divieto “di risultato” –, dotata di uno
spettro di applicazione ampio, non circoscritto alle ipotesi nominate del pegno,
dell’ipoteca e dell’anticresi (art. 1963 c.c.), ma operante nei confronti di qualsiasi
fattispecie negoziale la cui causa in concreto miri a realizzare gli effetti del patto
vietato.
Poiché, d’altra parte, non sempre l’alienazione cavendi causa è illecita – questo è il
ragionamento della S.C. che emerge in controluce – la decisione passa ad
esaminare il ruolo della cautela marciana in un negozio di lease-back che, come
quello oggetto della fattispecie concreta, evidenzi una finalità di garanzia e si presti
a ingenerare, quindi, un sospetto di illiceità per frode alla legge.
I giudici delineano i caratteri tipologici del patto marciano e ne sottolineano
l’attitudine ad impedire che il concedente, in caso di inadempimento del debitore,
si appropri di un bene di valore superiore all’ammontare del credito. L’effetto
salvifico che lo connota deriva dall’idoneità “a ristabilire l’equilibrio sinallagmatico
tra le prestazioni del contratto di sale and lease-back […] e dalla sua capacità di
scongiurare che l’attuazione coattiva del credito avvenga senza alcun controllo dei
valori patrimoniali in gioco” (punto 2.5 della motivazione).
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La sentenza ha cura di precisare come debba essere strutturata la fattispecie
negoziale e, in essa, la clausola marciana, al fine di evitare la declaratoria di nullità
dell’intero contratto di lease-back ex art. 1344 c.c.
All’esito dello scrutinio, il provvedimento impugnato viene cassato per non aver
attribuito adeguata rilevanza alla cautela marciana e quindi per non aver
considerato la sua ricaduta sulla liceità della complessa fattispecie negoziale.
La decisione in esame ha il merito di aver fatto il punto, in materia di alienazioni a
scopo di garanzia, circa l’ambito di operatività del divieto dell’art. 2744 c.c. con
specifico riguardo al contratto di sale and lease-back.
Senza potersi qui soffermare, dati i limiti di questo contributo, sul generale tema
delle alienazioni in garanzia e sulla loro compatibilità con il divieto del patto
commissorio scolpito agli artt. 2744 e 1963 c.c., è opportuno comunque
ripercorrere sinteticamente alcuni passaggi salienti del dibattito in materia con
particolare riferimento alla figura del contratto di lease-back.
Com’è noto, all’indomani del varo del codice civile del 1942 gli interpreti, oltre a
interrogarsi sulla ratio e sull’estensione applicativa dell’art. 2744 c.c. (e dell’art.
1963), si sono confrontati con la questione dell’ammissibilità di alienazioni, quali
la vendita con patto di riscatto e il riporto, connotate da un elemento di
provvisorietà che, quindi, si collocano in posizione eccentrica rispetto al modello
ordinario della cessione irrevocabile e definitiva e che, per di più, ben potrebbero
prestarsi a realizzare (pure) una causa di garanzia. In questo contesto si è
considerato che lo stesso codice esibisce fattispecie di alienazione con finalità di
garanzia o, in certi casi, soltanto solutorie, quali la datio in solutum (art. 1197), la
cessione dei beni ai creditori (art. 1977 e ss.), il pegno irregolare (art. 1851), la
costituzione di pegno su credito (art. 2803), che testimoniano l’ammissibilità di
forme di attuazione convenzionale del credito al di fuori di meccanismi esecutivi
sottoposti a controllo giudiziale.
Quanto all’art. 2744 c.c., registrata una pluralità di spiegazioni sul suo
fondamento, e sufficientemente consolidata sia in dottrina che in giurisprudenza
l’idea di una compresenza di rationes nel divieto in esso enunciato (nella vastissima
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letteratura si veda F. ANELLI, L’alienazione in funzione di garanzia, Milano, 1996, p.
47 ss.; per più risalenti posizioni cfr. C.M. BIANCA, voce «Patto commissorio», in
Nss.D.I., XII, Torino, 1968, p. 711 ss.; CARNEVALI, voce «Patto commissorio», in
Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, p. 449 ss.; in giurisprudenza Cass., 9 maggio 2013,
n. 10986, in Vita not., 2013, p. 719 ss., spec. p. 721), può dirsi acquisito il risultato
ermeneutico della sua applicabilità oltre alle ipotesi tipiche del pegno, dell’ipoteca
e dell’anticresi al cosiddetto “patto commissorio autonomo”. Figura che, secondo
la giurisprudenza, consiste nella “operazione contrattuale, di regola integrata da
un’alienazione in funzione di garanzia, che di per sé preved[e] che la proprietà
della cosa alienata in garanzia passi al creditore in mancanza del pagamento del
credito nel termine fissato” (Cass., 9 maggio 2013, n. 10986, cit., p. 720).
Alla base di tale soluzione sta la concezione dell’art. 2744 c.c. come norma
“materiale”, espressione cioè di una proibizione che l’ordinamento pone non nei
confronti di uno specifico istituto, bensì del risultato economico: raggiungibile,
perciò, attraverso congegni negoziali differenti, tipici e atipici (in giurisprudenza
emblematiche di tale orientamento sono due pronunce delle sezioni unite della
Cassazione del 1989: Cass., ss. uu., 3 aprile 1989, n. 1611 e 21 aprile 1989, n. 1907,
rispettivamente in Foro it., 1989, I, c. 1428 ss., con note di V. MARICONDA e di
F. REALMONTE; e in Giust. civ., 1989, I, p. 1821 ss. con nota di M.
COSTANZA). L’esito dell’operatività del divieto in parola al di là delle ipotesi
“nominate” del pegno e dell’ipoteca (e dell’anticresi, nel caso dell’art. 1963) ha
portato ulteriormente i giuristi teorici e pratici a interrogarsi sui limiti e sulle
condizioni di ammissibilità delle cosiddette alienazioni in garanzia. Tra esse
possono certamente ricomprendersi la vendita con patto di riscatto o di
retrovendita (ad es., Cass., ord. 12 ottobre 2011, n. 20956, in Giust. civ., 2012, I, p.
1757 ss.; più di recente Cass., 19 novembre 2015, n. 23670, in Diritto & Giustizia,
2015, 20 novembre), il mandato ovvero la procura a vendere conferita al creditore
(Cass., 8 luglio 2014, n. 15486, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 1, p. 62 ss., con nota
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di G. BUSET, e più di recente Cass., 18 marzo 2015, n. 5440, in CED Cassazione),
il contratto preliminare (Cass., 29 agosto 1998, n. 8624 in Foro it., 1999, I, c. 175
ss. con nota di ALBINA CANDIAN), il sale and lease-back (Cass., 16 ottobre 1995,
n. 10805, in Foro it., 1996, I, c. 3492 ss., con nota di A. MONTI; Cass., 19 luglio
1997, n. 6663, in Giust. civ., 1998, I, p. 3237 ss., con nota di A. SCHERMI; Cass., 2
febbraio 2006 n. 2285, in Obbl. e Contr., 2006, p. 549 ss., con nota di G.
GENNARI; Cass. 22 marzo 2007, n. 6969, cit.), quando il singolo regolamento
negoziale sia configurato dalle parti in modo tale da perseguire uno scopo di
garanzia del creditore-acquirente. Viene, infatti, ritenuto irrilevante, ai fini del
risultato economico perseguito, il momento in cui si verifica l’effetto traslativo. In
altri termini, una lettura del dato normativo scevra da formalismi ritiene di
includere nel divieto di patto commissorio sia cessioni sospensivamente
condizionate all’inadempimento del debitore, sia risolutivamente condizionate
all’adempimento dello stesso (come, in definitiva confermato da Cass., ss. uu., 3
aprile 1989, n. 1611 e Cass., ss.uu., 21 aprile 1989, n. 1907, entrambe cit., secondo
le quali pure il trasferimento condizionato risolutivamente lede gli interessi tutelati
dall’art. 2744 c.c.; in dottrina, sul punto, v. F. MACARIO, Il divieto del patto
commissorio e la cessione dei crediti in garanzia, in Diritto civile, diretto da LIPARI e
RESCIGNO, coordinato da ZOPPINI, IV, 2, L’attuazione dei diritti, Milano, 2009,
p. 203 ss., spec. p. 207 ss.).
Sotto altro versante va segnalato come un approccio non preconcetto abbia
condotto gli interpreti più avveduti ad escludere soluzioni radicali basate sulla
semplicistica equazione alienazione in garanzia = violazione del divieto di patto
commissorio. Si è, infatti, ritenuto che le fattispecie “sospette” possano essere
invece lecite perché in sé perseguono fini propri differenti da quello di garanzia (in
relazione al lease back, ad esempio, si è affermato che si tratti di “un’operazione
contrattuale in bilico tra liceità e illiceità, stretta cioè tra le esigenze del mercato e
la lex commissoria”: così A. LUMINOSO, Lease back, mercato e divieto del patto
commissorio, in Giur. comm., 2000, I, p. 489 ss., p. 490). Ed inoltre nella stessa
alienazione in garanzia non è stata sempre individuata una fattispecie tout court
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vietata, giacché non sempre essa si configura in frode all’art. 2744 c.c. (in tal senso
F. ANELLI, L’alienazione in funzione di garanzia, cit., p. 445).
Di questo percorso argomentativo è espressione emblematica la riflessione degli
interpreti sul contratto di sale and lease-back.
Secondo una definizione ampiamente accolta in dottrina «l’operazione di sale and
lease back (vendita con leasing di ritorno o, più semplicemente, leasing di ritorno)
consta - come è noto –di una vendita e di un leasing, stipulati dalle stesse parti;
nella sua configurazione ordinaria essa dà vita ad una fattispecie contrattuale,
socialmente tipica, con la quale “un’impresa vende un proprio bene (immobile o mobile) di
natura strumentale per l’esercizio dell’impresa o della attività, ad una società di leasing, la
quale lo concede contestualmente in leasing all’alienante, che corrisponde per l’utilizzazione del
bene un canone ed ha la facoltà, alla scadenza del leasing, di riacquistare la proprietà esercitando
un diritto di opzione per un predeterminato prezzo”» (A. LUMINOSO, Lease back,
mercato e divieto del patto commissorio, cit., p. 490). La figura, come è stato di recente
sottolineato (G. DI ROSA, L’operazione di sale and lease back tra normotipo astratto e
fattispecie concreta, cit., p. 1139), risponde all’esigenza, diffusa nell’àmbito
imprenditoriale,
di
permettere
l’esercizio
dell’attività
economica
indipendentemente dalla titolarità dei mezzi di produzione e di smobilizzare
risorse patrimoniali per utilizzare la liquidità monetaria ottenuta in investimenti
produttivi e più in generale per consentire una gestione agile e adeguata alle
strategie di medio e lungo periodo (v., tra i tanti, G. DE NOVA, Il lease-back, cit.
p. 521 s.; in giurisprudenza, ad es., Cass., 16 ottobre 1995, n. 10805, cit.).
Tale soluzione, oggi maggioritaria e confortata a livello legislativo dall’implicito
riconoscimento della meritevolezza del lease-back posto all’art. 2425-bis c.c., è stata
in passato avversata con diverse argomentazioni da una parte consistente della
dottrina e della giurisprudenza.
Si è affermato che la figura costituirebbe un finanziamento assistito da una
garanzia reale atipica e pertanto sarebbe sempre folgorata da nullità per frode alla
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legge (così, ad es., G. FERRARINI, La locazione finanziaria, in Tratt. dir. priv.,
diretto da RESCIGNO, Torino, 1984, XI, t. III, p. 5 ss., spec. p. 15 ss.. In
giurisprudenza cfr. Trib. Vicenza, 12 luglio 1988, in Foro it., 1989, I, c. 1251 ss.,
con nota di R. SIMONE).
Un approccio mediano, ampiamente diffuso, sostiene la liceità della figura
quando, come nel suo “normo-tipo”, essa risponda all’esclusiva finalità di
finanziamento del venditore, il quale così ottiene liquidità per la sua impresa. Al
contrario, la considera nulla quando assume carattere “anomalo” perché piegata
alla finalità di garanzia tramite un congegno negoziale che, analogamente alla
alienazione con patto di retrovendita, finisce per costituire, nel suo risultato, al di
là delle ipotesi del pegno e dell’ipoteca, un atipico diritto reale a favore
dell’acquirente-concedente (in dottrina v., tra i molti, A. LUMINOSO, Lease
back, mercato e divieto del patto commissorio, cit., p. 503, che parla di «dilemma
valutativo» in ordine alla singola specifica fattispecie di lease-back; in
giurisprudenza, tra le prime pronunce di merito, cfr. Trib. Milano 13 giugno 1985,
in Foro pad., 1986, I, c. 105 ss., con nota di A. MUNARI; in sede di legittimità v.
tra le tante, molto chiaramente, Cass., 16 ottobre 1995, n. 10805, cit., punto 1.3
della motivazione. Secondo la S.C., infatti, il lease-back va ordinariamente
considerato come «momento di normale svolgimento dell’attività d’impresa»).
L’odierna decisione si inscrive nel solco di quest’ultimo orientamento
ermeneutico. Essa, infatti, come accennato, delinea il lease-back quale operazione
economica complessa che assume la fisionomia di un negozio, dotato di una
propria «autonomia strutturale e funzionale», con caratteri tipologici socialmente
diffusi e che risponde ad esigenze precipue dell’attività imprenditoriale. Queste si
specificano «nel quadro di un determinato disegno economico di potenziamento
dei fattori produttivi di natura finanziaria» nell’ottenimento immediato di
«liquidità, mediante l’alienazione di un suo bene strumentale – e quindi di norma
funzionale ad un determinato assetto produttivo (si pensi ad un capannone
industriale o ad altro bene inserito in uno specifico contesto produttivo) e
pertanto non agevolmente collocabile sul mercato –, conservando di questo l’uso,
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e con facoltà di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto» (così Cass., 16
ottobre 1995, n. 10805, cit., punto 1.3 della motivazione).
Il Supremo Collegio, conformandosi alla propria consolidata giurisprudenza, non
nega la possibilità che il contratto sottoposto al suo vaglio sia piegato al
raggiungimento di uno scopo, non di leasing, ma di garanzia. In particolare, ai fini
dell’accertamento di una siffatta strumentalizzazione del lease-back, la S.C.
attribuisce fondamentale rilevanza alla sua causa, intesa quale funzione
economico-individuale. Ne deriva la necessità di valutare caso per caso l’intento
delle parti al fine di verificare se il risultato finale, cui queste ambiscono, sia in
frode al divieto di cui all’art. 2744 c.c..
In altri termini, nell’eventualità in cui le parti perseguano lo scopo di garanzia, il
prezzo pattuito, il trasferimento della proprietà in favore del futuro concedente ed
il pagamento dei canoni potrebbero atteggiarsi, rispettivamente, ad indici di una
erogazione di mutuo, costituzione di garanzia reale atipica e versamento delle rate
del mutuo stesso. E tuttavia, anche in questa ipotesi, bisognerebbe scrutinare con
attenzione il concreto congegno negoziale prima di pervenire a non
adeguatamente ponderate conclusioni sulla sua (il)liceità.
Essendo non sempre agevole condurre tale accertamento, gli interpreti hanno
individuato una serie di indici rivelatori del possibile intento fraudolento delle
parti che concludano un contratto di sale and lease-back “anomalo” (sul punto si
rimanda a F. LOTTA, Gli indici di anomalia del lease back nella recente giurisprudenza,
nota a Trib. S.M. Capua Vetere, 13 marzo 2012, Trib. Milano, 24 gennaio 2012,
Trib. Milano, 28 giugno 2010, in Banca borsa tit. cred., 2013, II, p. 356 ss., p. 363 s.;
F. ARCARI, Indici di anomalia del lease back, nota a Cass., 22 marzo 2007, n. 6969,
cit., in I Contratti, 1/2008, p. 36 ss.).
La dottrina più attenta non ha mancato di far notare come detti elementi vadano
utilizzati dall’interprete con cautela, non essendo di per sé in grado di far
concludere nel senso del perseguimento dello scopo di garanzia vietato (in tal
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senso F. REALMONTE, Stipulazioni commissorie, vendita con patto di riscatto e
distribuzione dei rischi, nota a Cass., ss.uu., 3 aprile 1989, n. 1611, cit., in Foro it.,
1989, I, c. 1440 ss., § 4). Si pensi, infatti, che la sproporzione tra valore del bene
alienato ed entità del credito – estremo ritenuto da recente giurisprudenza come
uno degli indizi di maggior peso (così Cass., 9 maggio 2013, n. 10986, cit., p. 722)
– non è comunque elemento di per sé determinante, essendo, al massimo,
rivelatore di un intento usurario (in tal senso F. ANELLI, L’alienazione in funzione
di garanzia, cit., p. 478).
Tuttavia – va qui osservato –, quand’anche le parti, perfezionando un contratto di
sale and lease-back, perseguano uno scopo di garanzia, non necessariamente il
negozio sarà oggetto di declaratoria di nullità per violazione dell’art. 2744 c.c..
Difatti, la finalità di garanzia ha cittadinanza nel nostro ordinamento, come
dimostrato per un verso dagli artt. 1851 e 2803 c.c., e per l’altro dalla mancanza,
più in generale, di una norma che vieti ai privati di escogitare ipotesi atipiche di
garanzia reale, ovviamente purché non impingano nel divieto del patto
commissorio.
Ed invero, la decisione in rassegna evidenzia come non vi sia violazione dell’art.
2744 ove la fattispecie sia congegnata in modo da assicurare in sede solutoria
l’equivalenza tra il valore del bene oggetto del trasferimento in garanzia e
l’ammontare del credito, ponendo un obbligo di restituzione dell’eventuale
eccedenza in capo al creditore.
Laddove, al contrario, il contratto di sale and lease-back o, più in generale, il negozio
che realizza un’alienazione a scopo di garanzia non preveda alcun meccanismo che
assicuri l’equivalenza tra i valori patrimoniali in gioco occorre chiedersi se la nullità
di cui all’art. 2744 c.c., colpisca l’intero contratto ovvero sia solo parziale e, quindi,
interessi soltanto le clausole in frode al divieto di patto commissorio. Entrambe le
tesi sono sostenute in dottrina, mentre la più recente giurisprudenza di legittimità,
come anche la sentenza qui considerata attesta, è favorevole alla conservazione
dell’atto di autonomia privata secondo il meccanismo dell’art. 1419 c.c. (Cass., 10
novembre 2014, n. 23950, in CED Cassazione, sottolinea, ai fini dell’applicazione
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dell’art. 1419 c.c., l’importanza dell’esame della fattispecie concreta ed afferma che
il principio di conservazione del negozio giuridico va contemperato con quello
dell’autonomia privata e della prevalenza della comune volontà delle parti, sicché
per poter stabilire se la nullità di una clausola travolga l’intero contratto occorre
«considerare gli strumenti negoziali prescelti dalle parti in funzione dell’interesse
in concreto perseguito dalle stesse»: punto 5.1 della motivazione).
Chi, in letteratura, propende per la nullità assoluta muove dalla considerazione che
l’art. 2744 c.c. sia posto a presidio di un interesse di portata generale nonché di
tutela del debitore e degli altri creditori dello stesso. Pertanto la nullità dell’intero
contratto deriverebbe dallo snaturamento della causa della vendita, incompatibile
con lo scopo di garanzia (in tal senso, ad es., A. SASSI, Garanzia del credito e tipologie
commissorie, Napoli, 1999, p. 413 ss., p. 434).
Secondo un altro orientamento, ai fini della risoluzione della questione, è
necessario applicare la regola operativa della c.d. volontà ipotetica di cui al
capoverso dell’art. 1419 c.c.. Occorre, quindi, valutare caso per caso se i contraenti
avrebbero egualmente concluso il negozio senza la parte del suo contenuto che è
folgorata dalla nullità. Laddove si provi che avrebbero egualmente perfezionato
l’accordo, la declaratoria di nullità non può che essere parziale ed interesserà la
sola pattuizione commissoria (come propone ad es. A. LUMINOSO, Lease back,
mercato e divieto del patto commissorio, cit., p. 503; per una recente messa a punto della
questione v. N. CIPRIANI, Patto commissorio autonomo: come salvare la validità del
finanziamento e della garanzia, in giustiziacivile.com, 3/2014, 27 maggio 2014).
Sul punto va segnalata la proposta ermeneutica che, reputando non sempre
sovrapponibile la figura dell’alienazione in garanzia con il patto commissorio e
differenziandone conseguentemente le sorti, sostiene che, anche in mancanza
della clausola marciana, il contratto di sale and lease back che persegue una funzione
di garanzia “anomala” perché occulta una frode usuraria a vantaggio del creditore
andrebbe sottoposto a conversione ex art. 1424 c.c. (G. GITTI, Divieto del patto
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commissorio, frode alla legge, «sale and lease back», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, p. 457
ss., spec. p. 489 ss.) e quindi ad una interpretazione integrativa sulla base del
principio generale in forza del quale il creditore non può arricchirsi ai danni del
debitore (F. ANELLI, L’alienazione in funzione di garanzia, cit., p. 487). Ne
deriverebbe, quindi, una automatica riduzione ad equità della pattuizione nel caso
in cui il consolidamento dell’acquisto in funzione solutoria evidenzi uno squilibrio
dei valori patrimoniali in gioco a vantaggio del creditore-acquirente (in questo
senso anche N. CIPRIANI, Patto commissorio e patto marciano, Napoli, 2000, p. 197).
Tale soluzione avrebbe il pregio, da un lato, di non frustrare totalmente le
intenzioni dei contraenti, mantenendo in vita il negozio nella parte in cui persegua
interessi meritevoli di tutela e, dall’altro, di recuperare l’equilibrio tra le prestazioni
così da evitare la sopraffazione a danno del debitore nonché la lesione della par
condicio creditorum (N. CIPRIANI, Patto commissorio e patto marciano, cit., p. 194). In
senso critico si obietta da alcuni studiosi che in tal modo si finisce per svuotare di
contenuto il disposto di cui all’art. 2744 c.c., giacché si permetterebbe al creditore,
che intendeva arricchirsi a danno del debitore bisognoso di liquidità, di conservare
la possibilità, seppure nei limiti del valore del credito garantito, di soddisfarsi sul
bene alienato in garanzia senza dover ricorrere all’espropriazione giudiziale (così S.
PAGLIANTINI, I misteri del patto commissorio, le precomprensioni degli interpreti e il
diritto europeo della dir. 2014/17/UE, in Nuove leggi civ. comm., 2015, p. 181 ss., spec.
p. 203 s.).
La sentenza qui discussa ribadisce che l’illiceità del contratto di sale and lease-back e,
più in generale, delle alienazioni a scopo di garanzia è esclusa ove in esso si
inserisca il patto marciano, posto che, in virtù di una simile previsione, in caso di
inadempimento il creditore-acquirente potrà trattenere il bene oggetto del negozio
a condizione che restituisca al debitore-alienante l’eventuale eccedenza tra
l’ammontare del credito ed il valore del bene alienato (in tal senso v. pure Cass.,
18 marzo 2015, n. 5440, cit.; per una recente ricognizione sulla questione v. C. DE
MENECH, Il patto marciano e gli incerti confini del divieto di patto commissorio, in I
Contratti, 8-9/2015, p. 823 ss.). In dottrina non mancano però autori che negano
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l’effetto salvifico del patto marciano, in quanto lo ritengono egualmente lesivo
della libertà di autodeterminazione del debitore, il quale non potrebbe sottrarsi al
trasferimento del bene in caso di inadempimento dell’obbligazione garantita, e che
più in generale sostengono che la causa di garanzia non sarebbe in grado di
giustificare il trasferimento della proprietà che ne è oggetto (G.F. MINNITI, Patto
marciano e irragionevolezza del disporre in funzione di garanzia, in Riv. dir. comm., 1997,
I, p. 29 ss., p. 59 ss.; L. BARBIERA, Responsabilità patrimoniale. Disposizioni generali.
Artt. 2740-2744, in Il Codice civile. Commentario, fondato da P. SCHLESINGER,
diretto da F.D. BUSNELLI, 2° ed., Milano, 2010, p. 305 s., p. 318; in posizione
più perplessa E. CARBONE, Debitoris suffocatio e patto commissorio, in Riv. trim.
dir. proc. civ., 2012, p. 1087 ss., p. 1109).
La S.C. sottolinea, infatti, come la clausola marciana «mira ad impedire che il
concedente, in caso di inadempimento, si appropri di un valore superiore
all’ammontare del suo credito» dal momento che in essa è previsto che «al termine
del rapporto, si proceda alla stima del bene e il creditore sia tenuto al pagamento
in favore del venditore dell’importo eccedente l’entità del credito (iure emptoris
possideat rem iusto pretio tunc aestimandam, secondo la tradizione giustinianea)» (punto
2.5 della motivazione). Secondo i giudici di legittimità non può affermarsi l’illiceità
del contratto «pur in presenza di costituzione di garanzie che presuppongano un
trasferimento di proprietà, qualora queste risultino integrate entro schemi
negoziali che tale abuso escludono in radice, come nel caso del pegno irregolare,
del riporto finanziario e del c.d. patto marciano – in virtù del quale, come è noto,
al termine del rapporto si procede alla stima, ed il creditore, per acquisire il bene, è
tenuto al pagamento dell’importo eccedente l’entità del credito» (così anche Cass.,
21 gennaio 2005, n. 1273, in Giust. civ., 2006, I, p. 177 ss., p. 180, testualmente
citata dalla sentenza in esame).
Nella decisione in rassegna, come accennato, sono indicati quali tratti la clausola
marciana debba esibire affinché possa neutralizzare l’operatività del divieto “di
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risultato” individuato all’art. 2744 c.c.. In particolare, i giudici di legittimità
pongono l’accento sulla necessità di prevedere l’obbligo di procedere alla stima del
bene alienato mediante perizia da compiersi, al momento dell’inadempimento
dell’obbligazione, da parte di un terzo imparziale ovvero sulla base del prezzo
corrente, se la cosa ne ha uno di mercato, da accertarsi al medesimo momento.
Può osservarsi in proposito come il merito di una simile clausola stia nell’ancorare
la stima del bene oggetto del trasferimento in pagamento a criteri obiettivi, così
neutralizzando l’asimmetria di potere contrattuale a danno del debitore che
facilmente si registra in circostanze in cui l’alienazione in garanzia venga da costui
conclusa sulla spinta di un insopprimibile bisogno di liquidità.
La Corte rileva altresì come la clausola in discorso possa essere strutturata anche
diversamente purché sia comunque realizzata la finalità cui i requisiti anzidetti
mirano. Essa sottolinea, infatti, la necessità che « sin dalla conclusione del
contratto
di
lease-back,
siano
stati
previsti
meccanismi
oggettivi
e
procedimentalizzati che (…) permettano la verifica di congruenza tra valore del
bene oggetto della garanzia, che viene definitivamente acquisito al creditore, ed
entità del credito». Invero, secondo i giudici di legittimità, «non avrebbe tale
effetto la verifica del “giusto prezzo” al momento della conclusione del contratto».
Le parti possono prevedere che la stima venga operata da un terzo imparziale,
secondo il meccanismo contemplato per la vendita all’art. 1349 c.c., oppure
riportare la stessa a «parametri oggettivi automatici» o ad altre modalità che in ogni
caso « entro tempi certi e con modalità definite (…) assicurino (…) una
valutazione imparziale». L’essenziale è – afferma ancora la sentenza – che risulti
dal patto «che le parti abbiano in anticipo previsto che, nella sostanza
dell’operazione economica, il debitore perderà eventualmente la proprietà del suo
bene per un prezzo giusto, determinato al tempo dell’inadempimento, perché il
surplus gli sarà senz’altro restituito» (punto 2.5 della motivazione).
Pertanto è possibile subordinare l’acquisto da parte del creditore-acquirente alla
condizione sospensiva della restituzione da parte sua dell’eventuale eccedenza tra
valore del bene alienato in garanzia e credito, calcolata nei modi e nei tempi già
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detti. Tuttavia gli Ermellini reputano non cruciale una simile previsione ai fini
della configurabilità del patto marciano ed affermano che «come per il divieto ex
art. 2744 c.c., anche la clausola marciana può essere in concreto articolata non
solo nel senso di ancorare all’inadempimento il trasferimento della proprietà del
bene, ma pure il consolidamento dell’effetto traslativo già realizzato, che si
verificherà solo ove sia corrisposta l’eventuale differenza» (ibidem). In altri termini,
la clausola potrà subordinare il consolidamento del trasferimento del diritto alla
condizione risolutiva della mancata corresponsione della differenza di prezzo.
Con riguardo al momento in cui deve avvenire la stima va segnalato che, ove
questa sia effettuata in un momento antecedente all’inadempimento, potrebbe non
essere in grado di prevenire una sopravvenuta sproporzione tra credito garantito e
bene alienato in garanzia, vanificando, così, la funzione del patto marciano (in
questo senso v., tra gli altri, S. BARBARA, Circolazione dei beni ed evoluzione del divieto
del patto commissorio, in Notariato, 6/2012, p. 717 ss. p. 726). È evidente, infatti, che
il valore di detto bene, nel lasso di tempo intercorrente tra l’alienazione in garanzia
e l’inadempimento, potrebbe mutare considerevolmente, determinandosi così un
vantaggio patrimoniale per il creditore tale da frustrare il perseguimento degli
interessi tutelati dall’art. 2744 c.c. e quindi da rendere inefficiente anche il patto
marciano. Interessi tutelati che, sempre nella sentenza in commento, vengono
individuati anche nella proporzione dei valori patrimoniali in gioco. La norma
codicistica presume che il congegno negoziale vietato sia veicolo di disequilibrio in
pregiudizio del debitore e quindi espressione di un abuso della controparte ai suoi
danni. La previsione del patto marciano nelle alienazioni a scopo di garanzia, ove
presenti le caratteristiche evidenziate, mira dunque ad evitare che l’attuazione
coattiva del credito avvenga senza il necessario bilanciamento di sacrifici e
vantaggi economici delle parti contraenti.
La clausola, pertanto, purché presenti «meccanismi oggettivi e procedimentalizzati
che (…) permettano la verifica di congruenza tra valore del bene oggetto della
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garanzia, che viene definitivamente acquisito al creditore, ed entità del credito», ha
l’effetto di impedire l’operatività dell’art. 2744 c.c., allontanando dal contratto di
sale and lease-back il sospetto di illiceità per frode alla legge.
Come si vede, secondo la S.C. la elaborazione da parte dei privati di un congegno
negoziale atipico che determini lo spostamento della titolarità di un bene dal
debitore al creditore in funzione (inizialmente) di garanzia non è nullo – a meno
che non integri il patto commissorio ex artt. 2744 e 1963 c.c. – quando sia
configurato in modo tale che, laddove la causa di garanzia si tramuti in una causa
solutoria a seguito dell’inadempimento dell’obbligato, il creditore non consegua
dall’acquisto un valore superiore rispetto a quello della prestazione a lui
originariamente dovuta.
In senso adesivo alla soluzione della S.C. può qui osservarsi che tale esito,
assicurato generalmente dalla cautela marciana (come nel caso in esame), può
ritenersi non eversivo rispetto all’ordinamento giuridico visto nel suo complesso.
Ed invero, come si chiarirà anche in seguito, e come sottolineato in letteratura da
più di una voce, il divieto del patto commissorio non va considerato alla stregua di
baricentro del sistema dell’attuazione/inattuazione del rapporto obbligatorio,
sistema che coinvolge quello delle garanzie del credito e della responsabilità
patrimoniale propagandosi ai meccanismi di soddisfacimento coattivo. Esso va
messo a confronto con altre regole che mettono in campo risposte differenti sia
nel settore delle alienazioni in garanzia, sia in quello degli strumenti solutori e
dell’autotutela satisfattoria del credito. Si pone, piuttosto, come norma di chiusura
che censura soluzioni, per così dire “extra-soglia”, escogitate dall’autonomia
privata. In brevi cenni, dati i limiti di questo contributo, si pensi, da una parte, che
la possibilità che il creditore ottenga dal debitore una prestazione diversa e (anche)
di valore maggiore da quella dovuta non è affatto disarmonica con il sistema,
essendo contemplata nella fattispecie della dazione in pagamento, ove si richiede,
ai fini dell’ammissibilità della fattispecie e della conseguente liberazione del solvens,
il consenso del creditore e, in definitiva, l’accordo delle parti del rapporto
obbligatorio. Sotto altro versante si consideri che il dogma del monopolio dello
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Stato nell’esecuzione sul patrimonio del debitore inadempiente è incrinato
dall’esistenza di istituti tra i quali emblematico è la cessione dei beni ai creditori.
Peraltro l’art. 1982 stabilisce che, se dopo il riparto tra i creditori delle somme
ottenute dalla liquidazione residuino delle poste attive, esse siano di spettanza del
debitore. Con ciò segnalandosi la duplice esigenza, da una parte, di soddisfare tutti
i creditori in proporzione alle rispettive pretese, salve le cause di prelazione, e,
dall’altra, di preservare l’equilibrio dei valori patrimoniali tra creditori e debitore,
non spogliando quest’ultimo di tutti i beni in via definitiva, essendo a lui riservato
l’eventuale residuo successivo al riparto. Necessità che si ritrovano, sotto ancora
ulteriore profilo, nel pegno irregolare a garanzia di anticipazione (art. 1851), ove il
legislatore prefigura a favore della banca un potere di autotutela coattiva delle
proprie pretese consentendole di disporre – a soddisfacimento del suo credito –
dei beni fungibili (depositi di denaro, merci, titoli non individuati o con facoltà di
disporne per la banca medesima) attribuiti in garanzia entro il limite dell’ammontare del
suo diritto. L’istituto di credito, infatti, trattenuto l’ammontare di propria spettanza,
è tenuto a restituire la somma o la parte eccedente delle merci o dei titoli, il cui
valore è calcolato alla scadenza del termine per l’adempimento.
Tentando di comporre il quadro, le fattispecie analizzate consentono di vedere nel
divieto del patto commissorio un vettore sanzionatorio che si dirige contro una
figura dalla carica eversiva insostenibile nel sistema dato. Esso comporta, infatti,
un’inattesa
deviazione
pattizia
dal
meccanismo
garanzia-inadempimento-
esecuzione patrimoniale coattiva (restando all’art. 2744) proprio del pegno e
dell’ipoteca. Questi, infatti, se assicurano al creditore la prelazione nella
distribuzione della somma ricavata dalla vendita forzata del bene, si muovono
tuttavia sul binario dell’osservanza di una corrispondenza tra quanto spetta al
creditore per capitale, interessi, spese e quanto egli ottiene della somma derivante
dall’espropriazione coattiva. Soddisfatti anche i creditori in caso intervenuti,
l’eventuale residuo della somma ricavata va, com’è noto, consegnato al debitore o
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al terzo che ha subìto l’espropriazione (art. 510 c.p.c.). Lo stesso, d’altra parte,
avviene (in caso) di assegnazione della cosa in pagamento: questa può essere
richiesta dal creditore procedente «fino alla concorrenza del debito, secondo la
stima da farsi con perizia o secondo il prezzo corrente, se la cosa ha un prezzo di
mercato» (art. 2798).
Con il patto commissorio, invece, creditore e debitore disinnescano l’attivazione
della procedura esecutiva per il caso d’inadempimento e concordano l’automatica
trasformazione della causa cavendi dell’attribuzione in causa solvendi. La gravità della
prima eversione – che da sola forse potrebbe non suscitare la reazione
dell’ordinamento, posto che la sottrazione di beni del debitore all’eventuale
procedimento esecutivo e dunque alle ragioni dei possibili ulteriori creditori
avviene anche con la datio in solutum o con la compensazione, e comunque non è di
per sé pregiudizievole a fronte di una solida situazione patrimoniale del debitore –,
tuttavia assume un tasso di pericolosità insostenibile quando unita all’altra. Anche
la seconda circostanza della metamorfosi della causa cavendi in causa solvendi non
appare in quanto tale anomala, come attesta l’art. 1851 e come si ricava anche
dall’art. 2803 c.c., il quale attribuisce al creditore pignoratizio il potere di trattenere
il denaro ottenuto dalla riscossione del credito ricevuto in pegno qualora il credito
garantito sia scaduto, beninteso soltanto nella misura in cui esso «basta per il
soddisfacimento delle sue ragioni», dovendo restituire il residuo a chi ha costituito
il pegno (se, invece, questo ha ad oggetto cose diverse dal denaro, e sempre che il
credito garantito sia scaduto, egli può farle vendere o chiederne l’assegnazione a
norma degli artt. 2797 e 2798). Detta trasformazione supera i livelli di guardia e
attiva la scure sanzionatoria dell’ordinamento ex art. 2744 c.c. se avviene in
mancanza di una riconsiderazione dei valori di credito-acquisto e debito-cessione
al momento dell’attribuzione del diritto dominicale in funzione solutoria, come nel
patto commissorio (diretto e “indiretto”).
In definitiva, il ragionamento della S.C. appare condivisibile e in linea con assunti
interpretativi presenti nel dibattito scientifico. A sostegno della compatibilità della
cautela marciana con il divieto di cui all’art. 2744 c.c., si sottolinea in dottrina
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l’idoneità di siffatta pattuizione ad evitare un eccesso di garanzia in favore del
creditore e, reciprocamente, di responsabilità patrimoniale in capo al debitore.
Chiaramente l’adesione ad una simile tesi presuppone l’idoneità della causa di
garanzia a giustificare il trasferimento della proprietà in capo al creditore, nonché
la compatibilità di una proprietà strumentale al soddisfacimento del credito con il
principio del “numerus clausus” dei diritti reali (al riguardo cfr. F. ANELLI,
L’alienazione in funzione di garanzia, cit., p. 312 ss.).
Vista in una prospettiva di mercato, peraltro, l’ammissibilità della clausola
marciana trova ulteriore conferma, in quanto essa consente un più agevole accesso
al credito da parte degli operatori del mercato, offrendo al creditore una comoda
escussione della garanzia atipica svincolata dalle lentezze del processo esecutivo.
D’altra parte, essa evita che il debitore subisca abusi legati all’eccedenza del valore
del bene trasferito in funzione di garanzia/solutoria rispetto all’ammontare del
credito.
Come risulta anche dalla motivazione della sentenza qui considerata, gli elementi
caratterizzanti la cautela marciana (stima del terzo imparziale al tempo
dell’inadempimento e restituzione al debitore dell’eccedenza tra valore del bene
trasferito e credito garantito) sono ravvisabili in diverse fattispecie previste dal
legislatore in tema di attuazione del credito, le quali non richiedono il controllo
giudiziale al fine di garantire la corrispondenza tra ammontare del credito e bene
ceduto o costituito in garanzia.
Tra queste si ricordano, oltre alle figure già richiamate di cui agli artt. 1982, 1851,
2798, 2803 c.c., quella prevista all’art. 2804 c.c., secondo il quale il creditore
pignoratizio non soddisfatto può, in ogni caso, chiedere all’autorità giudiziaria che
gli sia assegnato in pagamento il credito ricevuto in pegno, precisando che ciò può
avvenire sempre fino a concorrenza del suo credito, nonché l’ipotesi introdotta
con la legge 2 aprile 2015, n. 44 in tema di prestito vitalizio ipotecario a favore di
persone fisiche di età superiore ad anni sessanta. L’attuale testo dell’art. 11-
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quaterdecies, comma 12°, del d.l. 30 settembre 2005, n. 203 (“Misure di contrasto
all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria”)
permette al finanziatore, ove il prestito non sia rimborsato entro dodici mesi dal
verificarsi degli eventi ivi indicati, di vendere egli stesso l’immobile dato in
garanzia ad un valore pari a quello di mercato, determinato da un perito
indipendente incaricato dalla medesima parte mutuante, e di utilizzare le somme
ricavate per estinguere il credito vantato restituendo l’eccedenza.
Un’ulteriore conferma della contrazione del campo di applicazione del divieto di
cui all’art. 2744 c.c. si rinviene, con riferimento ai contratti di garanzia finanziaria,
nel d.lgs. 21 maggio 2004, n. 170 di attuazione della direttiva 2002/47/CE. L’art.
1, comma 1°, lett. d) del citato decreto individua il contratto di garanzia finanziaria
come «il contratto di pegno o il contratto di cessione del credito o di
trasferimento della proprietà di attività finanziarie con funzione di garanzia, ivi
compreso il contratto di pronti contro termine, e qualsiasi altro contratto di
garanzia reale avente ad oggetto attività finanziarie e volto a garantire
l’adempimento di obbligazioni finanziarie», e ne fissa i requisiti soggettivi
stabilendo che lo stesso debba essere concluso dai soggetti di cui alle categorie
elencate alla medesima lett. d). Il decreto sancisce, all’art. 6, l’inapplicabilità del
divieto di cui all’art. 2744 c.c. ai contratti di garanzia finanziaria che prevedono il
trasferimento della proprietà degli strumenti finanziari con funzione di garanzia,
inclusi i contratti di pronti contro termine. La ragione di tale esclusione è stata
individuata in dottrina (G. D’AMICO, Alienazioni a scopo di garanzia, in I contratti per
l’impresa. I. Produzione, circolazione, gestione, garanzia, a cura di G. GITTI, M.
MAUGERI, M. NOTARI, Bologna, 2012, p. 585 ss., p. 596) nell’applicabilità a
detti contratti della regola posta all’art. 4 dello stesso decreto legislativo, in tema di
esercizio del pegno, a mente della quale il creditore, al verificarsi di un evento
determinante l’escussione della garanzia, ha facoltà di alienare le attività finanziarie
oggetto del pegno “trattenendo il corrispettivo a soddisfacimento del proprio
credito”, fino a concorrenza dell’ammontare del credito insoddisfatto, ovvero di
appropriarsi “delle attività finanziarie oggetto del pegno, diverse dal contante”
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sempre fino a concorrenza del valore dell’obbligazione garantita nell’ipotesi in cui
tale facoltà fosse stata prevista nel contratto e che lo stesso “preveda i criteri di
valutazione”. Oppure ha facoltà di utilizzare il “contante oggetto della garanzia
per estinguere l’obbligazione finanziaria garantita”. L’art. 8 del d.lgs. n. 170/2004
stabilisce poi un’ulteriore tutela in favore del debitore contemplando una sorta di
clausola di salvaguardia che impone un controllo sulla “ragionevolezza
commerciale” dell’operazione.
Dalla disciplina richiamata discende non solo l’esplicito riconoscimento nel nostro
ordinamento delle alienazioni a scopo di garanzia (così G. D’AMICO, Alienazioni
a scopo di garanzia, cit., p. 595), ma anche le ragioni che stanno alla base
dell’inoperatività del divieto del patto commissorio. Queste si rinvengono non
solo nell’applicabilità della normativa in discorso ai soli contratti di garanzia
finanziaria stipulati tra soggetti istituzionali e persone diverse da quelle fisiche, le
quali dovrebbero possedere conoscenze tali da non trovarsi in posizione di
debolezza rispetto al creditore, ma anche dal controllo sulla ragionevolezza
commerciale dell’operazione richiesto dall’art. 8 del decreto (così E. GABRIELLI,
Contratti di garanzia finanziaria, stabilità del mercato e procedure concorsuali, in Riv. dir.
priv., 3/2005, p. 508 ss., p. 514 s.) e dal disposto di cui all’art. 4 in tema di
escussione della garanzia.
Se ne trae quindi conferma dell’importanza che il legislatore annette
all’equivalenza tra ammontare del debito e quanto il creditore possa trattenere in
caso di escussione della garanzia: obiettivo cui è preposto anche l’art. 2744 c.c. (G.
D’AMICO, Alienazioni a scopo di garanzia, cit., p. 596 s.).
Analogo ridimensionamento alla portata del disposto dell’art. 2744 c.c. deriva da
quanto prescritto dall’art. 28, § 4, direttiva 2014/17/UE in tema di contratti di
credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali (il cui termine per il
recepimento è fissato al 21 marzo 2016). Difatti, la disposizione stabilisce che gli
Stati membri «non impediscono alle parti di un contratto di credito di convenire
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espressamente che la restituzione o il trasferimento della garanzia reale o dei
proventi della vendita della garanzia reale è sufficiente a rimborsare il credito»,
così sdoganando il «pagamento solutorio quale forma di estinzione alternativa
dell’obbligazione» (S. PAGLIANTINI, I misteri del patto commissorio, le precomprensioni
degli interpreti e il diritto europeo della dir. 2014/17/UE, cit., p. 195). Secondo la
dottrina una simile previsione del legislatore comunitario probabilmente deriva
dalla maggior fiducia accordata a forme di attuazione convenzionale del credito
rispetto a quella riposta nei confronti del procedimento di esecuzione forzata, che
spesso, a causa della sua inefficienza, non permette con quanto ricavato dalla
vendita del bene concesso in garanzia l’integrale soddisfacimento del creditore e la
liberazione del debitore (S. PAGLIANTINI, I misteri del patto commissorio, le
precomprensioni degli interpreti e il diritto europeo della dir. 2014/17/UE, cit., p. 196 ss.).
In conclusione, dal panorama normativo attuale, anche di ispirazione comunitaria,
risulta un atteggiamento di favor nei confronti degli strumenti negoziali che
contemplano forme convenzionali di attuazione coattiva del credito da parte del
titolare della pretesa, purché al debitore sia assicurata la restituzione dell’eventuale
eccedenza tra quanto dedotto in obbligazione ed il valore di realizzo del bene
posto a garanzia del credito. Benché, come pure è stato osservato dagli interpreti,
detto principio di proporzionalità non riesca a proteggere gli eventuali altri
creditori i quali vedono diminuita la garanzia generica di cui all’art. 2740 c.c.. Ne
discenderebbe, quindi, la conferma di un indebolimento del principio della par
condicio creditorum (S. PAGLIANTINI, I misteri del patto commissorio, le precomprensioni
degli interpreti e il diritto europeo della dir. 2014/17/UE, cit., p. 198).
In definitiva, alla luce degli interventi del legislatore comunitario, nonché dei
principi consolidati espressi da dottrina e giurisprudenza in tema di alienazioni a
scopo di garanzia e confermati dalla sentenza in rassegna, si può affermare che il
diritto vivente si muove nel senso di un superamento della visione del divieto del
patto commissorio quale «spirale onnivora» (A. MONTI, nota a Cass., 16 ottobre
1995, n. 10805, cit., in Foro it., 1996, I, c. 3492) e che l’interpretazione del divieto
come norma materiale rischia di rivelarsi una battaglia di retroguardia.
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Questa Nota può essere così citata:
A. LUNETTA, Divieto del patto commissorio, contratto di «sale and lease back» e autonomia
privata, in Dir. civ. cont., 22 gennaio 2016
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