Non vede quello che vedono tutti, e quello che

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Non vede quello che vedono tutti, e quello che
XIV Edizione
I Colloqui Fiorentini – Nihil Alienum
Umberto Saba “Ode la voce che viene dalle cose e dal profondo”
26 – 28 febbraio 2015, Firenze, Palazzo dei Congressi
TERZO CLASSIFICATO SEZIONE TESINA TRIENNIO
"NON VEDE QUELLO CHE VEDONO TUTTI, E QUELLO CHE NESSUNO VEDE ADORA"
Il sublime calato nell'umile in Saba
Studenti: Marta Costi, Giada Pinzauti
Classe V N del Liceo Internazionale Linguistico Statale "Machiavelli-Capponi" Firenze
Docente Referente Prof.ssa Cecilia De Meo
Motivazione: Un personale viaggio nella poesia di Saba, alla ricerca con lui delle "leggi elementari
della vita", un lavoro capace di validi raffronti anche con la grande tradizione cantautoriale
italiana. Saba risulta così un innamorato della vita "perché quando ci si innamora si amano sia i
pregi che i difetti dell'altro".
Siamo abituate a leggere libri di prosa e ci illudiamo che questa forma sia più appropriata per
esprimere il nostro mondo interiore o per ritrovarsi tra le parole di altri, come se le righe per
intero, una pagina zeppa di frasi, un periodare dilatato e dunque una maggior estensione della
scrittura traducessero meglio il vortice di emozioni che anima ognuno di noi.
Leggere i versi di Umberto Saba ci ha invece permesso di capire che proprio nella poesia l’io può
esprimersi al meglio e raccontarsi, cercarsi e ritrovarsi, dando vita a quelle parole in cui la prosa
finisce per farci perdere, se non addirittura annegare. Nelle sue poesie siamo costretti davvero a
guardarci dentro, anzi a scavare nel nostro quotidiano, a dare del tu ai nostri problemi in maniera
autentica e limpida, senza filtri.
Nietzsche, che Saba in Storia e cronistoria del Canzoniere definisce come “uno dei suoi
buoni maestri di vita”, affermava: “Vogliamo essere i poeti della nostra vita, e innanzitutto nelle più
piccole cose.”1; come vedremo, è proprio dalle piccole cose che Saba parte per osservare la vita, è
da esse che nascono le sue poesie.
Con questo lavoro vorremmo quindi far emergere quello che ci ha colpito di Umberto Saba,
ovvero la sua totale adesione alla vita nonostante la consapevolezza dell’inevitabile compresenza
di gioia e dolore che essa comporta. Il poeta si contrappone così all’atteggiamento pessimista o
rassegnato di tanti suoi contemporanei e predecessori e ci esorta a lasciarci stupire anche dalle
piccole cose: ciò che ci ha spinto ad analizzare questo amore incondizionato per la vita che Saba
grida in ogni verso, è proprio il modo in cui il poeta lo riscopre ogni volta negli aspetti più umili del
reale.
1
F. Nietzsche, “La gaia scienza”, p. 299.
Come traspare nei componimenti di Saba, la poesia è, infatti, qualcosa che già esiste dentro
tutti gli uomini: nascosta dall’abitudine, dalla superficialità, dalla noncuranza, “giace al fondo” 2. La
sua poesia è quotidianità resa sublime e non è fatta semplicemente di parole, ma di cose. Anzi di
cose divenute parole. Egli trova, infatti, le parole per afferrare ciò che è disperso nel quotidiano:
perché solo le parole rendono visibile l’invisibile; solo le parole possono esprimere la verità e
danno un senso a quel turbinio caotico di emozioni, desideri, paure, dolori, gioie che ci portiamo
dentro. La poesia di Saba è dunque uno sguardo privilegiato sulla vita, perché la percepisce, la
riassume, la comprende, la riscopre. Si tratta di una poesia concreta, di una realtà quotidiana che è
lo specchio multiforme in cui l’anima di tutti può trovare il proprio riflesso. La poesia dà vita alle
parole e alle cose che ogni giorno sono svilite, inaridite, indebolite e finiscono purtroppo con lo
spegnersi prima ancora che ci balzino agli occhi. Leggere i versi di Saba, sospesi nel bianco della
pagina, che non è vuoto, ma è il nostro silenzio in versione cartacea, ci costringe a riscoprire il peso
di ogni frase, di ogni parola, di ogni verbo, di ogni aggettivo. Spesso quei versi sono già scritti
dentro di noi, nelle leggi elementari della vita, e rappresentano su carta ciò che vibra silenzioso nel
nostro vivere quotidiano, ma a cui non prestiamo attenzione.
Dalla lettura del Canzoniere di Saba emerge chiaramente la consapevolezza che l’autore ha
della natura ossimorica della vita stessa: abbiamo, infatti, notato che l’ossimoro è la figura retorica
per eccellenza del poeta, perché è quella che meglio rappresenta anche formalmente la realtà che
le parole devono cogliere. In tal senso abbiamo constatato che il principio fondamentale della
poetica sabiana è il rifiuto della poesia quale mero esercizio accademico, sfoggio di artifici
linguistici e diletto fine a se stesso; da qui nasce la ricerca di Saba della chiarezza e dell'onestà.
Nella prefazione all'edizione del 1945 del Canzoniere, scritta da Debenedetti, si legge: “Vogliamo
solo far notare che il progressivo lento difficile chiarimento spirituale d’un uomo è insieme il
progressivo illimpidimento formale di un poeta. Chiarezza e limpidità che, appunto perché divenuti
poesia, non valgono solo per l’uomo che le ha, attraverso la pena e l’angoscia, raggiunte; ma anche
per tutti gli altri uomini ai quali egli, nel suo bisogno di amorosa vicinanza umana, le comunicava
come il solo “dono”, il solo contributo che egli – grato di qualche oasi di pace – potesse offrire alla
vita”3.
Capiamo dunque che la chiarezza e l'onestà che Saba persegue fanno sì che i suoi versi siano in
grado di stabilire un rapporto viscerale con la vita di tutti i giorni; infatti i suoi versi giungono con
immediatezza al cuore del lettore emotivamente sensibile, che può facilmente rapportare le
vicende evocate nelle poesie alla propria esperienza personale. Le parole apparentemente
semplici, banali, comprensibili a tutti sono così al centro dell’analisi sabiana, perché racchiudono
magistralmente l’essenza della vita di tutti gli uomini.
I componimenti della sezione Parole mettono infatti in luce sostantivi pieni di vita e verità,
che tendiamo però a pronunciare con superficialità, come se non conoscessimo più il loro
significato profondo o come se li avessimo manomessi. Così la poesia “Cuore” riassume in pochi
versi e con parole limpide l’attitudine di Saba verso il reale e la sua concezione dell’esistenza. Il
2
3
U. Saba, “Amai”, da Mediterranee.
“Prefazione dell’editore”, Il Canzoniere, Roma, Einaudi, 1945.
componimento si apre proprio con la parola “cuore”, ripresa ancora nel secondo verso: il cuore è
attanagliato “come in una morsa” dal dolore, sentimento che, come vedremo, caratterizza tutto il
percorso poetico e personale di Saba. Questo dolore provoca sofferenza, ma nonostante tutto lo
rallegra, in quanto è sinonimo di vita ed esprime tutto il suo bisogno di vicinanza umana: “Quale
angoscia non hai viva abbracciata, / vivo restando?”4.
L'onestà del poeta si rivela dunque nei confronti del proprio universo psichico, dei propri
sentimenti in modo da esprimerli senza freni inibitori, e allo stesso tempo essa lo aiuta a ricercare
il vero nella realtà che lo circonda. La scelta della poesia delle “piccole cose” coincide così con la
volontà da parte di Saba di fare della poesia lo strumento per esprimere onestamente la verità che
sta al fondo delle cose: questa verità sta al fondo perché è oltre le apparenze e le brutture della
storia e perché si trova nel mondo finito e umile, che alberga dentro di sé l'infinito e il sublime. La
conclusione di “Città vecchia”: "qui degli umili sento in compagnia/ il mio pensiero farsi/ più puro
dove più turpe è la via"5 esplicita questa scelta di poetica.
Saba infatti concepisce la poesia come un mezzo per esprimere i valori primari, e perciò
fondamentali, dell'esistenza. La purezza dipende perciò dall’onestà e dalla fedeltà del poeta verso
le ragioni profonde della vita: il "pensiero" può farsi "più puro" dove la via è "più turpe" perché
l'aggettivo "turpe", come il resto della poesia mostra, allude alla naturalezza e alla spontaneità
della vita, che solo l'ipocrisia borghese giudica negativamente. Si tratta della stessa ipocrisia
borghese cantata da De Andrè nell’omonima canzone “La città vecchia”: "Se tu penserai, se
giudicherai / da buon borghese / li condannerai [...] / ma se capirai, se li cercherai fino in fondo / se
non sono gigli son pur sempre figli / vittime di questo mondo"6.
Come De Andrè ci offre uno spaccato della Genova più umile, poiché la musica può
evocare, forse ancor meglio delle parole, quest’atmosfera di contrasti e stonature vitali, allo stesso
modo il realismo sabiano fotografa la città di Trieste e i suoi vicoli animati da prostitute, marinai,
soldati, vecchi, donne che litigano nella vivacità dei loro gesti quotidiani, che esprimono allo stato
più puro l'originario istinto vitale, cioè l'unica sacralità che il poeta è disposto a riconoscere e che
gli scalda il cuore. Questo bisogno di Saba di uscire da se stesso e di “vivere la vita di tutti”, alla
ricerca di una vicinanza umana, lo ritroviamo in vari componimenti poetici e a nostro parere, trova
la sua espressione più compiuta nella poesia “Il borgo”7. Qui immergersi nell’ istintiva vita del
popolo esprime il desiderio del poeta di annullare, condividendo la stessa condizione degli altri
uomini, il destino di diversità e di esclusione che segna la sua esistenza fin dall'infanzia, come si
evince dalle poesie giovanili, tra cui possiamo ricordare “A mamma”, in cui Saba evoca
l'incomunicabilità con la figura materna: "tu non vedi la luce che io vedo"8.
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U. Saba, “Cuore”, da Parole.
U. Saba, “Città Vecchia”, da Trieste e una donna (1910-1912).
F. de André, “La città vecchia”, 1965.
U. Saba, “Il borgo”, da Cuor morituro (1925-1930).
U. Saba, “A mamma”, da Poesie dell’adolescenza e giovanili, (1901-1907).
Dai versi de “Il borgo”: "La fede avere / di tutti, dire / parole, fare / cose che poi ciascun intende, e
sono, / come il vino e il pane, / come i bimbi e le donne, / valori / di tutti..." 9 capiamo che andare
verso il popolo, verso i bambini e le donne significa andare verso la vita e abbandonarsi ad essa,
per ritrovare un fanciullesco impulso al piacere di vivere e lasciarsi così travolgere da esso. Lo
stesso concetto di abbandono totale alla vita è espresso dai seguenti versi: "Spalanchi le finestre o
scendi tu / tra la folla: vedrai che basta poco / a rallegrarti: un animale, un gioco, / o, vestito di blu,
[...] un garzone con una carriola."10
Questo impulso innocente e istintivo alla vita torna quindi in varie poesie che evocano
l'immagine di un bambino: è il caso del giovinetto descritto durante una partita di pallone,
affrontata come una guerra senza esclusione di colpi: "Tu stai sul prato come un dio in esiglio / sta
sulla terra. [...] Al compagno nella finta guerra / parli sommesso e ridere ti ascolto. La guerra è
intorno ad una palla enorme, / che si lancia col piede".11 La spontaneità del fanciullo, totalmente
animato dalla vita, diventa tutt'uno con la bellezza del paesaggio che meraviglia il poeta,
sconvolgendolo positivamente: "Scende intanto la sera, e tinge in rosa / le nubi [...] / la sua
bellezza con la tua si sposa."12 La bellezza di cui è emblema il bambino è l'amore spassionato e
irresistibile verso la vita: proprio in questo componimento, per la prima volta Saba allude ad "una
malinconia quasi amorosa" che gli trabocca dal cuore, una malinconia che in “A mamma” 13 era
"sottile". È una prima reazione di stupore e amore, che nasce dal dolore, verso tutto ciò che esiste
e lo fa esistere: è l'abbozzo di quell'abito che ancora non è su misura per lui, ma che col tempo,
grazie alle esperienze vissute e alle persone incontrate, il poeta imparerà a cucirsi addosso per
aderire totalmente alla vita.
E’ proprio il sentimento della malinconia amorosa, a nostro avviso, il filtro che permette a
Saba di andare al di là delle apparenze e di trovare la verità assoluta nel mondo finito: questa
nostra ipotesi ha preso concretezza dalla lettura della poesia "La malinconia amorosa", contenuta
in Trieste e una donna14. Ogni strofa si apre con un'invocazione alla malinconia amorosa: all'inizio
"del nostro cuore", dunque in relazione al genere umano di cui Saba si mostra innamorato, alla fine
"della mia vita", dunque in relazione all'autore stesso. La malinconia amorosa è capace di mettere
in relazione "un dolce pensiero" ad "un'amara rimembranza": fa sì che per un attimo qualcosa
brilli, persino nel grigiore della noia e nel buio della sofferenza. In particolare, si tratta di un
sentimento profondamente privato: "cura secreta", "fervore solitario", "sempre intima e cara".
Essa è presente, in maniera silenziosa, nel giovane commesso che, da dietro il bancone della
bottega in cui lavora, guarda sognante le signore scegliere le stoffe, oppure essa può manifestarsi al
massimo grado come "tormento oscuro" nel sognatore assetato di bellezza che non si rovina. Il
sognatore infatti sa guardare oltre, verso le stelle e al di là delle apparenze: consapevole che la vita
è una realtà ossimorica impregnata di "amore" e "strazio", una realtà che sfonda gli equilibri,
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U. Saba, “Il borgo”, da Cuor morituro (1925-1930).
U. Saba, “Il garzone con la carriola”, da La serena disperazione (1913-15).
U. Saba, “Il giovanetto”, da Trieste e una donna (1910-1912).
U. Saba, “Il giovanetto”, da Trieste e una donna (1910-1912).
U. Saba, “A mamma”, da Poesia dell’adolescenza e giovanili (1901-1907).
U. Saba, “La malinconia amorosa”, da Trieste e una donna (1910-1912).
"vicino alla follia". È dunque un cammino difficoltoso, metaforicamente "lunga erta sassosa", pieno
di "luoghi oscuri", in cui giungono bagliori di luce dalle fonti più impreviste che solo l'uomo che
"ama" e "va", guarda e "adora", sa cogliere.
Questa “lunga erta sassosa”, questo cammino difficoltoso che è la vita, trova, secondo noi,
la sua metaforica rappresentazione nella montagna. Considerando l’esperienza della guerra fatta
da Saba ed i suoi luoghi natali, i paesaggi che ha da sempre avuto sotto gli occhi, ci è venuto
spontaneo associare alla poetica di Saba una lunga passeggiata in montagna: la fatica che si fa per
raggiungere la meta appare talvolta insopportabile, ci può portare a desiderare solo di fermarci e
tornare indietro, ma per quelli che riescono a compiere tale fatica il risultato è impagabile. La
sensazione che si prova, una volta arrivati in cima alla montagna, lenisce tutta la sofferenza patita
per salire: quell’aria limpida, meritata con dolore, che adesso può essere respirata a pieni polmoni,
insieme al panorama incantatore che cattura lo sguardo e che necessita di essere guardato,
lasciano l’uomo soddisfatto per aver superato il proprio limite, felice cioè di aver fatto quella fatica:
Saba, in “Dopo una Passeggiata”, scrive che “la vita tanto sangue costa/ e tanta inusitata gioia
rende”15. Sant’Agostino, già nel V secolo d.C., affermava che “chi ama non fa fatica e, se la fa, ama
la fatica che fa”16, Saba quindi, nonostante tutto, ama la fatica che si fa per vivere. Il sudore è
necessario per raggiungere la vetta ed il poeta lo sa bene, ma sa anche che ne vale la pena. In
nome della propria adesione alla vita, la sofferenza è giustificata e sopportata con onore, alla luce
delle porte che essa apre. Sempre come espressione di una realtà ossimorica, possiamo affermare
che la sofferenza è la chiave per la felicità, in quanto colui che non è in grado di accettare la fatica
non sarà mai in grado di vivere pienamente e non arriverà mai alle alte vette che la vita promette a
patto di avere la lealtà di stare davanti al proprio cuore.
Il desiderio dell’uomo è uno dei temi più grandi della letteratura di sempre, perché è ciò
che accomuna ogni uomo, ed ogni scrittore o poeta ha cercato di proporre il proprio modo per
affrontarlo. Saba decide di guardarlo in faccia, di stare davanti al proprio desiderio e di accettarlo
con tutto ciò che esso può comportare: "Tutto è bello / anche l'uomo e il suo male, anche in me
quello / che m'addolora."17 Non decide di soffocare le proprie aspirazioni anzi, le urla a pieni
polmoni e le ricerca nei minimi dettagli, anche nei più insignificanti aspetti del reale. Come si
chiede Abu’l-Qasim Al Shabbi, “rifiutare le alte vette non è vivere per sempre nel fossato?”18
Saba non le rifiuta queste vette, le accoglie come obiettivi e si impegna a raggiungerle rimanendo
sempre leale al proprio desiderio e senza scappare dalla sofferenza alla quale si espone. È proprio
questo che ci ha colpito di Saba, la capacità di fare della sua visione ossimorica della realtà non un
motivo di sfiducia in essa bensì la fonte primaria della meraviglia che lo spinge a guardare la vita
con occhi sempre nuovi. Il poeta ricerca questa meraviglia anche in ciò che a prima vista non ha in
sé niente di poetico.
Leggendo il Canzoniere ci siamo poi chieste cosa potesse meravigliare il poeta in una gatta,
in un uccello, in una capra, in una bambina che si taglia i capelli. Apparentemente niente, eppure
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U. Saba, “Dopo una Passeggiata”, da Trieste e una donna (1910-1912).
Sant’Agostino, De bono vid., 21-26.
U. Saba, “Canzonetta II” da Preludio e canzonette (1922-1923).
Abu’l-Qasim Al-Shabbi, “Vivere”, 1933.
Saba è stato capace di scrivere poesie anche su questi e allora, analizzando e leggendo queste e
altre poesie, siamo arrivate alla stessa conclusione: siamo davanti ad un autore innamorato della
vita. “Innamorato”, perché quando ci si innamora si amano sia i pregi che i difetti dell’altro: Saba
ama la vita a tal punto da cantare questo amore perfino nei versi militari. Accanto ad un Ungaretti
che davanti alle atrocità della guerra è portato ad affermare che “anche il cielo stellato finirà” 19 è
forte l’impatto con Saba che, anche dopo aver affrontato una guerra mondiale, scrive: “e vidi,
come al cielo gli occhi apersi, / tra fumo e scoppi su di noi l’aeroplano. / Vidi macerie di case in
rovina, correr soldati come in fuga spersi, / e lontano lontano la marina”20. In questi versi emerge,
accanto alla disperazione che la guerra suscita nel poeta, un’attenzione ancora viva per il bello, per
la vita: il poeta ha ancora la forza di guardare il cielo e il desiderio di scorgere, dietro alle macerie, il
mare.
Questa fatica e l’ansia di vivere del poeta emergono in quasi tutte le poesie, soprattutto in
relazione al suo attaccamento alla vita. Ne è un esempio significativo “Secondo Congedo”, in cui
Saba scrive “o mio cuore dal nascere in due scisso,/ quante pene durai per uno farne! / quante
rose a nascondere un abisso!”21. In questi tre versi è racchiuso il desiderio del poeta di adesione
alla vita nonostante l’“abisso” che essa rivela sotto le “rose”. Saba afferma che la scissione
dell’animo umano è inevitabile, è una condizione esistenziale dell’uomo, al quale non resta dunque
che sforzarsi di ritrovare l’unità nella realtà che la vita offre.
L’ossimoro gioia/dolore è una costante nella poetica di Saba che parte da questa scissione
di fondo che egli percepisce nel proprio animo e della quale fa il proprio punto di forza: Saba è
consapevole dell’ambiguità della natura umana e delle due facce della realtà che la circonda ma la
sua non è un’accettazione rassegnata, poiché accetta il dolore come parte integrante e nobilitante
della gioia, della vita stessa.
Come abbiamo visto, è proprio la malinconia amorosa che gli permette di riappacificarsi
con la vita; questo sentimento in divenire lo ricollega all'infanzia per la spontaneità e per la vivacità
che la contraddistinguono e fa sì che il fanciullo appassionato concepisca la casa paterna e la scuola
come carceri che lo obbligano a ridimensionare i propri sogni, le proprie prospettive, i propri
desideri. La malinconia amorosa è infatti la capacità potenziale, in nuce, di comprendere l'essenza
della realtà: "Un indistinto ancor bisogno / di esplorare più addentro"22.
Ognuno di noi dovrebbe coltivare questa capacità di andare oltre, di immaginare, di approfondire,
di filtrare, di discernere. Leopardi, del quale Saba era un grande lettore ed estimatore,
probabilmente parlerebbe di doppia visione, cioè di uno sguardo che va al di là di ciò che è
manifesto: "All'uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo
di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi
una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d'una campana; e nel tempo stesso
coll'immaginazione vedrà un'altra torre, un'altra campagna, udrà un altro suono"23.
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G. Ungaretti, “Dannazione”, da L’Allegria, 1931.
U. Saba, “Sognavo al suol prostrato”, da Poesie scritte durante la guerra.
U. Saba, “Secondo Congedo” da Preludio e fughe.
U. Saba, “Il fanciullo appassionato”, da Trieste e una donna (1910-1912).
G. Leopardi, Zibaldone [4418].
Non si tratta di un'immaginazione fine a se stessa, bensì della capacità umana di spingersi oltre i
limiti e le apparenze, al fine di comprendere l'aletheia di ogni cosa e di ogni persona. Sta poi al
singolo scegliere di coltivarla, rimanendo fedele a questa natura.
Anche Pirandello ci esorta a guardare oltre, a cercare la vita oltre la forma. Eppure, vista la
sua visione estremamente pessimistica, egli ritiene che la vita “non concluda”; nel romanzo “Il fu
Mattia Pascal”, con la metafora dello strappo nel cielo di carta, egli smaschera la vita come finzione
assurda e paradossale, che frantuma le persone in personaggi inetti e riduce la vita ad un
meccanismo inumano e grottesco. Per Pirandello "la vita è una enorme pupazzata"24 ed è
interessante notare come negli stessi anni il punto di vista di Saba sia nettamente differente.
Saba è convinto che la vita “si realizzi”, e dunque “concluda”, in ogni piccola cosa: come se la verità
eterna fosse la somma di innumerevoli, o meglio infiniti, frammenti di verità relativa che si
disperdono nella semplicità di tutti i giorni e che l'uomo che "non vede quello che vedono tutti, / e
quello che nessuno vede adora" riesce a cogliere.
Tale verità va letta, compresa ed interpretata tramite il cuore, riuscendo ad afferrarla per un baleno
in ogni piccola cosa. Vive nella ragazza innamorata che accarezza la propria gattina: "non la senti
vibrare come un cuore/ sotto alla tua carezza?"25; a farsi strada e vibrare, leggera, sotto al rumore
dell'abitudine, è la verità stessa. Anima la bambina che piange e si dispera perché il parrucchiere le
ha appena tagliato i capelli: "chi vede te vede una primavera"26, afferma Saba riferendosi alla
pienezza di vita di cui è portatrice la piccola. Vive nel "pilota con la moglie incinta"27 e nel "giovane
barista", che compie ogni azione quotidiana "come un trionfo"28.
Saba ci insegna dunque a non limitarsi a vedere la realtà, ma a guardarla. Così in
"Meditazione" dichiara: "Guardo e ascolto però che in questo è tutta/ la mia forza: guardare e
ascoltare"29.
Vale davvero la pena soffermarsi ad analizzare la pienezza del verbo "guardare", in netto contrasto
con il verbo "vedere", perché questo confronto può aiutarci a riflettere sullo sguardo che
quotidianamente rivolgiamo alla realtà che ci circonda e agli altri.
Vedere qualcosa significa fermarsi all'apparenza, guardare significa invece rivolgere
coscientemente lo sguardo verso qualcosa o qualcuno, significa andare oltre, cercare l'essenza di
ogni cosa e fare perciò a brandelli “il velo di Maya” sotto cui si cela la verità. Allo stesso modo,
l'ascoltare differisce dal sentire: l'ascolto presuppone infatti l'interesse, l'attenzione, la
partecipazione. Saba ci ha fatto pensare che debba essere il cuore stesso, organo vitale per
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L. Pirandello, Lettera alla sorella Lina, 1886.
U. Saba, “La gatta”, da Trieste e una donna (1910-1912).
U. Saba, “La fanciulla”, da Trieste e una donna (1910-1912).
U. Saba, “Dopo la tristezza”, da Trieste e una donna (1910-1912).
U. Saba, “Sobborgo”, da Parole (1933-1934).
U. Saba, “Meditazione”, da Poesia dell’adolescenza e giovanili, (1901-1907).
eccellenza, a prendere contemporaneamente la forma di un occhio e di un orecchio: se si guarda e
se si ascolta, lo si può fare solo attraverso il cuore, poiché come Saba stesso afferma in "Dopo la
giovinezza": "l'amor che ci fa nostri anche delusi,/ e quando canta, canta ad occhi chiusi"30.
Un monito simile è contenuto anche ne "Le Petit Prince" di Antoine de Saint-Exupéry: lo scrittore
francese, tramite il celebre disegno dell'elefante nel cappello contenuto nel capitolo I, ci esorta a
non focalizzarci sulle apparenze inconsistenti del mondo, a guardare oltre poiché "On ne voit bien
qu'avec le coeur. L'essentiel est invisible pour les yeux."31
Effettivamente troppo spesso abusiamo della vista: tutto ciò che è osservato, o anche solo
incrociato di sfuggita, ci sembra di averlo già analizzato e l'esteriorità sembra la sola certezza per
conoscere qualcosa o qualcuno. I ricordi stessi sono spesso conservati nella nostra memoria sotto
forma di immagini che il tempo storpia, cambia, modella... immagini che ci riportano a momenti
passati il cui il ricordo ci fa stare bene o ci ferisce, dipende dai casi e dalle circostanze. Questo
dolore che tutti noi ci portiamo dentro, in maniera più o meno amplificata, segna tutta l'esistenza
di Saba e quella di ogni uomo: d'altronde la vita stessa è sofferenza e chi non ha sofferto, non ha in
realtà mai vissuto. Come affermava Leopardi, l’esperienza della vita non può che partire dal dolore,
la vita per essere sentita davvero deve passare attraverso i sensi. Ci accorgiamo così che non è un
caso che Saba in "Dopo la giovinezza" faccia rimare le parole "ferita" e "vita": rendersi vulnerabili, e
dunque permettere che chi amiamo ci possa ferire, significa di conseguenza lasciarsi andare,
buttarsi, vivere. Per noi, per Saba, per ogni uomo. Perché partendo dalla certezza che la vita è una
lunga sequela di ossimori, anche l'amore è inevitabilmente sofferenza e viceversa.
Poesia dopo poesia, notiamo che Saba riesce a trovare la verità e riesce a rimanere leale al
proprio cuore anche nelle situazioni di sofferenza assoluta; abbiamo perciò capito che il perdono è
uno dei valori che permettono al poeta di comprendere il paradosso della vita e di rimanere
attaccato ad essa.
Saba, grazie alla “malinconia amorosa” e alla potenza del proprio guardare la realtà, arriva a
comprendere la finitezza e l’imperfezione della natura umana, tanto da perdonarla. È per questo
che in tutti i suoi versi è sempre celata una scintilla di amore, un elemento rivelatore dell’adesione
incondizionata alla vita del poeta, così come nei versi dedicati all’amore, in cui Saba continua ad
esaltare il sentimento nonostante tutto il dolore che gli causa nel corso della propria vita.
È proprio il dolore che ci portiamo dentro che ci permette di riscoprire amica "la verità che giace al
fondo", che Saba ama e ricerca nel vivere quotidiano, fra le cose ordinarie: "io ritrovo, passando,
l'infinito/ nell'umiltà."32. Come abbiamo visto, si tratta di una verità che si trova oltre le apparenze,
ma comunque nel mondo finito e umile che ha in sé l'infinito e il sublime.
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32
U. Saba, “Dopo la giovinezza”, da La serena disperazione (1913-15).
Trad. “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi” – A. de Saint’Exupéry, “Le petit
prince”, collection Folio, 1999.
U. Saba, "Citta Vecchia", da Trieste e una donna (1910-1912).
Così nei versi di Saba abbiamo ritrovato all'ennesima potenza la pienezza della semplicità,
l'invisibile che ci portiamo dentro e il visibile che tendiamo ad ignorare. In Saba abbiamo percepito
fin dalla prima lettura uno slancio di sincero e irresistibile amore verso tutto ciò che esiste e ci fa
esistere. Un uomo che guarda e ascolta; un uomo che si lascia pervadere dalla bellezza delle
piccole cose, rendendo piena e vera ogni parola che scrive.
È proprio per questa ragione che abbiamo trovato le motivazioni che ci hanno spinto a
comprendere l'essenza della sua poesia, ma soprattutto del suo modo di concepire l'esistenza:
come può un uomo qualunque, un uomo ordinario, un uomo semplice dare importanza alle cose di
cui nessuno di solito si accorge, abbandonandosi senza freni alla vita? Cos'è che fa sì che oda "la
voce che viene dalle cose e dal profondo"33?
Questa voce gli permette di trovare dentro di sé una scintilla di amorosa fratellanza con gli altri
uomini, la linfa della vita stessa. In “Fantasia” Saba afferma: “Io che ho messo lo sguardo fino in
fondo / al mio cuore, al mio triste cuore umano”34. Questo sguardo che scava nell’essenza fa sì che
egli “come la schiuma sul mare galleggi / sulla vita”35. E come si fa ad imparare? Come fare, oggi,
ad amare pienamente e sinceramente tutto ciò che ci circonda e noi uomini, per vivere senza
riserve? Saba ci ha insegnato che la vita non è mistero, la vita non è trascendente, non è fuori dalle
capacità cognitive dell’uomo: la vita è quanto di più contingente possa esserci, la vita è tutti gli
uomini che la amano. E a queste nostre domande Saba sembra rispondere: “hic et nunc”. Come se
in ogni poesia, in ogni verso, in ogni parola ci dicesse che la vita è proprio qui, adesso. Nei gesti che
consideriamo normali perché ci accompagnano strada facendo, ma proprio per questo ci fanno
sentire a nostro agio giorno dopo giorno, e che noi magari non valorizziamo, impegnati come
siamo nella ricerca di qualcosa di sublime ed eccezionale. Senza accorgerci che ciò che vogliamo di
più è ciò verso cui i nostri occhi sono attratti ogni giorno: chi ha imparato ad amare ciò che lo
circonda, possiede tutto ciò di cui ha bisogno per vivere e non sente l’esigenza di desiderare altro.
Saba ci esorta ad aderire con slancio alla vita e ad abbracciare la bellezza che non si rovina;
questa Bellezza è casa ovunque egli sia, quasi una sorta di patria tascabile. È la Bellezza che
illumina gli occhi di Saba nella poesia Ulisse, simbolo della volontà umana di esplorare l'ignoto,
anche a costo di esporsi a pericoli: "isolotti / a fior d'onda emergevano"36.
Per Dante nel XXVI canto dell'Inferno il desiderio di conoscenza deve essere sorretto dalla
Grazia divina, altrimenti si trasforma in un atto di superbia destinato al fallimento e il naufragio di
Ulisse non è quindi una punizione, ma l'affermazione dei limiti che l'uomo non può oltrepassare
con le sue sole forze; per Saba, invece, Ulisse diventa un eroe esemplare. Egli sa infatti cogliere la
Bellezza nel mondo e questa Bellezza niente e nessuno può portargliela via o deturparla, anche
Saba ha imparato a coglierla facendo propria la malinconia amorosa come scandaglio del reale;
dunque, né l'infanzia rubata, né gli amori tormentati, né le due guerre mondiali possono affievolire
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U. Saba, “Il pomeriggio”, da Trieste e una donna (1910-1912).
U. Saba, “Fantasia”, da Parole.
U. Saba, “Fantasia”, da Parole.
U. Saba, “Ulisse”, da Mediterranee.
questo amore per la vita che ormai l'ha pervaso: “me al largo / sospinge ancora il non domato
spirito, / e della vita il doloroso amore”37. Anzi, questo dolore rende la Bellezza ancora più piena e
desiderata. Lo slancio di Saba verso di essa si fa via via più sincero, perché lui questa patria ha
imparato a frequentarla ogni giorno, nel silenzio.
Questa patria non è necessariamente un luogo fisico determinato, "oggi il mio regno/è
quella terra di nessuno"38, ma piuttosto è la Bellezza inaspettata che gli fa visita nel bel mezzo della
routine quotidiana e ovunque la vita ordinaria riesca a sorprenderlo.
Anche noi vorremmo trovarla questa Bellezza: lasciamo che venga lei a trovarci, ma presteremo
attenzione e l'aspetteremo. È Saba che ci ha insegnato a farlo. Arriverà per strada, nel bel mezzo di
una notte oscura in cui non riusciamo a prendere sonno, mentre passeggiamo sui lungarni per
arrivare a scuola, negli occhi di chi amiamo, nelle voci rassicuranti delle nostre amiche del cuore.
L'aspetteremo e soprattutto saremo in grado di riconoscerla, adesso che siamo consapevoli che la
vita è una realtà ossimorica, paradossale e dunque ogni esperienza, anche la più dolorosa, ci farà
crescere e ci renderà migliori. Coglieremo insieme a Saba la perfezione di cui nessuno si accorge,
per stupirci di ciò che agli altri risulta scontato: noteremo i dettagli, scaveremo nell’essenza delle
cose e degli altri. Perché in base a come guardiamo (o nella peggiore delle ipotesi, vediamo) la
realtà, si può comprendere l'approccio che adottiamo nelle relazioni con gli altri: se gli occhi non ci
brillano di fronte a un tramonto o a un cielo stellato o all'infinito del mare, probabilmente non ci
brilleranno mai e allora avremmo sprecato la nostra esistenza, l'avremmo resa piatta. Invece è
necessario fare delle nostre vite un capolavoro, impegnarsi quotidianamente per non omologarsi a
ciò che la società massificata ci impone, ma decidere progressivamente ciò che vorremmo
diventare: ed è proprio vero che anche in questo la vita si mostra pienamente nostra, perché ci
permette di scegliere il percorso che vogliamo intraprendere.
Anche Calvino riconosce all’uomo la possibilità di scelta nella conclusione del romanzo “Le
città invisibili”; ci sono infatti due modi per vivere in società e due percorsi possibili da seguire, ma
solo uno di questi ci permette di non cadere nella superficialità, ossia: “l'inferno dei viventi non è
qualcosa che sarà: se ce n'è uno, è quello che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne
parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento
continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare,
e dargli spazio”39.
Lo stesso Saba ci insegna a cercare un’angolazione tutta nostra per guardare la realtà con
occhi critici, con la consapevolezza che il futuro è il frutto delle scelte passate, di ciò che siamo
stati, di come abbiamo affrontato gli ostacoli con cui ci siamo scontrati. Il futuro ci sembra ancora
così lontano, ma in realtà abbiamo già iniziato a costruircelo.
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U. Saba, “Ulisse”, da Mediterranee.
U. Saba, “Ulisse”, da Mediterranee.
I. Calvino, “Le città invisibili”, 1972.
E come abbiamo capito in questo percorso di analisi, solo il sentimento che Saba definisce
"malinconia amorosa" ci permette di guardare il mondo da prospettive inedite: di non vedere
quello che vedono tutti e di adorare quello che nessuno vede.