Ai - Sissco

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I LIBRI DEL 2007
Maria Vittoria Adami, L’esercito di San Giacomo. Soldati e ufficiali ricoverati nel manicomio veronese (1915-1920), Padova, Il Poligrafo, 284 pp., € 23,00
A partire da un paziente e complesso scavo documentale, che ha toccato le cartelle cliniche dei ricoverati, Adami analizza le vicende dei militari degenti durante la Grande guerra
presso il manicomio veronese di San Giacomo di Tomba. Le schede mediche offrono in tal
senso uno spaccato della partecipazione degli italiani alla guerra, contenendo tanto le anamnesi dei ricoverati, quanto la corrispondenza del degente, della sua famiglia, delle istituzioni
coinvolte. Basandosi sull’abbondante materiale documentario, l’a. ricostruisce e interpreta tali ricoveri, da annoverare nel più ampio spettro del rifiuto della Grande guerra: non a caso i
punti di riferimento del volume sono i lavori di Leed e Gibelli, opportunamente scelti come
chiavi investigative. Che si trattasse di un piccolo esercito, come recita il titolo, non ci sono
dubbi: furono circa 800 i militari affetti da turbe e da «malattia» mentale che passarono nel
manicomio di Verona, con gli esiti più disparati, talvolta la morte in ospedale, talvolta l’ottenimento del congedo e il ritorno, guariti, alle famiglie. Emerge con chiarezza come i militari
rinchiusi a San Giacomo vivessero nella loro follia l’«impossibilità» della guerra di trincea, manifestando nelle loro alterazioni mentali (di cui sono fedele testimonianza le lettere e le anamnesi) l’inferno del conflitto bellico. Pervasi da deliri di persecuzione, scatenanti talvolta un misticismo religioso, i degenti esprimevano tutte le gamme di rifiuto della guerra, muovendosi
attorno due poli antitetici di riferimento, quello della trincea e quello famigliare. Il ricco apparato documentale, riportato con intelligenza tanto nel testo che in appendice, consente al
lettore di ricostruire la vita nel manicomio veronese, le turbe dei ricoverati, i desideri di ritorno ad una, ormai impossibile, normalità. L’a. investiga anche il rapporto tra autorità militari
e psichiatria manicomiale, evidenziandone differenti obiettivi e pratiche. Per Adami la psichiatria manicomiale non aderì sic et simpliciter alle richieste dei comandi militari, anche perché si riconosceva in un distinto orizzonte concettuale. Tra le righe, gli psichiatri veronesi rimproveravano al Regio Esercito di non compiere un’adeguata selezione in sede di visita di leva,
inondando le trincee di soggetti «tarati» e con malattie mentali latenti. Quello della predisposizione individuale alla follia, di cui la guerra non era che un fattore scatenante, diveniva così il Leitmotiv della diagnosi dei medici veronesi, saltando a piè pari tutta la discussione sulla
possibile simulazione dei soldati, vera e propria ossessione dei comandi e dei medici militari.
Sembra però eccessivo vedere uno scollamento così marcato tra direttive dell’esercito (per altro non così univoche) e operatori manicomiali i quali, in fin dei conti, aderivano allo stesso
universo di valori. Per completare il quadro manca dunque nel volume il riferimento alla più
aggiornata bibliografia sul tema dell’eugenetica prima e dopo la guerra (Cassata e Mantovani) indispensabile a collocare in un contesto più ampio le ambiguità dei medici manicomiali
veronesi.
Massimo Moraglio
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I LIBRI DEL 2007
Goffredo Adinolfi, Ai confini del fascismo. Propaganda e consenso nel Portogallo salazarista
(1932-1944), Prefazione di Antonio Costa Pinto, Milano, FrancoAngeli, 245 pp., € 21,00
In un panorama culturale connotato da scarsissimo interesse per la storia e la storiografia
portoghesi, questo libro di Goffredo Adinolfi rappresenta una felice eccezione, non solo perché il tema che tratta è frutto di una ricerca originale ma anche per l’attenzione che ha l’a. nel
mettere in relazione fatti ed eventi portoghesi con l’esperienza fascista italiana ed europea.
Il volume si snoda in quattro capitoli che analizzano l’ascesa del salazarismo, il modo in
cui l’Estado novo si consolida, l’ermergere del Segretariato per la propaganda nazionale tra le
istituzioni del regime, il modo in cui si esprime il totalitarismo salazarista e il rapporto tra questo regime e la guerra mondiale, cui il Portogallo non partecipa.
In questo contesto, il cuore del volume è costituito dall’analisi del Segretariato per la propaganda nazionale, diretto da un ammiratore entusiasta del fascismo italiano (ed autore di un
libro di interviste ai maggiori dittatori degli anni ’20), Antonio Ferro. Adinolfi mostra come
l’attività di questa istituzione, volta al controllo dell’informazione, dell’utilizzo della radio, di
riogranizzazione della stampa di provincia e alla diffusione di un cinema di regime – tutto ciò
che poteva trasformare il regime in una struttura capillarmente presente nella società portoghese – si sia risolta spesso in un fallimento senza però essere per questo meno importante nel
delineare le aspirazioni e le tensioni interne al regime salazarista. La stessa esistenza di questo
istituto, come pure le tensioni tra politica tradizionale e di nazionalizzazione delle masse, e
quelle tra una società in via di modernizzazione e una più statica, portano a ridefinire la questione del salazarismo come regime autoritario tradizionale, cosa che del resto una parte della storiografia più avvertita ha cominciato a fare da vari anni.
A partire da queste considerazioni, l’a. giunge alla conclusione che sebbene la costruzione del consenso e della nazionalizzazione sia senz’altro un punto debole nel regime di Salazar,
esso fu senz’altro organico e corporativo e totalitario, per il suo rendere il dittatore l’agente politico capace fin da subito di subordinare la Chiesa, autonomo dalle tensioni e dalle pressioni
di un partito massa e non legato ad alcun potere monarchico. Interessante, anche se problematica, appare la scelta dell’a. di porre il suo sguardo su un organismo fallimentare della politica di nazionalizzazione del salazarismo, senza per questo dedurne una meno forte appartenza di quel regime ai fascismi e ai totalitarismi tra le due guerre. Proprio a partire da questo
riposizionamento rispetto alle definizioni di totalitarismo, avrebbe potuto discendere un ripensamento più complessivo di quella categoria, oppure un abbandono della stessa in una fase in cui, anche se il significato ideologico di questa categoria si va annacquando, essa appare
comunque, e anche a partire da questo volume, problematica.
Giulia Albanese
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I LIBRI DEL 2007
Salvatore Adorno, Gli agrari a Parma. Politica, interessi e conflitti di una borghesia padana
in età giolittiana, Reggio Emilia, Diabasis, 271 pp., € 28,00
Il volume è il prodotto di una tesi di dottorato realizzata ormai quasi vent’anni fa e mai
integralmente pubblicata. La scelta di proporre la stesura originale – bibliograficamente aggiornata e corredata da una Introduzione tesa a collocarne la struttura nel quadro dell’evoluzione del dibattito storiografico – non solo non pregiudica il risultato complessivo, ma offre
la possibilità di ripercorrere temi e approcci di una stagione di studi ricca e innovativa, collocabile tra la metà degli anni ’80 e la metà degli anni ’90 del secolo scorso. Una congiuntura al
cui interno il lavoro di Adorno si inserì a pieno titolo, partecipando al dibattito attraverso la
pubblicazione di anticipazioni su alcuni dei nodi problematici e interpretativi di fondo.
Si trattò di una stagione di studi che – partendo dall’interesse per le borghesie e aristocrazie europee – si snodò lungo percorsi e itinerari complementari: le indagini sulla consistenza
e la dinamica patrimoniale dei ceti possidenti, la costruzione di reti di relazioni socio-economiche intrecciate alla propensione all’innovazione tecnologica e organizzativa, la formazione
e il funzionamento di gruppi di interesse agrario all’interno dello scenario più complessivo
delle dinamiche delle rappresentanze degli interessi locali, le indagini sulle attività dei municipi; e si potrebbe continuare a lungo.
Si tratta di una agenda di temi nettamente individuabili a partire dall’indice stesso del libro. All’interno di questa trama l’a. è attento a valorizzare gli elementi di novità rappresentati dalla situazione parmense: dal ruolo pionieristico della Associazione agraria nella difesa degli interessi economici degli associati, che passa attraverso la scelta di un indirizzo produttivistico e la valorizzazione di figure di portatori di saperi tecnici e scientifici essenziali per la modernizzazione della agricoltura, ma al tempo stesso mediatori non neutrali dei rapporti tra ceti proprietari e lavoratori; all’intreccio tra agricoltura e industria di trasformazione e alla creazione di una élite di figure miste di agricoltori-industriali; all’aspirazione dell’Agraria parmense a costituirsi in autonomo partito politico all’interno del blocco conservatore finendo per
connotare in alcuni momenti il diverso colore politico tra il Comune capoluogo – retto da
una alleanza di blocco democratico – e la Provincia – caratterizzata da precoci esperienze clerico-moderate – come una dialettica tra interessi urbani e interessi agrari; all’emergere – a partire dal 1908 – di una forte tendenza egemonica anche tra la borghesia industriale, commerciale e professionale grazie alla capacità dimostrata nel produrre ricchezza e garantire stabilità
sociale; per finire con il fallimento del progetto egemonico sul piano della competizione elettorale alla vigilia della guerra e a ridosso di un sensibile aumento della conflittualità sociale.
Attraverso l’assunzione a soggetto centrale di una élite agraria, il volume tratteggia in
realtà – ed è questo sicuramente il pregio maggiore anche a distanza di tempo – un modello
di funzionamento di una realtà che va ben oltre la dimensione locale.
Emma Mana
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I LIBRI DEL 2007
Michele Alacevich, Le origini della Banca mondiale. Una deriva conservatrice, Milano,
Bruno Mondadori, XXI-261 pp., € 24,00
Chi si avvicinasse a questo studio per conoscere «le origini della Banca mondiale», così
come riportato nel titolo, ne resterebbe deluso. Il volume parla della Banca internazionale per
la ricostruzione e lo sviluppo, ma si concentra esclusivamente sulla filosofia del suo operato
nel corso degli anni ’50 quando, suo malgrado, fu costretta a passare dall’accento posto sulla
ricostruzione europea ad uno posto sullo sviluppo. L’editore ha probabilmente imposto una
titolazione riguardante il tema delle «origini» con l’intento di allargare il pubblico di uno studio molto sofisticato e analitico. In realtà l’oggetto del libro è quella «deriva conservatrice» alla quale si accenna nel sottotitolo, che si sarebbe arrestata solo attorno alla metà degli anni ’60
con il passaggio, anche all’interno dell’istituzione, a una concezione più ampia dello sviluppo. All’a. interessano la «preistoria dello sviluppo» (p. XV) e le diverse visioni strategiche che
si confrontarono all’interno della stessa Banca e nella nascente disciplina dell’economia dello
sviluppo e che, insieme al legame dei dirigenti della Banca con l’ambiente finanziario di Wall
Street e alla necessità di affermarsi come credibile istituzione creditizia per raccogliere capitali privati, contribuirono a formare una politica della Banca basata sul finanziamento di singoli progetti «produttivi», piuttosto che sul finanziamento di piani più generali che potessero
coinvolgere anche la dimensione sociale dei paesi in via di sviluppo.
Per spiegare tali aspetti, nonché il loro rapporto con il funzionamento di una burocrazia
internazionale, l’a. ricorre alla sociologia, all’economia, alle scienze politiche, e soprattutto agli
archivi della Banca conservati a Washington. Il cuore del libro consiste in una lunga disanima della prima missione di studio della Banca in Colombia nella prima metà degli anni ’50,
durante la quale si confrontarono l’approccio di programma del primo capo della missione
Lauchlin Curie con quello del suo sostituto Albert O. Hirschman, più focalizzato sul finanziamento di singoli progetti. L’utilizzo delle fonti della Banca rende in più parti viva la narrazione (che beneficia anche di alcune foto dell’epoca) dei protagonisti sul campo che si battono per sostenere le proprie tesi, spesso scontrandosi con i propri superiori a Washington.
Con questo studio, Alacevich compie un servigio non solo nel panorama scientifico italiano, ma in quello internazionale, dove esistono storie (anche molto ben fatte) della Banca,
ma solo finanziate dalla stessa istituzione e a cura di più autori. Allo stesso tempo, qualche digressione di ordine sociologico e teorico, così come sulla dimensione psicoanalitica dei rapporti tra i protagonisti della missione colombiana, non sempre risulta perfettamente amalgamata al resto del testo. Si tratta di un libro che è comunque un’opera originale e appassionata, che si colloca saldamente in un filone che si spera possa essere ancora ricco di indagini sulle istituzioni economiche internazionali e sul modo in cui queste si sono rapportate, non sempre a suo beneficio, ai problemi del Terzo Mondo.
Giuliano Garavini
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I LIBRI DEL 2007
Paolo Allegrezza, L’élite incompiuta. La classe dirigente politico-amministrativa negli anni
della Destra storica (1861-1876), Milano, Giuffrè, XXXV-262 pp., € 28,00
Il volume, accolto nella collana diretta da Andrea Romano e pubblicata dal Dipartimento di Storia e comparazione degli ordinamenti giuridici e politici dell’Università di Messina,
si propone di tracciare un profilo dei rapporti fra politica e amministrazione nel primo quindicennio unitario, focalizzandosi sui percorsi porosi di 64 figure emblematiche di consiglieri
di Stato, segretari generali e prefetti, individuati all’interno di un più ampio campione di 686
funzionari della burocrazia centrale e periferica. Nei primi due capitoli, Allegrezza, dottore di
ricerca in Storia costituzionale e amministrativa dell’età contemporanea e autore di studi su
tali tematiche che spaziano dal XVII secolo al tempo presente, ricostruisce la geografia e le
traiettorie del nuovo corpo amministrativo nazionale fra eredità di antico regime, tradizione
sabauda e militanza risorgimentale, insistendo sulla «necessitata» subordinazione alla politica
che caratterizza le élites amministrative italiane rispetto alle coeve esperienze europee in seguito al ruolo fondamentale svolto nella costruzione dello Stato nazionale. Nel terzo e nel quarto capitolo, questa peculiarità è illustrata attraverso l’analisi dei rapporti fra i grands commis e
i principali leader che si alternano alla Presidenza del Consiglio fra 1861 e 1876 nonché tramite la descrizione dei «caratteri originali» del Consiglio di Stato che, diviso fra funzioni consultive e giurisdizionali, è giudicato incapace, a seguito della nomina prevalentemente partitica dei suoi membri, di rappresentare un corpo indipendente e autorevole nei confronti del
potere politico. In particolare, l’a. delinea due modelli di relazione fra leadership politica e alti funzionari: quello cavouriano basato sulla fedeltà personale nei confronti del capo dell’esecutivo, che si perpetua, seppure tramite declinazioni maggiormente regionaliste e amicali, nelle esperienze governative di Bettino Ricasoli, Urbano Rattazzi e Giovanni Lanza; quello minghettiano che, pur fondandosi sulla compenetrazione fra sfera politica e amministrativa, riserva un maggiore spazio di autonomia ai grandi burocrati a partire dal riconoscimento delle loro qualità tecniche e dalla promozione di carriere parzialmente slegate dalle maggioranze parlamentari.
Nel suo complesso, tuttavia, il volume, non privo nella prima parte di sviste ed errori,
procede prevalentemente per giustapposizione di medaglioni che, pur ricchi di informazioni
prosopografiche, non si traducono in un’autentica biografia collettiva dell’élite amministrativa del periodo che precede la «rivoluzione parlamentare». La commistione fra politica e amministrazione è continuamente enunciata più che tematizzata e analizzata, delineando un quadro che fornisce limitati apporti originali alla conoscenza dell’alta burocrazia postunitaria e ripropone un approccio storiografico che rimarca le mancanze rispetto ad archetipi idealtipici
anziché indagare le dinamiche fluide e complesse del contesto degli attori storici presi in considerazione.
Gian Luca Fruci
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I LIBRI DEL 2007
Götz Aly, Lo stato sociale di Hitler. Rapina, guerra razziale e nazionalsocialismo, Torino, Einaudi, IX-406 pp., € 24,50 (ed. or. Frankfurt am Main, 2005)
Dopo la sua pubblicazione in Germania il volume di Aly ha suscitato un vivace dibattito
sui maggiori organi d’informazione, paragonabile alla più nota controversia scatenata anni or
sono da Goldhagen. Alcune somiglianze nelle tesi dei due autori aiutano a comprendere la forte componente emotiva che ha caratterizzato il dibattito. Aly, come Goldhagen, sostiene una
tesi semplice e dalle forti implicazioni morali: «Chi non vuol parlare del vantaggio che ne trassero milioni di tedeschi farebbe meglio a tacere sul nazionalsocialismo e sull’olocausto» (p.
362). La componente distruttiva e criminale sviluppata dal regime durante la guerra sarebbe
non solo, e non tanto, frutto dell’ideologia razzista quanto della volontà di garantire a milioni
di comuni tedeschi vantaggi materiali a scapito della borghesia tedesca e soprattutto dei popoli «razzialmente» inferiori. In un capitolo denso di cifre, Aly rileva come il finanziamento tedesco della guerra tendesse a sgravare i redditi medi e bassi dall’imposizione fiscale, ad assorbire
«senza chiasso» credito a breve termine dagli istituti di credito e non direttamente dai cittadini, ad impiegare il più possibile le entrate estorte dai paesi occupati e alleati per alleviare il peso sulla popolazione tedesca. In tal modo il nazismo comprò l’adesione delle masse alla politica del regime. La tesi evidenzia la corresponsabilità del tedesco comune nel massacro, non per
la sua attiva partecipazione ad esso, quanto per aver accettato il benessere offertogli senza chiedersi da dove provenisse. Poiché si reggeva sulla redistribuzione della ricchezza il nazismo fu lo
«stato popolare di Hitler» (Hitler’s Volksstaat), come recita l’espressivo titolo originale.
Ad un’accurata descrizione dei metodi di rapina ai danni dell’Europa è dedicato il corpo
centrale del libro. La terza parte si concentra sull’«arianizzazione» delle proprietà ebraiche. L’a.
sostiene che gli espropri, che avevano come inevitabile correlato lo sterminio delle popolazioni derubate, miravano a consolidare le finanze del Reich sull’orlo della bancarotta. In molti
casi i beni sequestrati servirono a stabilizzare le monete locali colpite dalle enormi spese di occupazione pagate ai tedeschi. Tutto ciò andava a beneficio del Reich e indirettamente serviva
a garantire il benessere e dunque il consenso dei tedeschi.
Difficile dare in breve un giudizio su una tesi tanto controversa. Va ricordato che diversi
commentatori hanno individuato grossolani errori commessi dall’a., non avvezzo ad argomenti economici. Il fatto stesso che il peso della guerra sia stato trasferito dalle spalle dei tedeschi
al continente è stato, almeno nella misura valutata da Aly, contestato. Si è inoltre accusato l’a.
di aver trascurato molta letteratura storiografica e interpretazioni consolidate su questi stessi
temi. Va infine aggiunto che Aly ha sì compiuto una pregevole ricerca d’archivio, ma ha trascurato di contestualizzare la sua tesi in un quadro concettuale credibile. Ciò è tanto più grave se si considera l’intento, esplicitato da Aly, di dare un contributo alla comprensione del rapporto fra sterminio e modernità.
Paolo Fonzi
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I LIBRI DEL 2007
Antonella Amico, Gaetano De Sanctis. Profilo biografico e attività parlamentare, Tivoli, Tored, 339 pp., € 36,00
La biografia è un genere letterario che va adoperato con estrema cautela; diversamente si
corre il rischio di banalizzare il personaggio o scivolare su una ricostruzione celebrativa o detrattiva, senza mezzi toni. La figura di Gaetano De Sanctis sembra fatta apposta per la lettura laudativa che ne offre Antonella Amico. Particolarmente noto per il rifiuto di prestare il
giuramento imposto ai professori universitari nel 1931, Gaetano De Sanctis è indubbiamente una delle figure centrali del panorama culturale e politico dell’Italia tra il primo e il secondo dopoguerra. Allievo di Karl Julius Beloch di cui nel 1929 avrebbe preso il posto all’Università di Roma, studioso eminente del mondo antico in tutti suoi aspetti, veniva insignito
nella sua lunga vita di alti onori e incarichi, compreso il laticlavio. Molto si sa e molto si è
scritto su De Sanctis, e il lavoro della giovane Antonella Amico, nonostante la buona conoscenza del carteggio di De Sanctis, di cui sta curando la pubblicazione, non allarga le conoscenze che di questo personaggio si hanno; anche la scelta di privilegiare il registro politico
della vicenda biografica del grande antichista non aggiunge molto. Cattolico fervente, De
Sanctis aderisce nel 1919 al Partito popolare, accettando gli obblighi della militanza: è due
volte candidato nelle elezioni politiche senza successo e una volta nelle amministrative, eletto, ma escluso per un vizio di forma. Sottoscrive il «manifesto Croce», non aderisce al fascismo, ma non rifiuta incarichi a metà strada tra la politica e l’impegno culturale, come il Consiglio superiore della Pubblica Istruzione. Anche dopo l’esclusione dall’università, del resto,
collaborava alla Enciclopedia italiana come responsabile della Sezione di Antichità classiche e
neanche la crescente ostilità di cui era fatto oggetto faceva di lui un completo emarginato. La
complessità della sua esperienza e le contraddizioni di una personalità vissuta in una fase di
passaggio spiegano come permangano in De Sanctis elementi non periferici di un vecchio discorso pubblico. Da qui il sostegno alle operazioni coloniali italiane, compresa quella etiopica, in cui, ottocentescamente, vedeva il trionfo della civiltà sulla barbarie; le simpatie per il generalissimo Franco avevano la medesima origine. Non ha timore, nell’immediato dopoguerra, a mantenere posizioni controcorrente. Entrato nella commissione per la revisione delle liste dei Lincei sollecitava, opponendosi a Croce, a mantenere tutti gli studiosi di valore, senza
preclusione per gli atteggiamenti politici e le posizioni mantenute durante il ventennio. Necessaria sarebbe stata, a questo proposito, maggiore attenzione alla natura sensibile di questo
tema come anche agli schieramenti politici che si andavano definendo nel dopoguerra. La necessità di riconoscere la cittadinanza di posizioni anche estranee al nuovo clima postbellico
percorreva tutta la sua esperienza parlamentare. Particolarmente nota è la preoccupazione «che
la libertà, nell’interesse di mantenersi, neghi se stessa» (p. 266) e che lo spingeva a opporsi alle misure proposte da Scelba nel 1952 per contenere il rinascente fascismo.
Giovanni Montroni
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I LIBRI DEL 2007
Mara Anastasia, Interessi di bottega. I piccoli commercianti italiani nella crisi dello Stato liberale 1919-1926, Prefazione di Gian Carlo Jocteau, Torino, Zamorani, 222 pp., € 22,00
Nella scia degli studi promossi a Parigi alla fine degli anni ’70 del secolo scorso sulle lower
middle classes europee prima della Grande guerra e grazie agli apporti storiografici che negli ultimi decenni hanno evidenziato la complessità e la flessibilità degli indirizzi politici dei ceti medi
nel corso del ’900, il volume pone attenzione ai commercianti al dettaglio italiani durante la «crisi di regime». Li studia attraverso la tematica della rappresentanza degli interessi, affrontando questioni come l’associazionismo, la contrattazione del consenso e la capacità di porsi in una dimensione collettiva tra anteguerra liberale, biennio rosso e crisi statuale con l’ascesa e il rafforzamento del fascismo. In particolare, il volume individua nel primo dopoguerra, e nelle mancate risposte dello Stato liberale ai bisogni degli esercenti, un momento fondamentale per lo sviluppo dell’associazionismo di categoria (nel ’19 nasce la Confederazione generale del commercio italiano,
primo vero organismo di rappresentanza degli interessi), sino al ’26, quando si pone fine al pluralismo della rappresentanza associazionistica commerciale in una «resa senza condizioni al regime e alle sue esigenze» (p. 211) e si regolamenta l’accesso all’esercizio commerciale.
L’a. utilizza un ampio e diversificato corpus documentario, dagli Atti parlamentari e dei
congressi alla pubblicistica coeva, dalle inchieste e dai materiali statistici alle carte del Ministero dell’Interno, della Presidenza del Consiglio dei ministri, della Segreteria particolare del
duce, degli archivi relativi a uomini di Stato, ecc. Grazie a questa documentazione, restituisce
l’immagine, di contro a impostazioni tradizionali, di un gruppo non facilmente manipolabile, né destinato a scomparire, in grado «di negoziare il proprio appoggio alle istituzioni» (p.
16) e con il quale il fascismo è costretto a contrattare il consenso. Adesione, questa, che è letta non in chiave di una propensione quasi naturale e scontata, come in genere è stato affermato, quanto in termini di un’alleanza «cauta e condizionata» rispetto alla capacità del duce
di soddisfare alcuni interessi della categoria.
Il volume è il risultato del lavoro svolto durante il corso di dottorato in Storia delle società contemporanee dell’Università degli studi di Torino e di ricerche finanziate dalla Compagnia di San Paolo. Esso fa luce nell’universo composito e variegato delle classi medie ed è
puntuale nel ricostruire gli attori sociali indagati, la normativa attinente, le implicazioni sul
piano più strettamente sociologico. Inoltre, individua nell’associazionismo di categoria, e in
un’ottica nazionale, una «tendenza di fondo» del comportamento politico dei dettaglianti, di
cui fornisce, studiandoli nel contesto più ampio delle dinamiche sociali del tempo, spaccati
sulle condizioni di vita, la mentalità, le relazioni d’affari, il rapporto innescato con le altre classi sociali. Il volume rappresenta pertanto un contributo interessante, suscettibile di ulteriori
sviluppi, nell’ambito della storiografia italiana sui ceti medi e dà un utile apporto alla conoscenza delle basi sociali del fascismo.
Elisabetta Caroppo
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I LIBRI DEL 2007
Sandro Antonini, Sam Benelli. Vita di un poeta: dai trionfi internazionali alla persecuzione fascista, Genova, De Ferrari, 272 pp., € 30,00
Autore (anche) di studi di storia contemporanea locale e regionale, Sandro Antonini raccoglie in questo volume un vasto repertorio di fonti – corrispondenze private, documenti di
archivio, recensioni, testimonianze, carte di polizia. Per la prima volta la biografia di Sam Benelli è delineata con rigore scientifico. Nato a Prato nel 1877, Benelli aveva uno straordinario
talento per la scrittura teatrale e la poesia. Nel 1909 mise in scena al Teatro Argentina di Roma La cena delle beffe, che gli valse il successo della critica e gli conferì una grande popolarità
– offuscò persino, scrive Antonini, la gloria di Gabriele D’Annunzio. Volontario nella prima
guerra mondiale, Benelli ebbe per Mussolini e la marcia su Roma un atteggiamento ambiguo.
Insofferente verso lo squadrismo e i suoi metodi, del movimento fascista apprezzò l’intento
moralizzatore, la dichiarata volontà di rigenerare il paese. Esitò, ma si lasciò convincere, a candidarsi nel «listone» elettorale per la Toscana; fu eletto in due legislature per volontà di Mussolini. Con il delitto Matteotti, tuttavia, Benelli avvertì un disagio profondo e, con sorprendente enfasi, si dichiarò fondatore del «primo movimento politico antifascista italiano», cui
diede il nome di Lega Italica. L’iniziativa raccolse l’adesione di alcuni fascisti dissidenti ed ebbe il suo centro organizzativo nella villa di Benelli a Zoagli, ma non ebbe esiti significativi; nel
1925, infatti, Mussolini sciolse la Lega e, naturalmente, divenne diffidente verso Benelli. Questi, a sua volta, non aderì all’Aventino ma si dimise dalla Camera dei Deputati. Gli anni seguenti, spiega Antonini, furono difficili. Il carattere dell’artista era incline al narcisismo, alla
ricerca costante del successo. Seguito da spie che informavano puntualmente il conte Ciano
e il duce, già dal 1931 i direttori dei principali quotidiani furono invitati a non parlare più
delle opere di Benelli, che pure erano messe in scena con discreto successo. La fama dell’artista si oscurò. Ancora nel 1938, alla vigilia dell’arrivo di Hitler a Roma, alla rappresentazione
di Orchidea al Teatro Eliseo si verificarono violenti incidenti. Mussolini, informato, si irritò e
in una nota espresse critiche a Benelli, del quale aveva compreso la potenziale «nocività». Pochi anni dopo il poeta riparò in Svizzera. Al suo rientro, nel dopoguerra, seguirono nuove polemiche: molti ne ricordavano i contrasti con le gerarchie fasciste; altri, invece, serbavano memoria delle lodi pubbliche del duce, le «arcipagate collaborazioni» al «Corriere della sera», i
debiti ripianati dalle casse del PNF.
Le testimonianze presentate da Antonini ripropongono un quadro interpretativo complesso. Il profilo di Benelli non è quello della limpida figura di intellettuale antifascista né del
servile cantore delle gesta del duce. Forse, alla luce degli elementi del carattere attentamente
tratteggiati dall’a., l’ambiguità derivò in parte da un successo che l’artista meritava ma che il
fascismo, con i suoi metodi, ideali (e un alto prezzo da pagare), non volle concedere.
Dario Biocca
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I LIBRI DEL 2007
Paolo Armellini, Gabriella Cotta, Beatrice Pisa (a cura di), Globalizzazione, federalismo e
cittadinanza europea, Milano, FrancoAngeli, 2 voll., 223+152 pp., € 18,00+14,00
A una prima occhiata questi due volumi non danno un’impressione positiva. L’eterogeneità
degli argomenti trattati, degli approcci utilizzati (dalla storia, alla filosofia politica, alla sociologia,
al diritto) e del livello di approfondimento dei singoli saggi è tale da non poter esser ricondotta a una
matrice unitaria neanche dai termini, pure estremamente generici, scelti per il titolo. Un’impressione che permane anche nel quadro di ogni singolo volume: il primo, sugli «aspetti storico-politici»,
che alterna riflessioni giuridiche, analisi sociologiche e ricostruzioni storiche sui temi più disparati,
e il secondo, sulle «prospettive teoriche e istituzionali», le cui analisi di natura prevalentemente filosofica vanno dalla lettura critica del Corano, all’evoluzione della Costituzione degli Stati Uniti, al
crollo della federazione jugoslava. L’assenza di un’introduzione non migliora del resto le cose, eliminando l’unica possibilità di leggere l’opera sulla base di un filo conduttore solido e coerente.
Ciò non significa che nei due volumi non vi siano saggi di qualità. Fra i tanti degni di nota contenuti nel primo, che presenta una dimensione storica più forte, sembra opportuno segnalarne almeno due.
Il primo è il contributo di Arianna Montanari, che offre una chiave di lettura generale dei
processi di formazione delle identità collettive, mostrando come esse nascano e si consolidino innanzitutto attraverso la contrapposizione con altre identità, tendenzialmente le più prossime. Dal che deriverebbe l’idea, condivisibile, che l’affermazione di un’identità europea passi necessariamente per una (almeno relativa) «contrapposizione con l’altro grande protagonista del mondo occidentale, gli Stati Uniti» (p. 187). Meno convincenti sono però le conseguenze che l’a. sembra attribuire a tale contrasto, il quale, acuito da alcuni aspetti della politica statunitense più recente, sembrerebbe sul punto di «mettere in dubbio […] gli elementi
costitutivi dell’identità occidentale» (p. 189). Una visione che appare troppo drastica, e destinata verosimilmente a mutare nel momento in cui, com’è probabile, il successore di Bush jr.
dovesse cambiare alcuni tratti sostanziali della politica estera americana.
Il secondo è il saggio di Beatrice Pisa, che traccia una sintesi del lavoro del primo Parlamento europeo eletto a suffragio universale, fra il 1979 e il 1984. Una ricostruzione che mostra innanzitutto l’effetto «tonico» giocato dall’elezione diretta sulla vitalità politica dell’assemblea, la quale, pur priva di poteri decisionali concreti, favorì lo spostamento dell’attenzione comunitaria su una serie di tematiche, nuove o fino ad allora affrontate solo in modo parziale. La condizione femminile, la difesa dei diritti umani, la cooperazione allo sviluppo, i problemi della pace nel mondo, tutti temi sui quali il Parlamento adottò risoluzioni o prese posizioni definite, talvolta preparando il terreno all’adozione di atti normativi della Comunità,
ma più in generale contribuendo a ispessire una dimensione politica del processo d’integrazione che fino a quel momento era rimasta relativamente in sordina.
Lorenzo Mechi
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I LIBRI DEL 2007
Giovanni Armillotta, L’Angola e l’Onu. Dagli inizi della lotta di liberazione alla fine della
guerra civile (1961-2002), Roma, Aracne, 458 pp., € 23,00
Il volume tratta del ruolo delle Nazioni Unite nella storia di continuo conflitto che l’Angola ha conosciuto a partire dall’esordio della lotta armata contro il dominio portoghese, nel
1961, fino al varo della United Nations Mission in Angola, nel 2002. Armillotta presenta una
serie di materiali tratti dai dibattiti e dalle risoluzioni ONU saldandoli e contrappuntandoli
con sintesi fattuali dei passaggi importanti in una storia complessa. Il suo obiettivo è quello
di dare «continuità storica alle attività di ogni Paese della comunità internazionale che, sulla
questione angolana, ha offerto il proprio contributo» (p. 25), Italia inclusa. La prima parte del
volume si articola in diciassette capitoli: l’iniziale è sulle origini della guerra di liberazione,
mentre i successivi sono dedicati alle vicende di ciascun anno fino al 1976 quando, a pochi
mesi dall’indipendenza (1975), il paese è già scivolato nella guerra civile. La seconda parte, in
sette capitoli, riguarda le missioni di pace ONU fra il 1989 e il 2002-03.
A partire dalla tormentata esperienza di arroccamento coloniale del Portogallo tardo-salazarista, le vicende angolane hanno segnato la storia africana e internazionale ben oltre la centralità del paese – e del suo petrolio – nel sistema dei rapporti dell’Africa australe e della strenua resistenza al potere delle sue minoranze bianche. L’indipendenza è opera di movimenti rivoluzionari marxisti-leninisti, che subito dopo entrano in guerra fra loro, coinvolgendo attori locali, regionali e internazionali legati all’uno o all’altro dei due blocchi mondiali – Cuba e
Sud Africa in primo luogo – e facendo del paese un teatro principe di confronto Est/Ovest.
Concluso sul campo con l’uccisione nel 2002 di Jonas Savimbi, principale oppositore del governo di Luanda, il conflitto si è chiuso politicamente solo grazie a un paziente sforzo internazionale di ricomposizione delle fratture nel corpo del paese. Questa storia di guerra – col
suo milione di morti – ha reso l’Angola – «suo malgrado», scrive Armillotta (p. 25) – uno scenario di primo piano per la diplomazia mondiale e per l’azione delle Nazioni Unite.
Queste ed altre questioni fanno da sfondo al volume, dove affiorano a più riprese in rapporto alle vicende del coinvolgimento dell’ONU. Bisogna dire che l’impianto complessivo dell’opera, così condizionato dalla scelta dell’a. di «far parlare» l’ONU attraverso la voce diretta dei suoi
documenti, resta fortemente segnato da una frammentarietà che è pericolo inerente le compilazioni documentarie. Le sintesi fattuali, minuziose, avrebbero tratto beneficio da una maggiore
tensione analitica e critica e da un dialogo più serrato con la vasta letteratura esistente in diverse
lingue relativa ai conflitti angolani, alle loro implicazioni internazionali e al ruolo di singoli paesi. Ciò avrebbe favorito la composizione di un affresco più chiaro e complessivo di questa vicenda intricata, giocata sul piano nazionale e interafricano, ma anche a diversi livelli della politica
mondiale. Detto questo, il libro di Armillotta offre comunque un’utile presentazione al pubblico italiano di materiali per la lettura di un capitolo drammatico della storia del XX secolo.
Pierluigi Valsecchi
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I LIBRI DEL 2007
Enrica Asquer, La rivoluzione candida. Storia della lavatrice in Italia (1945-1970), Roma,
Carocci, 202 pp., € 18,00
La ricerca segue l’oggetto lavatrice dal momento della sua produzione, la fabbrica (la Zanussi e la Candy soprattutto), a quello del suo utilizzo nelle case delle famiglie italiane, passando per il mercato con le sue complesse strategie pubblicitarie e di marketing. Di conseguenza diverse sono le competenze messe in campo, dalla storia dell’impresa e del management, a quella sociale, della famiglia e di genere, per finire con quella dei media e dei loro linguaggi. La periodizzazione dal punto di vista della storia dei consumi e dell’impresa coglie bene la fase di formazione del mercato nazionale (1956-64) e di affermazione nel mercato internazionale del prodotto (1964-70), dal punto di vista della storia della famiglia condivide quelle letture che vedono nella congiuntura tra gli anni ’50 e gli anni ’70 il «trionfo di un’organizzazione famigliare fondata su una rigida separazione dei ruoli in base ai generi» (p. 66). All’interno di questo percorso l’a. fornisce una chiave di lettura unitaria e univoca legata al ruolo
della famiglia e della donna, individuando come filo conduttore l’indagine sul peso assunto
dalla diffusione di massa della lavatrice nelle dinamiche di genere e nella dialettica tra interni
ed esterni domestici (p. 5). Snodo centrale di questo ragionamento è il passaggio dalla dimensione domestica esterna, aperta alla socialità, basata sul rito collettivo del far bucato nei lavatoi pubblici, a quella interna, confinata dentro l’abitazione privata, offerta dalla lavatrice.
Il volume evidenzia come a fronte di un’oggettiva liberazione del tempo lavorativo domestico delle donne da spendere ipoteticamente nella partecipazione alla vita civile e lavorativa
fuori dai vincoli famigliari, come auspicato per esempio dalla rivista dell’UDI «Noi Donne»,
si creò, invece, attraverso la stampa specializzata e la pubblicità lo stereotipo «di una modalità
prevalentemente familistica d’utilizzazione delle risorse rese disponibili dalla lavatrice» (p.
144) e di una «modernità incentrata sul godimento privato dei beni di consumo e sulla celebrazione della famiglia felice e internalizzata» (p. 6). Le pagine dedicate a riviste come «Civiltà
delle macchine», «Apparecchi elettrodomestici», «Annabella», e all’analisi della pubblicità televisiva della Candy, mostrano come la destinazione ultima del tempo liberato doveva essere
messa al servizio della vita famigliare. Ma l’a. dimostra anche come la creazione di questo immaginario collettivo, basato sulla centralità della vocazione domestica delle donne e sulla costruzione della figura della casalinga a tempo pieno, trovava riscontro in un’Italia caratterizzata da un mercato del lavoro penalizzante del lavoro femminile, da politiche sociali deficitarie
dei servizi alla famiglia che facevano ricadere sulle donne il peso della cura famigliare, e da uno
sviluppo dei consumi di massa che spingeva verso l’innalzamento degli standard delle prestazioni domestiche. Attraverso la storia della lavatrice emergono così i caratteri ambigui della
modernizzazione italiana dove la democratizzazione dei consumi si coniuga con la forte pressione esercitata dalla famiglia tradizionale.
Salvatore Adorno
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I LIBRI DEL 2007
Stéphane Audoin-Rouzeau, Jean Jacques Becker (a cura di), La prima guerra mondiale,
Edizione italiana a cura di Antonio Gibelli, Torino, Einaudi, 2 voll., XXXII-590 + XVIII-704
pp., € 75,00+80,00 (ed. or. Paris, 2004)
L’Encyclopédie de la Grande Guerre, opera monumentale uscita nel 2004, ha costituito un
po’ il bilancio della storiografia che negli ultimi quindici anni ha ruotato intorno all’Historial
de la Grande Guerre di Peronne e che ha indagato estesamente e pregevolmente sulla «cultura», in senso ampio, della prima guerra mondiale (Histoire et culture era il sottotitolo dell’edizione originale) come momento fondante le società occidentali di massa del ’900. L’opera, come già allora notarono vari commentatori, non era esente da limiti di fondo: un’impostazione francocentrica e piuttosto autoreferenziale (anche l’intervento americano era basato su bibliografia francese); troppi saggi con bibliografie datate; scarsa attenzione a temi innovativi
della ricerca recente, ad esempio sulla Società delle Nazioni o sulla guerra come momento di
«globalizzazione» dell’economia mondiale. Ancora più vistosamente – specie volendo essere
una storia «internazionale e totale» della guerra, come recitava la quarta di copertina – il volume in pratica ignorava l’Italia, sia come paese belligerante, sia come fronte militare, sia dal
punto di vista storiografico: nessun italiano tra gli autori; nessun saggio sull’Italia, alla quale
erano fatti sporadici cenni nelle narrazioni di alcuni argomenti; non più di tre-quattro riferimenti bibliografici in oltre 1.340 pagine; nessuna curiosità sul caso italiano nemmeno nei saggi dichiaratamente comparativi; un indice dei nomi nel quale Armando Diaz era confuso con
Porfirio Diaz. C’è da chiedersi se un’opera certo ampia e autorevole, ma tanto disattenta, meritasse proprio una traduzione italiana e in una veste editoriale così prestigiosa.
La cura e la generosità che Antonio Gibelli e i suoi collaboratori hanno profuso in questa edizione italiana la rendono in effetti un’opera più equilibrata di quella originale, che è
stata sfrondata di alcune parti più deboli mentre sono stati valorizzati i saggi più significativi, integrati con bibliografia sull’Italia (e un nuovo saggio sugli Stati Uniti che ristabilisce le
proporzioni storiografiche). Soprattutto, sono stati aggiunti contributi scritti appositamente, che mostrano una storiografia italiana «profondamente partecipe, e in taluni casi persino
all’avanguardia, al profondo rinnovamento che ha investito gli studi sulla Grande Guerra nell’ultimo quarto di secolo» (p. XVII). I nuovi saggi mettono in risalto specificità (la guerra
sulle montagne), fonti, attori sociali e istituzioni (la Chiesa, l’esercito), snodi della condotta
politico-militare (la neutralità, Caporetto) e della memoria di guerra (i sacrari, i musei), passaggi tematici e interpretativi (la violenza e le sue eredità sullo squadrismo) e vari altri aspetti del caso italiano che lo rendono non una delle tante esperienze «nazionali» della guerra,
ma parte integrante dello sconvolgimento, materiale politico e culturale, prodotto dall’esperienza bellica sulle società europee, e che per gli storici stranieri è una grossa lacuna ignorare o snobbare.
Barbara Curli
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I LIBRI DEL 2007
Ivan Balbo, Torino oltre la crisi. Una «business community» tra Otto e Novecento, Bologna,
il Mulino, 312 pp., € 22,00
Ivan Balbo, dottore di ricerca presso l’Università di Torino e già autore di diversi contributi sulla storia dell’imprenditoria e del credito piemontese all’indomani dell’Unità, presenta
i risultati di un percorso di ricerca quasi decennale che, partito con una tesi di laurea, è stato
ulteriormente approfondito negli anni del dottorato ed è infine approdato alla pubblicazione
di questo volume.
Il libro si apre con un’Introduzione nella quale l’a. mette in discussione alcuni assunti della storiografia economica sul Piemonte postunitario (in particolare la forte discontinuità tra
il vecchio modello economico d’impostazione cavouriana esauritosi con il crack edilizio-bancario del 1889 e quello nuovo nato circa dieci anni dopo attorno all’industria automobilistica) ed in cui spiega i motivi che lo portano ad affrontare il tema della transizione dalla crisi
alla rinascita di Torino tra ’800 e ’900 con un approccio nuovo. Un approccio che sembra raccogliere l’invito di Youssef Cassis a fare una storia sociale della banca e dell’industria e che lo
fa attraverso il ricorso a concetti e strumenti d’indagine sapientemente tratti da un’ampia ed
aggiornata letteratura che spazia dalla tradizionale storia d’impresa ai più recenti studi sull’imprenditoria etnica, sino a toccare la sociologia e soprattutto la network analysis.
Balbo, infatti, alterna un uso quantitativo delle fonti (soprattutto gli atti di costituzione e
di scioglimento di società con sede nell’area di competenza del Tribunale di Torino), attraverso
il quale ricostruisce la demografia delle imprese torinesi a cavallo tra i due secoli (cap. I), a un’indagine più squisitamente qualitativa, che, pur in assenza di una documentazione aziendale e/o
familiare, riesce a mettere in evidenza l’intreccio di legami di natura diversa (familiari, amicali,
professionali, societari) tra gli industriali attivi in città, il carattere intersettoriale di questa imprenditoria, la sua dimensione multinazionale e multireligiosa. Un aspetto, quest’ultimo, investigato tenendo ben presente quanto accade in altri contesti italiani (Napoli, Bergamo, Milano).
Indagando in questa prospettiva i protagonisti di alcuni dei principali settori che compongono il panorama produttivo e finanziario torinese in questi anni (quello creditizio, quello cotoniero, quello meccanico e dell’auto), nei restanti due capitoli Balbo dimostra come essi costituiscano non solo un’élite del denaro, ma una vera e propria business community, un
«insieme di imprenditori […] che intrattengono relazioni sociali ed economiche […], costituito da reti tra settori, tra società di persone e società di capitale» (pp. 22-4).
Ed è proprio questa comunità degli affari che, pur soggetta a trasformazioni nel corso del
tempo, riesce a farsi sistema, fungendo da trait d’union tra gli anni della crisi e quelli della rinascita, alimentando la circolazione di capitali e di saperi sopravvissuti allo shock di fine anni
’80 ed integrandoli in una nuova struttura imprenditoriale «fino a diventare elemento decisivo di sostegno dello sviluppo di età giolittiana» (p. 273).
Marco Rovinello
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I LIBRI DEL 2007
Pier Luigi Ballini, Paolo Pecorari (a cura di), Alla ricerca delle colonie (1876-1896), Venezia, Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, 377 pp., € 25,00
Il volume presenta i risultati dell’omonima settima Giornata di studio Luigi Luzzatti per
la storia dell’Italia contemporanea promossa dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti e
svoltasi a Venezia il 22 e 23 novembre 2002. Sette contributi che disegnano un quadro vasto
e coerente della politica coloniale negli anni di governo della Sinistra storica.
Grande attenzione è dedicata agli aspetti economici, con gli interventi di Alberto Cova
sulle spese militari e l’instabilità finanziaria e di Giorgio Mori sulle attività di trasformazione
industriale. In particolare Cova evidenzia la scarsa trasparenza e gli atti di manipolazione dei
bilanci attraverso l’uso strumentale delle voci di spesa «straordinarie» e «ultrastraordinarie».
Le spese militari (e coloniali), tema rilevante che attraversa tutti gli interventi, tornano in primo piano nel contributo di Piero Del Negro sul ruolo dell’esercito e della marina nell’espansione «coloniale»: verso l’Africa orientale, ma anche negli scacchieri mediterraneo, europeocontinentale, sudamericano e nel «fronte interno» dell’Italia meridionale.
Un classico approccio di storia politica e diplomatica caratterizza il contributo di Giuseppe Talamo in cui si affronta il decisivo passaggio della «questione d’Egitto» del 1882, dai cui
esiti derivano molti dei successivi orientamenti in tema di politica coloniale. Una valutazione
confermata dall’intervento di Guido Pescosolido dedicato alle posizioni della stampa politica,
ampiamente analizzata, di fronte all’occupazione di Massaua del febbraio 1885. Mentre Christopher Duggan presenta una avvertita sintesi sulla politica coloniale di Crispi, di cui si evidenziano in primo luogo gli obiettivi europei, Fulvio Cammarano propone un lungo saggio
sulla Questione coloniale alla Camera (1885-1896) attento ai comportamenti e ai linguaggi nel
contesto del difficile rapporto tra governo e parlamento. Con il suo «carico di ambiguità costituzionale», la sfida coloniale rappresentò «un’importante occasione per verificare il grado di
autonomia dell’esecutivo» (pp. 268-269) e la solidità dello stesso progetto trasformista.
Chiudono il volume tre interventi a commento in cui Luigi De Matteo traccia un breve
bilancio storiografico evidenziando i limiti di un approccio pregiudiziale che avrebbe in buona parte negato la possibilità di cogliere tutta la complessità del fenomeno coloniale; Paolo Pecorari torna sulle spese militari con nuovi dati; Paolo Carusi propone un aggiustamento interpretativo a favore della autenticità di un anticolonialismo della Destra in età crispina.
In generale, del fenomeno coloniale si evidenziano i limiti della sua incidenza negli ambiti economico, strategico e diplomatico, ma al contempo la sua assoluta centralità nel determinare gli orientamenti della politica nazionale, in primo luogo quella interna, confermandone il rilievo del valore simbolico nel processo di costruzione dello Stato-nazione. Nel suo
insieme il volume costituisce un significativo avanzamento nel settore degli studi sull’espansionismo coloniale italiano.
Giancarlo Monina
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I LIBRI DEL 2007
Pier Luigi Ballini, Gilles Pécout (a cura di), Scuola e nazione in Italia e in Francia nell’Ottocento. Modelli, pratiche, eredità: nuovi percorsi di ricerca comparata, Venezia, Istituto veneto
di scienze, lettere ed arti, XI-318 pp., € 28,00
Il volume comprende le dodici relazioni, riviste dagli autori, tenute all’ottava Giornata di
studio L. Luzzatti (14-15 novembre 2003), le prime due delle quali, a firma di Antoine Prost e di Giuseppe Talamo, a carattere introduttivo e generale. Gli altri dieci contributi sono
equamente ripartiti – anche sotto il profilo della nazionalità degli autori – su aspetti di storia
della scuola e dell’educazione in Italia e in Francia: da segnalare il caso – unico della serie –
dell’apprezzato studioso francese Gilles Pécout, che si cimenta con un argomento di storia italiana, e di non poco impegno (L’Italie à l’école à la fin du XIXe siècle: une nation sécularisée?,
pp. 67-80). Secondo quanto richiamato nell’Introduzione, l’unificazione italiana e la transizione dal Secondo Impero alla Terza Repubblica francese erano state assunte come date periodizzanti per l’argomento del convegno, e le questioni concernenti il rapporto tra istruzioneeducazione e processi di nation building come suo fulcro tematico. Va peraltro ascritto a merito di molti contribuiti raccolti nel volume l’aver travalicato tali delimitazioni, sia dal punto
di vista temporale sia da quello, per così dire, contenutistico. Del resto, gli stessi curatori dell’opera hanno cura di rilevare esplicitamente (pp. IX-X) i motivi di irriducibilità delle questioni scolastico-educative alla sola questione nazionale, nonché i fattori di complessità, se non di
contraddizione che vi si intrecciano e ne emergono: fattori, mi sembra, messi in particolare
rilievo nel saggio di Mauro Moretti, Le lettere e la storia (pp. 279-306). Ciò solleva, tuttavia,
qualche interrogativo circa il carattere effettivamente comparatistico dei contributi raccolti nel
volume, se osservati nel loro insieme. Essi si presentano nella generalità dei casi come saggi di
considerevole qualità e di obiettivo interesse; ma che, in ragione della disparità dei temi affrontati, solo in piccola parte consentono una lettura comparata dei due sistemi d’istruzione
e dei relativi problemi (sebbene ne possano offrire taluni elementi). Resta dunque prevalente,
a lettura terminata, il senso di una pregevole comparazione tra due, in parte diverse e in parte convergenti, pratiche storiografiche, piuttosto che di una comparazione tra due storie reali, di cui forse ci sarebbero oggi le condizioni.
Francesco Traniello
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I LIBRI DEL 2007
Roberto Balzani (a cura di), Collezioni, musei, identità tra XVIII e XIX secolo, Bologna, il
Mulino, 202 pp., € 17,50
Aperto da una Introduzione di Balzani tesa a problematizzare in un contesto generale
il tema della costituzione del patrimonio culturale tra ’700 e ’900 attraverso l’allestimento
di collezioni e musei via via istituzionalizzati e resi di pubblica fruizione dopo un esordio
contraddistinto dall’iniziativa privata, il volume si articola in ulteriori cinque saggi. Se si
prescinde da quello di Donata Levi, dedicato alla ricostruzione del pensiero museografico
dell’inglese John Ruskin e alla sua carriera nella seconda metà dell’800, essi insistono in particolare su uno specifico territorio, l’Emilia e la Romagna dall’epoca preunitaria ai primi lustri del ’900.
È la Parma borbonica a vocazione francese della seconda metà del ’700, inorgoglita dalla scoperta di Velleia e protesa verso l’ambizione di trasformarsi anche attraverso un uso mirato dei reperti messi alla luce in un centro europeo culturalmente significativo, il soggetto del
contributo di Anna Rita Parenti. Ci portano, invece, nel cuore di una Modena, nella quale il
nobile moderatamente liberale Giuseppe Campori organizza – collegandosi anche con Vieusseux – la memoria storica locale e allestisce una robusta raccolta di opere d’arte, corredata da
una vastissima collezione di autografi, sia il saggio di Luisa Avellini sia quello di Lara Michelacci. Concentra, infine, il fuoco dell’analisi sulla Faenza del primo ’900, nella quale Gaetano
Ballardini opera con alacrità per condurre a buon fine la sua idea di un museo della ceramica
organizzato secondo criteri scientifici, la ricognizione proposta da Simona Boron.
Ben documentati e puntuali, i saggi si offrono in primo luogo come solido contributo
specialistico alla storia delle città che fanno da sfondo alle iniziative di cui si riannodano le fila. Ma essi raccontano anche, per altri versi, una storia comune, illustrando persuasivamente
il rapporto dialettico intrattenuto dal notabilato cittadino vecchio e nuovo con una specificità identitaria locale destinata, attraverso la musealizzazione, ad oltrepassare il confine angusto delle mura e ad entrare in sinergia con la rete sovralocale intessuta coralmente dal pubblico della contemporaneità. Da questo punto di vista quelle raccolte, avviate talvolta ancora nello spirito di un orgoglio patrizio tendenzialmente autoreferenziale, al momento della loro
pubblicizzazione assumono «un sovrappiù di senso che solo la dimensione simbolica e sociale dell’età contemporanea può consentire, se non di misurare, almeno di comprendere» (Boron, p. 191). Non riflettono più soprattutto e soltanto la piccola patria in se stessa, ma la
proiettano verso un ineludibile dialogo con la nazione e con il mondo.
Marco Meriggi
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I LIBRI DEL 2007
Alberto Mario Banti, Paul Ginsborg (a cura di), Storia d’Italia. Annali 22. Il Risorgimento, Torino, Einaudi, XLI-883 pp., € 88,00
Il volume presenta una storia del Risorgimento indubbiamente diversa. Nelle parole dei
curatori, l’intento è quello «di far vivere la cultura profonda del Risorgimento» (p. XXIII) come movimento di massa, illustrando la mentalità, i sentimenti, le emozioni, le traiettorie di
vita e i progetti politici e personali di chi vi ha preso parte; e, metodologicamente, di arrivarci attraverso un confronto con altre discipline, in particolare gli studi culturali e di genere, l’analisi dei testi scritti, visivi e musicali, l’esplorazione dell’immaginario, e la comparazione. I
27 contributi sono divisi in sei parti, intitolate: Amore, famiglia e Risorgimento, Donne e uomini del Risorgimento: esperienze e identità di genere, Ideologia e religione: discorsi e dibattiti, Rituali, pratiche e norme, Culti della memoria e Tra l’Europa e Italia: immagini e modelli della nazione. Sulla scia soprattutto dei lavori e degli approcci metodologici dei curatori Banti e Ginsborg, i contributi allargano in modo significativo la storia del Risorgimento, da una parte in
quanto esperienza vissuta, in particolare per quanto riguarda la storia delle donne, dall’altra
nell’illustrare il ruolo della cultura, intesa in senso largo, come elemento emotivo del patriottismo. Un nutrito gruppo di contributi su donne e famiglia, di Ilaria Porciani, Marta Bonsanti, Luisa Levi D’Ancona, Simonetta Soldani, Laura Guidi e Lucy Riall, offre anche utili indicazioni metodologiche sulle fonti. La cultura, nell’epoca classica del romanticismo discusso
da Ginsborg, viene seguita non solo nel melodramma, nella musica e nella pittura, intimamente collegati alla politica (Simonetta Chiappino, Carlotta Sorba, Fernando Mazzocca), ma
nell’iconografia, linguaggi e pratiche delle feste (Alessio Petrizzo, Gian Luca Fruci), e nei culti della memoria (Banti, Pietro Finelli, Eva Cecchinato e Mario Isnenghi). La politica, almeno intesa nella tradizione della storia risorgimentale, è poco presente: le idee di Cattaneo
(Martin Thom) e di Mazzini (Simon Levis Sullam), il ruolo del clero (Enrico Francia) e dei
gesuiti e di Pio IX (Daniele Menozzi), il crollo degli antichi Stati (Marco Meriggi) e i limiti
della cittadinanza (Carlo Bersani). Conclude il Risorgimento nell’Europa, visto da fuori: Francia (Finelli e Fruci), Gran Bretagna (Christopher Duggan), e – più nuovi – Spagna (Isabel Maria Pascual Sastre) e Austria (Stefan Malfèr).
La scelta di una impostazione di approcci nuovi crea inevitabilmente squilibri di non poca importanza, soprattutto l’assenza della storia politica e istituzionale (evidente nella difficoltà nel collocare il saggio di Meriggi), e la scomparsa totale dei moderati e di Cavour. Ad eccezione di Franco Della Peruta, i grandi nomi della storiografia risorgimentale, da Spellanzon
a Candeloro e Mack Smith, sono appena presenti; Gramsci è citato solo tre volte, Romeo manca del tutto. Una tale radicale cesura con la tradizione storiografica è importante. Bisogna sperare che gli approcci innovativi non si trasformino a loro volta, come purtroppo spesso succede, in nuove ortodossie.
Stuart Woolf
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Giovanni Barberini, L’Ostpolitik della Santa Sede. Un dialogo lungo e faticoso, Bologna, il
Mulino, 419 pp., € 35,00
Lo studio di Barberini è una storia dell’Ostpolitik vaticana che si colloca in continuità con
il volume pubblicato nella stessa collana lo scorso anno Il filo sottile. L’Ostpolitik vaticana di Agostino Casaroli (a cura di A. Melloni), frutto degli incontri che da alcuni anni l’Associazione
«Centro Studi Card. A. Casaroli» organizza al seminario di Bedonia. Un breve excursus sui rapporti tra comunismo e Chiesa cattolica serve all’a. per definire la natura della Ostpolitik, un fenomeno a suo avviso diverso dai tentativi attuati dal Vaticano all’indomani della rivoluzione
per allacciare rapporti di tipo diplomatico con la dirigenza bolscevica. Diversi erano gli obiettivi perseguiti dalla Santa Sede nel secondo dopoguerra nei confronti dei governi delle «democrazie popolari». In quel periodo la strategia della Santa Sede era dettata da motivi pastorali,
ovvero dalla necessità di aiutare le Chiese dell’Est a non soccombere dinnanzi alla repressione.
L’azione politico-diplomatica era posta dai negoziatori vaticani in secondo piano, o meglio, per
usare l’espressione dell’a., era «strumentale nei confronti di interessi che riguardavano le istituzioni della chiesa e le persone perseguitate» (pp. 91-92). In ogni caso non sarebbe mai mutata
la posizione dottrinale rispetto all’inconciliabilità tra le concezioni cristiana e comunista, messa in rilievo da pontefici e personalità vaticane impegnate nel dialogo con gli Stati socialisti.
Le premesse dell’Ostpolitik sono individuate nei segnali lanciati da Chruščëv all’indirizzo
del Vaticano, come l’invio degli auguri per l’ottantesimo compleanno di Giovanni XXIII, un
gesto a cui probabilmente non fu estranea la considerazione suscitata dall’appello sulla pace
rivolto dal pontefice il 10 settembre 1961, che suggeriva posizioni della Chiesa cattolica non
schiacciate su quelle dell’Occidente. Il disgelo e il passaggio dalla guerra fredda alla distensione, da una parte, e il nuovo corso inaugurato dal Concilio Vaticano II, dall’altra, furono, secondo l’a., lo sfondo su cui furono avviati i contatti tra Santa Sede e Stati del blocco socialista, senza, tuttavia, mai coinvolgere direttamente Mosca. Barberini dedica molto spazio a evidenziare affinità e differenze dei vari fascicoli dell’agenda vaticana: la normalizzazione tra
Chiesa cattolica e Stato ungherese, dopo le traversie connesse all’affaire Mindszenty; il difficile negoziato con la Cecoslovacchia, dove la Chiesa versava in condizioni drammatiche; il
particolare rapporto con la Jugoslavia, paese socialista ma sganciato dal blocco sovietico, dove il nazionalismo croato giocava un ruolo anche in ambito ecclesiastico; la peculiarità della
situazione polacca, con una Chiesa cattolica profondamente radicata nelle masse popolari.
Fatto questo da cui né il potere politico né i negoziatori vaticani poterono prescindere. Grande tessitore del dialogo con l’Est, Agostino Casaroli è il vero protagonista del volume. Il libro
di riflessioni del cardinale, Il martirio della pazienza, fa da trama al racconto di Barberini, che
si avvale anche di fonti inedite, come alcuni documenti del fondo Casaroli conservati all’Archivio di Stato di Parma.
Simona Merlo
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I LIBRI DEL 2007
Giorgio Barberis, Louis de Bonald. Potere e ordine tra sovversione e Provvidenza, Brescia,
Morcelliana, 324 pp., € 22,00
Un’Introduzione per discutere la letteratura sul personaggio e quattro capitoli dedicati alle opere maggiori costituiscono la struttura di questo saggio che non apparterrebbe, a dire il
vero, al genere della storia contemporanea, e si colloca in modo originale anche rispetto ai classici della storia del pensiero e delle dottrine politiche. La sua natura ambigua, in realtà, è anche un suo punto di forza. Competente e informato, contrappuntato da non pochi richiami
ad aspetti della ricerca filosofica novecentesca, il volume si pone come obiettivo quello di presentare in modo completo il pensiero di Bonald: un proposito certamente soddisfatto. Non
altrettanto felice è la scelta narrativa, organizzata sulle singole opere e appesantita dalla ripetizione di uno stesso modulo espositivo: quello di dare conto in modo puntuale del loro contenuto. È chiaro che nel caso di un pensatore di «difficile digestione» come Bonald, questo
schema risulta doppiamente noioso: cosa di cui non ci si può che rammaricare, perché sul pensiero bonaldiano si hanno a disposizione poche opere introduttive e il saggio di Barberis, ciò
va riconosciuto, ha il pregio di esplorarne molte parti in profondità e di prestare attenzione
ad alcuni aspetti ancor oggi non molto studiati (cfr., tra gli altri, il Bonald «antropologo» come emerge a p. 55 e ss.).
Il fatto che le notizie biografiche su Bonald si contino in poco più di tre pagine (per altro senza continuità), mentre i Villèle, i Decazes, i Richelieu, ossia i protagonisti della vita politica al tempo della Restaurazione, non siano mai evocati, pone però un problema: ossia se
un saggio centrato su un personaggio che ricoprì anche funzioni pubbliche di un certo rilievo (fu deputato e pari di Francia, académicien e censore) possa prescindere dall’esame del contesto politico di riferimento. Il lavoro in questione sembrerebbe propendere per un sì, e mostra di prediligere più di ogni altro il piano dell’analisi filosofico-politica. Tuttavia, se il senso
della collana editoriale in cui si colloca è quello di presentare il ritratto di «una grande figura
intellettuale», sarebbe forse stato meglio dedicare più spazio al quadro, mosso e composito,
della cultura politica del suo presente.
Apprezzabile sotto il profilo del contenuto (perché solido e rigoroso quanto il suo oggetto di studio), ma fragile (come ho già detto) sotto quello dell’impianto narrativo, oltre che per
piccoli aspetti della cura editoriale (molte frasi lasciate in francese, nonostante il criterio adottato sia quello di tradurre in italiano), è questo un lavoro che avrebbe necessitato di ulteriore
messa a punto e, perché no, di un’iniezione di coraggio: per lasciare scorrere più liberamente
una penna per altro capace di cogliere le molte aporie ma anche gli apporti più innovativi di
uno dei maggiori critici della modernità.
Cristina Cassina
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I LIBRI DEL 2007
Tommaso Baris, Il fascismo in provincia. Politica e società a Frosinone (1919-1940), RomaBari, Laterza, XVII-202 pp., € 22,00
Il volume coniuga una vasta conoscenza della storiografia sul fascismo con uno scavo archivistico analitico sulla provincia di Frosinone. Questo impianto di conoscenze permette all’a. di utilizzare, con grande equilibrio, lo studio del caso locale per rispondere ad alcune domande concernenti la presa e la stabilizzazione del potere nelle amministrazioni comunali fino
al 1924, la formazione della classe dirigente fascista, il ruolo del PNF nella mobilitazione ed
educazione di massa, il processo d’accentramento amministrativo e politico legato dalla svolta
del 1926, le modalità di fascistizzazione della periferia, le forme d’uso del discorso pubblico del
regime e il loro utilizzo a livello locale. All’interno di questo contesto l’intreccio tra storia amministrativa e storia sociale è il perno metodologico della ricerca, mentre il rapporto tra centro
e periferia è la chiave di lettura principale delle vicende narrate. La ricerca si concentra prevalentemente sulle tre figure chiave del prefetto, del podestà e del federale, all’interno delle relative istituzioni: lo Stato, il Comune e il Partito. Tra le fonti ampio spazio è dato alle lettere anonime, utilizzate, dalla periferia, come arma di lotta politica fra le fazioni e di delegittimazione
dell’avversario, e, dal centro, come strumento di monitoraggio delle realtà locali.
Dal punto di vista dei profili socioprofessionali il caso di Frosinone dimostra che il ruolo della possidenza agraria nella gestione della carica podestarile, prevalente in una prima fase, andò nel tempo stemperandosi lasciando posto al ceto medio emergente degli impiegati e
delle nuove professioni. Parallelamente s’indebolisce anche la funzione di legittimazione politica e sociale delle vecchie reti notabilari di matrice liberale a favore della forma partito, che
canalizza la domanda di promozione sociale, offre risorse di formazione politica e culturale finalizzate alla modernizzazione urbana, in ultima analisi svolge un ruolo centrale nella produzione del ceto dirigente locale: emerge cosi la nuova figura del politico amministratore di professione. A seguito di questa lettura vanno evidenziate due ponderate valutazioni dell’a. La prima a non sopravalutare la portata della preminenza dello Stato, attraverso la Prefettura, sugli
organismi di partito locali, che rappresentarono importanti reti di collegamento tra centro e
periferia, permettendo il controllo delle province da parte del centro (p. 82). La seconda a non
sottovalutare la capacità del fascismo di incidere nei processi di definizione delle gerarchie sociali locali, plasmando le nuove generazioni (p. 153) e costruendo la nuova classe dirigente (p.
159). Nel complesso equilibrio tra permanenza e cambiamento, Baris c’invita, infatti, a guardare con maggiore attenzione agli elementi d’innovazione sociale che furono attivati dalla svolta accentratrice del 1926-28 e che si diffusero lentamente in periferia, manifestandosi pienamente negli anni ’30. Ma la forza del volume, che valorizza gli elementi d’innovazione, sta
nell’evidenziare, in ogni caso, anche la capacità della società locale di resistere alla fascistizzazione (p. XI).
Salvatore Adorno
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I LIBRI DEL 2007
Stefania Bartoloni (a cura di), Per le strade del mondo. Laiche e religiose tra Otto e Novecento, Bologna, il Mulino, 456 pp., € 33,00
Questo volume, come già il convegno romano che lo ha preceduto (maggio 2005), accende l’attenzione, una volta di più, sulla «sfera pubblica femminile» nell’Italia liberale, ma la
scruta da una prospettiva fin qui trascurata. L’idea di fondo che ha guidato la costruzione del
volume è insieme semplice e audace. L’azione sociale condotta dalle donne nell’ambito dell’istruzione e dell’assistenza, che è stata, nel corso dell’800, un terreno fondamentale di costruzione tanto delle moderne politiche sociali che delle nuove identità femminili, ha coinvolto
parimenti le laiche e le religiose secondo dinamiche diverse ma non estranee.
A fronte di una storiografia che ha più spesso ignorato questa dialettica compresenza e
che ha separato l’impegno caritativo delle congregazioni femminili e del laicato cattolico dalla pratica filantropica delle emancipazioniste, quasi che l’una fosse la negazione dell’altra, il
volume suggerisce non solo di riconquistare una visione unitaria ma di partire da questa raggiunta consapevolezza per guardare oltre.
Il volume si suddivide in quattro parti. La prima comprende i densi saggi di Paola Gaiotti de
Biase e di Emma Fattorini ed è volta a fornire salde coordinate metodologiche e storiche di riferimento. Intorno ad una periodizzazione scandita in tre fasi (Restaurazione, secondo ’800, tra i
due secoli), riletta all’interno della netta asimmetria di genere nei processi di secolarizzazione,
Gaiotti de Biase traccia la mappa frastagliata e in divenire di un impegno femminile (religioso e
laico) che, all’interno dei nuovi scenari religiosi, politici, sociali, è insieme largo e vitale. Emma
Fattorini concentra l’attenzione sul prezioso protagonismo religioso femminile (nuove congregazioni femminili e più diffuse opere di carità) durante il pontificato di Leone XIII, ovvero nel periodo di tormentato travaglio della cultura cattolica divisa tra intransigenza e secolarizzazione.
I saggi raccolti nelle successive tre parti, dedicate rispettivamente a istruzione, assistenza ed
emigrazione, assumendo con più o meno pienezza la prospettiva su esposta, procurano di proporre esperienze di azione femminile poco note o poco studiate, sempre affrancate da una lettura unilaterale e piatta. Accade così che avvicinandosi alla storia, al radicamento e all’azione caritativa delle congregazioni femminili (delle Figlie povere di san Giuseppe Calasanzio e delle Figlie di Maria
Ausiliatrice che operano nel campo dell’educazione, piuttosto che delle Maestre Pie Filippini e
delle Guanelliane che si misurano con l’esperienza dell’emigrazione italiana nel continente americano, ad altre ancora) difficilmente le si potrà interpretare come «espedienti clericali».
Come per altro verso, nel valutare il processo di costruzione di figure professionali moderne
(dall’infermiera, alla maestra, alla levatrice), difficilmente si potrà ignorare il peso che hanno avuto, per vicinanza o per contrasto, i modelli di educazione e di cura incarnati dalle religiose.
Di segno diverso l’impegno sociale dell’Unione per il bene, che accomuna nel «fare» uomini e donne di credo filosofico e religioso differente.
Rosanna Basso
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I LIBRI DEL 2007
Silvana Battistello, Profughi nella Grande Guerra, Valdagno, Gino Rossato, 165 pp., €
18,00
La vicenda dei profughi vicentini del ’16 sfollati a causa della Strafexpedition s’inserisce
nel contesto molto più ampio degli esodi di civili durante la Grande guerra, esodi che, per
motivi bellici o per gli eventi successivi a Caporetto interessarono, complessivamente, quasi
un milione di persone. Tanto nel ’16 che nel ’17 il fenomeno assunse i connotati dell’evento
inaspettato, della «diaspora» improvvisa che non consentì alla massa dei profughi di portare
con sé nemmeno le provviste, le masserizie ed in generale i più necessari mezzi di sussistenza.
Il volume ricostruisce in maniera analitica l’esodo dei profughi dall’Altipiano di Asiago e
dalla Val D’Astico sgomberati dalle autorità militari italiane e alloggiati nei paesi della pedemontana, in questi caso nel Comune di Breganze. Tra il maggio e l’agosto del 1916 i civili costretti ad abbandonare l’Alto Vicentino ammontarono a 76.338, ovvero il 28% della popolazione dei Comuni interessati, il 15% dell’intera provincia di Vicenza. Di questi profughi,
24.374 provenivano dal distretto di Schio dove erano stati evacuati Comuni come Arsiero,
Forni, Laghi, Lastebasse, Piovene, Posina e Velo d’Astico; 22.153 appartenevano al distretto
di Asiago dove, tranne Enego, tutti i Comuni erano stati sgombrati; 21.955 provenivano dal
distretto di Bassano dove, oltre al 53% della popolazione del capoluogo, risultavano profughi
anche dai Comuni di Campolongo sul Brenta, Cismon, S. Nazario, Solagna e Valstagna;
6.928 appartenevano infine al distretto di Thiene dove erano stati svuotati i Comuni di Caltrano, Chiuppano e Cogollo.
Per i Comuni dell’Altipiano di Asiago il profugato si trasformò nell’esodo forzato della
popolazione e delle amministrazioni che vennero ospitate nei paesi del basso Vicentino. I profughi di Asiago furono accolti a Noventa Vicentina; quelli di Gallio ad Albettone; di Treschè
Conca a Nanto; di Rotzo a Barbarano; di Roana, Canove, Camporovere e Cesuna a Pojana
Maggiore. Si trattò, comunque, di una sistemazione provvisoria, poiché nelle settimane successive molti di questi profughi vennero destinati ad altri Comuni veneti. Per non staccarsi
dalle proprie famiglie e non allontanarsi troppo dalle loro case, gli sfollati furono in generale
poco disponibili ad abbandonare il Vicentino per altre regioni d’Italia, ma alcune centinaia di
loro raggiunsero comunque Como, Varese, Pavia, Torino, Cuneo, Lucca e Campobasso.
Molto attenta all’analisi delle condizioni dei profughi, alle vicende delle singole comunità e al ruolo di supplenza e di assistenza dei parroci e delle organizzazioni cattoliche, l’a. imposta però il lavoro in maniera tradizionale, ignorando le ultime acquisizioni della storiografia sul tema del profugato – definito «un evento ancora da approfondire», il volume citato più
recente è del 2000 – a cominciare dall’importante convegno di Asiago del settembre 2002 dedicato proprio alla Strafexpedition, per finire con i numerosi contributi di Bruna Bianchi e di
chi firma questa scheda.
Daniele Ceschin
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I LIBRI DEL 2007
Laurent Béghin, Da Gobetti a Ginzburg. Diffusione e ricezione della cultura russa nella Torino del primo dopoguerra, Bruxelles-Roma, Brepols Publishers-Istituto Storico Belga di Roma, 501 pp., € 48,00
Tra il 1919 e il 1944 buona parte della cultura torinese «fu pervasa da un vero e proprio filone russo» (p. 9). Secondo Béghin nel primo dopoguerra vi fu anzi un «primato» torinese, nella ricezione e nella diffusione in Italia della letteratura e della cultura russe. Gobetti, Gramsci,
Polledro, Ginzburg, le case editrici (la Slavia, l’Einaudi), le riviste, i giornali… Chi voglia avere
un quadro preciso e aggiornato della Torino «russa» di quegli anni trova qui una narrazione ricca di fatti, fondata sullo spoglio di archivi e di ogni genere di fonte contemporanea a stampa,
su un largo spettro di opere secondarie, nonché su alcune originali ricerche precedentemente
compiute dall’a. (in particolare su Ginzburg). Il libro ha tuttavia due punti di debolezza: una
certa sfocatura del suo oggetto di ricerca e una evidente fragilità interpretativa. La ricezione della cultura russa a tratti si identifica un po’ troppo con quella della letteratura russa, quando non
slava, o semplicemente straniera; Torino diventa in alcuni momenti l’Italia intera, e anche l’arco cronologico della ricerca ha ondeggiamenti eccessivi, tra ’800 e secondo dopoguerra. La ricerca era partita con l’idea di accomunare interesse per la letteratura russa e antifascismo, ciò
che Béghin stesso riconosce essere stata un’«ingenuità» (p. 14), sebbene di essa rimangano varie
tracce, a partire dall’eccessivo spazio concesso all’attenzione di Gramsci per i fenomeni letterari russi. Si tratta, comunque, di un mondo interessante e complesso, in cui la cultura crociana
italiana cominciava a rompere la crosta del profondo disinteresse (e a tratti aperto disprezzo) di
Croce per la cultura russa, studiandola con freschezza intellettuale e cercandovi con passione
quel che spesso non c’era. Qui sta la particolarità dei Gramsci, dei Gobetti, dei Ginzburg (ad
esempio rispetto a Lo Gatto, alle sue riviste e ai suoi più ufficiali centri di studio, tra Roma e
Napoli), ben più che nel numero di traduzioni delle case editrici torinesi. Béghin in realtà non
propone particolari confronti, né cerca specifiche cause all’individuato primato. Si limita a registrare l’«esterofilia» delle case editrici di Torino e il loro «europeismo» (o meglio la loro attenzione per «l’Europa e il suo rampollo americano», p. 251), fondandosi su categorie esplicative
piuttosto deboli quali l’«infatuazione» del pubblico per le letterature straniere (p. 62). Giova al
suo lavoro, a questo proposito, avere alle spalle le ricerche di Angelo d’Orsi e di Pier Luigi Bassignana, che gli permettono di vedere chiaramente come l’europeismo della cultura torinese fino a metà degli anni ’30 fosse condiviso «anche da una parte dell’intellettualità fascista» (p. 253)
– al punto che il tardo Polledro (creatore della Slavia e delle migliori collane di traduzioni dal
russo mai comparse in Italia) poteva bizzarramente teorizzare un nazionalismo culturale fondato sulla piena assimilazione delle culture straniere (p. 270) – e allo stesso tempo come la fascinazione per il mondo sovietico fosse forte anche all’interno della cultura fascista, tanto più in
una città il cui principale quotidiano finì per essere diretto anche da Curzio Malaparte.
Antonello Venturi
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I LIBRI DEL 2007
Giovanni Belardelli, Nello Rosselli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 215 pp., € 15,00
A giudicare dal frontespizio, secondo la nuova edizione del volume, Nello Rosselli non
sarebbe più «uno storico antifascista» (come recitava il sottotitolo dell’edizione Passigli del
1982). Lo stesso a. spiega di aver riscritto «in gran parte» il libro, con l’intento di «approfondire o modificare certi giudizi, soprattutto quelli che si appoggiavano a testi più fortemente
condizionati da una diffusa retorica antifascista» (p. 3). In realtà la modifica del titolo e in parte le dichiarazioni dell’a. paiono estrinseche e il ritratto che ancora emerge del fratello del leader di Giustizia e Libertà, Carlo, il giovane ma già illustre storico del Risorgimento, anch’egli
militante antifascista, resta tutto sommato fermo, nel suo profilo politico e nel giudizio che
se ne offre. Una serie di documenti nel frattempo editi e di studi e testimonianze su aspetti
della vicenda dei Rosselli arricchisce ora la materia del libro, che è anche il «romanzo di formazione» di uno storico tra la prima guerra mondiale e il fascismo. Esso attraversa, quindi,
anche anni di persecuzione politica (il doppio confino a Ustica e a Ponza nel ’27 e nel ’29) e
giunge fino alla morte in Francia nel 1937, per mano fascista. La fitta trama dei rapporti familiari, amicali, scientifici e politici è ben ricostruita, grazie anche agli straordinari carteggi (e
al talento letterario) dei personaggi ritratti. Gli scambi col maestro Gaetano Salvemini, col cugino Alessandro Levi, con Gobetti, Amendola, Ernesto Rossi e altri costruiscono il denso intreccio di «politica e affetti familiari» (questo il titolo del carteggio Rosselli-Ferrero edito nel
1997), che sostiene la vita di Nello e Carlo e quindi le loro biografie. Non convince del tutto
l’insistenza dell’a. sulla combinazione di «autoritarismo e duttilità» (pp. 2 e 106) della dittatura mussoliniana nell’esperienza di Nello, giustificata dalla sola possibilità offertagli di recarsi all’estero per i suoi studi o da certi sconti di pena. Questo giudizio è dovuto in particolare
a una rivalutazione dell’atteggiamento e dell’azione di Gioacchino Volpe (di cui l’a. è uno specialista) a favore di Rosselli presso lo stesso Mussolini. Ma la supposta liberalità di Volpe sembra piuttosto volta a un disegno di controllo ed egemonia politica anche sugli studiosi antifascisti (affine a quella di Gentile), se lo storico del regime poteva ancora rammaricarsi con la
madre di Nello – anche dopo la sua uccisione – della sua mancata «conciliazione piena» con
la «presente vita politica italiana» (p. 197). Restava invece ferma l’intransigenza politica di
Rosselli, nonostante le periodiche rivendicazioni delle proprie prevalenti attitudini di studioso. Il suo percorso mosse da orientamenti iniziali più moderati di quelli del fratello (al socialismo di Turati, Nello preferiva la democrazia liberale di Amendola), verso un successivo avvicinamento alle posizioni di Carlo – giustamente rimarcato dall’a. – con il richiamo ad un
«socialismo operaio» nel ’28, e la stessa stesura di un capitolo (andato perduto) in vista di una
nuova edizione del Socialismo liberale. Idee diverse della storia d’Italia e del Risorgimento, comunque, distanziarono sempre e radicalmente Rosselli da un Volpe e da un Gentile.
Simon Levis Sullam
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I LIBRI DEL 2007
Giuseppe Federico Benedini, Il Peronismo, Roma, Editori Riuniti, 338 pp., € 21,00
Il dibattito internazionale degli ultimi anni su «populismi» e «neopopulismi», in Europa
e in America latina, ha riattivato l’attenzione degli studiosi su una delle sue varianti più conosciute anche se ancora non sufficientemente approfondite e cioè sul peronismo. Tale termine
designa il movimento politico, nato in Argentina negli anni ’40 del secolo scorso, il cui leader carismatico fu il generale Juan Domingo Perón, presidente della Repubblica dal febbraio
1946 al giugno 1955 e poi ancora, dopo quasi diciotto anni di esilio, dal settembre 1973 sino alla sua morte, nel luglio 1974, in un clima segnato da violenti scontri sociali che sfoceranno nel colpo di stato militare del marzo 1976.
Il volume di Benedini, prodotto della sua ricerca dottorale, si inserisce nel quadro del rinnovato interesse per il peronismo di cui analizza genesi e sviluppo. Ricordando le posizioni discordi degli studiosi a proposito dell’attribuzione della denominazione «peronismo» anche al
sistema di idee a cui fanno riferimento i seguaci del movimento, l’a. esplicita nell’Introduzione le domande da cui muove il suo lavoro che sono essenzialmente quelle di verificare se esiste una «ideologia» compiutamente strutturata, in cosa essa consista, quanto abbia in comune con il fascismo italiano e quanto il suo fondamento emancipazionista e proto-terzomondista la rendano un fenomeno originale nel panorama della storia del pensiero politico.
Il lavoro si organizza in tre parti a loro volta articolate in capitoli. Nella prima si ripercorre la storia argentina dalla costituzione del Vicereame del Rio de la Plata nel 1776 sino all’ottobre 1945, ossia sino alla vigilia dell’ascesa al potere di Perón del quale si offre una sintetica
biografia. Nella seconda parte si ricostruiscono innanzitutto i rapporti tra Perón e il movimento dei lavoratori, i legami tra Chiesa, esercito, formazione della coalizione e del partito peronista. Si passa poi a descrivere le politiche economiche, sindacali e sociali del «Governo Nazional
Popolare» e finalmente la caduta del generale nel settembre 1955. Nei due capitoli dell’ultima
parte Benedini analizza quelli che definisce i concetti-cardine dell’ideologia peronista: «comunità organizzata»; «dottrina nazionale»; «tercera posición», le «venti verità» del peronismo.
Il volume presenta alcuni limiti. È essenzialmente descrittivo, le domande da cui la ricerca è partita non trovano risposte, l’a. non riesce a focalizzare, nella vicenda peronista, nodi
problematici rilevanti e quindi non si posiziona, nel dibattito storiografico sul tema, con una
sua interpretazione chiara. Colpisce inoltre il fatto che Benedini non offra alcuna riflessione
sul periodo successivo alla caduta di Perón, sul suo lungo esilio, sul rientro in patria e sul suo
secondo governo dei primi anni ’70 che avrebbe forse permesso di cogliere alcuni elementi di
valutazione dell’evoluzione dell’ideologia peronista. La sua ricostruzione si interrompe bruscamente e senza alcuna giustificazione al 1955, mentre offre una lettura da manuale, piuttosto piatta e dubbia in quanto a periodizzazione, del contesto storico argentino precedente l’ascesa di Perón.
Maria Rosaria Stabili
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I LIBRI DEL 2007
Silvia Benussi, Le donne afro-americane negli Stati Uniti. La lunga lotta per i diritti civili,
Milano, FrancoAngeli, 176 pp., € 16,00
Contrariamente a quanto molti immaginano, il movimento per i diritti civili negli Stati
Uniti non fu solo il risultato dell’impegno di quegli uomini afroamericani con i loro completi grigi, i Martin Luther King, i Malcom X, che vediamo nelle foto dell’epoca. Quel movimento si è appoggiato anche su un’antica e fitta rete di attività di sensibilizzazione e organizzazione i cui snodi erano donne afroamericane diverse per estrazione sociale, cultura e occupazione, cresciute nella memoria della schiavitù e nell’esperienza, umiliante e terrificante per
tutti i neri, della segregazione. Raramente apparivano nelle foto e il loro contributo è stato a
lungo disconosciuto. Nell’ultimo quarto di secolo la storiografia statunitense ha colmato questa lacuna: la storia sociale e politica delle donne afroamericane è ormai un affermato campo
di studi. Ricerche come quelle di Patricia Hill Collins e Darlene Clark Hine hanno mostrato
come la storia di genere illumini l’economia politica della comunità nera e la formazione di
una identità di genere diversa da quella delle donne bianche.
Il merito dell’agile libro di Silvia Benussi – ventidue capitoletti composti ognuno di cinqueotto pagine – è di rendere accessibile almeno in parte questa produzione a un pubblico italiano.
Il volume riesce a coniugare brevi sintesi storiche, che contestualizzano origini e sviluppi del movimento, alle note sui personaggi femminili più impegnati. La brevità del testo costringe a una
trattazione semplificata di un tema complesso, ma l’a. mette in risalto alcuni importanti risultati storiografici: l’intreccio fra razzismo, sessualità e minacce ai diritti costituzionali (pp. 27-28),
la reciproca influenza di esperienze sociali e politiche fra donne bianche e donne nere, la relazione fra oppressione del popolo nero e soggezione di vari gruppi sociali al potere maschile bianco.
Il «nuovo orgoglio» delle donne nere (p. 49), le loro capacità organizzative, l’elaborazione di forme della politica alternative alla politica maschile le resero protagoniste della storia dell’emancipazione afroamericana, creando tensioni all’interno della comunità stessa e del movimento e suscitando l’antagonismo della componente maschile. Il femminismo delle donne nere si trovò così a declinare priorità diverse dal femminismo delle bianche (pp. 129-135).
Il testo, che si basa sulla storiografia statunitense e non su materiale originale, è arricchito da alcune fonti congressuali e sentenze della Corte Suprema, non in bibliografia. Una descrizione della storia sociale ed economica delle afroamericane e un minimo di dati quantitativi avrebbero aiutato a comprendere meglio la forza delle attiviste nere, la loro diversità dalle donne bianche e l’origine di alcune loro culture politiche innovative. Anche una riflessione
sul loro contributo intellettuale sarebbe stata auspicabile, così come una periodizzazione più
attenta alla relazione fra personaggi ed eventi. Il volume peraltro ci sembra si adatti bene all’utilizzo in corsi universitari, ed è di scorrevole lettura nonché generoso nell’offerta di spunti di riflessione.
Maria Susanna Garroni
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Francesco Benvenuti, La Russia dopo l’URSS. Dal 1985 a oggi, Roma, Carocci, 143 pp.,
€ 13,00
Il crollo dell’URSS, la fine del comunismo, la nascita della Federazione Russa come anche dei
nuovi Stati ex sovietici, sono temi per i quali sempre più si avverte la necessità di un approfondito studio di carattere storico. Si tratta di vicende che hanno segnato un tornante decisivo dell’itinerario del ’900 e hanno contribuito in misura rilevante a determinare gli scenari del XXI secolo.
Benvenuti ha individuato nell’avvento di Michail Gorbačëv ai vertici del potere sovietico
l’inizio di una nuova fase di trasformazioni nella storia della Russia e ha operato una scansione
cronologica del periodo esaminato attorno a quattro parole chiave: «Riforma», «Rivoluzione»,
«Stabilizzazione» e «Correzione». La prima fase coincide con gli anni iniziali della perestrojka,
dal 1986 al 1990. Il fallimento dei disegni di riforma del sistema comunista condusse alla fase
rivoluzionaria, dal 1990 al 1993, in cui la crisi terminale dell’Unione Sovietica fu seguita dal
controverso processo di introduzione del mercato nel contesto della neonata Federazione Russa. Lo scontro politico tra il presidente Boris El’cin e il Soviet supremo, conclusosi in modo
cruento nell’ottobre 1993, segnò il passaggio al periodo successivo, quello della «Stabilizzazione», aperto dall’approvazione della nuova Costituzione di impronta presidenzialista. Se l’accettazione del quadro istituzionale da parte delle forze politiche ha contribuito a stabilizzare in una
qualche misura la situazione, per il resto la realtà russa, in questa fase che dal 1993 arriva fino
al 1999, è stata caratterizzata dalle incertezze di un federalismo «sgangherato», dalla prima guerra cecena, dall’erosione progressiva del consenso a El’cin, dalla crisi finanziaria del 1998. L’arrivo di Vladimir Putin ha segnato l’inizio del quarto periodo, quello della «Correzione», che
giunge fino al 2006, sotto il segno della rinascita nazionale, della «democrazia dall’alto», del
rafforzamento del centralismo, di un ibrido sistema economico di «capitalismo alla russa».
La rapida ricostruzione di vicende complesse operata da Benvenuti si presenta necessariamente come un primo sommario di temi ed eventi, di cui la ricerca storica dovrà occuparsi, e
come una proposta di alcune chiavi interpretative di un itinerario intricato. Nelle conclusioni l’a. avanza alcune considerazioni che pongono al centro dell’attenzione il processo di trasformazione della Russia in uno Stato-nazione. Tuttavia resta aperta la questione cruciale dell’Impero, della sua eredità, dei tratti imperiali dell’universo russo, da cui non si può prescindere per una comprensione della storia e del presente della Russia. La sequenza Impero russo-Unione Sovietica-Federazione Russa ha manifestato, pur con forme e in contesti differenti, come il paradigma imperiale russo abbia continuato ad avere una vitalità non trascurabile
anche nel corso del XX secolo, fino a mostrarsi attuale ancora oggi. L’esigenza di connettere
le vicende del ’900 e quelle degli inizi del nuovo secolo ai nodi e alle chiavi interpretative di
lungo periodo emerge dalla lettura di questo testo come fondamentale per una conoscenza e
una comprensione non superficiali delle dinamiche profonde della Russia dopo l’URSS.
Adriano Roccucci
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Silvio Berardi, Libertà nella cultura. Arcangelo Ghisleri politico ed educatore tra Ottocento e
Novecento, Roma, Anicia, 134 pp., € 17,50
Intellettuale e politico repubblicano lombardo, Arcangelo Ghisleri (1855-1938) non ha
avuto una grande fortuna storiografica e soprattutto negli ultimi decenni era un po’ scomparso dal panorama degli studi. Nella sua vita Ghisleri, rimasto pervicacemente attaccato alla tradizione risorgimentale, ha cercato di coniugare lo spirito etico della democrazia di Mazzini
con la modernità del federalismo pragmatico di Cattaneo. In gioventù, ha incrociato il proprio percorso intellettuale con quello di Turati e Bissolati all’interno della «scapigliatura» democratica per poi confrontarsi con il positivismo e con le scienze sociali ed economiche, come mostrano i carteggi utilizzati in questo studio. In ogni caso Ghisleri è rimasto fedele alle
radici della sua cultura civile e alla sua azione politica, oltre che di giornalista, di pretto stampo repubblicano, tanto da continuare a svolgere un ruolo di divulgazione e di testimonianza
democratica, benché sempre più defilato, anche dopo il ritiro dalla vita pubblica all’avvento
del fascismo.
Il libro di Berardi traccia all’inizio un breve profilo generale di Ghisleri, per poi occuparsi più in profondità, ma con molte lacune e ingenuità, della sua azione educativa e divulgativa, oltre che di organizzatore di cultura, alla cui illustrazione non giovano le lunghe e un po’
superflue digressioni sulla legislazione scolastica italiana nel secondo capitolo. Se la figura di
Ghisleri recentemente ha attirato di nuovo l’attenzione degli studiosi, anche per la ricorrenza
dei 150 anni dalla nascita, questa nuova ricchezza non è presente nell’apparato bibliografico
di questo libro un po’ acerbo, che fa riferimento a testi e ricerche in alcuni casi veramente vetusti e superati e comunque ancorati prevalentemente ad una storia delle idee in senso tradizionale. Ad esempio, il libro rileva il ruolo di costruttore e di divulgatore avuto da Ghisleri per
una moderna geografia nazionale e alla portata di tutti (in rapporto anche con il giovane Cesare Battisti) e lo colloca attorno ad un nesso ambivalente con il colonialismo italiano. Tuttavia non affronta pienamente le complessità divulgative della sua azione intellettuale e promotrice, al di fuori dell’azione giornalistica ed editoriale, né le contestualizza all’interno di una
dinamica culturale europea tipica del passaggio di secolo del cui respiro qualche riflesso pure
si trova in Italia, né ne articola pienamente il legame con la questione educativa e scolastica,
che pure costituisce l’asse principale dell’analisi e, per un breve periodo di insegnamento, della biografia stessa di Ghisleri. Eppure, ad esempio, negli ultimi dieci anni i lavori di Giorgio
Mongini e Emanuela Casti (non citati in bibliografia) si sono concentrati proprio su questi
aspetti. Manca infine un qualsiasi riferimento al classico volume di Tina Tomasi su scuola e
libertà in Ghisleri, che pure è del 1970 – ed è paradossale visto il peso che scuola ed educazione rivestono nell’economia del libro qui recensito (pari a circa la metà delle pagine e a due
capitoli su tre).
Pietro Causarano
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I LIBRI DEL 2007
Cesare Bermani, Il tradimento di Taras Liebknecht, comandante della «Volante Azzurra»,
Roma, Sapere, 142 pp., € 11,90
Il 22 dicembre 1944 il tribunale di guerra della II Divisione d’assalto Garibaldi, operante nel Verbano-Cusio-Ossola, emette una sentenza di condanna a morte nei confronti di Nello Sartoris, nome di battaglia Taras Liebknecht, comandante del reparto «Volante Azzurra».
L’accusa, gravissima, è di tradimento, per aver avuto contatti e abboccamenti con alcuni ufficiali della Decima Mas.
Il saggio che ricostruisce l’intera vicenda, scritto da Cesare Bermani, tra i fondatori dell’Istituto «Ernesto De Martino», che in varie pubblicazioni si è occupato della Resistenza in
provincia di Novara e delle storie degli italiani mandati a lavorare nel Reich nazista, viene ripubblicato a più di trent’anni dalla prima edizione. Al testo originale sono state apportate alcune correzioni e aggiunte riproduzioni di carte d’archivio che permettono di inquadrare l’avvenimento in una cornice più ampia.
Facendo riferimento a numerose testimonianze orali e a documenti conservati negli archivi privati dei comandanti della Divisione d’assalto «Garibaldi», l’a. descrive con gran dovizia di particolari la figura del Sartoris, che si era fatto strada tra i partigiani del Verbano non
solo e non tanto per il suo coraggio, quanto per le sue spacconate condite da una buona dose di bugie e di esagerazioni (come quelle di aver ucciso una donna, di aver fatto parte della
Legione straniera e di essere parente diretto dello spartachista Karl Liebknecht, mentre in
realtà la scelta del suo nome di battaglia era dovuta più a letture raffazzonate). Emerge dunque la descrizione di un personaggio che più che dagli ideali della lotta contro l’occupante o
dalle convinzioni politiche è mosso dallo spirito di avventura e dall’effervescenza del momento: spinto dal calcolo e dall’opportunismo Taras nel corso dei primi mesi di guerra partigiana
accoglie nel reparto a lui affidato anche semplici delinquenti che non esitano a compiere soprusi e rapine.
Sino all’atto finale, quando spinto dal fratello militante in una formazione «repubblichina», Taras cerca di mettersi d’accordo con i fascisti della Decima Mas per dare vita ad una formazione mista di combattenti che avrebbe dovuto essere paracadutata in Romagna per condurre azioni di guerriglia contro gli inglesi, considerati il nemico principale tra i belligeranti
in Italia. Il pregio di questo volumetto è quello di fare luce su una vicenda scomoda per tanti anni dimenticata dalla vulgata ufficiale. Il rigore nel vaglio delle fonti, dimostrato da Bermani, dovrebbe essere quello normalmente utilizzato da chi si occupa di approfondire lo studio delle pagine più controverse della «guerra civile», spesso trattate in superficiali ricostruzioni giornalistiche.
Andrea Villa
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I LIBRI DEL 2007
Paolo Bernardini, Gadi Luzzatto Voghera, Piergabriele Mancuso (a cura di), Gli ebrei e la
Destra. Nazione, Stato, identità, famiglia, Roma, Aracne, 379 pp., € 20,00
Il volume raccoglie gli atti di un convegno interessante la cui debole ricezione nella comunità scientifica è da imputare, forse, alla cifra politica che ne ha segnato la gestazione. L’incontro, svoltosi a Padova nel febbraio del 2005 e organizzato dal Center for Italian and European Studies della Boston University, è maturato in un clima segnato da eventi che hanno
complicato, sul piano politico-identitario, la vita dell’ebraismo italiano. La svolta filoisraeliana della destra italiana (rappresentata da Alleanza Nazionale) ha prodotto – come scrive Gadi Luzzatto Voghera nelle pagine introduttive del volume «una frattura e una messa in discussione del tradizionale “fronte antifascista” per aprire un capitolo nuovo nella stessa percezione di sé del mondo ebraico» (p. 9). Partendo da questa consapevolezza gli ideatori del convegno e i curatori del volume hanno scelto di analizzare i rapporti tra i vertici colti dell’ebraismo italiano e la cultura politica di destra – dal patrottismo risorgimentale al nazionalismo
(C. Ferrara degli Uberti, L. Ventura), dal fascismo al revisionismo sionista (I. Pavan, V. Pinto, A. Castronuovo, S. Dazzetti), dal neofascismo del secondo dopoguerra alle correnti neoconservatrici degli ultimi decenni (F. Cassata, G. Gomel, D. Calef ) – collocandone lo sviluppo e le trasformazioni in una prospettiva di lungo periodo che investe retrospettivamente i
fondamenti stessi dell’unità nazionale e le modalità del processo integrativo (Ferrara degli
Uberti, S. Levis Sullam) proiettandosi, oltre la fine del fascismo, sulle modalità di ricomposizione (ideologiche ed istituzionali) dell’ebraismo italiano nel secondo dopoguerra (G.
Schwarz). Al di là dei suoi fini dichiarati il volume affronta, da una prospettiva inedita e stimolante, la dialettica tra identità e integrazione sottraendo gli ebrei all’eterno ruolo di «vittime» e riaffermando l’insopprimibile autonomia (e creatività) della storia ebraica. Alcuni autori hanno elaborato saggi particolarmente convincenti e innovativi: Ferrara degli Uberti, la
quale applica il «modello» culturalista di palese derivazione bantiana allo studio dei rapporti
tra ebrei e nazione nell’Italia liberale, Levis Sullam che analizzando la biografia di A. Momigliano affronta il delicato nodo del modellarsi di un’identità culturale ebraico-italiana, Pavan
e Ventura che indagano il tema «scabroso» e complesso dell’adesione degli ebrei al fascismo,
Schwarz e Calef che analizzano i percorsi identitari dell’ebraismo italiano ed internazionale
dopo la Shoah. Tuttavia, visto che in discussione sono le varie declinazioni dell’identità ebraica moderna nel contesto culturale italiano, non viene adeguatamente sviluppata la riflessione
sull’intreccio tra identità politico-culturale e appartenenza di classe. Non va dimenticato che
gli ebrei italiani erano in maggioranza borghesi e come tali agivano anche politicamente. Stona infine la pur brillante postfazione di Paolo Bernardini che descrive, ignorando volutamente le più recenti evidenze documentarie, l’ebraismo emancipato come un ebraismo debole e
tanto vulnerabile all’assimilazione da mostrare tentazioni suicidarie.
Barbara Armani
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I LIBRI DEL 2007
Stefania Bernini, Family Life and Individual Welfare in Post-War Europe. Britain and Italy
Compared, Basingstoke-New York, Palgrave, 199 pp., € 45,00
Il volume ricostruisce la discussione sulla famiglia che si svolse in Italia e in Gran Bretagna
nel secondo dopoguerra e come questa discussione influenzò l’intervento pubblico. La ricerca si
fonda sul presupposto che dietro le definizioni dominanti di vita familiare vi siano attori e interessi collettivi, per cui la discussione sulla famiglia costituisce il terreno in cui si confrontano politiche diverse, a volte antitetiche. La comparazione offre motivi di particolare interesse alla ricerca, viste anche le forti differenze del contesto in cui discussioni e politiche pubbliche presero forma. Mentre in Gran Bretagna un vasto e capillare sistema di previdenza sociale consente allo Stato di sostituirsi alla famiglia in alcune situazioni e funzioni, «in Italia la modestia delle politiche
di welfare del dopoguerra sembrava lasciare alla chiesa cattolica una autorità incontrastata al riguardo della famiglia e alla famiglia una enorme responsabilità nella cura dell’individuo» (p. 5).
È appunto attraverso la comparazione che la ricerca offre i risultati migliori. Se nella Gran
Bretagna del dopoguerra è alla conoscenza medica (compresa la psicanalisi) che viene riconosciuta la maggiore autorevolezza, in Italia assumono un ruolo particolarmente importante agenzie volontarie e istituzioni semipubbliche: si tratta, comunque, di un intervento estremamente
frammentato, come dimostra il fatto che nei primi anni ’50 erano circa 3.000 le istituzioni che
operavano in questo ambito, fornendo assistenza a più di 200.000 bambini in condizione di
estremo bisogno. Nel settore specifico della politica sociale verso l’infanzia, ebbe luogo in Gran
Bretagna un importante sviluppo: che la responsabilità della cura genitoriale venne sempre più
considerata una responsabilità civile, e dunque materia pubblica, con riflessi evidenti sulle relative politiche. Va da sé che un indirizzo del genere era lontanissimo dall’affermarsi in Italia.
Al di là di queste differenze, sia in Gran Bretagna sia in Italia era dominante l’idea che i
valori della famiglia costituissero l’unica possibile diga alla decadenza morale, di cui per altro
si vedeva il segno nell’aumento dei figli «illegittimi». C’era, su questo terreno, soprattutto negli anni ’50, una significativa convergenza tra la Chiesa cattolica, in Italia, e il Partito conservatore britannico basata sull’idealizzazione della famiglia tradizionale. D’altra parte, anche il
PCI di Palmiro Togliatti evitò deliberatamente di legare la richiesta della parità di diritti per
le donne a una critica dei tradizionali ruoli familiari. Le donne comuniste, sosteneva Togliatti, non trascuravano i loro doveri specifici all’interno della famiglia né «rinunciavano in nessun modo alla loro grazia e alla loro femminilità» (p. 31).
L’ultimo capitolo ribadisce e articola la tesi centrale: che il tema della famiglia, e dunque
della regolazione della vita familiare, offre una prospettiva privilegiata «attraverso cui guardare alle trasformazioni che si realizzano nella sfera sociale e politica» (p. 144), costituendo un
terreno di propaganda nel quale confluiscono istanze e preoccupazioni legate ai diritti di cittadinanza e alle politiche di genere.
Luciano Marrocu
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I LIBRI DEL 2007
Fabio Bertini, Risorgimento e questione sociale. Lotta nazionale e formazione della politica a
Livorno e in Toscana (1849-1861), Prefazione di Sandro Rogari, Firenze, Le Monnier, XIV892 pp., € 49,00
Dopo un primo volume su Livorno nel Risorgimento dedicato al periodo 1830-49 (cfr. «Annale» V/2004, p. 121), Bertini ne propone un secondo che copre gli anni dal 1849 alla fine del
1861. Nelle 800 pagine del testo la narrazione segue nei dettagli le vicende della città, con andamento rigorosamente cronologico, non omettendo lunghi elenchi di nomi ed episodi minuti,
senza sconfinare, tuttavia, nel cronachismo, grazie ad alcuni robusti fili conduttori che innervano e scandiscono l’intero arco del racconto: fisionomia e articolazione dei lavoratori del porto;
ruolo esercitato da Guerrazzi nel corso del processo del 1849-53 e negli anni dell’esilio; periodiche tentazioni a ricorrere al «pugnale rivoluzionario» (p. 358) con le conseguenti azioni repressive; «guerra delle ricorrenze» (p. 255), che si riaccendeva annualmente non solo tra governanti e
associazioni patriottiche nell’anniversario di Curtatone, ma anche fra queste ultime sulla scelta
degli episodi di cui celebrare la memoria. Bertini allarga continuamente lo sguardo da Livorno
alla Toscana e, seguendo le ramificazioni dell’associazionismo democratico e l’intreccio delle relazioni diplomatiche, al più ampio contesto italiano ed europeo. Ma il fuoco si concentra sempre su Livorno, con il suo carattere singolare di città senza territorio, segnata nelle potenzialità
economiche e nella fisionomia sociale dalle attività del porto. Luogo di passaggio di uomini e
merci, porta da cui affluivano nell’intera regione mercanti da ogni dove e con loro, oltre alle idee,
la gran parte dei libri che circolavano in Toscana, a Livorno guardavano, con eguale interesse ma
con preoccupazioni divergenti, tutti i protagonisti del decennio preunitario, prima e dopo il crollo del regime lorenese. Paure e speranze si legavano all’influenza larga e radicata delle idee democratiche fra le classi popolari livornesi, che le disponeva a farsi coinvolgere nella rete dell’associazionismo patriottico, a dar copertura alla produzione e circolazione di materiali di propaganda,
a vedere i propri figli offrirsi volontari alla causa nazionale. A fronte di un ceto popolare a larga
componente operaia, che poneva le basi di una combattiva tradizione democratica fondendo, e
confondendo, questione nazionale e questione sociale, Bertini ci descrive un ceto dirigente urbano che costruiva la sua identità all’interno di una fitta rete di associazioni culturali, economiche
o assistenziali, che finivano tuttavia per rispecchiare il vario combinarsi delle endiadi oppositive
monarchia/repubblica, moderati/democratici, élite/popolo, complicato spesso dai rapporti vischiosi tra politica ed economia e dal conflitto religioso, particolarmente acuto per la presenza in
città di molte comunità di culto. Il lavoro, pur con un’architettura complessa e ridondante, riesce bene, in definitiva, «a ricostruire il farsi della politica» (p. 1), all’interno di una società urbana i cui caratteri peculiari sono certamente di lunga durata. Tanto che è forse possibile trovarne
ancora traccia nella Livorno di oggi, seconda solo a Firenze per densità di aderenti a logge massoniche, ma al tempo stesso città con la tifoseria più rossa d’Italia.
Alfio Signorelli
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I LIBRI DEL 2007
Morena Biason, Un soffio di libertà. La Resistenza nel Basso Piave. Fossalta-Musile-Noventa-San Donà, Presentazione di Michele Marangon, Prefazione di Marco Borghi, Portogruaro,
Nuova Dimensione, 561 pp., € 19,00
In tempi in cui la Resistenza non gode dei favori dell’opinione pubblica e rimane vittima
delle ricorrenti campagne mediatiche non può che essere segnalata con interesse non solo una
ricerca sulla lotta di liberazione in una parte così strategica del nostro presente, il Nord-Est,
ma una ricerca che riparte dalle fonti, per rimettere gli strumenti della storiografia a confronto con una «storia che prima ancora che chiarita, deve ancora essere narrata», come avverte
con onestà la Presentazione del volume.
Questa ricerca di ampio respiro riprende, con notevole correttezza metodologica, una stagione di studi promossa in passato dalla rete degli Istituti storici che ha avuto il solo limite
nella scarsa capacità di andare ad influenzare, per motivi sostanzialmente estrinseci, non solo
il livello medio delle conoscenze sulle vicende resistenziali in tante parti del paese ma proprio
quel sentire diffuso che è stato l’oggetto delle campagne mediatiche cui prima si faceva riferimento.
Una ricerca con solide basi documentarie, come conferma la ricca appendice non solo documentaria ma anche fotografica relativa a tutto il periodo che spazia dagli anni ’20 alla Liberazione. Da sottolineare come proprio l’abbondante materiale documentario in appendice costituisca un’importante risorsa per ulteriori ricerche, aggiungendo un altro elemento di pregio alla ricerca che diventa, a sua volta, fonte per successivi approfondimenti.
Lo scenario indagato dall’a. è certamente di grande interesse proprio per le caratteristiche
peculiari legate al territorio di pianura costiera, di grande valenza strategica, dove la Resistenza costruì e radicò la propria presenza, subendo inevitabilmente, nelle diverse fasi del conflitto, le sconfitte e le cadute di un movimento che riuscì, nonostante tutto, ad attrarre e costruire consenso attorno alla propria azione politica e militare.
Dalla ricerca emerge con grande efficacia tutto il microcosmo partigiano, nelle diverse fasi legate non solo alla «scelta» dopo l’armistizio ma anche alla storia democratica di lungo periodo di un territorio, come quello sandonatese, che espresse figure del rilievo come Silvio
Trentin, Aldo Damo e Celeste Bastianetto. Un microcosmo fatto di tante figure, uomini e
donne, che ritrovano il loro spazio e la loro umanità in un incrocio efficace fra fonti archivistiche e testimonianze orali e che si muovono sullo sfondo della tragedia bellica letta nella sua
quotidianità fatta di repressione fascista e tedesca ma anche di bombardamenti e attacchi aerei alleati, di lotta minuta per la sopravvivenza dei singoli e delle comunità.
Il saggio non si arresta alla Liberazione, condotta a termine dai partigiani locali, ma traccia un quadro completo anche delle difficili settimane dell’avvio dell’uscita dalla guerra verso
un dopoguerra pieno di problemi e di speranze.
Massimo Storchi
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I LIBRI DEL 2007
Giorgio Bigatti, Sergio Onger (a cura di), Arti, tecnologia, progetto. Le esposizioni d’industria in Italia prima dell’Unità, Milano, FrancoAngeli, 301 pp., € 22,00
I saggi raccolti nel volume sono l’elaborazione degli interventi presentati nella giornata di
studio svoltasi presso la Facoltà di Economia dell’Università degli studi di Brescia nell’aprile
2005. Il tema dell’incontro verte sulle esposizioni italiane organizzate negli anni precedenti
l’unificazione. Per quanto concerne le finalità della pubblicazione, l’obiettivo degli studi è
quello di dare maggiore risalto alle manifestazioni espositive e alle pratiche di premiazione dei
prodotti industriali, a esse collegate, nei primi sessant’anni dell’800, alle quali la storiografia
ha rivolto minore attenzione rispetto a quelle della seconda metà del XIX secolo. I saggi contengono significativi approcci che si possono raggruppare in alcuni filoni interpretativi: l’ipotesi delle radici cinquecentesche simboleggiate dalla tradizione rinascimentale del «teatro delle macchine» e la rappresentazione della tecnica e della scienza che si evolve dai manuali alla
spettacolarizzazione promossa, per la prima volta, dall’Esposizione di Londra del 1851 con la
costruzione del Crystal Palace (L. Dolza, V. Marchis); la relazione stretta tra le esposizioni e il
mondo associativo culturale in ambito locale rappresentato da accademie scientifiche, società
agrarie e istituti di incoraggiamento (F. Della Peruta, G. Moricola, S. Onger, G. Fumi); i prodromi del design industriale con i primi esempi di oggetti di consumo per le classi meno agiate e la volontà di riqualificare il ruolo dell’artista e dell’artigiano sul piano intellettuale e professionale (R. Riccini, F. Mazzocca, G. Meda Riquier); l’esigenza modernizzatrice e di rilancio economico del Regno di Sardegna e del Lombardo-Veneto e gli aspetti simbolici connessi alla politica e al consenso prima e all’esordio dell’unificazione (S. Montaldo, G. Bigatti, A.
Giuntini).
Il merito di questo volume sta nell’avere condotto un’interessante riflessione sull’alta circolazione di idee e di uomini (promossa dalle esposizioni e dai premi come incentivi all’innovazione) che contribuisce alla formazione della cultura industriale e tecnologica della penisola. Inoltre emergono alcune chiavi di lettura rilevanti: il ritardo e l’arretratezza economica e
produttiva delle regioni italiane negli anni che precedono l’unità del paese, la politica che promuove le esposizioni come strumento di incentivazione economica, la ricerca di consenso per
orientare l’opinione pubblica a favore del modello di sviluppo del liberismo, elemento percepito da Cavour come la qualità principale di queste manifestazioni.
Infatti nel corso di tutto l’800 le esposizioni presentano stretti legami con la sfera politica mischiando caratteri ideologici, interessi economici e innovazione tecnologica. Da questo
punto di vista, nella seconda metà del XIX secolo, la classe dirigente coglie questo nodo promuovendo il fenomeno espositivo come strumento per persuadere l’opinione pubblica che il
progresso economico-scientifico si possa conciliare con quello politico-sociale.
Cristina Accornero
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Agostino Bistarelli, La storia del ritorno. I reduci italiani del secondo dopoguerra, Torino,
Bollati Boringhieri, 269 pp., € 25,00
Ci sono tre fasi nella storia di un reduce. Prima la guerra, perché, come scrive Bistarelli
esiste «un nesso tra il modo di essere stati nella guerra e il successivo comportamento da reduci» (p. 11). Nessuna uscita dalla guerra ha mai presentato una tale varietà di vicende e contraddizioni come l’Italia post-1945, i milioni di soldati che non erano mai usciti dal territorio nazionale senza correre rischi maggiori dei civili, quelli che avevano davvero combattuto
per l’esercito o come partigiani, oltre 1.200.000 reduci da prigionie diverse e con forti lacerazioni interne, anche i reduci di Salò. Vicende che Bistarelli presenta e riassume, ma non può
approfondire, perché il suo tema è la seconda fase nella storia del reduce, il ritorno. Dove i reduci che rivendicano la loro sofferta fedeltà a ideali sia vincenti, sia perdenti non ottengono
attenzione, vengono buttati nel mucchio. È significativo, nota Bistarelli, che il reduce più noto sia il protagonista di Napoli milionaria che Eduardo De Filippo mette in scena nel marzo
1945: il prototipo del reduce sconfitto e rassegnato era già consacrato quando gran parte dei
reduci (e tutti quelli che avevano fatto scelte politiche) dovevano ancora ritornare. Giustamente Bistarelli ricorda il «rapporto non risolto tra la società italiana e la guerra fascista» (p. 24).
La seconda fase è il tema principale del volume, il ritorno e il reinserimento dei reduci,
un tema piuttosto dimenticato e finalmente trattato in modo adeguato. La scelta di fondo dei
governi di Parri e De Gasperi fu di non privilegiare i reduci come categoria, ma di concedere
loro la stessa assistenza riservata alle vittime civili del conflitto. Torniamo alla difficoltà di fare i conti con la guerra fascista con l’opzione di azzerare le diverse scelte dei reduci, salvo quelli di Salò, ma comprese quelle delle tante prigionie. I reduci come massa promiscua, cui concedere parchi benefici e riconoscimenti morali generici, non un esame delle loro vicende, come del resto avveniva per i molti rami dell’amministrazione pubblica. Dinamiche che Bistarelli documenta ampiamente, con la successione dei provvedimenti e il forte ruolo lasciato alla Chiesa cattolica nella gestione dell’assistenza.
La terza fase nella storia dei reduci è la loro memoria. Bistarelli traccia, credo per la prima volta, un panorama delle molte associazioni di reduci nate nel dopoguerra, quelle partigiane e l’ANA con una base di massa e un peso politico, le tante di taglio tradizionale, patriottico e anticomunista di poco successo, spesso tenute in piedi dalle sovvenzioni ministeriali.
Bistarelli è però troppo buono, forse perché la sua attenzione si ferma ai primi anni della Repubblica. Bisogna pur riconoscere che queste associazioni (con le debite differenze) hanno
continuato a coltivare un culto statico della memoria, non la sua ricerca e documentazione.
Le ricerche vitali vengono da altra parte, singoli reduci impegnati o gli istituti per la storia della Resistenza.
Giorgio Rochat
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27-08-2008
16:47
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I LIBRI DEL 2007
Donald Bloxham, Il «grande gioco» del genocidio. Imperialismo, nazionalismo e lo sterminio
degli armeni ottomani, Presentazione di Marcello Flores, Torino, Utet, XVI-383 pp., € 24,00
(ed. or. Oxford, 2005)
Questo volume è uno dei più recenti e originali contributi alla ricerca sullo sterminio degli armeni ottomani, dedicato non solo al genocidio – che pure l’a. ricostruisce e tenta di reinterpretare – ma anche, se non soprattutto, al suo contesto internazionale, ricostruito facendo
uso di fonti primarie (non però di quelle ottomane). Esso si segnala per l’acutezza delle sue
analisi più che per la novità delle scoperte, anche se non tutte le sue proposte interpretative
sono ugualmente convincenti. Il libro si apre con due capitoli che propongono un’interpretazione del genocidio alla luce dell’interazione politica tra l’Impero ottomano, i nazionalisti armeni e
le potenze straniere. Bloxham confuta la tesi «intenzionalista» proposta da molta storiografia armena, mostrando come il genocidio sia stato il frutto non di un piano lungamente premeditato,
ma di una graduale radicalizzazione della politica ottomana. Quest’ultima viene interpretata in
chiave prevalentemente «reattiva» rispetto alle azioni dei nazionalisti armeni e delle potenze straniere, con poca attenzione per il ruolo giocato dalle spinte verso l’omogeneizzazione etnica dello
Stato ottomano esistenti all’interno del gruppo dirigente di questo (e dirette non solo contro gli
armeni, ma anche contro gli altri cristiani e i musulmani non turchi). Ciò malgrado la prima parte del libro si concluda con un interessante Interludio che esamina il contesto del genocidio, in
particolare le persecuzioni di curdi e assiri nel periodo bellico e le guerre nell’Asia minore e nel
Caucaso negli anni immediatamente successivi, accennando inoltre al problema curdo nella Turchia dell’entre-deux-guerres. Bloxham sostiene a ragione che, malgrado innegabili continuità, tali
eventi non possono essere interpretati come una semplice estensione o prosecuzione delle politiche genocidarie del 1915-1916. La seconda parte del libro, che discute le reazioni e le responsabilità internazionali – in particolare quelle della Germania e dell’Intesa – enfatizza la strumentalità dell’interesse di tutte le parti in causa per la questione armena. Le accuse di complicità nel genocidio mosse alla Germania vengono riesaminate (e in gran parte smontate) in
questa luce, mentre viene evidenziato come, dal canto loro, «Inghilterra, Francia e Russia […]
invocavano la questione armena solo per motivi opportunistici» (p. 162). Questa conclusione è, peraltro, difficilmente definibile come una scoperta inattesa, pur essendo frutto di ricerche d’archivio. Preceduta da un nuovo Interludio dedicato ai nuovi problemi delle minoranze sorti nel Vicino Oriente all’indomani del Trattato di Losanna, la parte finale discute il problema del mancato riconoscimento del genocidio armeno: in particolare, nell’ultimo capitolo sono ricostruite le radici della posizione assunta dagli Stati Uniti in proposito. Da ultimo
l’epilogo, dedicato alla Geopolitica della memoria, ricostruisce quella che nella presentazione
viene definita una «battaglia sul passato» segnalandone opportunamente il legame – stretto e
costantemente rinnovato – con l’attualità politica presente e passata.
Antonio Ferrara
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Mauro Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1945-1956),
Milano, Feltrinelli, 281 pp., € 19,00
Nel primo decennio del dopoguerra, fino alla divulgazione del rapporto Chruščëv sui crimini di Stalin, il PCI impose ai suoi militanti di raccontare pubblicamente e di scrivere la propria
autobiografia. La pratica risaliva agli anni ’30 ed era diffusa in tutto il mondo comunista. Era un
aspetto della «critica e autocritica» del militante bolscevico. L’aveva codificato Stalin in persona,
fin dal 1928: il Partito come tribunale della classe operaia, chiamato ad esercitare un «controllo
morale, vivo e vigilante» (p. 43) sulle condotte dei singoli e sui loro atteggiamenti ideologici.
Nel caso italiano, le occasioni di dover rendere conto di sé in forma narrativa potevano
essere diverse. Boarelli studia quella offerta dalla Scuola di partito di Bologna. Per dieci anni,
1.024 militanti redigono 1.217 autobiografie. Scrivono, prevalentemente, operai e contadini,
benché, avverte Boarelli, l’autodefinizione sia fortemente segnata, da un lato, dal primato
ideologico e dal prestigio della condizione operaia; dall’altro, dal profondo sospetto che grava su ogni altra condizione di classe, segnatamente borghese o piccolo borghese. È, in ogni caso, una documentazione vasta, e di straordinario interesse.
L’autobiografia in pubblico era spesso umiliante. Dava luogo a vere e proprie forme micro persecutorie, nello spazio di una prolungata esposizione personale al giudizio del collettivo, senza nessuna forma di tutela per chi si raccontava. In molti casi, anzi, il clima era violento, quasi sadico, come nel caso di una giovane e bella partigiana di origini slave, che durante
la guerra aveva svolto, anche in virtù del suo fascino, compiti di spionaggio presso un certo
comando tedesco. Nel 1950 si vede costretta a rispondere ad una compagna che la interroga
per sapere se «quell’incarico non gli consentiva di soddisfare un forte desiderio di andare a letto con un tedesco» (p. 241).
Perché, si chiede Boarelli, centinaia di militanti comunisti accettarono questa forma di
controllo così insinuante? La risposta viene offerta dall’a. su di un piano essenzialmente metodologico. La storia delle autobiografie comuniste è un capitolo della più ampia vicenda del
rapporto tra scrittura e potere. Da questo punto di vista le pagine redatte dai militanti bolognesi del PCI si offrono come lo spazio di un conflitto: da un lato, le richieste del Partito committente, che impone modelli narrativi e fornisce schemi di auto comprensione; dall’altro, le
strategie più o meno elusive, i compromessi e gli scarti, dei militanti scrittori, secondo un modello interpretativo che si richiama esplicitamente alla lezione di Carlo Ginzburg.
Ma tutto questo se vale ad affinare gli strumenti di lettura non risponde alla domanda
iniziale: perché uomini e donne, usciti spesso da prove durissime, si piegarono a pratiche del
genere? Nel tentativo di assimilare l’autobiografia comunista ai documenti di un processo della santa Inquisizione a restare inevaso è infatti il problema molto novecentesco dell’ideologia
e della fedeltà ideologica.
Adolfo Scotto di Luzio
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I LIBRI DEL 2007
Denis Bocquet, Rome ville technique (1870-1925). Une modernisation conflictuelle de l’espace urbain, Rome, Ecole Française de Rome, 440 pp., s.i.p.
È spesso stimolante leggere ricerche di storici stranieri sulle città italiane e anche questo
libro non delude le aspettative. Denis Bocquet, studioso francese molto attivo nel settore della storia urbana, presenta in questo volume i risultati delle sue ricerche per la tesi di dottorato dedicata alla modernizzazione delle reti tecniche a Roma in età liberale. Un tema, quest’ultimo, poco esplorato dalla storiografia italiana ma che, senza dubbio, offre una prospettiva
originale all’analisi di una questione, quella della costruzione della capitale nazionale, viceversa molto dibattuta nella tradizione degli studi storici su Roma. Scopo del volume, più in particolare, è «une lecture des enjeux de modernisation de la ville qui prenne en considération
tant la complexité des processus décisionnels, que la dimension spatiale des rivalités entre institutions» (p. 1). Ovvero una ricostruzione della modernizzazione urbana che non si limita ad
acquisire i risultati finali, ma ne esamina anche i percorsi, soprattutto attraverso l’analisi dei
contrasti e delle mediazioni tra le diverse autorità competenti. L’ambizione di Bocquet, infatti, è quella di offrire un contributo «à une histoire politique de l’espace urbain, et, en miroir,
à une histoire spatialisée de la bureaucratie urbaine, de la vie politique municipale et des enjeux qui s’y rattachent» (p. 2).
Dopo un’introduzione, in cui l’a. definisce appunto la natura del suo studio sottolineando gli apporti metodologici della storia sociale delle tecniche e della sociologia delle organizzazioni, il volume comincia con un primo blocco di tre capitoli, dedicati rispettivamente alla
ricostruzione dell’idea di Roma capitale, ai caratteri delle istituzioni municipali e ai rapporti
tra Stato e Comune. Segue poi la parte più originale del lavoro, sviluppata in sei capitoli, dove Bocquet analizza su fonti archivistiche a lungo trascurate alcuni dei grandi cantieri della
modernizzazione tecnica di Roma capitale, essenzialmente la canalizzazione del Tevere e la costruzione dei collettori delle fogne. Infine c’è un ultimo capitolo, seguito da una breve conclusione, che affronta uno dei temi più frequentati dalla storiografia sulla capitale, quello della pianificazione urbanistica, analizzata come il risultato di una complessa interazione tra decisioni tecniche e procedure istituzionali.
Nel complesso emerge una lettura dello sviluppo urbano che, per molti aspetti, vuole contrapporsi a quella simbolico-culturale diffusasi negli ultimi anni. Il libro, infatti, si propone
di riaffermare il valore delle metodologie e dei risultati della storia sociale e amministrativa in
contrasto soprattutto con i più recenti studi urbani influenzati dalla nuova storia culturale. A
giudizio di chi scrive, Bocquet mette in campo idee originali e innovative, indica percorsi di
possibili promettenti ricerche, contribuisce a ridefinire la natura di alcune questioni cruciali
nella modernizzazione della città, ma i risultati effettivi della sua indagine si rivelano a volte
meno stimolanti delle riflessioni metodologiche.
Francesco Bartolini
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I LIBRI DEL 2007
Bruno Bonomo, Il quartiere delle Valli. Costruire Roma nel secondo dopoguerra, Milano,
FrancoAngeli, 208 pp., € 18,00
Molto poco è stato prodotto sinora come storia di quartiere, il che rende tanto più prezioso il progetto editoriale di Lidia Piccioni sulle «tante Rome» del ’900. L’ultimo volume della collana affronta un nucleo promosso nel dopoguerra nella zona di Monte Sacro-Prati Fiscali da un colosso fondiario, la Società generale immobiliare.
Diciamo subito che il lavoro di Bonomo ha il merito fondamentale di affrontare con rigore e accuratezza un episodio di «speculazione edilizia», sgombrando il campo da formule
abusate, e dedicandosi con pazienza e giusto distacco ad articolare forme, contenuti, dinamiche di una famiglia di fenomeni urbani non trascurabili.
A proposito dell’Immobiliare (soggetto, inutile dirlo, con l’unico movente del profitto, la
cui parabola va dall’ascesa postunitaria alle oscure trame finanziarie di Sindona e al fallimento
di fine anni ’80) Bonomo usa la definizione di «speculazione virtuosa», sottolineando positivamente lo standard qualitativo medio e la dotazione di verde e servizi nei quartieri realizzati. Se
all’epoca per Antonio Cederna l’Immobiliare rappresentò la «rovina di Roma», lo sguardo sobrio dello storico restituisce una città costretta ancora oggi a pagare il prezzo di inquinamento,
congestione ed erosione del verde semplicemente perché cresciuta – dice Bonomo – sacrificando il comfort collettivo a quello privato. In questo senso Roma, nell’Italia del boom, è un caso
eclatante ma per nulla isolato. È nel disegno politico della casa in proprietà per tutti, dunque,
del benessere diffuso come strumento di pace sociale, che trovano spiegazione (se non giustificazione) le acclarate e innumerevoli connivenze tra amministratori capitolini e costruttori sulle scelte di piano regolatore. Per la cultura tecnica più avanzata quartieri come quello delle Valli furono tessere impazzite del successivo dilagamento urbano a «macchia d’olio», permesso da
un Piano regolatore generale incapace di pilotare l’espansione secondo poche direttrici ponderate – si veda di contro la pluridecennale battaglia per il Sistema Direzionale Orientale di Zevi & c. Tutto vero, salvo che Bonomo ci costringe a guardare più da vicino e concretamente come nel quartiere si sia vissuto (abitato, giocato, socializzato, lottato politicamente), con livelli
di vivibilità e di identificazione nei luoghi tutto sommato accettabili, in barba ai dettami dell’urbanistica illuminata – che peraltro ha prodotto non pochi mostri.
Particolare nota di merito va all’a. per l’utilizzo incrociato di fonti di tipologia e provenienza
diversa, di norma separate nei singoli approcci disciplinari: i classici fondi archivistici (catasti, contratti) e i dati quantitativi, così come le interviste e l’osservazione partecipante sul campo. Questa «ibridazione metodologica» condotta con grande libertà gli consente di trattare con pari dignità sia aspetti materiali (tipologie edilizie, taglio degli alloggi, infrastrutture) che aspetti immateriali (origine e composizione sociale, dinamiche demografiche, toponimi, immagine complessiva del quartiere) – ed è l’unica, forse, strada percorribile per indagare l’urbano alla scala «micro».
Michela Morgante
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I LIBRI DEL 2007
Guido Bonsaver, Censorship and literature in fascist Italy, Toronto-Buffalo-London, Toronto University Press, XIV-405 pp., € 37,85
La censura fascista è il luogo del compromesso tra il regime e la pluralità degli attori in
gioco nella sfera della comunicazione culturale. Muove da questa consapevolezza il lavoro di
Guido Bonsaver. Uno scandaglio approfondito di fonti d’archivio, testimonianze personali,
opere letterarie.
Sebbene limitato all’ambito della letteratura, lo studio dell’apparato di controllo e di autorizzazione della produzione libraria costituisce l’occasione per la formulazione di un’ipotesi
generale sulle relazioni tra cultura e Stato nell’Italia mussoliniana. La censura, infatti, prima di
essere un congegno dell’amministrazione è un insieme di pratiche negoziali che coinvolge editori, autori, funzionari governativi, il Partito fascista, in una trama fittissima di rapporti. Su tutto, la figura del capo, il suo imperscrutabile volere, oggetto di adempimenti zelanti, ma anche
di interpretazioni e fraintendimenti. Da qui una situazione complessa e sfuggente, nella quale
diventa decisiva la capacità degli autori e dei loro editori di sapersi orientare nei meandri del sistema di potere fascista. Se da un lato il regime fascista ambisce a diventare il regolatore della
sfera della comunicazione culturale, dall’altro il linguaggio totalitario funziona come un vasto
campo di opportunità aperto a quanti si dimostrano in grado di padroneggiarne le parole.
Non solo la macchina della censura si costruisce lungo tutto il ventennio, passando attraverso fasi differenti, che l’a. puntualmente ricostruisce, ma il suo funzionamento non
risponde ad una logica di ferrea centralizzazione. «Fascist censorship – osserva l’a. – was not
a monolithic and tightly coordinated machine of repression […] The many officials involved
in the censorship process – prefects, ministers, Mussolini himself, neither shared precisely the
same perspective nor imposed their belief with consistency» (p. 5).
Seguendo questa sottile linea ermeneutica, Bonsaver scandaglia un vasto deposito documentario che verifica alla luce di casi personali, da Bompiani a Mondadori al giovane Einaudi e insieme Massimo Bontempelli, Elio Vittorini, Alberto Moravia, fino alle scrittrici Gianna Manzini, Alba de Céspedes e Paola Masino. Molto interessante è la parte dedicata alla
«bonifica libraria» e alla legislazione antisemita. Anche in questo caso, la censura conserva i
suoi tratti negoziali. Sia che si pensi a De Felice e al suo giudizio sulla «faciloneria mussoliniana», sia che si metta l’accento sulla feroce determinazione della persecuzione razzista. Facendo tesoro del lavoro di Giorgio Fabre, Bonsaver ne attenua tuttavia le conclusioni: «Within
the field of censorship, if traces of anti-Semitism can be found in the earlier years of Fascist
Italy […] there is little doubt that the sudden racist turn of 1938 created a huge amount of
unplanned work for the cultural ministries» (p. 264).
Il lavoro di Bonsaver è ricchissimo di spunti, di informazioni inedite, e di notevole interesse sul piano della ricostruzione storiografica.
Adolfo Scotto di Luzio
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I LIBRI DEL 2007
Massimo Borgogni, Tra continuità e incertezza. Italia e Albania (1914-1939). La strategia
politico-militare dell’Italia in Albania fino all’Operazione «Oltre Mare Tirana», Milano, FrancoAngeli, 412 pp., € 25,00
Massimo Borgogni offre un quadro narrativo sobrio delle relazioni italo-albanesi tra l’inizio del XX secolo e il 1939. Il lavoro verte principalmente sugli aspetti diplomatici e militari
e il suo punto di forza risiede nella chiara sintesi della letteratura secondaria e nell’utilizzo puntuale di fonti reperite negli archivi dell’Ufficio Storico della Marina militare, dell’Aeronautica
militare e negli archivi di Stato albanesi. L’opera è di gradevole lettura, non ribalta né revisiona ma conferma i risultati della storiografia recente. Il fil rouge della monografia sono le incertezze e ambiguità della politica italiana nei confronti dell’Albania già prima del 1922, che il
regime fascista incrementò attuando una politica volta contraddittoriamente al mantenimento dell’indipendenza albanese e a un mal celato obiettivo di conquista territoriale. Lo storico
analizza la cooperazione/penetrazione economica italo-albanese, le tensioni con Jugoslavia e
Grecia, il ruolo dei protagonisti politici, nonché – fatto meno noto – le ambiguità di parte albanese. Illustra il «doppio binario» della politica fascista attraverso i piani dello Stato Maggiore dell’Esercito italiano che oscillarono fra ipotesi di occupazione militare dell’Albania ora contro la Jugoslavia o la Grecia ora contro l’Albania stessa. Integra l’occupazione dell’Albania nel
complesso e indissolubile intreccio fra politica interna ed estera del regime fascista e dimostra
quanto i vertici militari italiani fossero coinvolti attivamente nella politica espansionista fascista. Illustra altresì la goffaggine del Regio Esercito rispetto alle azioni militari tedesche sottolineando che i vertici militari e politici fascisti non stimolarono un dibattito costruttivo dopo
l’aprile del 1939 quando le «illusioni di grandezza» dell’Italia nell’area danubiano-balcanica
prevalsero e l’Albania fu occupata. Borgogni si rivolge a un pubblico che conosce già la storia
e la storiografia contemporanea italiana e dell’area balcanica. Un approfondimento sulla composizione etnica e religiosa e un riferimento all’organizzazione politico-amministrativa ottomana avrebbero aiutato il lettore curioso e meno esperto a cogliere meglio alcuni aspetti della
complessa storia dell’Albania, per esempio, l’intricata «questione del Kosovo» che emerge, in
un modo o in un altro, in quasi tutti i capitoli del volume. Sarebbe stato interessante comprendere quanto bene e cosa dell’Albania le élites politiche e militari italiane prima e dopo la prima guerra mondiale conoscessero e quali fossero le fonti di suddette élites. Infine, la monografia non dice cosa politici, diplomatici, gerarchi, militari ed «esperti» avrebbero voluto fare dell’Albania dopo l’«assorbimento» (termine, cui lo storico fa riferimento nel testo, che avrebbe
meritato qualche spiegazione). Nel denso apparato di note Borgogni rinvia a una serie di dibattiti storiografici. Questa scelta, discutibile, è coerente con l’impostazione del libro che privilegia l’asse narrativo (événementiel) rispetto a quello interpretativo.
Davide Rodogno
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I LIBRI DEL 2007
Luca Borsi, Storia, nazione, costituzione. Palma e i «preorlandiani», Milano, Giuffrè, 401
pp., € 39,00
Il libro di Luca Borsi analizza nel primo capitolo il pensiero del giuspubblicista Luigi Palma, autore fra l’altro, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 dell’800, di un rinomato Corso di diritto costituzionale. Né si limita a collocare Palma nel contesto intellettuale a lui
immediatamente contemporaneo, presentando anche il suo pensiero come una sorta di summa e sistematizzazione della riflessione costituzionalistica italiana sviluppatasi nel trentennio
successivo al ‘48. Proprio su questa riflessione si concentra il corposo secondo capitolo di Storia, nazione, costituzione, dedicato appunto ai «preorlandiani», ossia a una quantità di autori
– alcuni rilevanti, altri meno – che nei decenni a cavallo dell’unificazione ragionarono intorno ai principi del diritto pubblico, e che a parere dell’a. sono stati troppo spesso ingiustamente trascurati.
La chiave interpretativa principale a partire dalla quale Borsi interpreta sia Palma sia i
preorlandiani è quella della «scoperta dello Stato»: ossia di una riflessione giuspubblicistica che
soltanto con il trascorrere del tempo, e soprattutto a partire dagli ultimi due decenni del XIX
secolo, individua nello Stato il punto nodale delle proprie costruzioni intellettuali. Rivelandosi nel periodo precedente assai meno statalista di quanto possa presumersi. Proprio il rapporto fra Stato e nazione appare così un elemento cruciale di differenziazione fra Palma (classe 1837) e Orlando (classe 1860): il primo, nel solco della tradizione rivoluzionaria, assai più
propenso a riconoscere l’esistenza autonoma della nazione, sia pure neutralizzandone con cura qualsiasi interpretazione russoviana; il secondo invece intento a sottolineare come soltanto
lo Stato potesse dare alla nazione (e al popolo) una reale esistenza giuridica.
Per il resto, nelle opere di Palma è possibile ritrovare non pochi degli elementi che caratterizzano la cultura liberale italiana – e non soltanto giuspubblicistica – degli anni ’60-’80, e
che la storiografia ha già messo in luce da qualche tempo: l’attenzione al modello britannico
e l’ansia di replicarlo (un’ansia di «ancoraggio storico» che spinge Palma a sottolineare che «pure noi abbiamo oltre trent’anni di vita costituzionale»); le perplessità crescenti di fronte alla
democratizzazione della vita politica d’oltremanica; la «scoperta» – proprio tramite la Gran
Bretagna – del governo di gabinetto, come meccanismo capace di far convivere la centralità
del Parlamento con la prerogativa regia; la comprensione del fenomeno dei partiti politici, coniugata però con la convinzione che il meccanismo elettorale debba non designare dei rappresentanti, ma selezionare i migliori, e che le condizioni dello spirito pubblico italiano non siano tali che nella penisola possa davvero essere riprodotto un sistema partitico «all’inglese».
Il libro non merita una recensione che termini con una nota negativa. Però un piccolo rilievo critico dobbiamo proprio aggiungerlo: la leggibilità del volume sarebbe risultata maggiore se l’a. avesse usato una prosa un po’ meno… «preorlandiana».
Giovanni Orsina
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I LIBRI DEL 2007
Richard J.B. Bosworth, L’Italia di Mussolini 1915-1945, Milano, Mondadori, 654 pp., €
25,00 (ed. or. New York, 2006)
Lo storico australiano, noto ai lettori italiani per gli studi sulla politica estera e per la biografia di Mussolini (recensita su questo Annale nell’edizione originale), si cimenta ora con una
«storia della prassi del fascismo» (p. 562), ovvero delle trasformazioni reali, e di quelle mancate, della società, della politica e delle istituzioni. L’a. ha esaminato una vasta documentazione archivistica e coeva e non si sottrae alle prese di posizione storiografiche, reagendo con impegno e vivacità contro quelli che ritiene pregiudizi e truismi del senso comune odierno, che
tendono a proporre una generalizzata assoluzione o un’eufemistica banalizzazione del fascismo, intrecciati non di rado con strumentalizzazioni politiche della cosiddetta «Seconda Repubblica» o anche con più strutturati tentativi di revisionismo. Per Bosworth l’interpretazione genuina dell’Italia fascista deve prendere le mosse da un necessario antifascismo – «definito, con una certa approssimazione, come la sistematica ricerca della libertà, dell’uguaglianza
e della fratellanza» (p. 10) –, con la consapevolezza che «l’aspirazione a scrivere la storia totale di una società totalitaria è illusoria» ma nondimeno con l’ambizione di «andare alla scoperta della vita della generazione italiana sottoposta alla dittatura, fossero uomini, donne o bambini, funzionari e intellettuali di partito o antifascisti, proprietari terrieri, industriali, operai o
contadini» (p. 6). La costante attenzione dell’a. alla dimensione di scala geografica, la sottolineatura del familismo, del localismo, della tradizione cattolica, del maschilismo atavico che
l’Italia secolarmente immobile trasmette al paese che Mussolini vorrebbe mutare in una dinamica nazione di uomini «nuovi», gli consentono di mantenere un approccio critico di fondo
a proposito dell’entità della modernizzazione fascista. I risultati del regime furono deludenti,
se non per l’instaurazione di una feroce tirannide che imprigionò, condannò al carcere, assassinò arbitrariamente e infine calpestò lo Stato di diritto, provocando all’interno e all’estero,
con la sua politica coloniale e le sue guerre, «la morte prematura di almeno un milione di persone» e conseguendo «un posto di riguardo nel libro nero dei crimini del XX secolo» (p. 14).
Il clientelismo, la frammentazione sociale, la disomogeneità interna del paese reale furono
ostacoli insormontabili: l’a. sembra quasi estendere, senza citarla esplicitamente, la nozione
gramsciana di «disgregazione sociale» dal Sud all’intera Italia. La classe dirigente fascista ci mise, di suo, arrivismo più che integralismo, pragmatismo spesso corrotto più che fanatismo, cura attenta del proprio «particulare» più che abnegazione nel perseguire il bene pubblico e dette dunque una prova storica di inettitudine. Il consenso popolare al regime fu mimesi e adattamento alle circostanze, deferenza pubblica superficiale e scetticismo privato, dato che «l’unica cosa che contava era tirare avanti» (p. 574).
Marco Palla
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I LIBRI DEL 2007
Alfonso Botti (a cura di), Le patrie degli spagnoli. Spagna democratica e questioni nazionali (1975-2005), Milano, Bruno Mondadori, XXIII-391 pp., € 28,00
Nella transizione spagnola alla democrazia ha assunto un’importanza rilevante il riconoscimento del rapporto tra centro e periferia che si è intrecciato con la ridefinizione identitaria del nuovo Stato. Fin dall’800 la Spagna è stata segnata dalla presenza di forti identità territoriali (Adagio e Botti). Proprio la presenza di queste realtà che sono entrate in rapporto
dialettico – e in alcuni casi conflittuale – con lo Stato centrale spiega l’esistenza di una consistente tradizione federalista risalente all’800. Questa tradizione federalista spagnola è stata
la risposta che una parte degli intellettuali e delle classi dirigenti hanno cercato di dare alle
ricorrenti tensioni tra centro e periferia (Levi). La crisi della Prima Repubblica produsse
un’intensificazione della riflessione federalista ed anche una catalizzazione delle tendenze autonomiste e nazionaliste. Alla fine degli anni ’90 dell’800 si realizzò il consolidamento di
realtà territoriali che rivendicavano le proprie specificità. Nel ’900 una cesura fondamentale
è rappresentata dalla vittoria del franchismo e dalla sua politica centralista. Il legame tra autoritarismo e centralizzazione ha infatti inevitabilmente rafforzato le istanze autonomistiche
considerate per loro stessa natura antitetiche alla dittatura. Non stupisce quindi che la transizione alla nuova democrazia si sia accompagnata ad un riconoscimento delle realtà territoriali attraverso l’emanazione di statuti autonomistici. La stessa Costituzione del 1978 che,
pur senza definire il carattere federale dello Stato, ha riconosciuto la presenza delle realtà territoriali prevedendo procedure per il loro riconoscimento. Ciò ha dato almeno in parte soddisfazione alle tendenze autonomistiche e identitarie presenti in alcune regioni come la Catalogna. Tuttavia questo processo – si sottolinea nel volume – non ha trasformato lo Stato
spagnolo in uno Stato compiutamente federale lasciando aperte diverse soluzioni di ridefinizione dell’assetto statuale. Nello stesso tempo viene messo in luce come, screditato dai trascorsi franchisti il nazionalismo spagnolo, stenti a vedere la luce un’idea di Spagna condivisa, sostituita piuttosto da un senso di identità «plurimo e frastagliato» (Adagio e Botti). Il volume esplora sotto diversi punti di vista sia il rapporto tra locale e nazionale sia i processi di
ridefinizione identitaria della Spagna democratica offrendo al lettore un quadro articolato e
ricco di spunti di riflessione – di cui non è possibile qui dar conto nel dettaglio – che va dall’analisi dei processi di crescita urbana, alle politiche sindacali, alle politiche di genere, al rapporto con la dimensione europea. Dall’insieme dei contributi emerge però con chiarezza come l’evoluzione del rapporto centro-periferia e la ridefinizione dell’identità spagnola siano
strettamente intrecciate con le profonde trasformazioni socioculturali che hanno investito
tutti i settori della società spagnola.
Stefano Cavazza
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I LIBRI DEL 2007
Stefano Bottoni, Transilvania rossa. Il comunismo romeno e la questione nazionale (19441965), Roma, Carocci, 238 pp., € 19,50
Il fenomeno del nazionalcomunismo romeno di Ceasescu è da tempo oggetto di interesse
da parte di storici e politologi. Questo volume però si occupa del ventennio precedente a Ceasescu, sulla base sia di uno spoglio sistematico degli archivi romeni e di indagini in quelli britannici, sovietici e ungheresi, sia di una conoscenza delle fonti edite e della letteratura storica, soprattutto in lingua romena e ungherese. La tesi di fondo dell’a. è che quanto avvenne con Ceasescu
non deve essere interpretato «come il risultato di una deriva nazionalista […] ma come la conseguenza inevitabile […] di una compatibilità di natura non teoretica, ma programmatica fra bolscevismo (o suoi spezzoni ideologici) e progetto nazionale» (p. 12). Il programma nazionalista
precedente il 1945 di uno Stato di romeni e per i romeni non si era potuto realizzare pienamente perché si era dovuto arrestare di fronte all’inviolabilità della proprietà privata: rimosso questo
ostacolo, il regime comunista riuscì ad attuare quel programma coniugando il ricorso a mezzi
coercitivi con la suggestione della palingenesi rivoluzionaria e di un processo di modernizzazione. Bottoni analizza la fase di costruzione del regime comunista, dominata dalla figura di Gheorghe Gheorghiu-Dej, suddividendone la lunga segreteria in tre periodi: gli anni della romenizzazione di un partito, precedentemente dominato da quadri provenienti dalle minoranze, e del riconoscimento governativo del carattere multinazionale dello Stato romeno e dell’applicazione
della politica sovietica delle nazionalità in campo educativo e culturale (1945-1952); gli anni della Regione Autonoma Ungherese nella terre seclere, voluta fortemente da Stalin come affermazione del modello sovietico di autonomia territoriale sulla base di omogeneità nazionali (ma mi
chiedo, non anche come strumento di pressione ricattatoria verso lo Stato romeno?), e della disponibilità di parte della cultura ungherese ad un’integrazione senza assimilazione nello Stato romeno (1952-1956); infine gli anni successivi ai fatti di Ungheria (1956-1965). In questa terza
fase il regime, dando una lettura «etnica» della reazione popolare agli avvenimenti rivoluzionari,
insicuro politicamente, consolidò l’identificazione della nazione «progressiva» con la maggioranza, orientando così la repressione soprattutto verso le minoranze (in primo luogo quella ungherese, ma anche quelle ebraica, tedesca, e cattolica), limitando sempre più l’autonomia della Regione Autonoma Ungherese e trasformandone la composizione etnica attraverso misure amministrative. Giustamente l’a. osserva che questo processo di «nazionalizzazione dello spirito pubblico e della vita culturale» fu presente in tutto il blocco sovietico e comportò anche il recupero
della storiografia borghese utile a questo fine. Rimane da considerare il fatto che, a parte l’immediato dopoguerra, solo la Romania attuò una pulizia etnica (ebrei, tedeschi), seppure parziale, data l’impossibilità di liberarsi della componente ungherese: una specificità poco invidiabile.
Armando Pitassio
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Antonella Braga, Un federalista giacobino. Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti d’Europa,
Bologna, il Mulino, 688 pp., € 46,00
La figura di Ernesto Rossi solo ultimamente ha ricevuto l’attenzione che merita; una delle voci più taglienti nella critica del connubio tra fascismo e potentati industriali, un inesausto critico dei ritardi storici e culturali dell’Italia, un polemista straordinariamente efficace. Sul
fronte della biografia, però, Rossi era rimasto a lungo ignorato, se si escludono un volume curato da Giuseppe Armani nel 1975, alcuni ricordi di Gian Paolo Nitti nello stesso periodo e
qualche scritto di rievocazione sparso. Nel 1997 Giuseppe Fiori pubblicava con Einaudi un
bellissimo libro su Rossi ma ancora mancava la biografia di tipo specialistico. Antonella Braga colma questa lacuna con il suo monumentale lavoro che comunque non arriva a coprire
tutta la vita del personaggio fermandosi alla battaglia per la Comunità europea di difesa nel
1951-1954. Dal suo lavoro emerge chiaramente il ruolo decisivo di Rossi nella definizione
delle prime ipotesi di studio del duo Ernesto Rossi-Altiero Spinelli sin dagli anni del confino:
è Rossi a guidare Spinelli alla scoperta degli scrittori federalisti anglosassoni, fornendo all’amico i fondamentali studi dell’economista britannico Lionel Robbins, ed è Rossi ad avere l’idea di inserire nel Manifesto di Ventotene un programma di riforme di politica interna che ne
faranno un vero e proprio programma di partito. Presa la decisione di fondare il Movimento
federalista europeo nell’agosto 1943, Rossi e Spinelli si dirigono subito dopo in Svizzera, con
l’intenzione di convocare una sorta di «Zimmerwald federalista» che riunisca tutte le tendenze federaliste ed europeiste che i due «sentono» essere esistenti negli altri paesi occupati.
Braga descrive con efficacia il peso e il ruolo di Rossi durante l’esilio svizzero, mettendo in
evidenza anche i primi contrasti tra i due sugli esiti del lavoro federalista. Il sodalizio non si rompe ma emerge la diversa natura del federalismo di Rossi e Spinelli: per Rossi esso non può essere disgiunto da una critica profonda e decisa delle forme che la vita politica italiana ha assunto
prima e dopo il fascismo; la federazione europea è un aspetto irrinunciabile della lotta per la modernizzazione del sistema politico ed economico. Per Spinelli invece, che pure non è insensibile
ai motivi polemici di Rossi, il federalismo è sostanzialmente un nuovo modo di pensare la politica, la battaglia centrale da condurre di fronte alla quale tutto passa in secondo piano. Si spiegano così le perplessità di Spinelli per l’acceso anticlericalismo di Rossi, per il suo anticomunismo che per Spinelli nel 1945 era «dannoso» agli interessi del federalismo e anche la critica del
giacobinismo azionista di Rossi. Questo non impedì una lunga collaborazione che non a caso
però si affievolì dopo la liberazione e dopo la sconfitta della CED, momento in cui Spinelli cerca nuove vie per l’azione federalista e Rossi rientra nell’agone politico nazionale. Il merito di Antonella Braga è quello di avere proposto, con un lavoro di ampio respiro e che si giova di un apparato di ricerche e documentazione impressionante, le coordinate essenziali del federalismo di
Rossi, contribuendo a definirlo nel confronto ideale, inevitabile, con quello di Spinelli.
Piero S. Graglia
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Donata Brianta, Europa mineraria. Circolazione delle élites e trasferimento tecnologico (secoli XVIII-XIX), Prefazione di Philippe Braunstein, Milano, FrancoAngeli, 447 pp., € 26,00
I fattori strategici di natura non economica, in primo luogo il capitale umano e l’istruzione, della trasformazione industriale europea verificatasi a partire dal crepuscolo dell’antico
regime rappresentano un dato ampiamente acquisito dalla storiografia e corroborato da analisi che nel corso degli ultimi dieci-quindici anni si sono focalizzate su aree territorialmente
circoscritte e non immediatamente corrispondenti agli aggregati degli Stati nazionali. È nell’ambito di tali rinnovati e ben solidi orizzonti storiografici che si colloca il volume con cui
Donata Brinata corona una pluriennale e fruttuosa stagione di studi dedicati alle sedi di formazione dell’intellettualità tecnico-scientifica altamente specializzata, con particolare riferimento agli ingegneri minerari, e al ruolo di questa nelle amministrazioni statali e nell’industrializzazione italiana e continentale. La profonda familiarità con le predette tematiche e la
piena padronanza delle fonti primarie e della letteratura scientifica settoriale consentono pertanto all’a. di fornire al lettore un quadro assai vasto, sia per le coordinate geografiche, che
spaziano dall’Europa centro-orientale all’Inghilterra, all’Italia e agli Stati uniti, che per la pluralità degli attori considerati. Viene infatti robustamente documentato e intelligentemente interpretato il combinato interagire, scandito da frizioni, resistenze e pragmatici adattamenti alle peculiarità delle risorse «inanimate» geologico-minerarie e socio-politiche locali, di apparati statuali, istituzioni educative, reti sovranazionali di diffusione del know how specialistico,
corpi professionali e imprenditori privati.
Il primo capitolo del libro è dedicato all’esame comparato del processo, sviluppatosi tra
il 1750 e il 1860, di definizione della professione dell’ingegnere minerario e metallurgico nel
centro Europa, nel quadro di una modernizzazione industriale sempre più dipendente dalle
materie prime d’origine minerale e, conseguentemente, dai relativi saperi tecnico-scentifici.
Nel secondo e terzo capitolo l’a. approfondisce maggiormente la realtà dell’Italia, sia pre che
postunitaria, analizzando i vari centri di formazione professionale; la presenza degli allievi ingegneri italiani nel circuito delle grandi scuole minerarie europee, soprattutto franco-tedesche
e, sul finire dell’800, americane; gli itinerari e gli obiettivi dei viaggi d’istruzione e delle periodiche missioni tecnologiche nei principali distretti minerari e centri di lavorazione del continente. Da tale intensa e regolare circolazione del capitale umano derivò un fruttuoso processo di cross-cultural transfer che contribuì in modo decisivo a permettere all’Italia, e non solo, di calcare la via dello sviluppo economico. Il lavoro è completato da tre appendici di tabelle, documenti e schede da cui gli studiosi interessati alla materia potranno ricavare elementi
di conoscenza e spunti interpretativi assai utili per le loro ricerche.
M. Elisabetta Tonizzi
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I LIBRI DEL 2007
Donata Brianta, Lamberto Laureti, Cartografia, scienza di governo e territorio nell’Italia liberale, Prefazione di Teresa Isenburg, Milano, Unicopli, 264 pp., € 17,00
Il nucleo centrale di questo volume, che privilegia un approccio mutidisciplinare e valorizza materiale documentario in gran parte inedito, è la storia lunga, complessa, contraddittoria della costruzione della Carta geologica italiana voluta dalla Destra storica fin dal 1861,
realizzata in modo discontinuo e completata con molto ritardo nel secondo dopoguerra. Essa s’intreccia con le alterne vicende del Comitato geologico e del Servizio geologico nazionale, preposto alla sua realizzazione e istituito presso il Ministero di Agricoltura, Industria e
Commercio, perché prevalsero le finalità legate alla produzione sia agricola che minerario-industriale, e non tanto quelle di necessario supporto per un intervento razionale e di pianificazione complessiva del territorio in tema di infrastrutture viarie, ferroviarie, idrauliche e di indispensabile cooperazione con altri ministeri, come quello dei Lavori pubblici, della Guerra,
e quello della Marina con il suo Istituto idrografico. Da qui una lunga serie di contrasti, polemiche tra i diversi rami dell’amministrazione pubblica, che contribuirono a ritardare la costruzione della Carta, alla quale peraltro furono destinate scarse risorse finanziarie. Forti resistenze nascevano anche tra gli esperti sulle questioni istituzionali e di metodo scientifico da
adottare. Su fronti contrapposti vi erano da un lato gli alti funzionari del Corpo delle miniere, in prevalenza ingegneri, autorevolmente rappresentati da Quintino Sella e da Felice Giordano, dall’altro i naturalisti accademici, i geologi e i paleontologi, divisi tra le diverse scuole.
Nel 1873 «l’investitura ufficiale» fu conferita agli ingegneri geologi del Corpo delle miniere,
che si costituiva in Ufficio geologico, sancendo il trionfo delle «scienze esatte». La tensione,
però, tra apparati statali e mondo accademico, rappresentato in particolare dall’abate Stoppani e da Torquato Taramelli, proseguì per tutto il decennio successivo e soltanto nella cosiddetta «era Giordano» dei «gloriosi anni ’80» del’800 si realizzò la maggior parte delle rilevazioni
sul terreno. Attorno a tali temi principali si snodano altre interessanti piste di ricerca sulla storia dell’amministrazione pubblica, sulla storia della scienza, in particolare della geologia, sul
ruolo della formazione professionale di tecnici e scienziati del territorio, come evidenzia anche Teresa Isenburg nella sua Prefazione. Completa il volume l’analisi della serie di monografie pubblicate nel primo cinquantennio di vita del Comitato geologico, che consentono di
tracciare la sua attività scientifica, i cambiamenti metodologici intervenuti nella geologia, i
profili scientifici e biografici dei tanti geologi e ingegneri che percorsero il paese, dando un
contributo notevole alla conoscenza dei territori. La riflessione amara è che anche in quest’ambito, ad una ricca elaborazione di analisi, di progettualità non realizzata, di studio delle diverse realtà regionali dell’Italia liberale, non corrispose capacità di governo complessivo del territorio da parte dello Stato per superare quella separatezza tra scienza, politica ed economia,
che ha a lungo condizionato lo sviluppo, non solo economico, del paese.
Anna Lucia Denitto
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I LIBRI DEL 2007
Marziano Brignoli, Carlo Alberto ultimo re di Sardegna. 1798-1849, Milano, FrancoAngeli, 656 pp., € 46,00
Questa biografia viene finalmente a colmare un vuoto storiografico che si protraeva da
oltre mezzo secolo. Se si eccettuano la ricerca di Nada apparsa nel 1980, ma incentrata più sul
sistema di governo carloalbertino che non sul personaggio, e qualche raro lavoro giornalistico, di cui solo quello di Pinto merita la lettura, bisogna risalire agli anni ’30 e ’40 del ’900 per
trovare l’ultimo studio organico e «scientifico» sul Carignano. Era quello il periodo in cui Rodolico pubblicava la trilogia su Carlo Alberto, ciclopica impresa che, nonostante le perplessità
sollevate di volta in volta sulle interpretazioni, rimane a tutt’oggi un punto di partenza imprescindibile per chi voglia accostarsi alla figura dell’amletico sovrano. Poderoso lavoro di sintesi pubblicato nella collana «Ricerche e Strumenti» del comitato milanese dell’Istituto del Risorgimento italiano, l’opera di Brignoli si segnala anzitutto per il saldo impianto bibliografico e la chiarezza espositiva. Se scarsi sono i riferimenti archivistici (ma non manca qualche interessante documento inedito nel testo e in appendice), il libro è una preziosissima miniera di
rimandi alla letteratura erudita di tardo ’800 e inizio ’900. Lavorando sulle orme dei classici
(continui i riferimenti a Costa de Beauregard, a Rodolico, a Prato e a Rosselli), Brignoli realizza una biografia «classica», corretta ed equilibrata nei giudizi, che nel complesso sembra aver
centrato l’obiettivo di ricostruire per fasi la vita dell’ultimo re di Sardegna, attraverso un’ottica essenzialmente politica che mette in luce i passaggi cruciali del regno, specialmente le crisi del 1821, del 1831-33 e del 1848-49. Trascurando forse un po’ troppo le tendenze riformiste, che hanno fatto parlare di un cesarismo illuminato carlalbertino (ma l’a. ne è consapevole) e insistendo sulla «vena» assolutista del sovrano, l’attenzione dello studioso è rivolta principalmente a sviscerare la politica estera e il rapporto tra Carlo Alberto e le forze reazionarie e
liberali. Sono questi aspetti essenziali, certo, ma non sempre l’economia del lavoro ha mantenuto le giuste proporzioni. Se molto interessanti sono ad esempio i capitoli riguardanti Carlo Alberto principe di Carignano, con un’utile ricostruzione del quadro familiare della dinastia cadetta, o l’epilogo doloroso dell’esilio, la parte sul 1848-49, occupando quasi la metà del
libro, appare eccessivamente dilatata a fronte dello spazio dato alle altre fasi di un regno durato diciotto anni. Se quello è il biennio che più ha caratterizzato l’opera del sovrano, una volta assodato che Carlo Alberto fu un pessimo comandante militare, sarebbe stato necessario
semmai soffermarsi un po’ di più sugli aspetti di modifica dell’assetto istituzionale e sulla nuova dialettica politica all’interno del Regno che non nella minuta ricostruzione delle battaglie.
Al di là di scelte che rimangono spesso ancorate a esigenze editoriali (impensabile oggi una
biografia in tre volumi), il lavoro di Brignoli merita di essere segnalato a chi voglia avere un
quadro generale chiaro su uno dei maggiori protagonisti del Risorgimento.
Pierangelo Gentile
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I LIBRI DEL 2007
Jean-Louis Briquet, Mafia, justice et politique en Italie. L’affaire Andreotti dans la crise de
la République (1992-2004), Paris, Éditions Karthala, 390 pp., € 29,00
È esistito un accordo di scambio tra Andreotti e la mafia? Questo patto si è rafforzato attraverso il raggiungimento di vantaggi reciproci, per cui il primo ha ottenuto una crescita
esponenziale del suo potere all’interno del suo partito e, per conseguenza, del suo potere complessivo, e la seconda la possibilità di utilizzare, al fine di soddisfare i suoi multiformi interessi, una struttura di potere organizzata a livello nazionale secondo una capillare ramificazione
che si è estesa nei principali settori istituzionali? Andreotti ha volontariamente collaborato con
Lima? Ha trasformato la sua corrente in una struttura al servizio permanente di Cosa nostra
aprendole il mondo della politica e degli apparati dello Stato? Tali sono, in effetti, seppur
enunciati in maniera sintetica, gli interrogativi ai quali i magistrati del Tribunale di Palermo,
dopo un’inchiesta che è durata quasi dieci anni, hanno cercato di dare una risposta. Come si
sa, la sentenza è stata data definitivamente in senso negativo. Le prove sono state ritenute
«mancanti, contraddittorie o insufficienti». Seppur ci sono state relazioni tra il leader democristiano e esponenti politici locali collegati alla mafia, è pur vero che non sono esistiti interventi atti a dimostrare una disponibilità e uno scambio attivo tra Andreotti e Cosa nostra.
A questi due momenti, l’atto di accusa e l’esito dei processi, Jean-Louis Briquet dedica
questo libro, frutto di una ricerca durata molti anni e che si è fondata su atti processuali, su
fonti a stampa e sulla pubblicistica fiorita intorno all’avvenimento. Lo studioso ha cercato di
andare oltre la vicenda giudiziaria ed è riuscito a rappresentarla nel contesto di un più generale ed epocale processo di trasformazione del sistema politico italiano. E, forse, sotto il titolo di «rivoluzione morale», egli ha proprio inteso sottolineare come l’intero fenomeno dei tanti processi portati avanti dalla magistratura nei confronti della classe politica a partire dai primi anni ’90 non si sia esaurito nella storia processuale, ma abbia finito in fondo per favorire
un ricambio della classe politica.
Il livello di ricambio, secondo Briquet, è stato particolarmente evidente a partire dalle elezioni politiche del 27 e 28 marzo 1994. Infatti, tra i deputati presenti in Parlamento nel 1994,
si può calcolare a oltre il 70% il numero di coloro che per la prima volta vennero eletti. Più
dei due terzi degli ex parlamentari della DC non vennero rieletti, e quasi tutti i deputati di
Forza Italia alzarono di molto la media dei nuovi eletti. Anche le elezioni locali dell’autunno
1992 comportarono l’affermazione e la promozione di figure politiche nuove. La magistratura, in queste circostanze, si è vista accordare un’autorità di un’ampiezza senza precedenti. Riconosciuta come portatrice di una istanza relativa al degrado del regime e dell’attestazione di
una probità inversa a quella della classe politica, i magistrati si sono fatti portatori, quindi, di
un magistero morale che ha finito per trasformare il quadro politico.
Luigi Musella
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I LIBRI DEL 2007
Giuseppe Bruzzaniti, Enrico Fermi. Il genio obbediente, Torino, Einaudi, XIII-386 pp., €
24,50
Se nella cultura italiana, compresa quella storica, avesse prevalso l’idea di Francesco Saverio
Nitti che nei progressi della civilizzazione e dello sviluppo sociale moderno hanno giovato più dei
grandi uomini politici i grandi scienziati, sicuramente un libro come questo sarebbe stato pubblicato già molto tempo fa. Non che su Fermi la pubblicistica sia stata particolarmente avara. Anzi,
grazie anche alla memorialistica dei suoi compagni d’avventura scientifica (Edoardo Amaldi, Bruno Pontecorvo, Emilio Segré) o della moglie Laura Capon, sulla sua vita si sa molto. Alla memorialistica si è aggiunta poi la ricerca storica vera e propria di studiosi come Giovanni Battimelli,
Michelangelo De Maria, Fabio Sebastiani, per citare tre storici della fisica più prossimi alla «scuola» romana inaugurata negli anni ’30 da Fermi stesso. Ma, per la verità, una biografia d’insieme,
che raccontasse l’attività scientifica del fisico italiano all’interno della fisica mondiale e della temperie politica e culturale della prima metà del ’900 (morì nel 1954) mancava. Temperie drammatica: fascismo, nazismo, guerra mondiale, leggi razziali e così via. Ma anche – e soprattutto – dato
il personaggio in questione, la possibilità di accesso per l’umanità a una nuova forma di energia,
quella nucleare. Con la «pila di Fermi» del 1942, cioè con la possibilità di una reazione nucleare a
catena controllata, infatti, la storia umana entra in una fase nuova, impensabile fino a qualche anno prima: anche qui nel segno del dramma, come ricordano Hiroshima e Nagasaki. Strano parallelismo: anche questa volta è uno scienziato italiano a rendere disponibile in maniera artificiale e
controllata una forma naturale di energia. Il precedente è la «pila elettrica» descritta da Alessandro
Volta in una memoria del 1800. Ancora: Fermi realizza la sua sconvolgente invenzione a Chicago, negli USA, paese dove viene utilizzata per prima e in maniera intensiva, nel bene e nel male.
Volta pubblica la descrizione del suo apparato nelle «Philosophical Transactions» della Royal Society of London. A Londra, e poi in Francia, la pila elettrica viene utilizzata in maniera intensiva
inizialmente a scopi scientifici. Fra i due eventi sono passati circa 150 anni, ma il rapporto di lunga durata fra grande innovazione e circostanze nazionali permane, e in maniera assai critica. Fermi, come sostiene giustamente Bruzzaniti, è uno dei più grandi scienziati italiani, all’altezza di Galilei (anch’esso «straniero in patria»). E ciò non solo per la capacità di unire nella stessa persona una
grande intuizione e metodica sperimentali con una notevole padronanza dello strumento matematico, ma anche per la varietà dei contributi che ha fornito alla conoscenza del mondo naturale:
forze fondamentali, particelle elementari, termodinamica, meccanica statistica.
Tuttavia, pur concedendo la presenza nell’opera di Fermi di una solida filosofia implicita,
la genialità del fisico italiano si è applicata solo al di qua dei grandi problemi epistemologici che
hanno coinvolto i fisici del ’900 e che hanno segnato anch’essi la cultura della nostra epoca. Nulla di male. Anche questo è uno dei possibili stili di ricerca e non il meno efficace, inaugurato
proprio da Fermi e dai suoi collaboratori.
Antonio Di Meo
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I LIBRI DEL 2007
Charles Burdett, Journey through Fascism. Italian travel writing between the Wars, OxfordNew York, Berghan Books, 288 pp., € 42,50
In questo volume si intersecano due dei filoni di ricerca dell’autore. Docente di Italian
Studies all’Università di Bristol, Charles Burdett è uno studioso della cultura fascista e della
letteratura di viaggio europea tra le due guerre. Oggetto del libro è infatti la narrazione del
viaggio nell’Italia fascista. Il termine inglese usato per designarla, travel writing, indica chiaramente l’ambito metodologico nel quale il volume si colloca, ossia quello degli studi culturali
costruito attorno alla nozione di discorso: i testi non hanno valore in sé, ma rimandano a più
ampie formazioni discorsive dalle quali sono influenzati I numerosi richiami a Foucault che
costellano il testo sono la rituale dichiarazione di appartenenza a questo filone; altrettanto rituale è il riferimento a Edward Said e agli studi post-coloniali. Travel writing è un termine
molto ampio, di cui non sono definiti i confini. Il concetto di viaggio viene usato nel libro
come sinonimo di altrove e per questo comprende anche la narrazione degli «spazi altri», concetto usato da Foucault per indicare gli spazi utopici che sussistono all’interno di ogni società
(da non confondere con i «non luoghi» di Augé). Con questa premessa metodologica, l’a. dà
alla narrazione del viaggio nel ventennio una duplice accezione: quella del viaggio interno, che
si svolge nei «luoghi altri», quali le nuove prigioni, i siti commemorativi, le nuove città prodotto della colonizzazione interna; e quella del viaggio oltre i confini. L’India, il Messico, gli
Stati Uniti, l’Unione Sovietica, la Germania, le colonie africane furono mete di viaggio e di
osservazione da parte di un gruppo di scrittori e giornalisti ben noti agli storici, quali Emilio
Cecchi, Orio Vergani, Guido Piovene, ecc. che scrissero articoli o cronache di viaggio che furono pubblicate sui giornali e spesso raccolte in volume in un secondo tempo. Il discorso si
dipana così attraverso la costruzione di geografie molteplici, di luoghi e rappresentazioni letterarie dentro e fuori d’Italia. Questo caleidoscopio viene ricondotto dall’a. ai punti basilari
dell’ideologia fascista: il nazionalismo e il mito imperialista. Sono essi a orientare lo sguardo
di questi letterati. Il risultato finale conferma l’assunto iniziale del libro, secondo cui il racconto di viaggio è un documento della cultura di appartenenza dell’osservatore, più che di
quella del paese osservato. Ricco di spunti interessanti, ben documentato e scritto in un limpido inglese, il libro si presta a due critiche: l’aver ristretto ai soli scrittori giornalisti la categoria del travel writing, escludendo la produzione dei geografi che in quegli anni produssero
testi sull’altrove di straordinaria efficacia per la costruzione dell’ideologia fascista; non aver definito in modo chiaro i confini tra la figura di scrittore e quella di giornalista e non approfondendo il rapporto tra i giornali, che erano i committenti degli articoli o che comunque li pubblicavano, e i giornalisti scrittori. Se oltre al «discorso», Burdett avesse fatto uso anche del concetto bourdesiano di «campo», ciò gli avrebbe consentito di mettere in luce le strategie e i fasci di forze che animarono il campo letterario del ventennio fascista.
Maria Malatesta
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I LIBRI DEL 2007
Michael Burleigh, In nome di Dio: religione, politica e totalitarismo da Hitler ad Al-Qaeda,
Milano, Rizzoli, 634 pp., € 24,00 (ed. or. New York, 2007)
Burleigh è noto per i suoi studi sul Terzo Reich, in particolare Lo Stato razziale. È stato
inoltre tra i fondatori della rivista «Totalitarian Movements and Political Religions». In nome
di Dio è il secondo volume di una ambiziosa ricerca sulle «religioni politiche». Purtroppo, il
progetto sembra aver perso l’originaria consistenza, e questo volume non è all’altezza del precedente. Com’era prevedibile, i capitoli sulla Germania hanno un’originalità e una freschezza
non sempre evidenti in altre sezioni del libro. La descrizione della fioritura di culti e di profeti bizzarri e ciarlataneschi degli anni ’20 aiuta a capire l’atmosfera culturale che permise l’ascesa di Hitler. In Germania, il «bisogno di credere» prese forme particolarmente stravaganti,
come dimostrano le pagine dedicate a figure come Haeusser, Muck-Lamberty o Dinter. Per
l’a. tali fenomeni sono una spia del disorientamento creato dalla guerra, dalla sconfitta e dall’iperinflazione. Anche la difesa accorata dell’atteggiamento della Chiesa cattolica e della Santa Sede verso il nazismo, benché alquanto unilaterale, apporta elementi interessanti e poco noti, come il ruolo svolto da Pacelli nella preparazione dell’enciclica Mit brennender Sorge. Burleigh dimostra che l’idea di un Pacelli filofascista o antisemita è difficilmente sostenibile: anche nel caso della guerra civile spagnola, è convincente quando dimostra che la Santa Sede ha
cercato di distanziarsi dall’adesione incondizionata della gerarchia spagnola alla causa nazionalista. Meno convincente è la difesa dei silenzi di Pio XII sull’Olocausto.
Anche l’analisi degli aspetti religiosi del comunismo sovietico è in parte molto acuta. Il
ruolo dell’«autocritica» come confessione, il racconto della lotta interna di un militante tra residui borghesi e mentalità rivoluzionaria, e l’analogia con gli Esercizi spirituali di Loyola danno concretezza all’idea della «religione politica» comunista. Burleigh non dà forse peso sufficiente ai nuovi elementi scientifici nel culto dell’«uomo sovietico», e sorprendentemente trascura gli scritti dei dissidenti. A parte la sezione sui rapporti tra Santa Sede e regime, la trattazione del fascismo italiano è superficiale e apporta pochi elementi nuovi. Non tiene conto
ad esempio delle ricerche sulla «mistica fascista». Gli ultimi tre capitoli, che «si occupano delle prospettive future dell’Europa» appaiono più come un’occasione per sfogare i risentimenti
contro il mondo moderno che come un’analisi storica fondata. L’a. scrive che i giornali inglesi lo «hanno incoraggiato a scrivere sul terrorismo islamico dopo l’11 settembre» (p. 14). Sarà
interessante leggere il suo nuovo libro sul terrorismo, ma il capitolo su L’Europa dopo l’11 settembre in questo volume appare un frutto prematuro: basti dire che un esperto del peso di Kepel non è nemmeno citato. Né la critica del «deserto post-cristiano» (p. 11) degli anni ’60 dimostra particolare originalità. Salvo che nelle pagine sulle Chiese protestanti nella Germania
dell’Est, Burleigh trascura l’importante filone religioso-politico del pacifismo. Non c’è alcun
riferimento a Gandhi, come non c’era alcun accenno a Tolstoj nel primo volume.
Adrian Lyttelton
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I LIBRI DEL 2007
Cristiano Buttaro, Arcangelo Rossi, Franco Rasetti. Una biografia scientifica, Roma, Aracne, X-270 pp., € 16,00
L’anno 2007 sembra essere l’anno della riscoperta di Franco Rasetti. La pubblicazione della biografia di Buttaro e Rossi segue infatti di qualche mese quella di Valeria Del Gamba (recensita in questo stesso volume). Ha pesato, sulla figura di Rasetti, il suo essersi volontariamente allontanato dalla ricerca in fisica, dopo essere stato un punto di riferimento, insieme a
Enrico Fermi, per il gruppo dei giovani fisici romani ormai noti come «i ragazzi di Via Panisperna». Coetaneo e amico di Fermi fin dal tempo degli studi universitari, Rasetti era infatti
dotato di una straordinaria abilità «artigianale» nell’ideazione e nella messa a punto di sofisticati esperimenti e della relativa strumentazione, che ne caratterizzava la personalità e il ruolo
all’interno del piccolo gruppo. La sua vicenda era poi rimasta in ombra anche per la sua riservatezza e per una certa ritrosia caratteriale che, lui vivo, era impossibile superare. Un rapido
sguardo alla esaustiva bibliografia pubblicata da Buttaro e Rossi mostra come la sua attività
scientifica si sia sostanzialmente fermata con la pubblicazione dei lavori di botanica editi all’inizio degli anni ’80. È stato invece a partire dagli anni ’90, e suo malgrado, che ha cominciato a essere nota la sua posizione critica sulle scelte che durante la seconda guerra mondiale
portarono molti fisici a partecipare allo sviluppo delle prime armi nucleari. L’eco di tale critica ha lasciato in ombra l’importanza dei suoi contributi scientifici; ed è merito specifico di
questa biografia avere invece concentrato l’attenzione non solo sugli aspetti personali della vicenda di Rasetti, ma soprattutto sulla passione mai sopita per la fisica, che lo accompagna nel
vagare inquieto dall’Italia agli Stati Uniti al Canada, e poi di nuovo negli Stati Uniti e in Italia, fino all’ultimo ventennio trascorso nella quiete di una residenza belga. Buttaro e Rossi ricostruiscono il ruolo che Rasetti ha avuto nella formazione e poi nell’attività del gruppo dei
fisici romani, la sua autorevolezza anche nei mesi successivi alla partenza di Fermi, fino alla
sua propria partenza per il Canada, quindi il suo lavoro all’Università Laval nel Québec e alla Johns Hopkins di Baltimora, nonché il generoso contributo alle ricerche del «Laboratorio
gas ionizzati» negli anni ’70 a Roma. Ma la passione per la ricerca è stata in Rasetti ad ampio
raggio: il suo habitus mentale di scienziato si era formato da ragazzo nell’osservazione naturalistica, che torna a prendere il sopravvento quando le scelte professionali lo mettono, in fisica, in una posizione più defilata. Il suo contributo alla paleontologia è anch’esso di grande rilevanza, mentre la sua ultima pubblicazione è un’importante opera descrittiva sulla flora alpina. Ecco: se un rimprovero si può fare a questo lavoro è in fondo proprio quello di dedicare
poco spazio a questa parte, pur essa «scientifica», della biografia scientifica del protagonista.
Giovanni Paoloni
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I LIBRI DEL 2007
Thomas Buzzegoli, La polemica antiborghese nel fascismo (1937-1939), Prefazione di
Gianpasquale Santomassimo, Roma, Aracne, 156 pp., € 10,00
Tra le battaglie promosse dal regime nella fase di «accentuazione totalitaria» degli ultimi
anni ’30, la campagna antiborghese occupa un posto non secondario. Lungi, infatti, dal ridursi ai semplici provvedimenti di abolizione del lei in favore del voi o all’introduzione del passo
romano, la cui pedissequa «traduzione» di segno staraciano era destinata a destare ilarità e ad
assumere a tratti toni macchiettistici, la polemica antiborghese rivelava radici più profonde.
Sulla ricostruzione di questa campagna, sugli obiettivi ed i risvolti nell’opinione pubblica si sofferma il volume di Buzzegoli, avvalendosi di una corposa documentazione archivistica incentrata sulle carte del PNF e del Minculpop e di uno spoglio accurato della pubblicistica di regime. La polemica fu, infatti, veicolata dal PNF e dalle sue organizzazioni di massa, i GUF e i
sindacati in particolare, con ampio risalto e dispiegamento di mezzi propagandistici.
Ben radicata nel sentimento di molti fascisti della prima ora, la questione antiborghese, sopita per il noto sostegno tributato dalla piccola e media borghesia al regime, sarebbe riemersa
nell’ultimo scorcio degli anni ’30. L’obiettivo – e, diciamo pure, l’ossessione – di incidere sul carattere ed il costume degli italiani in direzione della loro fascistizzazione portava ad un attacco
diretto alla mentalità borghese («spirito di soddisfazione e di adattamento, tendenza allo scetticismo, al compromesso, alla vita comoda, al carrierismo») ed ai valori che esprimeva, considerati antitetici rispetto alla morale fascista. La ricostruzione della campagna attraverso le riviste di
regime consente di seguire i termini e le sfumature di un dibattito che chiamava in causa la borghesia principalmente come categoria politico-morale. Si preferì evitare l’attribuzione alla polemica di una specifica caratterizzazione politico-sociale, anche se fu inevitabile l’emergere in ristretti ambiti d’interpretazioni «radicali» (come nel caso della posizione di Berto Ricci su «Gerarchia» e nel volume Processo alla borghesia) e di accenti anticapitalistici. Dalla critica ai valori
borghesi all’attacco alla razza ebraica il passo era breve: la questione antiborghese tendeva ad assumere una valenza razzista-antisemita. Ed è proprio su questo terreno d’incontro/innesto con
la campagna razziale che la polemica avrebbe assunto toni ben più seri ed inquietanti.
L’ambito di ricezione privilegiato della campagna antiborghese fu rappresentato dal settore dei giovani, per la carica contestataria connaturata al fattore generazionale. Proprio nella
seconda parte del volume, ampio spazio è riservato alla coniugazione della campagna antiborghese sul versante dei GUF.
Nel complesso, il lavoro di Buzzegoli si muove lungo le coordinate ben definite tracciate
dalla ricostruzione defeliciana della questione, con l’innesto delle suggestioni interpretative
provenienti dagli studi più recenti in tema di GUF (si veda il documentato saggio di La Rovere). Un aspetto originale della ricerca è dato dall’aver gettato luce sull’umorismo antiborghese e sulle ossessioni della stampa fascista.
Antonio Baglio
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I LIBRI DEL 2007
Fabio Caffarena, Carlo Stiaccini, Finale Ligure 1927. Biografia di una città dall’Unità al
Fascismo, Milano, Unicopli, 267 pp., € 15,00
La genesi di una nuova città come Finale Ligure, ovvero la terra del «barone rampante»
che insiste all’interno dei confini dell’ex Marchesato di Finale, corrisponde alla storia di sette
piccoli centri del Ponente: Finalmarina, Finalborgo, Gorra, Finalpia, Calvisio, Varigotti e Petri, le cui vicissitudini territoriali consentono di apprezzare la farraginosa normativa amministrativa italiana (comprovata dall’ampia documentazione in appendice ai due saggi), che caratterizza il passaggio dalla fase postnapoleonica a quella unitaria e quello più repentino dalla fase postbellica al consolidamento del regime fascista.
Nella prima parte dello studio vengono esaminati i continui riassetti a cui vengono sottoposti i suddetti Comuni in ragione di alcune significative variazioni: fusioni, unioni o separazioni. Marginali cambiamenti che registrano l’accorpamento a Finalborgo di comunità come Monticello, o la cancellazione dei Comuni di Gorra e Petri, anch’essi destinati a finire sotto la stessa
amministrazione. Cambiamenti dai quali scaturisce l’eterna tensione centro/periferia che viene
continuamente rievocata da parte delle singole comunità ogni qualvolta si profila la perdita della propria identità, a conferma del fatto che il cleavage centro/periferia che caratterizza la storia
d’Italia non può essere scisso dalla declinazione che sistematicamente lo accompagna: localismo.
Localismo che il fascismo cercò di ridurre se non di cancellare attraverso il forzoso processo dell’agglomerazione. La Liguria registrò alcuni esemplificativi casi. La celebre creazione della
«grande Genova» fu accompagnata nell’estremo ponente dalla nascita di Imperia, frutto dell’accorpamento di due storici comuni e collegi elettorali quali Oneglia e Porto Maurizio. Con le dovute proporzioni anche l’area del Savonese registra un’aggregazione con la nascita di Finale Ligure, che includerà nella nuova delimitazione geografica il centro industriale di Finalmarina e la
stazione balneare di Varigotti e, all’interno, il borgo storico di Finale e la vallata di Finalpia.
Il processo registra una forte ostilità degli amministratori di Finalborgo che, temendo di
perdere il controllo delle gestione daziaria, percepiscono lo speculare disegno del centro di Finalmarina dove presumibilmente sarebbe confluita la gestione amministrativa della nuova
città, in virtù della posizione costiera e della maggiore propensione commerciale, sebbene non
fosse il Comune più popoloso. Si giunse così, in coincidenza con il quarto anniversario della
marcia su Roma (28 ottobre 1926) e con la scomparsa della figura del sindaco ormai sostituito dal podestà, alla decisione assunta tramite decreto prefettizio che sanciva l’unione dei Comuni e la contestuale nascita di Finale Ligure.
In conclusione, il lavoro condotto da Caffarena e Stiaccini consente ancora una volta di
sottolineare l’importanza dei casi di studio, in quanto si rivelano strumenti insostituibili per
poter esaminare efficacemente aspetti complessi e molto sfaccettati quali l’assetto amministrativo e territoriale di una comunità.
Marco Pignotti
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I LIBRI DEL 2007
Maria Concetta Calabrese, Una storia di famiglia. I Mauro di Messina, Prefazione di Domenico Ligresti, Catania, Cuecm, 142 pp., € 14,00
L’a. segue la storia della nobile famiglia Mauro di Messina a partire dalla sua prima emersione nella società cittadina e nelle carte d’archivio, vale a dire dal secolo XIV fino al pieno
’800, sfiorando la prima decade del ’900 nella quale esponenti della casata ancora si segnalano per la partecipazione alla vita messinese nonostante la scelta, risalente nel tempo, di una
residenza provinciale. Non è un caso che l’ultimo capitolo del volume, dedicato alle vicende
risorgimentali e postunitarie di una famiglia che ha scelto il fronte antiborbonico sin dal 1848,
e con conseguenze rilevanti sul piano personale per alcuni dei suoi membri, sia intitolato
Un’altra storia (pp. 85-94). La struttura del libro è infatti essenzialmente modernistica, dal
momento che segue soprattutto per i secoli XVII e XVIII sia le fortune dei Mauro che le tormentate vicissitudini politiche e sociali dell’isola e della città in cui vivono. Valga per entrambi gli aspetti uno sguardo al ’700, caratterizzato dal rapido passaggio del Regno di Sicilia dalla Spagna al Piemonte, poi all’Austria e infine ai Borbone, tormentato da vari terremoti (particolarmente disastroso quello del 1783, che sembra anticipare il 1908) e, nel 1743, da una
spaventosa epidemia di peste. Le decadi centrali del ’700 costituiscono però anche il momento di maggior splendore dei Mauro, che giungono ad occupare il ruolo di «console della seta»
in una città che ha fatto della trattura e del commercio di questo tessuto una risorsa particolare, con ciò imprimendo un carattere altrettanto peculiare alla sua élite: i Mauro non sono
infatti solo rentiers, ma mercanti e «imprenditori».
Ciò che il volume suggerisce al contemporaneista è soprattutto la consapevolezza della
lunga durata resa possibile dalla conservazione delle carte di famiglia, e al medesimo tempo la
sensibilità per la natura profonda dei mutamenti storici che solo uno sguardo «lungo» può sviluppare. L’a. considera l’organizzazione familiare particolarmente adatta a segnalare persistenze e mutamenti nel complessivo processo storico, assimilandola decisamente a una struttura
braudeliana. Storia della città e storia di famiglia si intrecciano nel racconto delle vicende di
una discendenza considerata «un caso esemplare di lunga durata» (p. 9), capace di «ascendere [e] galleggiare nel range mediano o medio-alto dell’élite messinese sino al XX secolo facendo della ricchezza, ma ancor più della capacità di gestirla e convertirla, il fondamento di strategie politiche, matrimoniali, economiche diversificate» (p. 95). Ed è proprio, classicamente,
sulle «strategie» di imparentamento, volte ora al consolidamento del patrimonio ora all’irrobustimento del rango, che si sostanzia la storia raccontata dei Mauro, conclusa in modo significativo dalla citazione di una serie di testamenti settecenteschi.
Paola Magnarelli
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I LIBRI DEL 2007
Maria Cecilia Calabri, Il costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor, Torino, Utet,
XXIII-639 pp., € 24,00
Fondata su una ricca documentazione proveniente dal Fondo Fortunato Pintor, all’Archivio Centrale dello Stato, dalla corrispondenza che Giaime Pintor aveva intrattenuto con
diverse persone, oltre, naturalmente, che dai sui appunti biografici, la densa e voluminosa biografia di Giaime Pintor ha molti meriti. I primi sono certo un rigoroso allineamento della documentazione e l’acribia che caratterizzano la selezione e l’utilizzo di materiali diversi. Si può
dire che l’a. colma quasi tutti gli spazi vuoti che Pintor aveva l’abitudine di lasciare nelle pagine del suo diario. Altro pregio è quello di aver resistito alla tentazione di fare di Pintor l’icona resistenziale che in tutti gli altri lavori ha schiacciato la sua vicenda personale, letta, teleologicamente, come una lunga fase di avvicinamento al suo destino ultimo. Contrariamente al personaggio vagamente astratto disegnato nel 1978 da Mirella Serri, dalle pagine di Calabri emerge l’immagine viva di un giovane culturalmente indipendente, studente liceale e poi
universitario poco interessato, ma impegnato in un personale programma di studi. Autodidatta, ma senza dilettantismi a Pintor può capitare di scoprirsi apprezzato traduttore dal tedesco senza essere in grado di parlare la lingua. Ma è proprio questa irregolarità che fa di lui
un intellettuale a tutto tondo, interessato alla letteratura, ma contemporaneamente al cinema,
alla musica, al teatro. Rappresenta bene il Pintor di Calabri l’esponente di una generazione,
come ella dice, senza maestri. Proprio la capacità di cogliere la sua dimensione generazionale
dà spessore e cifra specifica all’esame della maturazione politica di Pintor. È evidente la distanza che separava Giaime dallo zio Fortunato, per altro figura assai singolare, come dai personaggi chiave del dibattito politico culturale del ventennio che ne frequentavano la casa: Gentile, cui Fortunato Pintor era profondamente devoto, Volpe, Croce, Marpicati. La misura di
questa distanza generazionale è evidente nel giudizio icastico che Giaime dà di Croce nel
1941: «Ragiona forse con troppa semplicità e con la sicurezza dei vecchi. Rigido nel giudizio
politico» (p. 35). E dall’altro lato la rete di un universo giovanile costruita in occasioni e in situazioni diverse della sua esperienza: Lucio Lombardo Radice (figlio di un amico dello zio),
Mischa Kamenetzky (Ugo Stille) o Jader Jacobelli (conosciuti nella milizia universitaria), Carlo Muscetta (incontrato ai Littoriali). Rete che si dilata progressivamente e diviene nella vita
di Pintor uno spazio di discussione, di progetto e consapevolezza. Indipendente anche in politica, nonostante il legame profondo con Lucio Lombardo Radice e, attraverso questi, con il
gruppo dei giovani comunisti romani, non diventerà mai comunista. La scelta della Resistenza, in questo contesto non era scontata; trovava però un senso nel bisogno, vissuto non senza
contrasti, di contribuire ad accelerare la caduta di un sistema politico costrittivo, chiudere la
guerra e finalmente dedicarsi completamente alla realizzazione dei suoi progetti culturali, già
da tempo discussi con Giulio Einaudi e Cesare Pavese.
Giovanni Montroni
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I LIBRI DEL 2007
Giampaolo Calchi Novati, Lia Quartapelle (a cura di), Terzo mondo addio. La conferenza
afro-asiatica di Bandung in una prospettiva storica, Roma, Carocci, 161 pp., € 16,50
Terzo Mondo addio. Nel titolo di questo lavoro collettaneo, pubblicato a poco più di cinquant’anni dalla conferenza di Bandung (1955), è riassunta l’analisi del ruolo storico e politico e delle trasformazioni che hanno riguardato il Terzo Mondo, e più specificamente il mondo afro-asiatico, dopo la decolonizzazione. La riflessione si snoda affrontando diversi aspetti:
dalla prospettiva storica a considerazioni sul movimento in rapporto alle trasformazioni del
sistema economico politico internazionale, da riflessioni mirate ad alcuni paesi o aree a temi
rilevanti quali la cooperazione internazionale.
Sicuramente importante la ricostruzione storica proposta nel saggio di Samir Amin che analizza le fasi del problematico processo di sviluppo dei paesi asiatici ed africani dalla decolonizzazione alla globalizzazione. Egli conclude ricordando come anche i paesi del Sud del mondo stiano oggi cercando il loro percorso verso il liberismo, un obiettivo però per Amin «irrealistico e illusorio» (p. 17), in quanto le politiche globali rendono assai difficile realizzare politiche incentrate sullo sviluppo nazionale e sul progresso sociale. Pertanto, poiché le trasformazioni odierne mantengono forti modelli autoritari legati al capitalismo e all’imperialismo globale occorre ristabilire
processi democratici che coinvolgano le popolazioni. Tuttavia lo spirito di Bandung non è replicabile in quanto il mondo globale unipolare della governance appare compatto nella gestione neoliberista che emana dal «centro». Un tema che viene ripreso da Giampaolo Calchi Novati nel suo
saggio quando fa riferimento alla fine della storia come questione che produce una diversa attenzione alle trasformazioni contemporanee. Ci troviamo oggi di fronte a un neo-impero centrato
su una sola potenza e in cui l’insistenza sulla governance trasforma le caratteristiche dei processi
politici che avevano legittimato la decolonizzazione e quindi il ruolo del Terzo Mondo.
La fase del terzomondismo è entrata nella storia, soprattutto per ciò che riguarda l’enfasi
su uno sviluppo guidato dallo Stato e su una forte concezione della sovranità territoriale degli
Stati-nazione. Come lo stesso Amir ricorda a conclusione del suo saggio occorre riflettere su
quale nuovo spazio di cooperazione possa crearsi per affrontare le contraddizioni della globalizzazione neo-liberista. Se certamente, come il volume indica, l’esperienza storica del Terzo
Mondo si è conclusa, tuttavia una prospettiva sul Terzo Mondo può fornire un correttivo ad
analisi che, invece, oggi cercano di incentrarsi sulle differenze fra le culture: una questione che
può offrire spunti per possibili ulteriori studi. Con una cautela: infatti i neo-terzomondisti di
alcuni paesi hanno bisogno dello spettro della dominazione statunitense per denigrare alcune
nozioni «occidentali», mentre gli USA hanno bisogno di «terzomondisti bellicosi» per giustificare la propria attitudine militarista. In conclusione, un testo vario nella composizione dei suoi
saggi e nei temi che vengono affrontati che permette di avvicinarsi in maniera agevole e, al tempo stesso, rigorosa alle questioni storiche e politiche riguardanti il Terzo Mondo.
Mario Zamponi
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I LIBRI DEL 2007
Emiliana Camarda, Pietralata. Da campagna a isola di periferia, Milano, FrancoAngeli,
144 pp., € 18,00
Il libro si colloca nell’ambito del progetto «Un laboratorio di storia urbana: le molte identità di Roma nel Novecento» coordinato da Lidia Piccioni, le cui pubblicazioni hanno come
oggetto le vicende di alcuni insediamenti periferici della capitale durante il XX secolo. Il volume ricostruisce le vicende di Pietralata, abitato del quadrante est di Roma, sorto su aree prevalentemente agricole e scarsamente urbanizzate a partire dagli anni ’30 a seguito di trasferimenti forzati di popolazione da alcune zone del centro città, contestualmente alle politiche di
«sventramento» operate dal regime. La ricerca abbraccia un quarantennio (1930-1970), soffermandosi tuttavia maggiormente su una fase lunga tre decenni, dal fascismo agli anni ’50,
con le esperienze dell’occupazione nazifascista e della Resistenza decisive per la futura politicizzazione del quartiere, già peraltro insita in una spiccata avversione al regime, che si manifesterà nei comportamenti elettorali dei suoi abitanti. L’opera è suddivisa in quattro capitoli
di cui i due centrali appaiono come i più corposi e documentati; inoltre è presente una sezione fotografica molto utile al lettore per contestualizzare «visivamente» la narrazione storica.
Le fonti utilizzate sono piuttosto eterogenee, e ciò costituisce sicuramente un pregio, per provenienza e natura (interviste ad abitanti ed a rappresentanti del PCI locale, rapporti di polizia su questioni d’ordine pubblico, pubblicazioni di istituzioni religiose operanti in borgata,
riferimenti ad opere di Pasolini). Esse mirano a ricostruire sia le esperienze comuni degli abitanti nelle lotte, spesso spontanee ed impulsive, contro emarginazione e degrado, sia le immagini attraverso le quali Pietralata è stata descritta, soprattutto dal cinema e dalla narrativa: tale racconto «incrociato» mira a definire i caratteri identitari di Pietralata, principale obiettivo
della ricerca. Ricomporre la storia del quartiere attraverso le identità collettive pone però alcuni interrogativi di fondo: quanto esse erano realmente diffuse e condivise? E quanto potevano riflettere situazioni reali o quanto erano invece frutto di semplificazioni stereotipate? Una
via d’uscita a tali questioni può giungere analizzando le identità come delle rappresentazioni,
attraverso le quali una comunità si vede, a volte suo malgrado, raccontata, ma anche attraverso le quali si racconta. Al pari di alcune immagini «letterarie» della borgata, in cui gli abitanti del quartiere non si riconoscono (o non vogliono riconoscersi), anche le visioni che i dirigenti comunisti danno di Pietralata («il popolo delle nostre borgate […] i lavoratori romani,
gli operai comunisti» p. 82) sono rappresentazioni, come quelle che gli stessi «pietralatini»
danno di sé – gente povera, ma «de core» (p. 100) – o distinguendo, per diversa condizione
sociale ed abitativa, la borgata «alta» da quella «bassa» (pp. 97-101). Storicizzare le identità significa anche storicizzare le retoriche e, individuando gli stereotipi, ci può aiutare ad analizzare il passato (ed il presente, che spesso presenta gli stessi problemi di ieri) in una prospettiva più ampia e complessiva perché più distaccata.
Giovanni Cristina
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I LIBRI DEL 2007
Massimo Campanini, Karim Mezran, Arcipelago Islam. Tradizione, riforma e militanza in
età contemporanea, Roma-Bari, Laterza, XXVI-210 pp., € 18,00
Le origini e l’evoluzione delle correnti riformiste islamiche contemporanee, nel loro intreccio con la storia e la politica mediorientale e mondiale, sono tema di questo saggio, che
aspira a dimostrare da un lato la complessità e l’originalità di tale pensiero, dall’altro a difendere la legittimità di una via islamica alla modernizzazione e alla democrazia. Dall’analisi di
movimenti e figure all’interno della galassia riformista, accomunati dalla convinzione di potere, in vari modi, «islamizzare la modernità», discende l’irriducibilità della posizione riformista alle categorie occidentali di laicità (di cui si contesta peraltro l’esistenza) e di libertà individuale, a meno di considerare quest’ultima, con Sayyid Qutb, come libertà dell’individuo
dalle passioni, dagli interessi materiali e dalla soggezione ad autorità terrene, e come preludio
dell’asservimento a Dio. Non vi è invece, per gli aa., antagonismo con le nozioni di democrazia e di diritti umani, se si ammette che gli interessi della comunità prevalgono su quelli dell’individuo, il che rende possibile accettare ogni violazione dei diritti personali, fino alle pene
corporali maggiori per reati quali l’adulterio.
Pur negando che l’islam sia una realtà monolitica aliena da interpretazioni pluraliste, gli
aa. guardano soprattutto al mondo arabo, sunnita e riformista. Questa prospettiva esclude
quasi del tutto l’islam sufi, che è oggi, nella sua inesauribile varietà, la forma prevalente di devozione nel mondo sunnita non arabo. Così, il sincretismo dell’islam indiano, remoto dalla
logica cristallina del discorso riformista, appare loro «un problema tormentoso» e «un’anomalia», il sufismo nella sua interezza è sospettato di proporre «una via all’alienazione» (pp. 9-11)
e anche dello shiismo essi considerano solo la variante recente del khomeinismo, in quanto
portatrice di una teologia islamica della liberazione.
Si tratta dunque di un’opera a tesi, come non è infrequente nella saggistica di tema islamico. Più raro è trovare, in un testo che dichiara che «la strada maestra per arrivare a una autentica comprensione del fenomeno dell’Islam contemporaneo è quella storica» (p. V), affermazioni
e giudizi altrettanto perentori e militanti su personaggi, eventi e movimenti sui quali il giudizio
storico è problematico, molteplice e spesso ancora aperto. Non mi riferisco tanto all’ennesima
evocazione della concezione lacrimosa della storia mediorientale, che ne deriva tutti i mali dall’occupazione coloniale e dalla fondazione di Israele, ignorando gli altri attori e interessi in campo e l’interazione complessiva. Più peculiari sono le profezie su movimenti come Hamas e Hizballah, assolti da possibili sviluppi in senso antidemocratico e violento – nonostante la cronaca
di tutti i giorni – in virtù di un supposto carattere «nazionale» e «popolare», mentre i teorici riformisti moderati sono visti come «intellettuali organici» gramsciani che preparano l’avvento dello
Stato islamico con il radicamento nella società, e di un’organizzazione come al-Qâ‘ida si prevede la sconfitta perché «avanguardia sradicata» (pp. 116-118) dalla sua base popolare.
Bruna Soravia
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I LIBRI DEL 2007
Francesca Canale Cama, Alla prova del fuoco. Socialisti francesi e italiani di fronte alla prima guerra mondiale (1911-1916), Napoli, Guida, 289 pp., € 18,00
Il desolante spettacolo offerto dall’Internazionale socialista nell’agosto 1914, quando fu
incapace di sviluppare la benché minima resistenza nei confronti del processo drammaticamente innescatosi, rappresenta una delle pagine più buie della storia del movimento operaio
e contadino. Anche per questo motivo gli studiosi decisi ad analizzare le ragioni di tale improvviso cedimento non sono mai mancati. Tuttavia, mentre l’attenzione per le dinamiche
proprie dell’Internazionale – oltre che per le vicende interne ai diversi partiti aderenti – si è
mantenuta costantemente alta, la stessa cosa non può invece essere detta per altre questioni
cruciali come, ad esempio, il deficit di riflessione politica che, specialmente attorno al nodo
del rapporto con l’evento «guerra», caratterizzò i singoli partiti socialisti. Si tratta di un passaggio decisivo, che è merito dell’a. avere con questo volume affrontato. Pregio del libro è infatti quello di ripercorrere le fasi di un dibattito per certi versi surreale, nutrito dalla sempre
più lucida consapevolezza del rapido avvicinarsi del conflitto come dalla sempre più ferma
convinzione che una soluzione sarebbe stata trovata. E ha pure la dote di individuare, una volta deflagrata la guerra, l’importanza e l’originalità dell’apporto offerto dai socialisti nostrani.
Un contributo che, indubbiamente favorito dall’iniziale neutralità del paese, mise i socialisti
italiani nella condizione di non rimanere ingabbiati dalla trappola morale-politica dell’union
sacrée, consentendo loro di farsi anche alfieri del rilancio su larga scala dell’internazionalismo
dimenticato dai «maestri». La dimensione comparata dello studio, che mette a confronto il
pensiero sviluppato dai socialisti francesi con quello degli italiani, consente inoltre di evidenziare lo spessore del rapporto intrattenuto. Un legame che non venne mai meno, capace di influire concretamente – soprattutto nel senso dell’ascendente francese sul partito italiano – sulle vicende politiche interne ai due partiti. L’a. affronta anzitutto il dibattito che, prima del
1911, si sviluppò nel Partito socialista francese attorno al concetto di patriottismo, al rapporto tra universalismo socialista e problematiche nazionali. È a partire da questo nodo che si dipana un intricato groviglio di problemi, che riguardano la determinazione dei mezzi più adatti per dare sostanza al taumaturgico refrain della necessità di portare «guerra alla guerra». Dopo aver descritto i travagli del Partito socialista italiano e le dinamiche innescatesi con la guerra di Libia, Canale Cama descrive il progressivo superamento dell’assioma della «guerra giusta» in caso di difesa della patria (in precedenza mai neppure messo in discussione) e la complessa vicenda della graduale identificazione – almeno per una parte consistente del movimento socialista – tra istinto antimilitarista e approdo rivoluzionario. In conclusione, nonostante
alcuni passaggi poco chiari e qualche ripetizione di troppo, il volume si segnala per il contributo dato all’arricchimento del quadro di conoscenze e di riflessione su questo decisivo passaggio della storia del movimento socialista europeo.
Andrea Baravelli
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I LIBRI DEL 2007
Mauro Canali, Mussolini e il petrolio iracheno. L’Italia, gli interessi petroliferi e le grandi potenze, Torino, Einaudi, XIII-204 pp., € 15,00
Il libro ricostruisce, con dovizia di particolari e ricchezza di documentazione, le vicende
diplomatiche legate allo sfruttamento delle enormi risorse petrolifere dell’antico vilayet di
Mossul, provincia mesopotamica situata sulla sponda occidentale del fiume Tigri, appartenuta per secoli all’Impero Ottomano, rivendicata dalla Repubblica Turca di Mustafa Kemal
Atatürk e infine assegnata dal Consiglio della Società delle Nazioni al Regno d’Iraq nel 1925.
Nel primo capitolo, Canali si concentra sulla crisi di Mossul, definita «la prima e unica crisi petrolifera esplosa, sviluppatasi e conclusasi alla luce del sole» (p. VIII), che vide come protagonisti Atatürk, che riteneva Mossul fondamentale per la giovane Repubblica Turca; il governo di Londra, che mirava a conseguire il controllo dei giacimenti di greggio iracheni; e gli Stati Uniti, che volevano far parte del cartello petrolifero anglo-franco-olandese costituito per lo
sfruttamento degli idrocarburi mesopotamici tramite il controllo delle azioni della Turkish Petroleum Company (TPC). Nel secondo capitolo è ricostruita la cosiddetta «guerra fredda» tra
Gran Bretagna e Stati Uniti, uno scontro diplomatico tanto intenso da minare addirittura la
pace nella regione. Gli USA, infatti, appoggiarono le rivendicazioni turche su Mossul fino a
quando i britannici non accettarono la partecipazione americana agli interessi petroliferi dell’area, con la ridenominazione della TPC in Iraq Petroleum Company. In questo complesso intreccio di interessi si inserisce il ruolo dell’Italia, che l’a. affronta nel terzo e ultimo capitolo:
l’avvento al potere di Mussolini fece pensare inizialmente a una politica più risoluta rispetto a
quella dei governi precedenti, come sembrò indicare la promessa di Lord Curzon alla Conferenza di Losanna di tenere presente l’Italia nella spartizione del petrolio di Mossul una volta
definita l’attribuzione territoriale della zona. Il governo italiano, tuttavia, fu escluso dai negoziati per lo sfruttamento del greggio iracheno fino al 1934, quando l’AGIP riuscì a entrare come socio azionista della compagnia britannica BOD, che si era affiancata all’Iraq Petroleum
Company. Tuttavia, proprio quando stava iniziando la fase estrattiva del greggio, la necessità di
finanziare l’impresa etiopica portò Mussolini a vendere la BOD agli anglo-americani, rinunciando all’autosufficienza energetica dell’Italia. Canali conclude con una valutazione della decisione di Mussolini, che «piuttosto che guardare agli interessi reali del paese si abbandonava
per scopi propagandistici a una politica estera di mera esibizione di potenza» (p. XIII).
L’adeguato utilizzo di documenti inediti degli archivi italiani, britannici e statunitensi getta nuova luce sul ruolo italiano nella competizione per lo sfruttamento del petrolio mediorientale e offre un’opera interessante per meglio comprendere la diplomazia delle risorse energetiche del nostro paese prima di Enrico Mattei. Il titolo, tuttavia, è un po’ fuorviante, dato
che solo nella terza parte viene presa in esame in modo dettagliato la politica petrolifera dell’Italia di Mussolini.
Massimiliano Cricco
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I LIBRI DEL 2007
Andrea Capaccioni, Andrea Paoli, Ruggero Ranieri (a cura di), Le biblioteche e gli archivi italiani durante la seconda guerra mondiale. Il caso italiano, Bologna, Pendragon, XXXVII581 pp., € 38,00
Il volume – che fa seguito a un convegno organizzato a Perugia nel dicembre 2005 dalla
Uguccione Ranieri di Sorbello Foundation – si pone l’obiettivo di «approfondire il tema della
condizione delle biblioteche italiane durante la seconda guerra mondiale, allargando l’indagine anche al mondo degli archivi» (p. I). Le politiche di protezione dei beni librari varate fin dal
1935 dal Ministero dell’Educazione nazionale attraverso la Direzione generale accademie e biblioteche e la loro attuazione sono documentate assai puntualmente da Flavia Cristiano e Andrea Paoli nei due saggi di apertura. Alberto Petrucciani sposta il fuoco dell’attenzione dalla
normativa alle pratiche: «La storia delle biblioteche italiane è stata largamente studiata dal punto di vista della politica bibliotecaria, dall’Unità a oggi, anche per quanto riguarda la formazione delle loro raccolte, soprattutto di pregio, mentre l’aspetto che è finora rimasto più in ombra
– anche se […] si tratta del più significativo per la storia di un’istituzione sociale – è quello del
servizio svolto» (p. 99). E infatti il suo saggio si propone di delineare un primo quadro della situazione determinatasi nell’erogazione dei servizi nelle diverse biblioteche durante il corso della guerra: compito non facile perché affidato a una documentazione – relazioni, lettere private, dati statistici – assai frammentaria. Sulla stessa linea si muove il saggio di Simonetta Buttò
che ripercorre le esperienze dei «protagonisti», «quelle donne e quegli uomini ai quali si deve la
sostanziale salvezza del patrimonio librario delle nostre biblioteche» (p. 251). L’atteggiamento
ambivalente degli occupanti tedeschi è illustrato da Lutz Klinkhammer, mentre Ruggero Ranieri si sofferma sull’azione del Governo militare alleato, in particolare della Sottocommissione MFA&A-Monuments, Fine Arts and Archives, rispetto al problema della tutela e della gestione di archivi e biblioteche. Anche in fatto di beni librari e documentari, statunitensi e britannici si dovettero confrontare sul nodo di fondo delle forme di controllo da mettere in atto
sul territorio occupato, del rapporto tra elemento civile ed elemento militare e sulla «possibilità di contemperare gli obiettivi di una ricostruzione di una società libera e democratica con
quelli più immediati di combattere e vincere una guerra» (p. 119). Completano il volume un
panorama della situazione archivistica tracciato da Giovanna Giubbini e numerosi studi di caso riferiti a diverse realtà ed esperienze locali: le biblioteche spagnole nella guerra civile (Rosa
M. Lopez Alonso), le biblioteche universitarie (Andrea Capaccioni), le biblioteche milanesi
(Paolo Traniello e Anna Maria Rossato), le romane e la Vaticana (Massimo Ceresa), di Genova (Alberto Petrucciani), Napoli (Vincenzo Trombetta), Perugia (Andrea Capaccioni), Pisa
(Alessandra Pesante), Trieste (Cristina Moro), dei territori situati sulla Linea Gustav (Gabriella Grilli), la Biblioteca Nazionale di Firenze (Antonio Giardullo), la Marciana di Venezia (Stefano Trovato), la Biblioteca bolognese dell’Archiginnasio (Valeria Roncuzzi Roversi Monaco).
Rosanna De Longis
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I LIBRI DEL 2007
Carlo Spartaco Capogreco, Il piombo e l’argento: la vera storia del partigiano Facio, Roma,
Donzelli, 232 pp., € 24,50
Dante Castellucci, calabrese, emigra prestissimo con la famiglia in Francia. Nel 1939, costretto a tornare in Italia, partecipa alla tragedia dell’ARMIR in Russia. Già orientato al comunismo prima di quell’esperienza, Castellucci rafforza le sue convinzioni al ritorno, quando conosce la famiglia Sarzi, attori girovaghi antifascisti, e i fratelli Cervi, coi quali partecipa ad una precoce attività di
resistenza già prima dell’8 settembre ’43. Arrestato con loro riesce a fuggire e (gennaio ’44) ripara
in montagna entrando col nome Facio nel distaccamento garibaldino «Picelli». Quando il comandante è ucciso gli succede e guida gli uomini in azioni spericolate e efficaci. Notevole (febbraio) il
combattimento del Lago Santo, dove riesce ad avere la meglio su forze nemiche sovrastanti.
Facio diventa un mito, «La popolazione […] trema ed è felice all’udire pronunciare il nome Facio e lo riguarda quasi come un eroe da leggenda» (p. 75) scrive un ispettore partigiano.
Poi le cose precipitano quando arriva in formazione un vecchio comunista dell’emigrazione che
presto entra in conflitto con lui. Si tratta di Antonio Cabrelli, ben noto alla direzione nazionale del PCI che lo ha espulso dal partito nel 1939 sospettandolo di essere una spia dell’OVRA (recenti ricerche hanno appurato che quei sospetti erano fondati). Facio ammira la preparazione
politica di Cabrelli, migliore della sua, e gli offre di dirigere un distaccamento del «Picelli». Cabrelli da quel momento si allontana dalla formazione e si mostra sempre più ostile (cerca anche
di uccidere Facio); nel frattempo, spinto da un’ambizione illimitata e grazie alla sua esperienza
politica, si ritaglia un ruolo importante nel processo che sta portando al Comando unico e può
presentare Facio, che gli dà ombra, come un ostacolo da eliminare senza scrupoli. Leader carismatico ma politicamente inesperto Facio è invece impreparato ad affrontare la fase. Troppo generoso per sospettare il complotto che viene ordito alle sue spalle accetta di discutere con Cabrelli e altri capi comunisti. Durante una riunione viene improvvisamente disarmato, percosso,
processato in modo farsesco, condannato a morte con imputazioni ridicole e fucilato.
Capogreco ricostruisce in dettaglio i passaggi che portano alla tragica uccisione (presto – ma
segretamente – riconosciuta come «madornale errore» dai comunisti spezzini, p. 133) ma rintraccia anche la sorte di Facio dopo la morte: i vani tentativi della sua donna di ottenere per lui riabilitazione post mortem e punizione dei colpevoli; la tardiva concessione di una medaglia d’argento con motivazioni che nascondono i veri motivi della fucilazione; i decenni di reticenze di molti ex partigiani e di alcuni storici locali. Trattando questo caso il libro illumina i drammi (spesso
taciuti) che spesso esplosero quando nacquero i Comandi unici. Ma ci mostra anche il prestigio
del comunismo presso i giovani partigiani appena nati alla politica. Facio, con l’attitudine di una
vittima dei processi staliniani, durante il giudizio non si difendeva perché lo accusavano in nome del Partito comunista. Dopo la condanna rifiutò la proposta dei carcerieri che lo invitavano
a fuggire preferendo affrontare la morte comminata dai compagni di lotta. Aveva 24 anni.
Giovanni Contini
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I LIBRI DEL 2007
Federico Caprotti, Mussolini’s Cities. Internal Colonialism in Italy, 1930-1939,
Youngstown-New York, Cambria Press, XXVI-290 pp., € 49,95
Scritto da un non storico, questo libro non è di facile lettura. Il lettore fa fatica, infatti, a
seguire la ricostruzione di quella gigantesca impresa che fu la bonifica delle paludi pontine e
l’edificazione delle città nuove. E ciò per due ragioni di fondo. Innanzitutto perché non infrequenti sono nel testo i preamboli, le ripetizioni e i riepiloghi. E, in secondo luogo, per la
disinvoltura con cui vengono maneggiati i concetti, costruite le associazioni, stabiliti i parallelismi. A titolo d’esempio ricorderò soltanto che non si capisce che senso abbia descrivere la
colonizzazione interna facendo ricorso, da un lato, alla nozione gramsciana di egemonia, ed
evocando, dall’altro, un progetto eugenetico.
Tuttavia, ancorché lo studioso di human geography non abbia la stessa cassetta degli attrezzi che ha chi fa il mestiere di storico, riesce a mettere a fuoco, abbastanza nitidamente, una
questione di una certa rilevanza. Rileggendo la vicenda delle città di Mussolini, coglie bene,
infatti, quel carattere di «modernismo reazionario» che pure caratterizzò la politica del fascismo. Le città di fondazione dovevano essere una risposta alle città del capitalismo, considerate focolai d’infezione sociale, e dovevano dimostrare che il fascismo era in grado di edificarle
in un’area in cui la natura era da secoli ostile, poiché il paesaggio, paludoso, era inabitabile e
infestato dalla malaria.
Il progetto era eminentemente moderno, concepito su larga scala, pianificato razionalmente e sostanzialmente tecnocentrico. In altre parole, come rileva giustamente l’a., lo Stato
fascista fece un enorme ricorso alla tecnologia per realizzare una sorta di utopia fascista ambientale. I mezzi tecnologici impiegati furono di due tipi: sistemi idrovori stabili, di pompaggio e drenaggio, che erano veri e propri impianti «mangia acqua», e macchine mobili. Fra queste ultime particolarmente apprezzate erano le inglesi Fowlers, ribattezzate dai lavoratori «favole». A tenere alta la bandiera dell’orgoglio industriale nazionale erano invece i trattori Pavesi. Macchine potenti erano anche i Fiat 40, resi celebri perché Mussolini ne utilizzò uno come podio per il discorso relativo alla fondazione di Aprilia.
Nelle paludi pontine furono anche piantati alberi di eucalipto, importati dall’Australia,
perché ritenuti capaci di assorbire grandi quantità di acqua. Ma, naturalmente, più che sottolineare la loro funzione, il regime enfatizzava al massimo l’impiego di mezzi tecnologici moderni. Il messaggio politico che si voleva trasmettere era chiaro ed era il seguente: il fascismo
non era pregiudizialmente antimoderno, ma cercava di contrastare gli effetti devastanti che la
modernizzazione aveva prodotto in ordine ai valori, agli stili di vita, e, più in generale, alle relazioni tra gli individui. E dunque non esitava a ricorrere alla tecnologia, ma se ne avvaleva
per ristabilire un ordine naturale, in una natura ostile, fra la città e la campagna, in modo da
costruire le condizioni per creare l’uomo nuovo fascista.
Loreto Di Nucci
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I LIBRI DEL 2007
Elena Carano, Oltre la soglia. Uccisioni di civili nel Veneto 1943-1945, Padova, Cleup, 563
pp., € 25,00
Questo ponderoso volume ricostruisce in maniera assai minuziosa l’impatto della guerra
ai civili sulla società veneta durante i mesi dell’occupazione nazista. Grazie a un ampio censimento delle fonti degli archivi locali, di quelli dei tribunali militari di Padova e Verona e dell’ACS (non v’è menzione invece delle inchieste alleate né di fonti tedesche), Carano stima in
oltre 1.100 i civili uccisi per mano tedesca o fascista nel corso di un conflitto che va «oltre la
soglia», cioè oltre le consuetudini delle politiche di repressione adottate da un esercito occupante nei confronti della popolazione civile.
L’a. si misura con le difficoltà di definizione del termine «civile» (Lo sono i renitenti? E i
sacerdoti, anch’essi colpiti dalla violenza di occupazione? E che dire di coloro che assistono
partigiani ed ex prigionieri alleati o renitenti, e che magari al termine del conflitto si vedranno attribuita la qualifica di patriota?). Quindi, passa in rassegna le diverse azioni violente compiute nelle province venete, elaborando una tipologia – per la verità non sempre chiara – che
distingue tra rappresaglie e rastrellamenti antipartigiani, tiene conto delle uccisioni di disertori e renitenti, di quelle frutto «del caso», di diversi episodi di difficile interpretazione (spesso a causa della carenza delle fonti a disposizione), e infine di un amplissimo numero di «eccidi durante la ritirata». Sono questi – con un vero e proprio stillicidio di uccisioni che nell’aprile 1945 fa da contorno a stragi maggiori come quelle di Pedescala (VI) e Santa Giustina in
Colle (PD) – che evidenziano la specificità del quadro veneto nel contesto nazionale della
guerra ai civili. Ed è proprio a partire dall’analisi di questi episodi, frutto della miscela esplosiva di «furia» tedesca ed «euforia» per la liberazione, che l’a. si misura anche con il tema della eventuale responsabilità partigiana in relazione alle stragi.
La ricerca ha permesso la compilazione di una tabella cronologica degli oltre 330 episodi di violenza censiti, che tiene conto delle stragi ma anche delle uccisioni singole. Forse, ci
sarebbe stato bisogno di un maggiore sforzo interpretativo, tentando di individuare delle fasi
cronologiche all’interno della guerra ai civili veneta. In un contesto nel quale il riferimento al
movimento del fronte o alla costruzione di tracciati difensivi non conta quanto in altre regioni (Campania, Toscana), sarebbe stato utile provare a legare l’andamento della violenza sui civili con alcuni eventi nazionali (esiste anche in Veneto un picco repressivo all’indomani di via
Rasella, e ancora nei tre mesi che seguono la liberazione di Roma?) e con le scansioni della storia del locale movimento partigiano.
Il libro merita comunque di esser segnalato come una delle migliori ricerche sul tema delle stragi edite negli ultimi anni, e conferma – ove ve ne fosse bisogno – la necessità di puntuali ricostruzioni dei quadri regionali e sub-regionali: solo grazie a queste si potrà arrivare finalmente a delineare un quadro nazionale davvero esaustivo.
Gianluca Fulvetti
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Pagina 201
I LIBRI DEL 2007
Giordano Carlotti, Il passaggio del Reno. La storia della moderna cooperazione di consumo
nella provincia di Ferrara, Bologna, Clueb, 206 pp., € 16,00
Questo nuovo lavoro sulla cooperazione di consumo non è opera di uno storico professionale, ma di un protagonista delle vicende narrate. Giordano Carlotti infatti entrò giovanissimo nell’organizzazione cooperativa ferrarese, divenendo poi direttore e presidente della
Coop Ferrara, per passare quindi ai vertici dell’Associazione cooperative di consumo del distretto adriatico. Il libro ripercorre dunque la storia del movimento cooperativo ferrarese vista «da dentro», con l’ausilio di documenti interni, verbali, bilanci, testimonianze.
Il volume si apre con una serie di brevi capitoli che ripercorrono le prime tappe della cooperazione di consumo nel Ferrarese, dai primi limitati esperimenti nell’800 attraverso il fascismo, la ricostruzione del dopoguerra e la creazione di Coop Ferrara nel 1972. Il cuore del lavoro riguarda però i due decenni successivi, indicati, a ragione, come cruciali per l’affermarsi
della nuova impresa. Una prima fase (1973-1979) è segnata da un delicato processo di ristrutturazione: tradizionalmente le sedi delle cooperative di consumo erano poste accanto alle Case del Popolo, o ai sindacati e partiti di sinistra, così da costituire un naturale riferimento politico e sociale per tutti i soci; la necessità di ristrutturare la rete di vendita comportò la chiusura di decine e decine di piccoli negozi, e fu vissuta dolorosamente da molti soci. Il processo tuttavia proseguì, ponendo le basi per lo sviluppo degli anni ’80, che vide l’apertura di nuove forme commerciali (supermercati, centri commerciali), la riorganizzazione di Coop Italia,
una nuova attenzione verso la comunicazione mediatica (attuata attraverso Carosello, e poi testimonials come Peter Falk e Woody Allen). In sostanza, si perseguì una politica volta a diminuire il numero di aziende e ad aumentarne le dimensioni, in vista di una maggiore competitività. Se nella fase precedente aveva prevalso un atteggiamento «difensivo e alternativo al
circuito commerciale ordinario», la «nuova fase, a partire dalla stagione delle ultime unificazioni e della scelta del Supermercato, si poteva connotare con una strategia più offensiva e di
presenza attiva e preminente sul mercato» (p. 141). L’ultima tappa di questo processo sarà la
fusione di Coop Ferrara con Coop Modena, che nel 1989 darà vita a Coop Estense.
Il libro va ad aggiungersi alla folta schiera di volumi che ripercorrono la storia di un’impresa. La sua peculiarità, come detto, è la sua ottica interna, che presenta vantaggi e svantaggi: vantaggi, perché si avvale di documentazione spesso non accessibile a ricercatori esterni e
della preziosa risorsa della «memoria» (non per niente, si chiude con alcune interviste a protagonisti); svantaggi, perché non consente forse quel distacco dal soggetto che sarebbe apprezzabile in ricostruzioni di questo genere (anche se non mancano riferimenti attenti e critici ai
processi in corso, ad esempio sul mutato rapporto dei sindacati con le coop, via via che queste si strutturano come vere e proprie «imprese», pp. 109-111). Nel complesso uno strumento utile, di per sé e per futuri approfondimenti.
Emanuela Scarpellini
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I LIBRI DEL 2007
Bruno Cartosio, New York e il moderno. Società, arte e architettura nella metropoli americana (1876-1917), Milano, Feltrinelli, 379 pp., € 35,00
È sul filo di una incontenibile energia creativa che New York diviene capitale culturale e
artistica degli Stati Uniti nella seconda metà dell’800. Un’energia creativa alla base di rapidi
cambiamenti che Cartosio insegue nelle forme e nei volumi della metropoli, come nei vissuti individuali e collettivi dei soggetti che l’abitarono.
Attraverso una narrazione ricca, l’a. conduce il lettore lungo percorsi di scoperta di un
mondo in cui luoghi, figure, movimenti, oggetti assumono contorni tali da renderli riconoscibili nei processi celeri del cambiamento. Alcuni di essi hanno una rilevanza importante nel testo: il museo, il tenement, il grattacielo e l’armory vi rappresentano gli edifici simbolo di una
trasformazione sociale e culturale che nello spazio impresse i propri segni e nelle architetture
trovò piena espressione. Il potere di élites sempre più attente a rappresentare la propria forza
attraverso pratiche incentrate sul consumo del bello e del voluttuoso, la presenza crescente di
lavoratori e immigrati che nella città si ammassavano in alloggi di nuova ideazione, la visibilità
di un potere finanziario e politico che trovava nella vicinanza al cielo l’immagine della propria
modernità, l’arroccamento di quello stesso potere in fortini creati sull’onda della paura generata dagli scioperi e dalle rivendicazioni operaie costituiscono gli elementi di una storia che l’a.
ripercorre nella materialità della forma urbana come nella soggettività dei molteplici attori che
di New York fecero il luogo dell’unicità. Le storie dei singoli – il collezionista J.P. Morgan o il
fotografo Stieglitz – come quella dei gruppi – gli artisti, i giornalisti, i sindacalisti, le femministe – si intrecciano nel tessuto di una varia umanità che in alcuni luoghi, il Greenwich Village,
riuscì ad esprimersi nei modi di uno «sperimentalismo morale e artistico-intellettuale» (p. 232)
che si oppose alla modernità del capitale, scintillante nelle sue forme e altezze.
Alle meraviglie del moderno, Cartosio non sottrae mai la dimensione conflittuale che fece
della metropoli il centro di un attivismo sociale e politico che nel tempo assunse vari aspetti. Gli
scioperi, repressi con violenza, le mobilitazioni, le rivendicazioni sindacali testimoniavano di un
crescere delle tensioni legate a filo doppio con quella vorticosa modernità, che determinava il
rafforzamento di una borghesia che da un lato collezionava opere d’arte, dall’altra esercitava i
meccanismi brutali del potere. Cartosio sottolinea come la repressione non spense una dialettica culturale vivace, che a lungo si espresse in legami e relazioni annodate nell’ambito del socialismo o di esperienze intellettuali e editoriali come quella (radicale) della rivista «The Masses».
Con una scelta significativa, l’a. apre e chiude il volume evidenziando il continuo, fecondo scambio con l’Europa che New York visse non solo nei termini dell’arte e del politico, ma
anche di un rapporto con l’alterità specifico. Rapporto che nel Vecchio continente si delineava nei confronti delle colonie, mentre negli USA si plasmava in relazione ai non bianchi, all’insegna di una «linea del colore» invalicabile perché costitutiva della stessa modernità.
Simona Troilo
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I LIBRI DEL 2007
Bruno Cartosio (a cura di), Wobbly! L’Industrial Workers of the World e il suo tempo, Milano, ShaKe Edizioni, 268 pp., € 17,00
Gli Industrial Workers of the World (IWW) furono fondati a Chicago nel 1905 con grandi aspettative. Volevano essere il sindacato della lotta di classe e dell’organizzazione unitaria di
tutti i lavoratori industriali (senza distinzione di mestiere), nonché il movimento rivoluzionario che rovesciava il capitalismo. Erano parenti degli anarco-sindacalisti europei, ma con tratti tipici del radicalismo americano individualista e libertario. Esistono ancora, ma è all’inizio
del ’900 che diedero il meglio di sé, nei conflitti sociali della seconda rivoluzione industriale,
dell’immigrazione di massa, della Grande guerra, del biennio rosso internazionale che seguì.
Alle vicende di quegli anni sono dedicati i saggi qui raccolti in celebrazione del centenario della nascita.
I saggi sono diversi tra loro, scritti in date diversissime, articoli lunghi o brevi note, di studiosi italiani e americani, accompagnati da documenti e illustrazioni del tempo. Compongono un quadro ricco e interessante, nella tradizione culturale di «Ácoma» – l’eccellente «Rivista internazionale di studi nordamericani» di cui gli italiani qui presenti (Cartosio, Sandro
Portelli, Nando Fasce) sono fra i primi ispiratori. Offrono anche una ghiotta occasione di riflessione sulle tendenze di lungo periodo della working-class history, partendo dai cambiamenti di prospettiva di alcuni dei nostri più impegnati working-class historians americanisti. Il nucleo del volume è infatti formato da due solidi lavori di Fasce e Cartosio di trent’anni fa, e da
due altrettanto solidi lavori degli stessi autori scritti oggi.
La differenza è lampante. I saggi degli anni ’70 sono interni al loro oggetto, discutono da
connoisseurs di strategie politiche e tattiche di sciopero, assumono nell’analisi il punto di vista
degli IWW, parlano con la loro voce. I saggi di oggi guardano l’oggetto dall’esterno, gli girano intorno, trattano aspetti generali di contesto (razza, genere, imperialismi, riformismi middle-class); sono critici e distaccati. Anche il fallimento finale degli IWW è discusso con più complessità che in passato; in un modo, tuttavia, che ancora mi sembra non soddisfacente. Cartosio ne individua le cause nelle repressioni del periodo bellico e postbellico. Ma quando conclude che quelle repressioni «non riuscirono del tutto [...]; e certamente non portarono al fascismo, come in Italia» (p. 215), indica una strada comparativa che andrebbe percorsa fino in
fondo. I movimenti di sinistra furono distrutti in Italia e in Germania, ma alla fine dei regimi fascisti fu lì che sorsero il Partito comunista e la socialdemocrazia più forti d’occidente. Le
persecuzioni ben più blande negli Stati Uniti cancellarono l’opzione socialista dal panorama
politico. Ci devono essere altre ragioni, oltre la repressione.
Arnaldo Testi
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I LIBRI DEL 2007
Maria Pia Casalena, Per lo Stato, per la Nazione. I congressi degli scienziati in Francia e in
Italia (1830-1914), Roma, Carocci, 253 pp., € 19,50
Ricco di fatti e nomi, di grafici e tabelle, il volume si apre con una introduzione al significato di quei «luoghi nuovi della scienza ottocentesca» (p. 12) che furono i congressi degli
scienziati, figli (ma talvolta anche progenitori) di associazioni per il progresso delle scienze a
spiccata vocazione civile. A darne il primo esempio fu, nel 1815, la Svizzera, seguita da Germania (1822), Gran Bretagna (1831), Francia (1833), Italia e Scandinavia (1839), Ungheria
(1841), Polonia (1863), per non dire degli Stati Uniti e del Canada, dell’India, dell’Australia
e del Sudafrica. Di questo vivace arcipelago l’a. tiene costantemente conto: ma il focus della
ricerca è, appunto, sui «congressi degli scienziati in Francia e in Italia», analizzati attraverso
una intelligente ricognizione della letteratura e della documentazione, in un’ottica di serrata
attenzione critica ai miti e agli stereotipi che si sono venuti depositando sulle due realtà a partire dalla percezione che ne ebbero protagonisti e opinionisti del tempo, e dell’immagine che
gli uni e gli altri erano interessati a tramandarne.
I due «casi» presi in esame non potrebbero essere più diversi. Parlare del movimento francese dei congressi scientifici, cioè del Congrès scientifique de France e dell’Institut des Provinces, significa evocare personaggi e ambienti dall’insistita connotazione «veterocetuale» (p.
52), antiparigina e antirivoluzionaria, convinti di essere i depositari della France réelle e impegnati a valorizzarne memorie e virtù. In Italia, invece, i segmenti di intellettualità operosa che
attraverso il «movimento dei congressi» si proponevano come «rappresentanti di fatto, e auspicabilmente di diritto, del genio e della volontà generale» (p. 177) lo facevano in nome di
un progresso vissuto e propagandato come obbligo morale e civico di chiunque avesse a cuore il «risorgimento della nazione» e le sorti della patria, piccola o grande che fosse.
L’acme del movimento coincise, in tutti e due i casi, con gli anni ‘40, quando ogni congresso vide convergere nelle città in cui si svolgeva parecchie centinaia di partecipanti, protagonisti di una domanda di socialità culturale dalla nitida valenza politica. Ma le analogie finiscono qui. Diverse le ragioni della promozione e le modalità dell’organizzazione, diverso il
bacino di interesse e di coinvolgimento di professionisti e amatori: tanto centralizzato e sostanzialmente monocorde il movimento francese quanto sfaccettato e plastico quello italiano,
pronto a mutare volto e orientamento col mutare dei luoghi e dei tempi. Quanto al post-’48,
le due storie si divaricano a tal punto – «imperiale» e clericaleggiante l’una, laica e attratta da
una accentuata professionalizzazione l’altra – da mettere a dura prova ogni velleità comparativa: con un movimento italiano attratto soprattutto da quel che accadeva in Inghilterra e in
Germania, e un movimento francese troppo prigioniero delle tensioni e delle ossessioni nazionali per potersi proporre come un modello degno di questo nome.
Simonetta Soldani
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I LIBRI DEL 2007
Giuseppe Casarrubea, Mario J. Cereghino, Tango Connection. L’oro nazifascista, l’America Latina e la guerra al comunismo in Italia 1943-1947, Milano, Bompiani, 200 pp., € 9,00
Gli aa. hanno tentato di presentarci le complesse vicende politiche del nostro paese negli
anni successivi alla seconda guerra mondiale, la storia dei suoi molti misteri, reali e presunti. Nella trama, il cui filo appare troppo frequentemente spezzato, si susseguono, affastellati, eventi epocali a cui viene associata una pletora di personaggi trattati un po’ alla rinfusa senza un’adeguata
valutazione del grado della loro importanza storica. Per cui capita d’imbattersi in personalità di
grande rilievo politico e militare disinvoltamente confuse con comprimari e comparse, tutti
egualmente disposti al «golpe» pur di scongiurare il pericolo comunista. Inoltre non sempre si
comprende il giudizio dei due storici sull’attendibilità e reale consistenza del pericolo «golpista».
Leggiamo, ad esempio, che il generale Messe avrebbe presieduto una riunione di «golpisti» nel corso della quale avrebbe passato in rassegna le forze neofasciste riunite sotto un fantomatico Fronte internazionale anticomunista (FIA). Tra i massimi dirigenti di questo FIA
vengono citati Antonio Di Legge e Marco Fossa, due ex confidenti dell’OVRA, che, tuttavia,
nella relazione presa in considerazione dagli aa. e compilata da Saverio Polito, questore di Roma, vengono considerati due millantatori, mentre la FIA viene definita poco più d’una mera
sigla «a carattere truffaldino», cioè costituita per spillare denaro a ingenui nostalgici o anticomunisti agiati. Ancora: secondo gli aa., nell’autunno 1946 si sarebbe costituito a Roma un
centro neofascista di cui avrebbero fatto parte alcune personalità di altissimo rango. Si fanno
i nomi di Luigi Ferrari, capo della nuova polizia della Repubblica italiana, Leone Santoro, capo del SIS, cioè i servizi segreti post-fascisti, Pompeo Agrifoglio, ex capo del SIM del «Regno
del Sud», Augusto Turati, ex segretario del PNF, e per ultimo, immancabile, un agente dei servizi segreti americani, in questo caso Philip Corso. Insomma si sarebbe trattato di un vero e
proprio complotto tra il SIS e il neofascismo. Ora, se questa notizia fosse vera, per dovere di
coerenza si sarebbe dovuto trattare con estrema cautela tutta la documentazione del SIS, soprattutto quella relativa al neofascismo, verosimilmente inquinata, mentre, al contrario, i due
aa. mostrano di aver preso talmente sul serio la documentazione del SIS da fondarvi buona
parte del loro lavoro. Gli esempi potrebbero proseguire.
Il risultato finale è una messe d’interrogativi, che purtroppo rimangono tali, perché la tesi
di fondo dei due aa., più che spiegare o stimolare nuove ipotesi interpretative, finisce per abbandonarsi a conclusioni scontate, da «guerra fredda», pigiate a forza nel generoso contenitore
rappresentato dalla CIA. Il pregiudizio ideologico sotteso al lavoro finisce così per condizionare l’approccio metodologico, che si presenta perciò fortemente ispirato dalla necessità di liquidare come falsa e fuorviante buona parte di ciò che appare, e di cercare la verità «vera» sempre
dietro le quinte. L’impressione è che siamo in presenza di una storiografia del tutto indiziaria in
cui la teoria complottistica dello «Stato parallelo» finisce inevitabilmente per farla da padrone.
Mauro Canali
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I LIBRI DEL 2007
Silvia Cassamagnaghi, Immagini dall’America. Mass media e modelli femminili nell’Italia
del secondo dopoguerra, 1945-1960, Milano, FrancoAngeli, 333 pp., € 23,00
Tema non nuovo, quello dell’esportazione statunitense di modelli culturali e la loro introiezione da parte dell’Italia viene affrontato dall’a. attraverso un’indagine attenta dei media
italiani negli anni ’50 e una ricognizione dei fondi contenuti presso i National Archives and
Record Administration di Washington che porta alla luce interessanti documenti statunitensi sulla ricezione dell’immagine americana in alcuni paesi europei.
Il volume affronta una quantità di temi: l’attività dell’United States Information Services
(USIS), i modelli emergenti attraverso rotocalchi, cinema e televisione, le contraddizioni e i
limiti dei processi di «americanizzazione» culturale. L’accuratezza della ricerca conduce solo
parzialmente, però, ai risultati promessi, forse proprio per l’ambizione di trattare troppi argomenti. L’analisi della condizione femminile nell’Italia degli anni ’50 sembra non tenere conto delle importanti differenze tra Nord e Sud del paese, e l’analisi di genere, così come quella
sui consumi e sulla ricezione dei modelli giovanili attraverso il cinema meriterebbero maggiori approfondimenti. Come quei soggetti – donne, giovani, consumatori – hanno adottato e
adattato i nuovi linguaggi del consumo, della cultura di massa, dell’auto-identificazione generazionale, delle tante e diverse versioni della modernità? Si può parlare di americanizzazione in una fase di transizione complessa – come quella degli anni ’50 – che da una società tradizionale ancora prevalentemente contadina e votata al sacrificio e al risparmio conduce ad
una realtà urbana e moderna, caratterizzata da nuovi rapporti sociali, dal consumo di massa e
da nuovi ruoli generazionali e di genere?
La categoria di «americanizzazione» – a lungo abusata – dovrebbe essere decostruita e ripensata per far posto ad altri paradigmi, come quello di ibridazione. In tutta Europa, infatti,
se gran parte dei beni di consumo e le forme di famiglia, sociabilità e domesticità assomigliavano superficialmente al modello americano, il posto che questi beni occuparono nella vita di
uomini e donne ed i significati ad essi assegnati, le identità di genere che svilupparono variarono enormemente a seconda delle diverse realtà nazionali. Nell’Italia degli anni ’50, ad esempio, l’accesso ai consumi di massa è molto più limitato e l’aspirazione alla modernità finisce
dunque per tradursi in un’«americanizzazione» più di desideri che di comportamenti. È possibile parlare di una «via italiana» ai consumi? E, più in generale, che rapporto si stabilisce tra
consumo e identità nazionale?
Il volume di Cassamagnaghi è ben scritto e la sua ricerca è per molti aspetti approfondita. L’aver trascurato parte della buona, per quanto ancora esile, letteratura italiana su questi
temi ha certo nociuto al volume che manca purtroppo di vere conclusioni.
Elisabetta Vezzosi
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I LIBRI DEL 2007
Cristina Cassina, Parole vecchie, parole nuove. Ottocento francese e modernità politica, Roma, Carocci, 158 pp., € 16,50
Raccolti in due sezioni (la prima si intitola Parole nuove, la seconda Parole vecchie in un
contesto nuovo), il volumetto presenta sette contributi dell’a. (due inediti e i cinque restanti
scritti e pubblicati tra il 1996 e il 2007), nonché un saggio inedito di Regina Pozzi.
Lo scenario che li accomuna è l’800 francese, affrontato essenzialmente da una prospettiva di storia del pensiero politico, con una particolare attenzione ai fenomeni di mutamento
del lessico e di fluttuazione semantica di alcune parole chiave. Una parte di queste ultime (per
esempio «individualismo» e «cesarismo») vennero tenute a battesimo allora e anche in seguito hanno mantenuto uno spazio cospicuo nel campo semantico della modernità. Altre, pure
di conio ottocentesco, sono durate lo spazio di un mattino. Di molte altre – da «plebiscito» a
«decadenza», da «sovranità» a «gerarchia» – l’800 ha offerto una nuova accezione.
Il problema che anima il volume è dunque quello della riformulazione dell’orizzonte lessicale e mentale post-rivoluzionario, che viene illustrata prevalentemente investigando nell’immaginario di alcuni autori reazionari, i quali «posando il proprio sguardo sul mondo dai
connotati del tutto nuovi, hanno contribuito alla definizione di categorie concettuali utili alla sua decifrazione» (p. II). Oltre che i notissimi Bonald e de Maistre, all’analisi delle cui solo
superficialmente analoghe risposte alla crisi del mondo «atomistico» post-rivoluzionario è dedicato un apposito saggio, lungo le pagine del volume sfilano una dopo l’altra anche figure di
autori meno conosciuti fuori dall’ambito specialistico: come il barone di Frénilly, probabile
inventore del lemma «individualismo»; o Pierre-Simon Ballanche, il quale, ragionando da
neocattolico sui fenomeni dell’industrializzazione, mise il conio a una parola che si rivelò volatile («plebeianesimo»). Ma larga attenzione viene dedicata anche alla ben più complessa e
ambigua figura di Alexis de Tocqueville e al suo problema di fondo: conciliare l’«individualismo» post-rivoluzionario, ormai accettato in linea di principio, con le possibili derive dispotiche della democrazia e dell’eguaglianza che ne rappresentano il presupposto. E, ancora, un
saggio è consacrato a Saint-Simon e al suo neo-organicismo industrialistico.
Se si volesse condensare in forma sintetica il senso del percorso qui proposto, si potrebbe
probabilmente dire che esso analizza i modi del ripensamento del principio gerarchico (talvolta su basi filosofiche consolidate, altre volte con inedite aperture ai modelli formalizzati
dalle moderne scienze della natura, come dimostrano i nessi tra il proto-razzista e antisemita
Toussenel e la sistemazione concettuale offerta qualche decennio prima da Buffon) all’interno di una società lacerata dalle incertezze della modernità; prima tra tutte quella incarnata dalla democrazia, sulla quale si esercitò criticamente molto del discorso politologico, letterario,
psicologico sulla decadenza ricostruito nel saggio finale di Regina Pozzi.
Marco Meriggi
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I LIBRI DEL 2007
Valerio Castronovo, Piazze e caserme. I dilemmi dell’America Latina dal Novecento a oggi,
Roma-Bari, Laterza, 439 pp., € 20,00
Piazze e caserme, vale a dire populismo estremista e vocazione egemone delle forze armate: è lungo questo duplice fil rouge, assai efficacemente enunciato nel titolo, che Castronovo,
dopo avere dedicato importanti e numerosi studi alla storia economica italiana e internazionale, presenta una ricostruzione complessiva delle vicende dei paesi latinoamericani, con una
equilibrata concessione a esigenze descrittive, interpretative e di sintesi. La crisi del ’29 e i primi anni del nuovo millennio sono i due termini che delimitano, rispettivamente, la periodizzazione proposta. Finito di stampare nell’ottobre 2007, il volume giunge a segnalare eventi del
maggio di quell’anno e a porre alcuni interrogativi sul futuro prossimo del subcontinente, alla luce delle più recenti linee di tendenza della politica e dell’economia. Sia pure all’interno di
una prospettiva di più lungo periodo, Castronovo rivolge dunque una particolare attenzione
alle vicende e alle linee di demarcazione degli ultimi anni. Ciò risulta evidente anche nell’articolazione del libro, che dedica circa 270 pagine alla ricostruzione dei primi settant’anni e ben
140 pagine agli ultimi sette. Il «capitalismo di sinistra» (p. 324) del Brasile di Lula, il «socialismo con la benzina» (p. 325) del Venezuela di Chávez, la «ristrutturazione chiururgica» dei
tango bond (p. 292) in Argentina e l’opera di risanamento del peronista di sinistra Kirchner, la
revanche del «Lenin indio» (p. 328) in Bolivia, i nuovi equilibri geopolitici con l’arretramento
della presenza americana dall’ex «cortile di casa» e l’ingresso della Cina e dell’India nel mercato delle risorse energetiche e minerarie dell’America latina: sono questi forse i temi su cui si
concentra con maggiore originalità, rispetto agli studi già editi, il volume, pur attingendo, per
la ricostruzione degli eventi più vicini, essenzialmente alla stampa italiana.
L’analisi dei percorsi compiuti da alcuni paesi latinoamericani nei primi anni del nuovo
millennio è sviluppata nei capitoli XII-XVII e ripresa nelle Conclusioni. Negli undici capitoli
precedenti l’a. ripercorre invece le tappe, i mutamenti strutturali, gli itinerari politici che, sia
pure in una frastagliata fisionomia, hanno contrassegnato nei decenni precedenti i singoli Stati. Sono così presi in esame la svolta degli anni ’30; l’ascesa e la caduta del peronismo; la resurrezione e l’eclissi dell’Estado Novo in Brasile; i percorsi riformisti dei primi anni ’60; la rivoluzione cubana e il suo impatto nel subcontinente; gli anni bui delle dittature militari in
Brasile, in Cile, in Argentina, in Centroamerica; il ripristino delle istituzioni democratiche nei
paesi del Cono Sud nel corso degli anni ’80; la rivoluzione zapatista del Chiapas. Ne risulta
un quadro articolato che, pur non aprendo, in questa parte, nuove piste di conoscenza, appare esemplare per chiarezza e linearità di impianto.
Non possono, infine, che rimanere aperti gli interrogativi con cui il libro si conclude, relativi
al carattere più o meno definitivo del superamento delle seduzioni populiste e alle prospettive più
o meno vincenti del riformismo economico e sociale avviato in diversi paesi del subcontinente.
Lucia Ceci
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Bologna, il Mulino, 404 pp., € 14,00
È la storia di un confine geografico e mentale, destinato a spostarsi tre volte nell’ultimo
secolo. Le terre del confine orientale sono analizzate, a partire dal 1866, come luogo di convergenza e di scontro di interessi economici e politici di quattro Stati: Austria-Ungheria, Germania, Italia e Jugoslavia e tre nazionalismi (sloveno, croato e italiano).
L’a. conduce la narrazione con mano sicura, mantenendo al centro la convinzione che le
vicende giuliane vanno inquadrate nel quadro concettuale dello Stato nazionale, invenzione
ottocentesca che richiede la definizione di un territorio racchiuso da confini certi e al cui interno deve esistere una elevata omogeneità culturale, che non può tollerare il persistere di zone «miste», in cui la fedeltà è sempre ambigua e messa in discussione. Il parziale coronamento delle aspirazioni di un irredentismo minoritario ma chiassoso, dopo il 1918, si volge rapidamente nella sconfortante conferma della debolezza istituzionale dello Stato italiano, incapace di attuare una reale politica di snazionalizzazione delle minoranze/maggioranze slave, e
incapace egualmente di attirare a sé segmenti significativi delle classi dirigenti allogene e dei
contadini che pure manifestano simpatia per il fascismo, problema che si acuisce durante la
seconda guerra mondiale quando l’esercito italiano si trovò ad occupare una gran parte della
Slovenia. Ma va sottolineata anche la mancanza di un progetto politico e la sorprendente scarsa attenzione geopolitica del fascismo per questo confine, messo in ombra dalle aspirazioni
imperiali e coloniali del regime.
Molta attenzione è rivolta ai drammatici mesi della primavera del 1945 e ai rapporti fra
movimento partigiano italiano, jugoslavo, alleati, CLNAI, alla ambigua posizione del Partito
comunista italiano e triestino. Crimini di guerra, esodo e foibe rimangono sostanzialmente
sullo sfondo, sottoprodotti di un conflitto che diventa negli ultimi mesi sempre più una «corsa per Trieste» in cui ogni parte cerca di condizionare gli esiti della futura pace. Il dopoguerra comporterà la perdita immediata di tutta l’Istria, e una delicatissima trattativa per Trieste,
ritornata all’Italia solo nel 1954. Innumerevoli sono gli argomenti che Cattaruzza tocca, facendo riferimento alla vasta bibliografia disponibile, come il tema della Venezia Giulia laboratorio e luogo di incubazione dei metodi organizzativi e delle ideologie del fascismo e dell’eversione di destra, quasi che le bande paramilitari fossero chiamate a surrogare un debole potere statale, messo in difficoltà dalla resistenza passiva della popolazione slovena e croata. E
ancora l’incerta identità degli italiani di confine, che si sentono poco italiani e a Trieste anticipano di dieci anni l’esplosione dei partiti politici autonomistici e «antiromani» del Nord.
Unica carenza l’esiguità della parte cartografica, che sarebbe stata utile a quanti, recandosi oggi in vacanza, si trovano ad attraversare distrattamente quei luoghi, dove solo il recente
allargamento dell’Unione Europea sta facendo saltare i primi confini materiali e forse mentali che per più di un secolo hanno diviso queste popolazioni.
Alessandro Polsi
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I LIBRI DEL 2007
Marco Cavina, Il padre spodestato. L’autorità paterna dall’antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza, X-360 pp., € 20,00
L’a., storico del diritto, ha già dedicato al tema della patria potestà un’opera corposa, apparsa in due volumi nel 1995 per i tipi dell’editore Giuffrè. Si era allora concentrato sullo ius
corrigendi nella cultura giuridica pre-unitaria e, in particolare, nel Ducato estense; torna ora
sul tema dando al lavoro il taglio di una sintesi di lungo periodo e avvalendosi di uno sterminato apparato bibliografico ed erudito. Il libro è costruito attorno alla tesi di un «progressivo,
fatale annientamento dell’autorità paterna in Italia e in Europa» (p. VII). Un «retaggio» antico e di antico regime – al quale è dedicata la prima parte del volume – è spazzato via dal trionfo
di Edipo, come sintetizza il titolo della seconda parte.
Le tappe del cambiamento che Cavina individua sono fondamentalmente due. La prima
è data dalla Rivoluzione francese e, soprattutto, dall’assestamento di età napoleonica: i poteri paterni vengono ridimensionati in una chiave individualistica che lascia emergere i diritti
dei figli/cittadini, salvaguardando però i tratti essenziali dell’imago paterna. Si tratta di un
equilibrio che, sul piano normativo, resta inalterato in Europa per un secolo e mezzo e che,
nell’economia del volume, assume grande rilievo. Il piano del discorso è duplice: per un verso i diritti e i doveri codificati che normano concretamente il rapporto tra padri e figli e, per
altro verso, il significato politico dell’autorità paterna, la sua attitudine di lungo corso a farsi
significante dell’ordine politico. Un collegamento più esplicito tra paternità e caratteristiche
di genere della cittadinanza liberale avrebbe per la verità arricchito il discorso: la «Rivoluzione dei figli» non è forse la rivoluzione dei «figli maschi»? L’esclusione delle donne dal diritto
di voto non avviene forse a partire da questo riassestamento della paternità (che è anche riassestamento della maternità, qui invece ignorata)?
La seconda tappa del mutamento riguarda le riforme degli anni ’70: «puerocentrismo» e
intervento dello Stato a difesa del bambino, che avevano già segnato la prima metà del ’900
(si pensi al fascismo italiano), precipitano in una riforma del diritto di famiglia che, su scala
europea, cancella addirittura la patria potestà. L’approdo giuridico di questo processo viene
indicato nel concetto di «responsabilità genitoriale, verso cui procede visibilmente l’intera
esperienza europea»: «il concetto di diritto dei genitori sfuma nell’idea di dovere puerocentrica» (p. 294). Un processo innegabile e tuttavia valutato dall’a. con eccessivo ottimismo quando afferma che, ormai, «il rapporto è tutto fra la pubblica autorità e il singolo cittadino […]
mentre l’istituzione familiare sostanzialmente svapora fuori dalla visione del legislatore» (p.
297). I processi di risignificazione politica della famiglia degli ultimi anni sembrerebbero suggerire il contrario. Ma è un merito specifico di questo volume quello di aprire – nei suoi presupposti quanto nelle sue conclusioni – nuovi interrogativi sulla natura e sui caratteri della cesura rappresentata dagli anni ’60 e ’70 del ’900.
Domenico Rizzo
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I LIBRI DEL 2007
Giovanni Cazzetta, Scienza giuridica e trasformazioni sociali. Diritto e lavoro in Italia tra
Otto e Novecento, Milano, Giuffré, X-387 pp., € 39,00
La raccolta di saggi proposta nel volume ricostruisce il rapporto tra scienza giuridica e società, nella sua evoluzione in corrispondenza al mutamento sociale indotto dall’industrializzazione, attraverso la ricostruzione dei dibattiti e delle elaborazioni teoriche dei maggiori esponenti della disciplina, i ritardi e i momenti di svolta.
Incentrato sul caso italiano, ma non senza ampi riferimenti europei – obbligati del resto
per i giuristi italiani all’opera in un paese late joiner – il volume offre una panoramica della
storia del diritto del lavoro in Italia, le cui radici affondano nel lento incrinarsi, nel tardo ’800,
del dottrinarismo dell’incontro di libere volontà che relegava il contratto di lavoro allo schema della locazione d’opera. Fu la forza delle cose, e nella fattispecie l’anomala dimensione collettiva dello sciopero e dei patti che vi mettevano fine, a dar origine a fenomeni non inquadrabili negli schemi giuridici del passato e a costringere la scienza giuridica a superare, poco
alla volta, la visione puramente patrimonialistica dell’impresa per abbracciare una nuova concezione della funzione sociale dell’impresa stessa, che sarà a fondamento del diritto del lavoro nella società industriale matura.
Il volume segue, attraverso saggi di sintesi e di approfondimento, i passi successivi di tale evoluzione: la crisi del modello ottocentesco di unità del diritto a favore dei diritti speciali,
il rapporto tra leggi sociali e origini del diritto del lavoro, la negazione del conflitto e la subordinazione degli interessi organizzati a quelli superiori della nazione nel corporativismo fascista, la reazione nel secondo dopoguerra – di stampo privatistico e contrattualistico – contro gli assetti pubblicistici e partecipazionisti che sembravano negare al contempo il conflitto
e la volontà dell’imprenditore, il successivo superamento di questa inidonea contrapposizione tra concezioni istituzionalistiche e contrattualistiche con l’affermarsi di una progressiva
maggior incidenza della legge nella tutela della dignità e libertà dei lavoratori – che ha trovato la massima espressione nello Statuto dei lavoratori –, la recente considerazione di tutti i soggetti portatori di interessi nei confronti dell’impresa (consumatori, comunità locali), nonché
dei problemi posti dalla separazione tra proprietà e controllo. Il volume affronta infine le questioni poste dall’avvento dell’età postindustriale, della globalizzazione e della nuova economia,
con le diffuse tendenze alla deregolazione, e sottolinea il rischio dell’affermazione di un nuovo diritto «asservito all’economia, schiavo del mercato»).
Affrontando le sfide poste dall’oggi alla luce delle riflessioni sull’evoluzione storica della disciplina, il libro risulta di grande utilità per gli storici dell’economia, del lavoro e dell’impresa,
grazie al quadro efficace e approfondito offerto, che suggerisce come la codificazione in norme
della realtà non sia mai neutra ma risponda alla mediazione tra interessi differenziati, e come
le norme, condizionando gli attori individuali e collettivi, influenzino a loro volta la realtà.
Stefano Musso
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I LIBRI DEL 2007
Eva Cecchinato, Camicie rosse. I garibaldini dall’Unità alla Grande Guerra, Roma-Bari,
Laterza, XVIII-376 pp., € 20,00
In questo denso volume, esito finale di una ricerca di dottorato, Cecchinato ricostruisce la
storia del «garibaldinismo», seguendone declinazioni e sviluppi da diversi punti di vista. La vicenda – che l’a. ha ricomposto grazie ad attenti scavi nei fondi dell’ACS, dell’Archivio di Stato di Palermo, dell’Archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito – prende le mosse dall’incontro di Teano.
La proclamazione del Regno d’Italia comportò lo scioglimento dell’esercito guidato dal Nizzardo: pochi di quei volontari trovarono una sistemazione soddisfacente nelle truppe regolari; per
molti altri iniziò una stagione di disadattamento e frustrazione, che dopo Aspromonte sfociò in
un’aspra polemica contro le forze di governo. L’alleanza tra monarchia e rivoluzione fu ripristinata, e anzi istituzionalizzata, nella guerra del 1866, il cui esito, però, contribuì piuttosto ad approfondire il solco di diffidenza e ostilità tra le due parti. Dopo il 1876, l’élite del «garibaldinismo
disciplinato», rappresentata al meglio da Francesco Crispi, arrivò a occupare posti di potere nel sistema istituzionale. Ma molte cose erano cambiate al di fuori del Parlamento; le truppe di volontari che erano accorse ai nuovi appelli di Garibaldi, a cominciare da Mentana, avevano mutato volto. Grazie a un minuzioso esame prosopografico, Cecchinato individua nella mobilitazione del
1867 la prevalenza di artigiani e studenti del Centro Italia, e una preponderanza di giovani e giovanissimi, che non avevano memoria diretta dei Mille o di Aspromonte. Radicatosi in certe aree,
organizzatosi in un variegato universo associativo, connotato dall’eloquente conformazione sociale e anagrafica, il nuovo movimento venato di umori repubblicani (e poi anche socialisti e anarchici) aveva acquisito con la discussa campagna del Vosgi lo status di «partito» internazionale.
Nei capitoli centrali, l’a. affronta la questione del «garibaldinismo» come luogo della memoria e come scelta di vita, attraverso alcune incursioni nella fitta pubblicistica dei decenni postunitari. L’ultima parte del libro verte sul periodo successivo alla morte del Generale. Alcuni
suoi sodali raccolsero in sede parlamentare l’eredità della Lega della democrazia; altri accentuarono la vocazione internazionalista, ad esempio con la spedizione in appoggio all’insurrezione di
Creta – la quale, peraltro, fece emergere i tanti dissidi interni a un movimento conteso tra i discendenti di Garibaldi e varie correnti politiche. Nel nuovo secolo, il «garibaldinismo» dialogò
con un Partito repubblicano transitato su posizioni anti-sistema. Tuttavia, nel 1914 il nazionalismo di destra seppe appropriarsi delle sue parole d’ordine, e ancora nell’entre-deux-guerres alcuni potevano utilizzare il nome di Garibaldi per vagheggiare un ordine fascista franco-italiano.
Questo studio, che si avvale delle indicazioni offerte da recenti innovativi contributi sulle amicizie politiche transnazionali, sulle culture militari, sull’associazionismo dei reduci, apporta un tassello prezioso alla storia dell’età liberale, illuminando inoltre in tutte le sue sfaccettature un versante nevralgico e contraddittorio, da molti conteso, della «tradizione» risorgimentale nell’Italia unita.
Maria Pia Casalena
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I LIBRI DEL 2007
Anna Cento Bull, Italian Neofascism. The Strategy of Tension and the Politics of Nonreconciliation, Oxford-New York, Berghan Books, 182 pp., € 35,00
L’a., docente di Storia italiana all’Università di Bath, ha scritto un libro rivolto al pubblico anglo-americano che riveste anche per quello italiano un notevole interesse nonostante che
i temi trattati siano ormai oggetto di una ampia letteratura. Ciò che interessa all’a., che non
vuole intentare una nuova ricostruzione storica del neo e post fascismo, è il tema, assai attuale, della riconciliazione. Lo stragismo diventa in questa prospettiva il misuratore della volontà
della destra neo e post fascista di confrontarsi con le responsabilità degli anni ’70 e della sua
capacità di rielaborarle discorsivamente. L’interesse di questo libro risiede in buona parte nel
modo con cui è stato costruito. Ci troviamo di fronte all’ennesimo lavoro che si richiama al
metodo del discorso e al costruttivismo; ma in questo caso la tecnica usata, semplice e chiara,
risulta particolarmente efficace. I numerosi richiami alla letteratura, così come un uso sovrabbondante della conclusione possono risultare a un pubblico italiano troppo didattici. Ma è
proprio questo schematismo a rappresentare, a fronte di un tema così caldo, la maggiore garanzia di obiettività. La prima parte del libro è dedicata alla disamina della verità giudiziaria
sulla strategia della tensione, mettendo a confronto interpretazioni storiografiche, testimoni
giudiziari e sentenze. La seconda parte è invece dedicata al modo in cui la destra si è rapportata alla verità giudiziaria generando narrazioni e autonarrazioni. Dal confronto tra le due parti l’a. trae gli argomenti per supportare la tesi secondo la quale in Italia non vi è stata alcuna
politica di riconciliazione nazionale perché il neo e post fascismo si è sempre opposto a ogni
cambiamento in tal senso.
I processi sulle stragi hanno prodotto una verità parziale, ma hanno portato alla luce dati inequivocabili (le responsabilità dei neofascisti, il ruolo dei servizi segreti e delle forze armate). Rispetto a questa verità, seppure incompleta, la strategia dei neo e post fascisti, a partire
da coloro che parteciparono alla Commissione stragi, è stata la negazione e la loro costruzione in vittime dell’estrema sinistra. Il perdurare di una simile posizione si spiega, a detta dell’a., con vari motivi. L’identità di vittime degli anni ’60 ha avuto un effetto coesivo nei confronti della galassia frammentata della destra molto più di quanto lo abbia avuto il richiamo
al fascismo storico; secondariamente la non riconciliazione è stata lo scambio politico per transitare il MSI in AN; infine riconoscere le proprie responsabilità nelle stragi non giocava ad AN
nel momento in cui il partito stava conquistando una sua legittimità democratica. Il risultato è che, se Fini ha saldato col viaggio in Israele i conti con Salò, gli anni ’70 restano un capitolo non concluso. In un contesto simile, la verità giudiziaria non può servire da fattore trainante di riconciliazione, semmai l’esatto contrario; né possono esserlo le vittime dei massacri,
le quali diventano il centro del processo di riconciliazione solo nel momento in cui si compie
il passaggio dalla giustizia retributiva a quella restaurativa della dignità umana e civile.
Maria Malatesta
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I LIBRI DEL 2007
Laura Cerasi, Perdonare Marghera. La città del lavoro nella memoria post-industriale, Milano, FrancoAngeli, 190 pp., € 16,50
A Marghera, sono trascorsi sì e no trent’anni fra la posa della prima pietra e l’inizio della
fine. Al 1917 risale il lancio di un progetto ambizioso ma, già negli anni ’70, si avvertono i
primi pesanti cedimenti nel processo di industrializzazione. Sotto i colpi di una crisi irreversibile, comincia allora a vacillare l’identità di Marghera e di Portomarghera, del quartiere e del
porto industriale che tendiamo sommariamente a tenere uniti: soprattutto le cronache più recenti ci hanno restituito un quadro di conflitti tra chi sta dentro e chi sta fuori la fabbrica, tra
chi ne richiede la chiusura e chi si batte per la sua sopravvivenza.
Da qui parte Laura Cerasi per descrivere una «memoria non-condivisa» attraverso testimonianze, interviste, stralci di processi. Sullo sfondo, la mole sinistra del Petrolchimico sembra identificarsi tout court con Portomarghera: da lì giungono gli attentati alla salute collettiva e le morti di cancro per gli addetti al reparto CVM. «Residuo tossico di una storia conclusa», la vicenda di Marghera si arresta al capolinea di una sensibilità post-industriale che giustamente pone oggi in primo piano i prezzi da pagare.
A metà strada tra cronaca e storia, il racconto scorre agile senza mai essere né banale, né
superficiale: diretta o indiretta, la testimonianza offre ogni volta l’incipit alla narrazione che
procede per quadri distinti. Le vicende e i drammi individuali si inseriscono così in un contesto più ampio ove problemi di strategia industriale e sociale si riflettono, a loro volta, nelle biografie dei singoli. In questo equilibrio narrativo consiste uno dei maggiori meriti del volume.
Descritta in forma paratattica, la storia si incardina sulle fonti orali, approdando alla conclusione che Marghera possieda soltanto frammenti di una possibile «identità condivisa»: le
tante «memorie individuali» non concorrono infatti a formare un insieme, ma una galassia del
«vissuto». Ad un dato contingente (la crisi del modello di cultura operaia) si aggiunge un fattore strutturale legato alla vicenda del popolamento della città-fabbrica: secondo un’ipotesi da
verificare fino in fondo, Cerasi assegna il ruolo di protagonista al flusso migratorio dalla campagna, non al processo di decentramento dal centro lagunare. A partire da questa premessa,
molte interviste ci restituiscono il profumo della nostalgia per un mondo rurale e semi-rurale drammaticamente travolto dal Golem industriale.
Resta il dubbio che, per quanto suggestiva, questa ipotesi non possa essere delegata alle
sole testimonianze orali: potrebbero venire in soccorso altre fonti, in particolare quelle demografiche legate ai censimenti e all’analisi dei flussi migratori. Tanto più che a Venezia operano
istituti come il COSES che dal 1967 raccoglie dati sulla popolazione dell’intero comprensorio. In attesa di ulteriori verifiche, il libro ci offre comunque una prospettiva attualizzata e originale di un problema che affonda le sue radici nel secolo passato: il sogno industrialista catapultato tra la laguna di Venezia e il profondo Veneto di stampo rurale.
Guido Zucconi
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I LIBRI DEL 2007
Umberto Chiaramonte, Luigi Sturzo consigliere provinciale di Catania, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia editore, 531 pp., € 30,00
Nel 1895 il vescovo Gerbino raccomandava ai parroci della diocesi di Caltagirone di favorire l’impegno politico-amministrativo dei cattolici e incaricava un giovane sacerdote, don
Luigi Sturzo, di coordinare tale attività. Pochi anni dopo, nel 1899, Sturzo iniziava un percorso nelle amministrazioni locali che lo avrebbe portato a ricoprire diversi incarichi: consigliere comunale, prosindaco di Caltagirone e consigliere provinciale.
Il volume ricostruisce appunto l’attività di don Sturzo nel Consiglio provinciale di Catania dal 1905 al 1923. In realtà l’a., studioso già attivo su questi temi, intreccia diversi piani:
funzioni e utilità dell’Ente Provincia; ruolo di Sturzo all’interno del nascente movimento cattolico; analisi dell’economia del territorio catanese. Attraverso diverse fonti documentarie
quali le statistiche ministeriali, provinciali e comunali e le inchieste parlamentari, l’a. individua cause e responsabilità del mancato sviluppo del Catanese: le prime imputabili al ritardo
dei processi di modernizzazione, le seconde alla latitanza dello Stato nell’elargizione di risorse e alla cattiva gestione delle medesime da parte delle amministrazioni locali.
A Catania, pur prevalendo il condizionamento politico di uno dei capi storici del movimento dei Fasci siciliani, De Felice Giuffrida, don Sturzo si rese conto che tra il blocco conservatore e quello popolare si creava un’alleanza trasversale che produceva due conseguenze: una tacita
spartizione di posti e prebende e un certo favoritismo verso il capoluogo provinciale a danno della periferia, e per questo si assisteva «sia ad episodi di lotta per il potere sia ad episodi di spartizione concordata del medesimo» (p. 292). «Don Sturzo rimase sostanzialmente un battitore libero, ruolo che richiedeva una buona dose di coraggio e di indipendenza, ma soprattutto di preparazione tecnica e giuridica, per non cedere di fronte all’isolamento a cui lo costringevano i
blocchi popolari, i costituzionali e i monarchici» (p. 292). La ricerca trova però un limite oggettivo nei verbali del Consiglio provinciale, che non riportano «il voto e le motivazioni dei singoli consiglieri» (p. 292). Dal 1920 gli impegni nazionali costrinsero Sturzo sempre più spesso a
Roma e questo gli impedì di curare il radicamento del PPI proprio in Sicilia, dove i risultati non
corrisposero alle aspettative, per «l’impreparazione della classe politica del PPI locale, rimasta in
balia di se stessa e senza un “delfino” che fosse in grado di raccogliere l’eredità sturziana» (p. 448).
Alla fine di questo corposo volume, il lettore potrebbe maturare un giudizio negativo sull’utilità dell’Ente Provincia; giudizio per altro già condiviso da Sturzo e presente nel dibattito
che sin dalla nascita del Regno ha accompagnato fino ad oggi, la vita di questo ente, accusato di essere artificiale e inutilmente costoso. La ricerca sembra involontariamente confermare
tale giudizio, mostrando come il Consiglio provinciale di Catania non seppe dare risposte apprezzabili alle grandi questioni che fu chiamato ad affrontare in quegli anni: infrastrutture, infanzia, problemi manicomiale e igienici, obbligo scolastico.
Monica Campagnoli
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Nadia Ciani, Da Mazzini al Campidoglio. Vita di Ernesto Nathan, Roma, Ediesse, 278
pp., € 15,00
Nato a Londra da una famiglia ebraica italo-inglese e divenuto cittadino italiano nel
1888, Ernesto Nathan rappresenta una figura di grande interesse nella vita dell’Italia liberale:
convinto mazziniano (presiede la Commissione editrice delle opere del genovese e nel 1901
donerà allo Stato l’intero patrimonio dei manoscritti mazziniani), esponente ed animatore
della vita politica dell’Estrema, massone – nel 1896 è eletto Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia –, diviene dal 1907 al 1913 sindaco di Roma, sostenuto da una coalizione comprendente liberali, repubblicani, radicali, socialisti, con l’appoggio anche dalla locale Camera del
Lavoro.
La biografia Da Mazzini al Campidoglio. Vita di Ernesto Nathan non sembra in verità aggiungere ulteriori, nuovi, tasselli al quadro degli studi – non pochi, peraltro – dedicati alla figura e all’opera di Nathan. Pur piacevolmente scorrevole nella forma, la struttura del testo si
presenta molto frammentaria (nove capitoli e ben 94 paragrafi) e il volume appare quasi esclusivamente basato su fonti secondarie, peraltro già note. Anche i testi dello stesso Nathan – gli
Scritti massonici e gli Scritti politici – risultano in buona parte sotto-utilizzati. Assente è inoltre la documentazione d’archivio; nulla l’a. ci dice circa la presenza, o l’assenza, di un archivio personale di Ernesto o della famiglia Nathan. Ma, al di là degli aspetti più strettamente familiari e personali che risultano superficialmente ricostruiti, anche l’attività massonica e quella di sindaco di Roma sono presentati in modo molto sintetico, non distaccandosi dall’immagine ormai consolidata, ma tendenzialmente agiografica, di un Nathan laico e primo sindaco
«democratico» della capitale.
Più produttiva sarebbe forse risultata un’impostazione volta a porre in risalto nodi problematici che appaiono di grande interesse e sino ad oggi non esplorati in dettaglio, quali, ad
esempio, il rapporto personale di Nathan e della sua famiglia con l’ebraismo (attraverso il matrimonio delle figlie, i Nathan si legheranno ad altre celebri famiglie ebraiche dell’Italia di allora, come quella di Giorgio Levi Della Vida e di Graziadio Ascoli). Numerosi sono inoltre i
contatti che Nathan avrà negli anni con altri correligionari – significativamente anch’essi laici e massoni – come Teodoro Mayer o Salvatore Barzilai. Un maggiore approfondimento
avrebbero inoltre meritato gli attacchi di natura antisemita, di provenienza fondamentalmente cattolica, di cui Nathan fu oggetto negli anni del suo impegno di sindaco. Anche un più attento scavo della stampa romana e nazionale, clericale e anticlericale – così come della stampa ebraica – avrebbe forse contribuito ad aggiungere nuovi tasselli alla biografia di un personaggio che merita sicuramente l’attenzione dello storico.
Ilaria Pavan
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I LIBRI DEL 2007
Pierluigi Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Torino,
Bollati Boringhieri, 388 pp., € 30,00
Pierluigi Ciocca, economista di vaglio, già personalità di spicco della Banca d’Italia, di cui
è stato supervisore dell’Ufficio studi e da ultimo vicedirettore generale, ha sempre mostrato
uno speciale interesse per la storia economica. Tale interesse si era già concretizzato non solo
nella rifondazione e nel coordinamento scientifico dell’autorevole «Rivista di Storia Economica» (creatura prediletta di Luigi Einaudi) e nel decisivo contributo dato all’Ufficio ricerche storiche della Banca d’Italia, ma anche in numerosi importanti lavori a stampa. Questo lavoro
viene a coronare una prestigiosa carriera scientifica e ne rappresenta, per molti versi, la sintesi
matura: certamente non tanto e non solo un textbook, bensì, come evidenzia lo stesso sottotitolo, «una» rilettura originale della storia economica del paese. Esso infatti mentre si avvale in
modo compiuto ed efficace dello straordinario materiale – documenti, statistiche, ricerche –
prodotto negli ultimi decenni dal suddetto Ufficio studi, fornisce anche nuovi importanti
spunti interpretativi. A partire del termine a quo: non l’unità d’Italia, e nemmeno la settecentesca età delle riforme, ma quel 1796, inizio della dominazione francese che, con i Codici napoleonici, aprirà la strada «a un moderno ordinamento di diritto privato dell’economia» (p.
33). Viene da chiedersi quanto questa scelta sia in sottile polemica con gli odierni guru del
pensiero unico che spiegano la maggior efficienza del modello economico americano, rispetto
a quello europeo, anche in termini di minor efficacia della civil law di origine napoleonica rispetto alla common law anglosassone (E.L. Gleaser, A. Shleifer, Legal Origins, in «Quarterly
Journal of Economics», 2002, 117, n. 4). Ugualmente controcorrente – almeno secondo gli
standard odierni - appare la caratterizzazione delle due fasi più felici dello sviluppo del paese,
l’età giolittiana, prima, e gli anni del boom e del miracolo economico, poi: una felice combinazione di «più stato» e «più mercato» che vide efficaci azioni di politica economica, competizione fra aziende pubbliche private e libera dialettica fra imprese e lavoratori. Del resto proprio la congenita riluttanza alla competizione ha rappresentato per Ciocca la maggior debolezza del capitalismo italiano, una riluttanza riemersa in modo preoccupante negli ultimi decenni, tanto da render attuale come non mai l’interrogativo posto nel titolo del volume.
In conclusione un libro importante, che certamente mancava nella storiografia economica italiana. Esso tuttavia non lascia completamente appagati. Se la narrazione procede spedita ed avvincente fino al miracolo economico con un equilibrato dosaggio di aspetti macro e
microeconomici, dagli anni ’60 l’enfasi si sposta soprattutto sull’analisi dei grandi macroaggregati, lasciando in secondo piano gli attori principali, imprese e capitani d’industria, distretti, forza-lavoro, amministratori. Con una vistosa – ma comprensibile – eccezione, la Banca
d’Italia, che per Ciocca ha surrogato le carenze della politica economica ed ha avuto un ruolo decisivo nel salvaguardare il sistema paese.
Pier Angelo Toninelli
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Marco Clementi, Cecoslovacchia, Milano, Unicopli, 351 pp., € 16,00
Clementi è ricercatore di Storia dell’Europa orientale all’Università della Calabria; ha
pubblicato lavori nel campo della storia russa e sovietica, sui temi del dissenso, della storia politica italiana contemporanea, delle relazioni internazionali.
Cecoslovacchia è parte di una collana di manuali («Storia d’Europa nel XX secolo») costituita da volumi dedicati alle storie nazionali dei paesi europei nell’ultimo secolo. Il libro è suddiviso in sette capitoli. Il primo, che funge da introduzione, illustra aspetti della vita politica,
economica e culturale delle terre ceche e slovacche dell’800 e gli eventi riguardanti la prima
guerra mondiale. Il secondo ed il terzo sono dedicati al periodo tra le due guerre mondiali e
alla seconda guerra mondiale. I successivi quattro capitoli descrivono i sessant’anni che portano ai giorni nostri, attraverso le varie fasi d’epoca sovietica e post-sovietica.
Ogni manuale ha un proprio asse privilegiato. Punto focale del lavoro di Clementi è il tema della lotta tra oppressione e libertà. Particolare rilievo – a volte un po’ troppo ricco di dettagli per il carattere manualistico del volume – assumono quindi le questioni degli interventi
manipolativi e coattivi dello stalinismo, la tragedia delle purghe, lo slancio della primavera di
Praga, il ripiegamento delle coscienze negli anni ’70, Charta77…
La narrazione si colloca tra quell’approccio tradizionale che è stato definito l’interpretazione whig della storia ceca – vedi la formulazione di T. Mills Kelly in http://www.hnet.org/reviews/showrev.cgi?path=12415864048863 – e le valutazioni caratteristiche delle
nuove storiografie critiche. A volte sono ripresi i temi specifici delle nuove storiografie (tema
dell’espulsione dei tedeschi; critiche severe ad Edvard Beneš); altre volte prevale la tradizionale visione di un mondo ceco naturalmente democratico e progressista (la cosiddetta versione
whig). Il capitolo introduttivo, ad esempio, descrive gli orientamenti politici dei nazional-liberali cechi della seconda metà dell’800 sulla base delle posizioni espresse da F. Palack? nel
1848. Ma la mutazione intervenuta nel mondo politico ceco all’inizio dell’era costituzionale
è sostanziale: i nazional-liberali cechi si accordano con la cosiddetta nobiltà federalista boema
subendone l’iniziativa politica, spesso animata da intenti chiaramente restauratori.
Egualmente un po’ priva di chiaroscuri è l’immagine della nuova democrazia ceca post
1989: si perdono tratti importanti. Ad esempio l’accordo tra l’instabile governo socialdemocratico e l’opposizione di V. Klaus nel 1998 non è solo espressione di un desiderio comune di
governabilità, ma è certamente «incoraggiato» da uno scambio preciso: i socialdemocratici
non saranno bloccati da richieste di voto di fiducia da parte del partito di Klaus, mentre quest’ultimo riceve la promessa che non ci saranno serie indagini sulle opache vicende delle privatizzazioni (gestite dai precedenti governi Klaus). Può essere interessante, a riguardo, ricordare come la parola ceca tunelování – insieme di procedure semilegali di appropriazione privata di beni pubblici – sia entrata nelle pagine di wikipedia inglese.
Alfredo Laudiero
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I LIBRI DEL 2007
Marco Clementi, Storia del dissenso sovietico. 1953-1991, Roma, Odradek, 316 pp., € 22,00
Il libro di Marco Clementi costituisce una sintesi documentata, ampia e articolata della
complessa storia del dissenso sovietico dopo la morte di Stalin. Partendo dall’epigrafe della
raccolta Feniks ’66, nella quale Galanskov sintetizzava uno dei motivi fondamentali della discordia tra potere e intellettuali, l’a. si domanda cosa intesero questi «spiriti liberi» con la parola «verità». Il tentativo di individuare una risposta sta alla base, secondo Clementi, del movimento di pensiero sul quale si sviluppò il dissenso sovietico la cui storia fra il 1953 e il 1991
può essere articolata in sei fasi. La prima data corrisponde alla morte di Stalin, la seconda alla promulgazione della legge sulla riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche. Il periodo 1953-1964 segnò profondi cambiamenti nella società sovietica, con la denuncia del culto della personalità durante il XX Congresso e la successiva estromissione di Chruščëv. Nel secondo periodo (1965-1967) il nuovo establishment guidato da Brežnev operò con espulsioni
e arresti di scrittori dissidenti (celebre il processo a Sinjavskij e Daniel’). Nel terzo periodo
(1968 1972) il movimento crebbe, con l’avvio della pubblicazione della «Cronaca degli avvenimenti correnti» e con il saggio di Sacharov Considerazioni sul progresso, la coesistenza pacifica e la libertà intellettuale. Nel quarto periodo (1973-1974) sopravvenne una crisi, ma non
mancarono iniziative quali la fondazione del «Gruppo ’73» e l’apertura della sezione russa di
Amnesty International. Il quinto periodo (1975-1982) si aprì con il premio Nobel per la pace a Sacharov e fu caratterizzato dalla fine delle attività del Gruppo Helsinki. Durante l’ultimo periodo, infine, si giunse con M. Gorbačëv alla liberazione dei prigionieri politici.
Nei nove capitoli del volume l’a. ci presenta gli attori politici, gli scrittori e gli artisti legati al movimento del dissenso, del quale analizza aspetti peculiari quali il samizdat, i casi noti (come la pubblicazione del Dottor Živago e delle opere di Solženicyn) e meno noti, che hanno comunque contributo a formare la complessa rete del dissenso sovietico. È merito dell’a.
essersi interessato non solo agli eventi di Mosca, ma anche alle periferie dell’impero sovietico.
Inoltre, Clementi dedica molte pagine alle questioni nazionali dei popoli deportati, all’affaire Grigorenko, all’uso della psichiatria negli ultimi anni e alla questione religiosa.
Il volume è corredato da una ricca bibliografia tematica. Da un lavoro così importante e
meritorio ci saremmo tuttavia aspettati un’analisi più mirata e approfondita di alcuni aspetti
centrali, quali la «Cronaca», il pensiero di Solženicyn e Sacharov. In definitiva la ricostruzione proposta da Clementi non sempre attribuisce ai vari fenomeni politici e di pensiero un giudizio di merito proporzionato. A questo proposito stupisce l’assenza di almeno un accenno all’Associazione Memorial, il cui impegno non si è esaurito con la fine del comunismo, continuando la migliore tradizione del movimento del dissenso sovietico contro qualsiasi forma di
repressione e per la salvaguardia dei diritti umani.
Francesca Gori
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I LIBRI DEL 2007
Marco Clementi, Storia delle Brigate rosse, Roma, Odradek, 410 pp., € 25,00
Docente di Storia dell’Europa orientale all’Università della Calabria, Clementi si è già occupato di terrorismo e brigate rosse (La pazzia di Aldo Moro, Roma, Odradek, 2001; Milano,
Rizzoli 2006), nonché dei movimenti politici e del dissenso nell’Est europeo. Qui ricostruisce quella che configura come una storia del passato, considerata conclusa come il momento
storico cui apparteneva, quel periodo che va dall’esplosione del biennio’68-69, alla marcia dei
40.000 del 1980: la stagione del movimento operaio e insieme quella delle BR quali protagoniste della vita politica italiana. Per Clementi non appartengono a questa vicenda storica i responsabili degli omicidi di Massimo d’Antona e Marco Biagi. Su di essi poche righe (nota 51
a p. 342) dove si legge che un gruppo guidato da Nadia Desdemona Lioce negli anni ’90 ha
cercato di riaprire «la logica della lotta armata in Italia percorrendo una via già abbandonata
alla fine degli anni ottanta dalle Brigate rosse storiche» (p. 342); queste ultime avevano concluso la loro storia nel 1988 con l’assassinio di Roberto Ruffilli. Un taglio interpretativo netto e per molti versi discutibile, in primis perché adottando un approccio che guarda solo al
piano politico-istituzionale e alle dinamiche ad esso legate, che risultano l’unico spazio nel
quale vengono cercati i motivi e i caratteri dell’agire brigatista, l’a. rinuncia a problematizzare quegli stessi caratteri politico-culturali nei loro assunti come nelle loro articolazioni. Così,
per esempio, per quanto usate, le memorie dei brigatisti non sono impiegate come fonti per
discutere e fornire spessore alle affermazioni teoriche o politiche, ma fungono principalmente da corredo fattuale e veritativo alle ricostruzioni effettuate.
Clementi afferma fin da subito la piena cittadinanza delle BR non solo all’interno del movimento operaio, ma più in generale all’interno dei movimenti antagonisti e rivoluzionari. In
questo senso le ascrive senza esitazioni a un’unica genealogia operaista e di fabbrica, escludendo nettamente ogni altra filiazione politico-culturale, a partire da quella movimentista. Una
lettura forte, densa di implicazioni e molto discussa, che sta al centro dei conflitti di memoria che ruotano attorno all’interpretazione della vicenda storica del terrorismo italiano.
All’interpretazione corrisponde lo stesso impianto del testo: una fitta esposizione degli
eventi in prospettiva rigorosamente cronologica, intrecciata ampiamente alla lettura e discussione dei documenti dell’organizzazione armata e divisa in tre parti: l’organizzazione, dai prodromi del ’68-69 al processo torinese al nucleo storico delle BR del 1978; l’offensiva, dal 1977
all’omicidio di Vittorio Bachelet e alla creazione della colonna napoletana nel 1980; la sconfitta, dalla rottura dell’unità brigatista nel 1980 con la nascita della colonna «Walter Alasia»
alla fine, segnata dall’omicidio Ruffilli. Pur privilegiando un’analisi per linee interne a discapito della contestualizzazione, questo volume rappresenta una densa e dettagliata ricostruzione, e benché non introduca fonti nuove o novità interpretative costituisce indubbiamente un
punto di partenza utile per inquadrare la vicenda storica delle BR.
Emmanuel Betta
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I LIBRI DEL 2007
Warren I. Cohen, Gli errori dell’impero americano, Roma, Salerno Editrice, 264 pp., €
14,50 (ed. or. Oxford, 2005)
In questo volume Warren Cohen prende in esame la politica estera statunitense nei quindici anni trascorsi dalla fine della guerra fredda. Lo fa illustrando le principali scelte delle amministrazioni di Bush sr., di Clinton e di Bush jr., ed esaminando il dibattito politico e intellettuale post 1989 sulla natura e le prospettive del sistema internazionale. Il filo conduttore
che lega le diverse parti del libro è rappresentato dall’immensa difficoltà, sia per gli analisti sia
per i politici, di comprendere la trasformazione determinata dalla fine della guerra fredda. Per
quanto oppressive, le certezze politiche e geopolitiche del bipolarismo 1945/1989-91 rendevano facilmente intelligibile il quadro internazionale e relativamente semplici le scelte e comportamenti. Il dopo guerra fredda, invece, si è rivelato complesso, mutevole e sistemicamente instabile, e ha finito per smentire gran parte delle previsioni formulate nei primi anni ’90:
non si è tornati al multipolarismo, ma l’unipolarismo statunitense si è rivelato spurio e contraddittorio; non vi è stato il declino degli Stati Uniti, ma alcuni elementi di fragilità del modello statunitense si sono ulteriormente acuiti; processi d’interdipendenza si sono intensificati, senza che si stemperassero consolidate tensioni interstatuali; sono emerse faglie di frattura
impreviste, pur in presenza di nuove forme d’integrazione regionale.
Cohen offre un’analisi piuttosto convenzionale e strettamente centrata sul momento politico-diplomatico. Ricostruisce le scelte delle diverse amministrazioni statunitensi del dopo guerra fredda e le filosofie di politica estera che le ispirarono. Nel farlo dà un giudizio sostanzialmente positivo del cauto realismo di George Bush sr., che permise agli USA di «destreggiarsi abilmente sullo scenario internazionale» pur incidendo in modo «secondario» sui «grandi avvenimenti dell’epoca» (p. 54). Critiche sono invece riservate a George Bush jr. e, soprattutto, a Bill
Clinton. Quest’ultimo viene infatti censurato per la sua disattenzione verso gli affari internazionali, sempre subordinati a considerazioni di ordine interno, la sua incoerenza e la sua incapacità
di coordinare le tante posizioni presenti all’interno della sua amministrazione («I grandi presidenti degli Stati Uniti furono uomini capaci di tracciare la via. Se giudicato per le risposte date
ai disastri umanitari, Clinton non potrà mai essere considerato uno di loro», p. 100).
Due sono i limiti principali di questo volume. Il primo riflette tutta la difficoltà di fare
una storia del tempo presente. Cohen ricostruisce quindici anni di politica estera statunitense. Si tratta di una ricostruzione precisa, ma che scivola inevitabilmente verso la semplice narrazione, se non, addirittura, la cronaca. In assenza di fonti primarie, sarebbe stato importante e utile esaminare il dibattito – con i suoi stereotipi, le sue previsioni e le sue prescrizioni –
che a partire dai primi anni ’90 ha coinvolto politici, studiosi ed esperti. Questo dibattito è
però analizzato in modo semplicistico e acritico, e si risolve di fatto in una scolastica elencazione delle posizioni espresse.
Mario Del Pero
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I LIBRI DEL 2007
Simone Colafranceschi, Autogrill. Una storia italiana, Bologna, il Mulino, 126 pp., € 16,00
Nel 1947 l’industriale Mario Pavesi costruiva vicino alla sua fabbrica, all’altezza del casello di Novara dell’autostrada Milano-Torino, un «locale bar con grande nicchia per camino tipo paesano». Ma di paesano sarebbe presto rimasto ben poco: nel 1952 al bar si aggiunge un
ristorante-rosticceria, ed ecco che il termine «autogrill» è nato. Simone Colafranceschi ha
scommesso – con successo – sulla possibilità di rileggere attraverso questo luogo così particolare la modernizzazione del secondo dopoguerra. Infatti l’autogrill è parte di un percorso verso nuovi stili di vita e nuovi consumi alimentari, e propone una «sosta americana» a un paese ancora prevalentemente rurale. Si può immaginare la perplessità dei primi clienti di fronte
al pranzo-tipo, che nel 1959 non prevede pasta o pane: l’automobilista deve restare sempre
leggero e vigile! E di lì a poco anche i rassicuranti camerieri saranno sostituiti dal self service,
aprendo la via ai fast food.
A metà degli anni ’50 l’autogrill si diffonde a macchia d’olio con il boom delle costruzioni
autostradali, di cui sono simbolo la Fiat Seicento (1954) e l’Autostrada del Sole (1956). La stazione di sosta diventa anche monumento: a Lainate, sulla Milano-Laghi, tre arcate innalzano
il marchio Pavesi a 50 m. di altezza, sopra a un ampio salone circolare vetrato, mentre a Fiorenzuola d’Arda si realizza il primo autogrill a ponte d’Europa. L’industria alimentare associa a
sé quella petrolifera: Pavesi si unisce a Esso, BP e Motta creano gli eleganti «Mottagrill», l’Agip
di Enrico Mattei e Alemagna preferiscono puntare su sobri ma efficienti autobar. L’epica stagione di competizione si chiude nella seconda metà degli anni ’60, quando la crisi del capitalismo familiare porta gli autogrill sotto il controllo della «borghesia di Stato» della SME, la finanziaria del gruppo IRI. La crisi petrolifera del 1973 chiude la stagione d’oro degli autogrill;
nel 1977 tutti gli esercizi di ristorazione autostradale vengono riuniti in Autogrill SpA, che a
metà degli anni ’90 viene privatizzata, e passa nell’orbita del gruppo Benetton. Come si vede,
l’autogrill ha davvero attraversato molte delle principali vicende dell’Italia repubblicana.
A sessant’anni dalla nascita dell’autogrill, e a trenta da Autogrill SpA, il gruppo produce il proprio fatturato più all’estero che in Italia, e più negli aeroporti che nelle autostrade. La sosta è sempre più breve e puramente funzionale. La funzione dell’autogrill è dunque esaurita? Bollati dagli
intellettuali come «non-luoghi» di anonima modernità, gli autogrill si difendono proponendo i
tradizionali alimenti del territorio a denominazione d’origine controllata, gli stessi che in origine
avevano sdegnato, ma questo sembra un segno di debolezza più che di rinnovamento.
La brevità del volume non consente maggiori approfondimenti, ma vi era forse materia
per un’opera più ampia. Da chiarire meglio anche il rapporto con l’azienda che ha finanziato
la ricerca: ad esempio quali fonti sono state accessibili, e quali no, ecc. Non è un caso del resto se all’estero questo tipo di ricostruzioni in occasioni di vari decennali sono chiamate «torte di compleanno» (Birthday Cake). Ma, nell’insieme, il giudizio resta positivo.
Claudio Visentin
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I LIBRI DEL 2007
Simona Colarizi, Storia politica della Repubblica. Partiti, movimenti e istituzioni, 19432006, Roma-Bari, Laterza, X-314 pp., € 22,00
La storia dell’Italia repubblicana letta attraverso le lenti delle forze politiche è un campo
che Simona Colarizi ha da tempo indagato. Nel 1984 esce il volume pubblicato per i tipi della Utet, La seconda guerra mondiale e la Repubblica, dove l’arco cronologico arriva a toccare
quella seconda Legislatura, spartiacque tra l’Italia del centrismo degasperiano e quella dell’apertura al Partito socialista di Nenni. Dopo dieci anni esce, invece, per i tipi della Laterza, il
volume che ha come focus la storia dei partiti. Qui il piano istituzionale che segue le trasformazioni del sistema politico nelle sue diverse fasi, centrismo, centro-sinistra, solidarietà nazionale, pentapartito si intreccia con le alterne vicende che percorrono la storia di ogni partito. In questo volume i termini a quo e ad quem sono segnati dalla prima e dalla decima Legislatura, quella che si va ad eleggere nel 1987 e che prelude al passaggio verso la Repubblica del
maggioritario che si inaugura con le elezioni del 1994.
In questo nuovo volume che Simona Colarizi dà alle stampe nella collana «Manuali di
Base» della Laterza, l’operazione che viene tentata è una convergenza tra la storia della Repubblica e la storia dei partiti, spostando però in avanti l’arco dell’indagine con l’obiettivo di offrire, nei nuovi corsi di studio universitario, quelli triennali, un manuale che fornisca agli studenti non solo le chiavi di lettura dell’ieri, ma soprattutto quelle dell’oggi. È in questa logica
che, nell’economia del libro, circa un quarto, su un arco temporale di 63 anni, viene dedicato agli ultimi dodici anni, quegli anni che vedono da un lato arrivare al traguardo quel processo di dissoluzione del vecchio sistema dei partiti che aveva mandato i primi segnali di crisi negli anni ’70; dall’altro vedono arrivare sulla scena politica le Leghe e Forza Italia, con la
discesa in campo di Berlusconi.
È questo l’apporto nuovo che va apprezzato perché tocca un periodo certamente complesso della storia politica italiana, le cui chiavi interpretative sono ancora fragili, muovendosi tra ricordi e fonti a stampa, ma privo di quei materiali, archivi personali e carte private, che
spesso permettono di cogliere quelle dinamiche che sfuggono ai contemporanei.
Il libro mantiene il registro che Simona Colarizi ha già con fortuna sperimentato: per ogni
periodo l’inquadramento e la declinazione delle dinamiche proprie di ogni partito. Utili le due
brevi appendici con l’indicazione dei dati elettorali nazionali dal 1948 a quelle dell’aprile
2006, e il piccolo glossario che punta soprattutto a chiarire al lettore le diverse definizioni che
progressivamente vengono usate dalla scienza politica per definire i diversi modelli di partito:
di avanguardia, di integrazione di massa, di opinione, di rappresentanza personale, pigliatutto, ecc. Buona infine l’idea di corredare il testo con un’ampia bibliografia organizzata per sezioni tematiche, che fornisce al lettore un quadro dei principali contributi da quelli classici fino a quelli usciti negli ultimi anni.
Maria Serena Piretti
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I LIBRI DEL 2007
Laurence Cole (a cura di), Different Paths to the Nation. Regional and National Identities
in Central Europe and Italy, 1830-70, New York, Palgrave, 240 pp., $ 69,95
Questo libro discute della centralità e della marginalità delle aree di confine nel processo
di nazionalizzazione in Europa centrale e centro-meridionale, di identità e appartenenze plurime, in particolare nazionali e regionali, e delle loro modificazioni e sviluppi tra ‘48, unificazione italiana, scontro austro-prussiano e unificazione tedesca. Tra le analisi delle costruzioni
ideologiche con cui furono letti e percepiti, negli anni, i rapporti dei diversi territori con gli
Stati di effettiva e possibile appartenenza, prevale l’interesse per le questioni e prospettive italiana e tedesca, anche se sono esaminati pure il ’48 vissuto dai cechi e gli intrecci con altre popolazioni slave nelle regioni trattate, a partire dalla Dalmazia, di cui parla Dominique Reill.
Reill analizza il confronto tra lingue e culture diverse, osservando come la posizione marginale e la peculiare miscela linguistica fossero apprezzati e visti da diversi intellettuali e politici
come ponte tra mondi italiano e slavo, e tra Est e Ovest, quindi come ricchezza e risorsa per
gli scambi internazionali, finché congiunture politiche esterne, più che l’etnocentrismo e l’esclusivismo delle culture nazionali, fecero fallire questo progetto, sminuendo il confronto a
una contrapposizione locale tra comunità etno-nazionali interne allo Stato asburgico. Diversamente dal caso dalmata, nella formulazione delle identità regionali e nazionali in Tirolo meridionale (nel saggio di Laurence Cole e Hans Heiss) non ci furono possibilità di declinazioni miste dal punto di vista etnico o linguistico e, nonostante la continua sovrapposizione tra
diverse idee e forme di Stato, regione e nazione cui fare riferimento, il confine rigido tra le due
comunità locali fu eretto indipendentemente dal rapporto con la costruzione degli Stati nazionali italiano e tedesco. Anna Millo chiarisce come si arrivò a Trieste a pensare e assimilare
la nazione, anche qui distinta dallo Stato, come epicentro per l’identità collettiva e luogo privilegiato per l’aggregazione e l’organizzazione delle sfere economica, sociale e politica. Importanti a Trieste furono le associazioni volontarie, di cui Claire Nolte pure sottolinea il ruolo
fondamentale nel processo di differenziazione etnica a Praga. Pur non essendo al confine tra
più lingue, etnie e nazioni, i discorsi, le pratiche e gli orientamenti politici e ideologici delle
élites a Salisburgo (Ewald Hiebl) e Venezia (Eva Cecchinato) rivelano una tensione continua
tra appartenenze cittadine, regionali, statali e nazionali che, nel primo dei due casi, ma anche
in Tirolo a Praga e in altra Austria (Max Vögler), in Baviera, Baden e Sassonia (Erwin Fink)
e, in generale, tra Germania meridionale e Austria (Nikolaus Buschmann), sono l’occasione
per approfondire il problema delle diverse Germanie, prima e dopo l’unificazione. Questa bella raccolta di saggi offre, nel complesso, sguardi nuovi e interessanti, nonché un utile aggiornamento bibliografico, e si chiude con un saggio di Alberto Banti che prende spunto dai casi trattati e dal convincente periodo storico da questi analizzato, per riprendere le sue osservazioni sugli elementi simbolici e sul sistema narrativo del discorso nazionale.
Vanni D’Alessio
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I LIBRI DEL 2007
Enzo Collotti (a cura di), Ebrei in Toscana fra occupazione tedesca e RSI. Persecuzione, depredazione, deportazione (1943-1945), Roma, Carocci-Regione Toscana, 2 voll., 415+347 pp., € 56,00
Le grandi questioni storiografiche sono troppo spesso trascurate dalla cultura accademica nel nome dell’impossibilità finanziaria di costituire ampi gruppi di ricerca, visto che tali
questioni risulterebbero troppo complesse da poter essere affrontate da un singolo. Il progetto collettivo diretto da Enzo Collotti fa a meno di questa vulgata e ci dà una preziosa lezione
d’impegno intellettuale concreto e realizzabile, sempre che sussistano i presupposti mentali
prima ancora di qualsivoglia giustificazione su presunte scarsezze materiali.
Nel 1999 lo stesso Collotti aveva già diretto la pregevole, inedita e solidamente documentata, ricerca «a più voci» sulla persecuzione degli ebrei in Toscana, indagata e ricostruita nel
quinquennio 1938-1943. I due poderosi volumi ora pubblicati con il finanziamento della Regione Toscana, relativi al periodo dell’occupazione tedesca e della costituzione della Repubblica Sociale Italiana (1943-1945), intendono ultimare il percorso iniziato quasi dieci anni fa.
L’Introduzione di Collotti basterebbe, di per sé, a costituire un libro autonomo: le premesse
metodologiche sul poderoso materiale documentario archivistico di cui la ricerca si è avvalsa,
la riflessione problematica operata sulla storiografia italiana e internazionale sull’argomento
(che viene finalmente discussa, anziché accumulativamente citata), la descrizione della macchina repressiva a livello sia geografico che burocratico, l’analisi dell’accerchiamento progressivamente sempre più esteso a danno della popolazione ebraica presente sul territorio toscano,
sono elementi che permettono di collocare, in un contesto ampio e generale, i densi saggi che
compongono il primo volume. I contributi, a firma di giovani e capaci studiose, esaminano
con acribia filologica e interpretativa la «microstoria» delle vicende occorse durante il biennio
’43-45; questi saggi indagano la «geografia» della persecuzione, il ruolo primario svolto dalla
RSI nella «caccia all’ebreo» e nella deportazione verso i campi di sterminio, le reti di salvataggio costituitasi in vari capoluoghi della regione per volontà degli ordini religiosi e della DELASEM (Delegazione assistenza emigranti ebrei). Il secondo volume pubblica invece i documenti provenienti dai molti archivi consultati dalle autrici attestanti le fasi e le modalità con
cui la macchina amministrativa e propagandistica si è attivata nelle confische dei beni patrimoniali, nelle ricerche, negli arresti e nelle deportazioni degli ebrei in Toscana. L’azione di salvataggio e di soccorso da parte di individui e collettività è testimoniata dalla pubblicazione di
un nutrito corpus documentario, tanto più fecondo quanto più induce a valutare la tipologia
dei soggetti e delle istituzioni che si mossero a favore della popolazione ebraica perseguitata.
Quest’opera non possiede solo una robusta base documentaria ma ha anche la rara capacità di connettere il dato archivistico a un’interpretazione storiografica di largo respiro, ricordandoci la differenza che passa fra l’eruditismo fine a se stesso e la comprensione della storia
che si sta studiando.
Elena Mazzini
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I LIBRI DEL 2007
Katia Colombo, Davide Assael, Milano fascista, Milano antifascista, Introduzione di Luigi Ganapini, Milano, Guerini e Associati, 226 pp., € 18,00
Katia Colombo e Davide Assael ricostruiscono due mondi inconciliabili, costretti a convivere nella Milano degli anni tra le due guerre mondiali, guardando la città e la sua cultura da due
diversi angoli visuali. Assael analizza la profonda riflessione di Piero Martinetti, filosofo antifascista che cerca nella dimensione religiosa la legge etica su cui fondare una democrazia rispettosa della «libertà dell’individuo». Un pensiero che – ha ragione Ganapini nell’Introduzione – non
si collega a «correnti o movimenti politici coevi», ma è, per sua natura, politicamente antitetico
al modello culturale fascista. Ne nasce un saggio che, in prima battuta, fa giustizia – quanto consapevolmente conta poco – di una recente liquidazione dell’antifascismo, ridotto a sinonimo di
comunismo e, di conseguenza, a complice dello stalinismo. Assael ci aiuta a recuperare la complessità e la diversità delle culture che sono alla base dell’antifascismo. Il percorso della speculazione di Martinetti produce un modello di vita e fa riferimento a un sistema di valori che non
solo sono antitetici a quelli fascisti, ma hanno ancora qualcosa da insegnarci. Ne esce smantellata la tesi di chi – penso a Sergio Luzzatto – ha negato agli antifascisti la dignità morale per parlare ai nostri giovani. Martinetti ha titoli per fare da maestro alle generazioni nate dopo la tragedia del fascismo. E non è certamente solo. Così come la disegna Assael, la figura del filosofo, che
oppone ai miti collettivi del fascismo il rigore della riflessione sul valore etico della libertà, contribuisce a sgombrare il campo dall’equivoco di un antifascismo tutto comunista. Ciò che, naturalmente, non vuol dire che Assael si lasci attrarre dal tema obsoleto della superiorità culturale dell’antifascismo. Katia Colombo, del resto, col suo splendido lavoro sul rapporto tra cultura
e fascismo, dimostra che sarebbe fatica vana e anacronistica. Non c’è dubbio. Negli anni del regime, Milano ha talora un ruolo culturale anche significativo, esiste un dibattito articolato tra
intellettuali, si mettono in campo sperimentazioni urbanistiche, si vedono all’opera circoli e architetti d’avanguardia, come Banfi e Belgiojoso, il Gruppo7, Rava e Sartoris. Ci sono mille iniziative che passano attraverso l’inquadramento fascista della cultura e Katia Colombo le ricostruisce in maniera pregevole. Non è un caso, tuttavia, che la studiosa muova dalla confusa istanza di rinnovamento di cui sono simbolo la «Casa Rossa» di Marinetti e l’assalto alla sede
dell’«Avanti», «tempio del sovversivismo», per giungere al naufragio del progetto culturale fascista, al momento, cioè, in cui l’affermazione di una nuova figura di intellettuale, si scontra «con
l’arretratezza tecnico giuridica e culturale di una struttura amministrativa autoreferenziale» (p.
139). È la conseguenza di una «progressiva segregazione in se stessa della cultura» (p. 140). Una
segregazione che produce opposizione e repressione, un «marasma oscuro» e il disagio dei giovani arrestati e mandati al confino. «Giovani nostri», annoterà Bottai con parole in cui non serve cercare la prova di una superiorità culturale e morale dell’antifascismo. C’è di più: c’è l’esplicita ammissione della inferiorità del fascismo di fronte all’etica della democrazia.
Giuseppe Aragno
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I LIBRI DEL 2007
Fulvio Conti (a cura di), La massoneria a Firenze. Dall’età dei Lumi al secondo Novecento,
Bologna, il Mulino, 510 pp., € 37,00
Questo volume, a più mani, è un solido contributo nel filone degli studi sulle vicende liberomuratorie – campo di ricerca notoriamente insidioso e dai confini sfuggenti – affrontate di recente in altri lavori su scala locale e in opere di ampia sintesi (si veda, ad esempio, il
ventunesimo Annale dell’einaudiana Storia d’Italia). Il caso di associazionismo massonico di
cui si tratta, nel lungo periodo, è quello di Firenze, ove sorse fra il 1731 e il 1732 quella che
viene ritenuta la prima loggia italiana. In pagine fittissime di riferimenti a uomini e idee di
una società civile in formazione in cui cresceva la domanda di associazionismo, Renato Pasta
ne ricostruisce l’avvio in una prospettiva cosmopolitica, impregnata di istanze razionalistiche,
antiesoteriche e filantropiche, destinata a protrarsi sino all’età napoleonica. La rarefazione
delle fonti ha invece reso arduo il tentativo di Antonio Chiavistelli di individuare tracce di
attività massonica fra la Restaurazione e l’Unità, incrociando la vexata quaestio del rapporto
tra massoneria e settarismo carbonaro. Tra gli anni ’40 e ’50, alle suggestioni dell’associazionismo segreto subentrò l’attrattiva per luoghi di ritrovo ove lo scambio critico di opinioni
creò una delle premesse dell’epilogo risorgimentale e il retroterra dello sviluppo massonico
postunitario. Sul quale si sofferma Anna Pellegrino inserendolo nel contesto di una rete associativa al cui centro era la Fratellanza artigiana, sodalizio democratico che ebbe con la massoneria duraturi legami. Anche a Firenze, dopo l’Unità, essa funse da punto di riferimento
ideologico e simbolico della piccola e media borghesia delle professioni, del commercio e degli impieghi, laica, anticlericale, liberal-democratica, attiva sotto l’egida del trinomio istruzione-igiene-beneficenza, mentre a fine secolo andò accentuando la sua fisionomia di luogo
ove intrecciare relazioni utili a carriere professionali o politico-amministrative. Tra età giolittiana e dopoguerra – scrivono Laura Cerasi e Roberto Bianchi – la massoneria visse una fase
di protagonismo: dalla stagione delle alleanze bloccarde all’adesione, dopo il loro fallimento
e l’appannarsi delle opzioni democratiche e anticlericali, alla battaglia interventista, fino alla
contiguità con il fascismo delle origini. Su di essa tuttavia si sarebbe poi abbattuta l’azione repressiva del regime, che nel 1925 mise al bando tutte le associazioni segrete. Fulvio Conti
tratteggia infine la ripresa massonica dalla liberazione agli anni ’60 nei mutamenti nel profilo sociale degli iscritti, negli orientamenti, nella vocazione politica e nel disegno di penetrazione nella società civile.
Dall’esaustivo quadro della realtà liberomuratoria emerge con evidenza l’identità dei quadri intermedi dei nuovi ceti emergenti fiorentini che vi furono coinvolti, anche se talora la minuzia della ricostruzione non rende del tutto perspicuo il suo raccordo con le dinamiche del
contesto politico-sociale cittadino.
Maria Luisa Betri
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I LIBRI DEL 2007
Gianfranco Contu, L’altra guerra di Spagna. Controstorie, discorsi, testimonianze, Prefazione di Santi Fedele, Sestu, Zonza, 191 pp., € 17,50
Abbiamo bisogno, nel 2008, di «controstorie», di polemiche contro gli «storici accademici», di dediche e commemorazioni ai martiri libertari della guerra civile spagnola? Non credo.
La pensa, però, diversamente Gianfranco Contu, che riunisce in questo volume alcuni saggi
e articoli scritti nel corso degli ultimi trent’anni, a volte inediti o, più spesso, pubblicati su periodici di non agevole consultazione: «Studi tuveriani», «Quaderni bolotanesi», «L’Unione sarda». L’a. è primario ospedaliero e libero docente di anatomia chirurgica, oltre che studioso del
federalismo e dell’identità etnico-linguistica sarda. A ragione, Santi Fedele, nella Prefazione al
volume, individua il merito di Contu nell’aver richiamato da «un ingiusto oblio diversi esponenti solo apparentemente minori dell’antifascismo sardo, compartecipi, a vario titolo, di quel
dramma spagnolo che costituisce il tema unificante di questa raccolta di saggi» (p. 12). In effetti, credo valga la pena prendere in mano questo volume anche solo per vedere la foto del
vecchio Tomaso Serra (p. 108), ultimo comandante della colonna italiana di Barcellona e figura centrale nella narrazione di Contu. Un bel volto antico, il suo, segnato dal tempo e incorniciato da una candida barba bianca. Serra, infatti, è qui ritratto (ancora con il fazzoletto
rosso-nero della FAI al bavero) poco tempo prima della morte, avvenuta nel 1985.
Alcuni approfondimenti sull’esperienza della Sezione italiana della Colonna «Ascaso» –
questo il nome ufficiale della colonna mista fondata nell’estate del 1936, in Catalogna, da Camillo Berneri, Carlo Rosselli e Mario Angeloni – sono emersi nell’ambito degli ultimi due convegni dedicati a Berneri, quello di Reggio Emilia del maggio 2005 (Camillo Berneri singolare/plurale, Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi, 2007) e quello di Arezzo del maggio 2007 (in corso di
stampa), in particolare nella ricerca del giovane Enrico Acciai. Come hanno mostrato anche recenti studi biografici su Berneri, l’esperienza della colonna italiana affondava le sue radici nel dialogo che, intorno alla metà degli anni ’30, si era stabilito a Parigi tra l’anarchico italiano, Giustizia e Libertà e gli ambienti repubblicani, in un contesto nel quale il fulcro dell’opposizione al
fascismo era rappresentato, invece, dall’alleanza stretta tra comunisti e socialisti.
Fondata il 17 agosto 1936, la colonna italiana di Barcellona si sfaldò – come colonna mista – dopo pochi mesi, in dicembre, a causa dei dissidi tra le sue componenti interne. Secondo il quadro cronologico di Contu, la «fase rivoluzionaria» si spegneva e si annunciava quella
«controrivoluzionaria». La primavera successiva, Camillo Berneri, aspramente critico sull’intervento sovietico in Spagna, veniva ucciso a Barcellona, insieme al compagno Francesco Barbieri. Il loro assassinio era rivendicato, il 29 maggio 1937, da «Il Grido del Popolo» di Parigi,
giornale comunista, mentre la prima persona a riconoscere, al Policlinico di Barcellona, il 7
maggio, i due corpi straziati fu proprio l’anarchico Serra, la cui bella testimonianza è raccolta, in appendice, da Contu.
Carlo De Maria
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I LIBRI DEL 2007
David Cook, Storia del Jihad, da Maometto ai giorni nostri, Torino, Einaudi, XXII-270
pp., € 19,00 (ed. or. Berkeley, 2005)
Cook, studioso statunitense autore di ricerche sulla tradizione apocalittica islamica, analizza in questo saggio l’evoluzione storica della nozione di jihâd, dall’epoca di Muhammad
(VII sec. d.C.), fino alle recentissime «operazioni martirio», ossia gli attentati suicidi, attraverso la letteratura classica (Corano, tradizioni profetiche e trattati teologici) e moderna, quest’ultima estesa a comprendere i proclami televisivi di al-Qâ‘ida e quelli dei gruppi islamici radicali diffusi in rete. Pur essendo, come gran parte della saggistica di tema mediorientale, un
libro a tesi, dettato dall’attualità e dall’agenda politica dell’a. (vicino al neo-conservatore
Middle East Forum di David Pipes), l’ampiezza del suo scopo e l’uso ampio, benché strumentale, di fonti arabe lo distinguono dai discorsi correnti sul jihâd. Il quesito centrale è, evidentemente, valutare se l’islam sia di per sé una fede aggressiva che prescrive la guerra, di conquista o religiosa; più precisamente, se sia vero che il jihâd ha subito un’evoluzione definitiva verso un significato pacifico (il j. come sforzo di auto-miglioramento morale e intellettuale) o se
il suo nucleo semantico principale abbia mantenuto invariato il senso, già protoislamico, di
obbligo di condurre la guerra ai nemici dell’islam. La risposta di Cook su quest’ultimo punto è netta e contrasta con gran parte dell’islamologia occidentale contemporanea, attestata su
posizioni qui definite, polemicamente, «ireniche». Sebbene al concetto di jihâd come «guerra
per la causa di Dio» si sia affiancato piuttosto presto (dal IX sec. circa) il suo uso metaforico
di lotta alle cattive inclinazioni individuali; sebbene, anzi, presso una parte dei pensatori musulmani, questo secondo significato designi il «grande jihâd» e il primo la sua forma inferiore
– il «piccolo jihâd» – limitato nell’uso e nel tempo, tale evoluzione è rimasta, per Cook, confinata all’interno del quietismo sunnita. L’ideale di jihâd violento, mutuato dall’archetipo storico delle prime conquiste islamiche dove l’espansione territoriale si lega all’affermazione della nuova fede, ha invece avuto una diffusione ininterrotta nel tempo e, all’interno delle diverse correnti islamiche, ha dominato in particolare sia il pensiero radicale che lo spirito dell’islam sufi, ossia mistico. Il suo rinnovamento ha così ispirato la spinta bellicosa in atto nei movimenti mistici che, fra XVII e XIX secolo, dettero vita agli ultimi sussulti dell’espansione musulmana in Africa e nel subcontinente indiano, e nell’islamismo riformista e anti-mistico del
XX e XXI secolo. Nei due casi, il jihâd si è imposto tanto come reazione al pericolo esterno
incombente sulla comunità musulmana e come strumento della sua vittoria, che, al suo interno, come lotta purificatrice contro la degenerazione degli intenti e dei costumi dei credenti.
L’ideale di lotta violenta, volta a compiere un mandato divino di dominio sul mondo, appare dunque non il modo inevitabile di affermazione delle società islamiche nella storia, bensì
un riflesso condizionato, che sorge in specifiche condizioni storico-politiche e all’interno di
contesti ideologici d’ispirazione messianica o apocalittica.
Bruna Soravia
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I LIBRI DEL 2007
Gustavo Corni, Hitler, Bologna, il Mulino, 221 pp., € 12,00
L’agile volume che Gustavo Corni ha dedicato ad uno schizzo del problema storiografico costituito dal tiranno tedesco è una lettura di sicuro interesse. La definizione data non è
casuale: non si tratta infatti di una breve biografia in senso classico, né, evidentemente, di una
concisa storia del nazismo. Corni è uno studioso che ha una padronanza rimarchevole della
storia della Germania fra le due guerre e che ha una conoscenza vasta e approfondita dei dibattiti storiografici che questa vicenda ha sollevato. Per questo è stato in grado di offrire, come egli stesso scrive nell’Introduzione, un lavoro che si muove su più piani, perché «Hitler costituisce […] un problema storiografico di grande rilievo, banco di prova di metodologie che
tentino di coniugare aspetti individuali ed elementi strutturali» (p. 13).
Scritto in maniera accattivante, in una chiave che sarebbe riduttivo definire divulgativa
(infatti c’è sempre un costante riferimento agli sviluppi della ricerca storiografica, con rinvii
ad opere anche molto sofisticate e di nicchia), il volume ripercorre cronologicamente le varie
fasi della vita di Hitler, sempre attento a mettere in luce gli aspetti contraddittori di un personaggio e di una fase storica che non si lasciano inquadrare davvero in nessuna delle varie definizioni tentate.
Non c’è ovviamente nessun tentativo giustificazionista, perché le questioni poste non riguardano il tema, per dirla con brutalità, se Hitler fosse buono o cattivo (un problema, ovviamente inesistente), bensì le contraddizioni interpretative aperte: per esempio se Hitler fosse il
lucido realizzatore di un programma che aveva già in testa quando scrisse il Mein Kampf, o se
fosse un opportunista, privo di ideali e di scrupoli, che giocava una partita d’azzardo secondo
l’ispirazione del momento. O ancora, se fosse un uomo che aveva realmente messo in piedi
un sistema di dominio assoluto, o, come scrisse a suo tempo Hans Mommsen, un «dittatore
debole» circondato da una corte di «diadochi» con cui doveva comunque fare i conti (la cosiddetta «feudalizzazione» del regime nazista).
Corni è sempre scrupolosamente attento a mostrare come questi dilemmi non siano frutto di ideologie preconcette, ma nascano dalla difficoltà di interpretare una mole cospicua di
documenti contraddittori che si prestano, diversamente combinati, o a volte semplicemente
letti da angolature differenti, ad interpretazioni divergenti.
Giustamente l’a. è cauto ad aprire a temi psicologici o psicanalitici, sebbene molti materiali a disposizione spingano quasi naturalmente a porsi il problema della salute mentale di
Hitler: basterebbe il suo vaneggiante testamento politico, o la stessa gestione dell’ultima fase
della guerra, raccontata in maniera vivida nelle pagine conclusive, a porre domande in questa
direzione. Tuttavia Corni ha ragione: questi sono alla fine terreni scivolosi su cui lo storico è
bene non si avventuri.
Paolo Pombeni
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I LIBRI DEL 2007
Gabriella Corona, I ragazzi del piano. Napoli e le ragioni dell’ambientalismo urbano, Roma, Donzelli, XVII-219 pp., € 25,00
Il libro di Gabriella Corona può essere visto come un tentativo di costruire un ponte tra
la storiografia urbanistica italiana di matrice territorialista, in primis i lavori di Vezio De Lucia
ed Edoardo Salzano, e ricerche di storia ambientale urbana che cominciano a essere relativamente diffuse anche nel contesto italiano. Il caso su cui l’a. concentra la sua attenzione è quello di Napoli e i «ragazzi del piano» che compaiono nel titolo sono un gruppo di tecnici, prevalentemente architetti, attivi dentro diversi livelli dell’amministrazione a partire dagli anni
’70. Il libro ne segue l’itinerario, che è solo parzialmente un itinerario collettivo, e muove di
qui all’analisi di alcuni degli strumenti e delle politiche in cui questa generazione di urbanisti
è stata coinvolta: il piano delle periferie del 1980, la prima ricostruzione dopo il terremoto dello stesso anno, fino ai provvedimenti delle giunte Bassolino e al piano regolatore del 2004.
I cosiddetti ragazzi sembrano interessare l’a. in quanto portatori, dentro l’amministrazione, di una cultura che insiste sul ruolo del pubblico, sull’importanza della regola, sull’interesse collettivo, sul piano urbanistico come strumento di lotta alla speculazione e al consumo di
suolo, sui temi della tutela del patrimonio edilizio e del paesaggio rurale. La loro azione dimostrerebbe, questa la tesi di fondo del volume, la continuità di lungo periodo tra la tradizione dell’ambientalismo italiano degli anni ’50 (il nome di Antonio Cederna è ricorrente), la
sua interpretazione da parte di figure di tecnici che sono stati importanti per il gruppo (proprio De Lucia viene riconosciuto come una sorta di nume tutelare) e le esperienze più recenti, in grado di declinare la stessa tradizione secondo direzioni vicine alle più aggiornate esperienze di pianificazione ambientale. Una linea culturale di cui Corona rivendica i successi in
una città che pure, nella percezione degli storici, non è spesso associata alle parole d’ordine
della legalità e della sostenibilità.
Con i tecnici e gli intellettuali oggetto della sua indagine, Corona condivide molte letture e non poche interpretazioni della natura e del ruolo dell’urbanistica, al punto che la sua appare non solo una storia scritta dall’interno, ma una vera e propria storia militante, che non
esita quando necessario a escludere dal quadro esperienze potenzialmente concorrenti (emblematico il mancato accostamento tra il piano per Napoli del 2004 e le contemporanee esperienze romane). Il punto di maggiore interesse del libro sta nella sua capacità di ravvivare, con
un ampio ricorso alle testimonianze dirette dei protagonisti e una notevole attenzione alle congiunture del quadro politico-culturale, un genere storiografico relativamente tradizionale per
l’Italia come quello della storia dei piani urbanistici, mentre l’obiettivo inizialmente intravisto, e potenzialmente più ambizioso, di ricostruire una storia delle pratiche quotidiane di un
gruppo di tecnici dentro gli apparati amministrativi rimane necessariamente sullo sfondo.
Filippo De Pieri
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I LIBRI DEL 2007
Gabriella Corona, Simone Neri Serneri (a cura di), Storia e ambiente. Città, risorse e territori nell’Italia contemporanea, Roma, Carocci, 256 pp., € 22,50
Un terreno ancora poco frequentato dalla storiografia italiana, quello della storia dell’ambiente, si arricchisce di un volume che offre al contempo una messa a fuoco della storiografia
su città e ambiente e la presentazione di una serie di ricerche, alcune delle quali ancora in corso, che forniscono uno spaccato assai articolato dei temi, delle metodologie e delle prospettive di analisi ambientale dei processi di urbanizzazione e industrializzazione. I casi di studio
presentati coprono l’intero territorio nazionale e gravitano cronologicamente sul periodo che
va dal dibattito tardo ottocentesco sull’igiene urbana fino alle più recenti questioni relative alla gestione del territorio.
Nell’Introduzione, i curatori rivendicano la natura eminentemente storica dei rapporti
tra natura e società, mediata dal concetto di «incorporazione» che permette di riconoscere le
modalità di appropriazione sociale delle risorse naturali in relazione all’incidenza che esse hanno sui processi più generali di rigenerazione della natura. Se il punto di partenza non può che
essere il paradigma igienista che ha impostato la gestione della complessità ambientale nelle
città di fine ’800 e inizio ’900 – e sul quale la storia dell’ambiente può fare riferimento ad una
stagione di ricerca della storia urbana già consolidatasi nel corso degli anni ’80 – con l’avanzare del secolo appare sempre più rilevante una maggiore articolazione della dimensione spaziale che mette in relazione risorse, territorio, insediamenti umani e industriali, infrastrutture e servizi. È anzi nella difficoltà a raccordare il piano dell’analisi dei processi nello spazio,
con l’assetto territoriale del – tardo, debole e assai diversificato – intervento di pianificazione
che molti dei contributi di questo volume individuano uno dei principali ostacoli nella costruzione di nuovi equilibri tra insediamento e risorse naturali. Dai processi di conurbazione
e formazione metropolitana che si avviano tra gli anni ’50 e ’60 – per proseguire ininterrottamente nei decenni successivi, quando si accentua anche la dispersione degli insediamenti industriali – si vengono creando complesse condizioni geografiche nei processi di incorporazione della natura che non trovano assetti istituzionali sufficientemente flessibili da poterne governare efficacemente la trama.
I numerosi contributi che compongono il volume muovono dalla riconsiderazione di temi ormai classici della storia urbana ambientale e della pianificazione (con riferimento al territorio ionico etneo, alle città del Veneto, a Terni, a Napoli, a Pescara), per spingersi alla seconda metà del ’900 ricostruendo le implicazioni ambientali della formazione di conurbazioni (Firenze-Prato) e territori medio-metropolitani (Modena) che richiedono l’analisi di un livello di governance articolato sull’azione di diversi enti e livelli di governo del territorio. Chiudono il volume un contributo sulla crisi ambientale determinatasi intorno al polo industriale di Augusta-Siracusa e una indagine sui consumi energetici delle città italiane.
Paolo Capuzzo
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I LIBRI DEL 2007
Cristina Costantini, La legge e il tempio. Storia comparata della giustizia inglese, Roma, Carocci, 255 pp., € 19,50
Il libro prende in esame, utilizzando una vasta letteratura e numerose fonti, i processi storici ed ideali della costruzione della più importante fra le tante tessere di cui si compone il mito del «modello inglese»: il sistema di common law. L’a. intende ricondurre i rapporti di potere che hanno generato i sistemi di common law e di civil law al tema della sacralità del potere
e dunque ai diversi modelli di teologia politica connessi alla fondazione del diritto, a partire
dai fatti storici e in particolare dalla emersione e dall’affermazione di un vero e proprio ceto
di giuristi, la comunità «fraterna» dei serjeants at law. Questo significa innanzitutto fare i conti con il fondamento mitologico dell’origine immemorabile e misteriosa del common law. La
costante e compatta opera dei common lawyers è riuscita di fatto ad imporre una tradizione
giuridica priva di un corpus scritto di regole, ma certo non carente di quell’autorità «delle consuetudini che richiedono sola la forza oracolare di soggetti appositamente istruiti per poter
perpetrare la propria trasmissione senza soluzione alcuna di continuità» (p. 21). Ed è la trasmissione orale a fare del common law un «corpo di tradizione» più che un «corpo di regole»,
oltre che la fonte di quella che viene definita common law mind, cioè la ricostruzione ideologica del proprio passato caratteristico della cultura britannica.
Il lavoro deve per molti aspetti essere letto come una vera e propria indagine su quella che
potremmo definire un’antropologia dei processi giuridici nell’Occidente cristiano. In questo
senso vanno interpretati molti dei suggestivi passaggi di descrizione dell’iniziazione dei
serjeants at law «come iniziazione ad un culto» (p.118). Costantini espone, con chiarezza ed
incisività, la tesi che alla base della dissociazione tra common law e civil law possa trovarsi la
contrapposizione tra diritto incarnato (in un corpo fisico, una persona, come il sovrano o i
suoi ministri) ed escarnato (in un corpo materiale, libro). Una frattura che definisce due diversi modi di rappresentazione sensibile del corpus iuris: incarnato nella comunità dei giuristi
o escarnato nel testo normativo. Tale dissociazione «si è compiuta sulla base di una scelta consapevole», che sul continente ha significato sacrificare la libertà del pensiero giurisprudenziale a favore della «volontà dell’imperatore che si traduce e compie nella rigida disposizione del
materiale giuridico: il diritto vigente è tutto all’interno del testo, mentre l’interpretazione e la
eventuale nuova legislazione devono necessariamente promanare dalla persona dell’imperatore» (p. 217). Esiste però un filo rosso che lega le due prospettive giuridiche, ed è quello della
sacralità del corpo rappresentativo della legge. Il lavoro di Costantini mette in luce come la
dimensione teologica che accompagna la storia del diritto inglese è la stessa che, da Irnerio in
poi, sostiene il corpus iuris continentale confermando, più in generale, la pulsione occidentale di dare al diritto una fondazione «meta-politica ed anche meta ecclesiastica» (p. 226).
Fulvio Cammarano
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I LIBRI DEL 2007
Carmela Covato, Manola Ida Venzo (a cura di), Scuola e itinerari formativi dallo Stato Pontificio a Roma capitale. L’istruzione primaria, Milano, Unicopli, 398 pp., € 18,00
La storia delle istituzioni dell’educazione e della scuola soprattutto nelle sue specificazioni territoriali è certamente uno dei cantieri più vivaci degli studi storico-educativi negli ultimi decenni anche perché in tale ambito le appartenenze accademiche, quali la distinzione tra
storici puri e storici della pedagogia, e gli orientamenti culturali finiscono per avere una rilevanza minore rispetto a esigenze di rigore di approccio. Si tratta di una complessiva temperie
storiografica che si può far cominciare con tre importanti volumi collettanei quali L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di Simonetta
Soldani (Milano, FrancoAngeli, 1989), Scuola e stampa nel Risorgimento. Giornali e riviste per
l’educazione prima dell’Unità, a cura di Giorgio Chiosso (Milano, FrancoAngeli, 1989) e Chiesa e prospettive educative in Italia, tra Restaurazione e Unificazione, a cura di Luciano Pazzaglia
(Brescia, La Scuola, 1994).
In tale contesto si viene ad inserire questo volume curato da Carmela Covato, professore
di Storia della pedagogia presso l’Università degli studi di Roma Tre e nota studiosa di tematiche legate soprattutto all’educazione femminile, e Manola Ida Venzo, archivista di Stato, che
raccoglie gli atti di un importante convegno svoltosi a Roma nel marzo del 2006. Dalla lettura del volume esce confermato e ulteriormente articolato un quadro di presenze distinto per
tipologie di istituzioni, operatori e destinatari in cui la finalità scolastico-educativa si intreccia con finalità religiose, assistenziali ma anche con logiche economico-gestionali delle diverse istituzioni operanti. Tale complessità rende la situazione generale di Roma al momento dell’unificazione migliore di quella del territorio circostante ed è comunque destinata a rimanere una costante e a far sentire profondamente i suoi effetti fin dentro il XX secolo.
La seconda parte del volume è dedicata alla situazione postunitaria di cui offre un quadro in chiaroscuro e propone varie buone piste di ricerca, alcune di approfondimento locale
ma altre su aspetti o avvenimenti di cui il caso romano è solo un significativo esempio, sulle
quali ovviamente sono necessari sia un ulteriore approfondimento che una prospettiva interpretativa di cui la formula della difficile modernizzazione è solo in parte soddisfacente.
Il volume si caratterizza per la varietà dei contributi dalle dimensioni e dalle caratteristiche diverse, particolarmente apprezzabile appare l’attenzione prestata ad alcune realtà di provincia e alle realtà educative israelitiche.
Angelo Gaudio
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I LIBRI DEL 2007
Guido Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia, Roma, Donzelli, V-150 pp., € 14,00
Tra i pregi di questo libro ci sono la brevità e l’agilità che ne fanno uno strumento adatto alla diffusione di idee storiograficamente fondate a fronte di una pubblicistica, a stampa e
televisiva, troppo condizionata da umori politici.
Non è però un lavoro solo divulgativo. Il tratto di originalità si legge subito nella ricerca
che lo sorregge e nello schema che mette a confronto l’eredità della guerra nelle due sezioni del
paese, meridionale e settentrionale, sfuggendo così alla vulgata che condensa negli avvenimenti del Nord Italia le esemplificazioni destinate a dare senso e spessore etico-politico alla narrazione. Il Sud è «terra di nessuno» (così un volantino lanciato dagli Alleati) o, secondo Crainz,
«l’inferno congiunto di stragi naziste e di bombardamenti alleati» (p. 17). I mesi delle operazioni militari attorno al fronte di Cassino vedono una popolazione passiva, in balia delle contrastanti forze militari, incapace di distinguere l’amico dal nemico, poiché da tutti subisce violenza. Alfine l’Italia «liberata prima della liberazione» offre agli osservatori coevi lo spettacolo
di una desolante disgregazione sociale che nessuna forza politica o morale riesce ad arginare.
Un pessimismo dell’intelligenza e forse anche della volontà che Crainz legge nel pur lucido dibattito intellettuale di quei mesi di attesa, dal Croce della «finis Europae» a un De Ruggero
che intravede «piuttosto che una democrazia in divenire […] una dittatura in sfacelo» (p. 41).
Anche la ricostruzione della vicenda che riguarda il Centro-Nord, teatro della lotta di liberazione, viene letta senza trionfalismi. Crainz sceglie di mettere in evidenza gli aspetti più crudi,
quella «inespiabile» violenza che non avrà fine nel maggio del 1945, ma che le stesse forze della Resistenza stenteranno a fermare. Si riprendono qui con autorevolezza le fila di un dibattito, che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni, accompagnando la lunga eclissi di quel sistema
politico che aveva tratto legittimazione dal mito resistenziale. E qui davvero è importante la
capacità di mantenersi sul tracciato di un discorso storiografico, anche per proporre gli impietosi scenari, ma all’interno di una logica e di una disciplina che ci restituisca una lettura valida e convincente e che eviti le tentazioni di improvvisati e anacronistici processi al passato, per
di più fondati su una preoccupante assenza di acribia (il riferimento esplicito è a Gian Paolo
Pansa, cfr. pp. 80-81). L’Italia del 1945 è un paese che ha vissuto esperienze di guerra differenti, ma che dialoga (per esempio sulla gestione diversa dell’epurazione a Nord e a Sud), che ha
da mettere in conto esplosioni di violenza, riti cannibaleschi, vendette. Il dilemma se ricordare o rimuovere, posto subito, viene riletto rievocando l’accoglienza che ebbe Napoli milionaria alla prima uscita a Napoli e Roma nel 1945. Ma il problema di oggi sembra il come ricordare quello che ancora resta il passaggio fondamentale della storia dell’Italia contemporanea
visto da prospettive diverse che per il passato: non più come legittimazione di un sistema di
partiti ormai scomparsi, ma ricondotto nel contesto più ampio e poco lineare di processi di
democratizzazione che fanno i conti con l’antico problema della violenza.
Rosario Mangiameli
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I LIBRI DEL 2007
Leonarda Crisetti Grimaldi, L’agonia feudale e la scalata dei «galantuomini». Cagnano Varano: l’onciario, il murattiano, le questioni demaniali 1741-1915, Foggia, Edizioni del Rosone,
2 voll., 175+222 pp., € 15,00+20,00
In due tomi i quasi duecento anni della vita di Cagnano, Comune della provincia di Foggia collocato sul lago di Varano, sottoposto alla giurisdizione del regime del Tavoliere, sono
ricostruiti attraverso alcune fonti classiche, tra le quali soprattutto i catasti (l’onciario e il murattiano), gli atti della Commissione feudale, le delibere comunali, le testimonianze dirette.
In un territorio in cui oltre la metà dei fondi rustici è a carattere demaniale, grazie alle leggi
francesi di eversione della feudalità, emergono alcuni protagonisti che gestiscono la terra anche in un’ottica privatistica: il barone duca Luigi Paolo Brancaccio, con la storia della sua famiglia e dei suoi possedimenti, il duca Zagaroli, proprietario della Difesa della Regia razza delle Giumenta, la Chiesa e singoli ecclesiastici.
Nonostante che la descrizione sia talora più analitica che critica, come si evidenzia anche
dal ridotto apparato bibliografico rispetto all’importanza dei temi trattati, la ricerca rappresenta un buon esempio di storia «locale». Apprezzabili l’apparato fotografico, i tentativi di resa cartografica sulla base delle attività prevalenti e delle abitazioni nella non facile convivenza
della realtà agro-pastorale e di quella ittica, nonché dell’artigianato e dei servizi; certosina è la
ricostruzione delle abitazioni, della composizione familiare di una popolazione più che raddoppiata, da 1.500 a 3.820 abitanti, tra ’700 e inizio ’800, delle forze economiche e dei settori produttivi, della configurazione e destinazione del territorio nel periodo indicato dal titolo.
Il secondo tomo, dal 1814 al 1915, è concentrato sulle questioni demaniali e sulle collegate ribellioni per gli usi civici. Il demanio, universale, ecclesiastico ed ex feudale, con differenti destinazioni colturali e collocazioni geografiche, utilizzato anche dalla popolazione
abruzzese, convive con terreni coltivati dai singoli, data la crescita della proprietà privata in
seguito alle leggi del periodo francese a spese dei territori ex feudali ed ecclesiastici. I demani
di Riseca, Parchi e Mezzane sono lo scenario conflittuale delle dinamiche sociali ed economiche innescate dai cambiamenti di inizio secolo XIX, con conseguenze di lunga durata; esse riguardano non solo le vertenze tra i Comuni di Cagnano e Carpino con i Brancaccio, oggetto
delle delibere della Commissione feudale e dei consigli comunali, ma anche le conseguenze
della cessazione del regime della Regia Dogana del Tavoliere con la creazione delle «riseche»
(terreni da destinare a favore del Regio Fisco), fino alla configurazione di una classe dirigente
più frutto di «scalate sociali» che della diffusa crescita complessiva.
Renata De Lorenzo
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I LIBRI DEL 2007
Giorgio Crovato, La regata di Castello o del XX settembre. Storia di una regata veneziana tra
Ottocento e Novecento, Presentazione di Marco Fincardi, Venezia, Marsilio, 110 pp., € 18,00
La competizione tra barche a remi non è solo rito veneziano per eccellenza – la stessa parola
«regata» nasce qui – o riproposizione codificata e senza tempo dei fasti della Serenissima: in età
contemporanea essa è stata anche l’espressione di precise congiunture storiche e di conflitti politico-sociali interni alla città. Non parliamo, d’altra parte, della più classica regata sul Canal Grande (l’odierna «Regata storica»), ma di una manifestazione minore, organizzata tra il 1887 e il 1913
con il nome di «Regata di Castello» o «del XX settembre». Definizioni, entrambe, che già dicono
molto: Castello è il sestiere più popolare di Venezia, quello che sorge intorno all’Arsenale, serbatoio di voti per i democratici prima e per i socialisti poi; il sestiere la cui via principale è intitolata a Garibaldi e che di Garibaldi ospita il monumento. E la ricorrenza settembrina della breccia
di Porta Pia, scelta per disputare la regata, è proprio la festa della tradizione risorgimentale più laica e radicale. Questa storia, dunque, ha soprattutto il sapore di un anticlericalismo popolaresco,
ed è infatti racchiusa in quel breve giro d’anni in cui tale sentimento poteva trovare corrispondenza – o perlomeno tolleranza – tra le classi dirigenti: l’ultima regata del XX settembre si correrà proprio all’indomani del «patto Gentiloni». In seguito essa verrà persino rimossa dalla memoria collettiva: fatto sorprendente, in una città dedita al culto delle proprie tradizioni marinare.
La gara delle gondole costituiva il clou di una tipica festa popolare con luminarie, musiche e albero della cuccagna, promossa da un classico comitato di quartiere; a guidarlo un curioso personaggio, Luigi Graziottin, ex arsenalotto e sottufficiale di marina, guaritore certificato di malati di colera e mediatore di beneficenze. «Piccolo notabile plebeo», «una specie di
Garibaldi locale», lo definisce Crovato, forse con qualche esagerazione. Ma sullo sfondo c’è
anche la lunga lotta dei gondolieri contro l’introduzione dei vaporetti in Canal Grande: sciopereranno persino in occasione della Regata reale del 1887, di fronte alla regina e al principe
ereditario, rifiutandosi di gareggiare.
E se nelle regate si esprime, in qualche modo, un doppio registro – recupero delle antiche tradizioni e espressione dei conflitti sociali contemporanei – qualcosa di simile si può dire anche del breve saggio di Crovato (già apparso, in versione ridotta, in «Venetica», n. 15 del
2007). La passione dell’a. per le regate veneziane, cui ha dedicato diversi studi, emerge nell’attenzione per gli aspetti tecnici della voga in piedi, «alla veneta», o nelle frequenti citazioni
dei più amati e popolari campioni del remo (i cui ritratti, tra bandiere e trofei, occupano non
a caso buona parte dell’inserto fotografico); ma la dimensione tipicamente locale e lagunare
offre anche spunti – specie nelle pagine introduttive di Fincardi – per una riflessione più ampia sulle cerimonie civili a cavallo tra ’800 e ’900: quando, per costruire identità condivise, le
comunità puntano sui rituali di auto-riconoscimento, cercando soprattutto nelle feste popolari «la tinta del primitivo carattere nazionale».
Giovanni Sbordone
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I LIBRI DEL 2007
Sante Cruciani, L’Europa delle sinistre. La nascita del Mercato comune europeo attraverso i
casi francese e italiano (1955-1957), Roma, Carocci, 234 pp., € 19,50
Le «sinistre» di cui parla l’a. sono i partiti e i movimenti sindacali comunisti e socialisti
di Francia e Italia, dei quali viene esaminato l’atteggiamento verso il processo di integrazione
europea negli anni decisivi compresi tra la Conferenza di Messina (1955), che rilancia il progetto sovranazionale, e la firma dei trattati di Roma, istitutivi del MEC e di Euratom (1957).
Contrariamente a quanto può lasciar supporre il titolo, quindi, il volume non prende in considerazione la sinistra laica e democratica, e questo deve forse essere sottolineato, giacché –
sebbene meno rappresentativa in termini di forza politico-elettorale rispetto alla componente socialcomunista – questa ebbe un ruolo affatto secondario nella definizione dell’orientamento europeista dei governi nazionali. Ciò detto, la ricerca di Cruciani – che ha utilizzato
un’ampia documentazione archivistica e bibliografica – costituisce un contributo utile alla
comprensione delle scelte di un segmento rilevante del mondo politico europeo nei confronti di quello che Giuseppe Vacca ha definito, con enfasi, «il fatto più rilevante della nostra storia contemporanea». Dal volume emerge inevitabilmente la diversa valutazione del processo
integrativo da parte dei socialisti da un lato e dei comunisti dall’altro; mentre i primi, con tempi diversi, aderirono al progetto europeista (sin dall’inizio la SFIO, alla fine degli anni ’50 il
PSI), i secondi mostrarono ben maggiori resistenze. Al contempo Cruciani distingue tra l’assoluta intransigenza del PCF e i primi segnali d’attenzione, pur timidi e contraddittori, mostrati dai comunisti italiani proprio in quel periodo: si spiega così la valorizzazione del confronto instauratosi tra PCI e CGIL, allorquando quest’ultima aprì al disegno di integrazione
continentale. Tra gli aspetti più apprezzabili del libro vi è il tentativo di mettere in relazione
il piano politico-economico nazionale ed europeo, in particolare attraverso la verifica della reazione socialista e comunista a un processo volto anche a collegare lo sviluppo economico nazionale con quello sovranazionale. Va peraltro osservato come non sempre il legame tra i due
piani, interno ed europeo, viene analizzato efficacemente. La ripetuta sottolineatura della insufficiente attenzione complessivamente prestata dai partiti e dai sindacati socialcomunisti all’integrazione europea coglie un dato di fatto, sul quale è però difficile basare una valutazione storica. È infatti necessario considerare sia la difficoltà per i contemporanei di percepire
l’effettiva importanza delle Comunità europee (e il loro posto tra gli avvenimenti dell’epoca),
sia la realtà socio-politica ed economica di quegli anni. Norberto Bobbio, a chi – nel 1957 –
lo invitava a considerare prioritario l’obiettivo dell’unificazione europea, rispondeva di considerare più urgente, ad esempio, la lotta contro «l’abuso di potere da parte dei grandi gruppi
capitalistici». È difficile non pensare che questa fosse anche l’opinione di partiti e sindacati
che rappresentavano le rivendicazioni e gli interessi di una parte consistente delle masse lavoratrici.
Daniele Pasquinucci
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I LIBRI DEL 2007
Fabio Cuzzola, Reggio 1970. Storie e memorie della rivolta, Roma, Donzelli, XII-204 pp.,
€ 26,00
Questo libro colma un vuoto poiché fornisce spezzoni di numerose interviste (oltre 100)
a persone in gran parte comuni che parteciparono alla rivolta di Reggio Calabria del 1970.
Non le solite versioni scontate e noiose di politici e leader.
L’a. ha il merito di «dare la parola» ai protagonisti invisibili di questo movimento e di attribuire dignità di fonte storica alle loro testimonianze. Seppur non siano ben chiari i criteri
di scelta (il passaparola? la prossimità amicale?), degni di considerazione dal momento che, vista la durata – più di 6 mesi – e l’intensità della mobilitazione, migliaia di persone coinvolte
avrebbero potuto riportare un differente punto di vista, il lavoro ha il pregio di interpellare
chi di quell’evento ha un ricordo diretto e chi indiretto, chi era d’accordo e chi no.
Il contenuto delle testimonianze orali tuttavia non è posto a riscontro con la cronaca, ricavabile comodamente dal lungo reportage Buio a Reggio (Città del Sole, 2000). In genere
Cuzzola è reticente sulle date, non si preoccupa troppo di collocare i fatti nel contesto temporale esatto, producendo delle sequenze cronologicamente sfasate (pp. 14, 15, 18, 27, 29,
31, 40, 41, 132). Emblematico il caso di un commissario di polizia che ricorda l’invio dell’esercito a presidio della linea ferrata subito dopo il deragliamento del treno a Gioia Tauro. A
tal proposito l’a. desume che «questa decisione, più di ogni altra, lascia trasparire oggi, a posteriori, quanto nelle stanze del potere fosse da subito diffusa la consapevolezza che quello del
Treno del Sole non era stato un incidente» (p. 28). Al di là del sapore dietrologico dell’osservazione, predominante in tutto il libro, è utile notare che l’attentato avvenne il 22 luglio e l’invio dell’esercito il 16 ottobre 1970. Una consapevolezza un po’ a scoppio ritardato, forse.
Ciò è indice di una seria instabilità metodologica del lavoro. E, inoltre, di un approccio impoverito alle memorie, da cui appunto non sono ricavati gli errori, giacché come scrive Ronald
Grele, in riferimento al celebre saggio su Trastulli, «ogni volta che ne ha l’occasione, [Sandro,
ndr] Portelli ci ricorda cha la sola ragione per cui può capire il significato della storia sbagliata di
quella morte è che ne conosce la data esatta» (Storie orali, Roma, Donzelli, 2007, p. XII).
La debolezza della struttura scientifica del libro è confermata dall’incompletezza (n. 1 p. 22,
n. 6 p. 53, n. 1 p. 144) o dall’assenza totale (n. 1 p. 30, n. 37 p. 74) dei riferimenti documentari, con alcune eccezioni (n. 12 p. 26). Sebbene – al contrario di quanto afferma Cuzzola (p. VIII)
– esistano abbondanti fondi archivistici del Ministero dell’Interno, già consultati da Guido
Crainz, le carte adoperate sono quasi esclusivamente giudiziarie. Ciò sbilancia inevitabilmente
il racconto verso il rilievo penale dell’azione collettiva e le trame oscure della rivolta, senza aggiungere nulla di nuovo sul rapporto tra essa e la «strategia della tensione». Ne rimangono sacrificati spunti analitici interessanti sulle dinamiche territoriali e identitarie e sulla retorica populista che dominò l’evento (pp. 9, 34, 71, 79, 110), meritevoli di una più adeguata valorizzazione.
Luigi Ambrosi
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I LIBRI DEL 2007
Antonio D’Alessandri, Il pensiero e l’opera di Dora d’Istria fra Oriente europeo e Italia, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano – Gangemi, 334 pp., € 32,00
Dora d’Istria era lo pseudonimo col quale la principessa Elena Ghika (Bucarest 1828 - Firenze 1888), esponente di una famiglia di antica nobiltà albanese insediata sull’instabile trono
della Valacchia, e moglie separata di un aristocratico russo, firmò decine di saggi dedicati a tematiche molto eterogenee ma costantemente volti a mettere in contatto la cultura occidentale
con le «molteplici facce della cultura e della civilizzazione dell’Oriente europeo» (p. 11). Liquidata nel ’900 come ordinaria divulgatrice, rappresentò a tutti gli effetti una voce di straordinario interesse nell’ambito delle scritture femminili, della circolazione dei saperi e delle «amicizie
politiche» nell’Europa ottocentesca. La corposa biografia di D’Alessandri, esito di una ricerca di
dottorato svolta presso l’Università di Roma Tre, prende le mosse proprio dalle ragioni dell’oblio, mettendo peraltro in rilievo le oggettive asperità di un’indagine su fonti disseminate tra Romania, Russia, Francia e Italia. La narrazione si apre con le vicende della famiglia Ghika e dei
Principati danubiani al principio del XIX secolo, arrivando – attraverso l’isolamento patito da
Dora nella capitale dei Romanov – all’esordio della saggista, che molto dovette ai contatti con
personalità vicine al movimento filoromeno come Quinet, Valerio e De Gubernatis, e che pubblicò su riviste prestigiose come la «Revue des deux mondes» e la «Rivista internazionale».
Anticlericale e antisocialista, portavoce del conservatorismo delle élites balcaniche (ciò
che non le impedì di vagheggiare un confuso ideale di «agricoltura nazionale» a partire dallo
smantellamento dei patrimoni monastici), lettrice di Herder ma fautrice di un’idea di Europa radicata più fortemente nel secolo dei Lumi, Dora d’Istria scrisse della storia, della condizione socio-economica, delle tradizioni e del «genio» dei romeni, dei serbi e dei greci, il cui
patriottismo stentava a farsi apprezzare presso le potenze occidentali. Nel 1867 sollecitò Garibaldi a mobilitarsi per la liberazione di Creta; nello stesso anno, approdata a Venezia, tratteggiò suggestive analogie tra gli eredi dei Dogi e le aristocrazie di Valacchia. Nel decennio seguente contribuì all’«invenzione» dell’identità arbëresche e alla sua positiva accoglienza nella
cultura italiana. Si occupò anche di questione femminile, auspicando la riforma dei rapporti
matrimoniali come chiave di accesso delle donne dell’Europa centro-orientale ai movimenti
nazionali che si configuravano negli anni ’50 e ’60.
D’Alessandri ha ricomposto con notevole rigore filologico i numerosi tasselli di un percorso assai complesso, intrecciando in maniera estremamente proficua la narrazione biografica, lo scavo nelle carte private, l’analisi delle opere, la mappatura delle fonti, dei riferimenti
intertestuali e delle molteplici chiavi di lettura. Lo sforzo di esaustività e chiarezza – utile soprattutto per i lettori non particolarmente addentro alla storia romena e albanese – giustifica
ampiamente la presenza di alcune ripetizioni e un «montaggio» talvolta un po’ faticoso tra le
parti narrative e i paragrafi dedicati alle ampie analisi degli scritti.
Maria Pia Casalena
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I LIBRI DEL 2007
Claudia Dall’Osso, Voglia d’America. Il mito americano in Italia tra Otto e Novecento, Roma, Donzelli, V-137 pp., € 19,90
La costruzione del «mito americano» in Italia è tratteggiata in agilissimi capitoli rivolti a
ognuno dei suoi ingredienti originari: la speranza – o l’illusione – della «terra promessa» alimentata dalla traversata atlantica, vero e proprio rito di passaggio dal Vecchio al Nuovo mondo; la presunta virtuosità democratica dell’acceso individualismo americano, alla base di infinite opportunità di «fare fortuna»; l’immagine del progresso illimitato, simboleggiato dal
«moto perpetuo» della società americana, dalle continue innovazioni tecnologiche, dalle città
in perenne trasformazione. Codici di un’attraente modernità incarnata da due figure simbolo: la «donna nuova» e il miliardario, le cui vite diventano, per i lettori delle riviste italiane d’inizio ’900, una sorta di «romanzo d’appendice» a puntate (p. 119).
L’indagine muove infatti dalla tesi, sostanzialmente dimostrata, che in Italia il nucleo
dell’«americanismo», di un modello sociale e culturale di straordinario successo, non sia nato
negli anni ’20 come comunemente si pensa, bensì tra ’800 e ’900, per rimanere praticamente inalterato lungo tutto il XX secolo (p. 6). La ricerca si avvale di alcuni titoli della letteratura di viaggio dell’epoca, usciti dalla penna di emigranti «del piacere», e della stampa periodica italiana, in particolare della rivista popolare illustrata «La Domenica del Corriere», che nel
1900 inaugura la rubrica Americanate. Le fonti rivelano l’altro assunto dell’analisi: il mito
americano si alimenta delle rimesse degli emigranti «del bisogno», ma le idee e gli stereotipi
che lo sostanziano raccontano del complesso tentativo delle classi colte italiane di elaborare,
per se stesse e il nuovo pubblico di lettori, l’incipiente modernizzazione della penisola attraverso il confronto con la realtà americana. Il ritratto italiano dell’America nel primo ’900 è
quindi il prodotto di molteplici negoziazioni e mediazioni, tra mito e realtà – soprattutto riguardo alle condizioni degli emigrati – e tra fascino e repulsa, tra desiderio di emulazione e rivendicato primato civile dell’Italia, ricondotto a un più equilibrato rapporto tra innovazione
e tradizione. Il compromesso prende forma in uno dei più fortunati stereotipi italiani sull’America, raffigurato come paese «eccentrico», «stravagante», la cui eccezionalità seduce e conquista ma al tempo stesso permette di salvaguardare una presunta alterità culturale. I tanti
aneddoti sulla società statunitense intorno ai quali si organizza l’immagine italiana dell’America a tratti seducono anche l’a., che nell’analisi si affida molto alla loro intrinseca pregnanza,
col rischio, accresciuto dal ricorso a una bibliografia davvero essenziale, di negarle la giusta
complessità e profondità. Un rischio comunque scongiurato da un’impostazione di fondo del
tutto condivisibile, che legge la «colonizzazione culturale» dell’Italia (p. 4), l’«americanizzazione» del costume non come «imposizione», ma come un processo di adattamento e traduzione che implica rapporti di reciprocità e dà vita a una «declinazione italiana» del modello
americano (p. 21).
Catia Papa
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I LIBRI DEL 2007
Fabrice D’Almeida, La politique au naturel. Comportement des hommes politiques et representations publiques en France et en Italie du XIXe au XXIe siècle, Rome, École Française de Rome, IX-525 pp., € 64,00
L’ampia ricerca di Fabrice d’Almeida, specialista di storia della comunicazione politica nel
XX secolo, intende ricostruire i comportamenti pubblici dei politici e le loro rappresentazioni in una dimensione comparata – Italia e Francia – e di lungo periodo – dall’800 fino ai nostri giorni. Assunto dell’a. è che nel periodo considerato venga messa in atto una «naturalizzazione della politica», per la quale «i candidati sono ormai valutati seguendo dei criteri come
la loro sagacia, la loro intelligenza potenziale, la loro bellezza, la potenza del loro corpo, la loro età o il loro peso, alla stessa maniera in cui si valutano i cani di combattimento o i galli nei
recinti clandestini presenti a Bali o altrove» (p. 3). Al riguardo, precisa l’a., «questo mito della naturalezza al servizio della politica garantiva la superiorità di questa attività su tutte le altre» (p. 4); si sarebbe così prodotto un processo di «naturalizzazione» (una delle molteplici accezioni che assume questo termine nell’età contemporanea di cui rende conto l’a.) del corpo
dei politici, nel quale «la dignità diventa la nozione chiave del comportamento» (p. 4). Un
corpo e dei comportamenti declinati quasi esclusivamente al maschile, per la ristretta presenza femminile nella politica, ma che sarebbe utile indagare maggiormente in una dimensione
di genere, visti gli spunti interessanti presenti nella conclusione (pp. 471-472).
Strumenti della rappresentazione dei politici sono le fonti iconografiche classiche, quali le incisioni, i disegni, i dipinti, ma soprattutto, nel XX secolo, i ritratti fotografici e le fotografie che
riproducono i loro comportamenti, filmati, reportages di viaggi o visite pubbliche, fino alle immagini prese dai cittadini comuni. Si tratta di un patrimonio documentario assai ricco e diversificato nei due paesi, anche per la possibilità di accesso e la sensibilità pubblica mostrata per la sua conservazione; per limitarci a pochi esempi, l’Agence France Presse, che apre generosamente i propri
archivi ai ricercatori, e l’Institut National de l’Audiovisuel (INA) sono senza uguali in Italia.
Questo ampio e complesso materiale è organizzato in tre parti al fine di illustrare «la trasformazione dei comportamenti, dalla gravità e dalla dignità verso nuovi atteggiamenti intrisi di rilassamento e di naturalezza» (p. 7). La prima sezione si propone di ricostruire lo sviluppo delle liturgie politiche sia in Italia che in Francia, fino alla metà del XX secolo, momento
nel quale secondo d’Almeida perde importanza il trittico gravità-autorità-dignità che struttura le figure che sono fino ad allora oggetto di religione civile. Viene sostituito poco a poco, già
a partire dalla prima guerra mondiale, dalla «generalizzazione del sorriso», imperante dopo il
secondo conflitto mondiale, che accompagna «una modalità intermedia di messa in scena della politica: il passaggio dall’autorità alla seduzione» (p. 15). La terza parte è dedicata alla «finzione del naturale», in cui prende spazio tutto il ventaglio delle emozioni «naturali», dal riso
al pianto, amplificate dall’uso predominante del mezzo televisivo.
Valeria Galimi
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I LIBRI DEL 2007
William Dalrymple, L’assedio di Delhi, 1857. Lo scontro finale fra l’ultima dinastia Moghul
e l’impero britannico, Milano, Rizzoli, 553 pp., € 25,00 (ed. or. London, 2006)
William Dalrymple, giornalista e scrittore, noto soprattutto per i suoi libri di viaggio dedicati alla realtà dell’India contemporanea, affronta in quest’opera un episodio controverso
della storia del subcontinente: la rivolta del 1857, di volta in volta descritta dagli storici, come «Mutiny», «Rebellion», «Uprising» o «War of Independence».
Per analizzare questo evento Dalrymple sceglie una prospettiva particolare: quella che pone al centro dell’indagine la città di Delhi e la corte Moghul. Egli ci guida in un’appassionata e, in un certo senso, nostalgica ricostruzione della corte di Delhi alla metà dell’800 – una
corte ormai privata di ogni reale potere ma, nonostante questo, capace di dare vita ad una ricca e raffinata rinascita culturale. Si tratta di un ambiente tollerante e aperto, fucina di una
creativa mescolanza di religioni, lingue e culture, in stridente contrasto con la progressiva
chiusura su posizioni arroganti, rigide ed aggressive degli inglesi in India. È proprio questa
progressiva chiusura «imperialistica» che viene descritta da Dalrymple come causa principale
del distacco tra gli inglesi e la popolazione locale e, quindi, dell’ammutinamento dei soldati
indiani della Compagnia delle Indie. L’arrivo improvviso dei soldati ammutinati sconvolge la
corte di Delhi e la vita dell’ottantaduenne poeta, calligrafo e mecenate Bahadur Shah II, detto Zafar («vittoria»), ultimo degli imperatori Moghul.
Dalrymple narra gli eventi giorno per giorno, ricostruisce le vicende di singoli individui
negli opposti schieramenti e, attraverso questa analisi minuziosa, tenta di rispondere alla questione della «natura» della rivolta aggiornando il punto di vista nel corso dello svolgimento.
Possiamo così seguirlo nello sviluppo di un evento che, iniziato come ribellione dei soldati
della Compagnia delle Indie, acquista un valore più ampio grazie al tacito appoggio dell’imperatore Moghul, ormai privo di reale potere ma ancora importante simbolo di sovranità nell’immaginario indiano. Dalrymple rifiuta, per quanto riguarda la città di Delhi, la categoria
di «insurrezione popolare»: i soldati ammutinati, per lo più provenienti dalle regioni degli attuali Bihar e Uttar Pradesh orientale, sono qui considerati come stranieri. Egli segue l’acutizzarsi dei conflitti tra i soldati e la popolazione locale via via che la crisi «logistica» si approfondisce e la mancanza di cibo si fa pressante. Acquista, poi, sempre maggiore rilevanza il fattore religioso con il graduale ritiro da Delhi dei soldati ammutinati sostituiti da jihadisti che
combattono in difesa di una presunta purezza religiosa islamica. La descrizione delle violenze
inglesi e della distruzione della città dopo la riconquista, completa il quadro degli effetti deleteri degli opposti integralismi religiosi e culturali.
Notevole merito dell’opera è l’uso sistematico delle fonti in urdu: petizioni, appelli, ordini, rapporti di spie, disponibili presso l’Archivio nazionale indiano di Nuova Delhi ma poco
utilizzate fino ad ora, nonché fonti letterarie, poesia, corrispondenza, diari e giornali locali.
Rita Paolini
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I LIBRI DEL 2007
Francesco Dandolo, Andrea Baldoni, Sudindustria. Prospettive imprenditoriali e scenari per
lo sviluppo economico del Mezzogiorno (1947-1956), Napoli, Guida, 444 pp., € 35,00
Doveva essere lo strumento operativo dell’attività di analisi e di ricerca sul territorio condotta dalla Svimez la costituzione della Società per l’Industrializzazione delle Regioni Meridionali (Sudindustria); una società per azioni, sorta nel luglio 1947 con un capitale sociale di
2.000.000 di lire diviso in 2.000 azioni di 1.000 lire ciascuna e con sede nella capitale. Nella
ideazione dei suoi promotori, Sudindustria aveva lo scopo di incoraggiare iniziative di carattere
industriale, tecnico, sperimentale, atte a sviluppare l’industrializzazione delle regioni meridionali e delle isole attraverso la costituzione di centri di sperimentazione e impianti industriali, la predisposizione di progetti di impianti possibilmente poco presenti sul territorio nazionale, la promozione di accordi internazionali al fine di sviluppare l’attività tecnica e commerciale dell’industria meridionale, nonché fare opera nei confronti del governo perché fossero rimossi gli ostacoli che si frapponevano allo sviluppo di tali iniziative. Essa, in sostanza, si inseriva pienamente nel
dibattito del «Nuovo Meridionalismo» che nell’immediato dopoguerra interessò il Mezzogiorno e il processo del suo sviluppo economico con lo scopo di dare concreta attuazione a quanto
veniva teorizzato e indagato dalla Svimez. Il Consiglio di amministrazione di Sudindustria, presieduto da Rodolfo Morandi, Ministro per l’Industria e il Commercio, era composto dai vicepresidenti Giuseppe Cenzato (SME) e Giuseppe Paratore (IRI), e tra gli altri da Donato Menichella (Banca d’Italia), Stefano Siglienti (IMI), Cesare Riccardi (Banco di Napoli), Vincenzo
Bruno, Pietro Frasca Polara, Giuseppe Lauro,Vincenzo Caglioti, Francesco Giordani, Pasquale
Saraceno. La Legge n. 1558 del dicembre 1947 sembrò dare alla Società impulso e vigore nell’ambito della collaborazione con la sezione del Credito Industriale del Banco di Napoli nella ripartizione dei finanziamenti statali concessi per l’industrializzazione del Mezzogiorno. Man mano però che si andavano definendo ruoli e funzioni di enti e istituti di credito, e, soprattutto con
l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, la stessa natura di Sudindustria si venne svuotando
delle funzioni e degli scopi per cui era stata costituita, tanto da essere messa nel 1956 definitivamente in liquidazione. Ma il suo declino era già apparso nel luglio 1950, quando fu abolito il
Consiglio di amministrazione per affidare la gestione ad un amministratore unico.
Dandolo e Baldoni ricostruiscono in questo volume rispettivamente la parabola di Sudindustria e sugli studi di settore compiuti dalla Società per l’accesso ai finanziamenti del credito industriale del Banco di Napoli. È una lettura tutta interna alle vicende della Società, che
forse avrebbero avuto maggiore respiro se rapportate ai processi che maturarono nel Mezzogiorno e nel paese tra il 1947 e il 1956, periodo in cui si delinearono conflittualità e divaricazioni, ma anche ricomposizioni tra mondo politico e mondo industriale sul modo di concepire lo sviluppo economico italiano, di cui l’industrializzazione del Mezzogiorno era una questione centrale.
Carmelo Pasimeni
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I LIBRI DEL 2007
Lucio D’Angelo, Il radicalismo sociale di Romolo Murri (1912-1920), Milano, FrancoAngeli, 171 pp., € 18,00
Gli storici che si sono soffermati sulla figura di Romolo Murri hanno concentrato la loro attenzione sui primi anni della sua azione politica, quando, partendo da una formazione
intransigente, intese aprirsi al mondo contemporaneo; il sacerdote seppe infatti mettere in relazione la democrazia e il cristianesimo, e prospettare una profonda trasformazione della cultura politica del nostro paese. Meno studiati risultano gli anni della sua militanza nel Partito
radicale, lacuna colmata ora dall’interessante lavoro di D’Angelo, che ha approfondito il periodo successivo al 1909, la fase interventista fino all’adesione al fascismo.
Molti sono gli elementi comuni che si trovano nel pensiero di Murri del periodo della
Democrazia cristiana e nel Murri radicale, ma molte sono anche le differenze che emergono
da un’analisi degli scritti. Innanzi tutto il pensatore, che all’inizio del ’900 prospettava la necessità di fondare un partito democratico e cristiano, e dunque non scevro da un côté confessionale, dopo le sue disavventure con la Chiesa di Roma elaborava una reazione alle ingerenze vaticane sulla politica italiana, facendo della laicità un valore dello Stato moderno. L’ex sacerdote, come sottolinea D’Angelo, mosse severe critiche all’Istituzione ecclesiastica «per essere venuta meno alla sua missione esclusivamente spirituale e al cattolicesimo organizzato italiano per le sue degenerazioni clericali e antidemocratiche», ma ciò non significò mai una negazione di Dio perché «nel suo concetto di laicità non trovava accoglienza nessuna forma di
avversione nei riguardi della religione» (pp. 17-18). Murri era approdato a quell’idea di separazione tra la sfera politica e quella religiosa classica del pensiero cattolico liberale ottocentesco, che la riflessione modernista aveva ripreso e riproposto.
Il Partito radicale, a suo parere, non doveva limitarsi a propugnare la necessità di far dell’Italia una democrazia laica, ma doveva interpretare le trasformazioni sociali del periodo giolittiano ed elaborare un progetto definito di «radicalismo sociale». La prospettiva doveva essere quella di una alleanza di tutte le forze della sinistra riformista per giungere alla laicizzazione dello Stato, a rendere pienamente democratico l’apparato statale attraverso il decentramento amministrativo e la difesa delle autonomie locali e a sanare le evidenti condizioni di disuguaglianza sociale.
La decisione di lasciare i suoi amici radicali alla fine del 1919, spinse l’uomo politico, che
si era già fatto attirare dalla sirena interventista, nel 1921 ad avvicinarsi al fascismo: è chiaro
che in questo caso Murri, nota D’Angelo, non seppe cogliere «l’impronta eversiva e reazionaria, la matrice di classe, il carattere demagogico, l’indole profondamente antidemocratica, lo
spirito violento, autoritario e liberticida, la tracotante intolleranza e la pericolosa propensione a un nazionalismo becero, vanaglorioso e aggressivo» (p. 58). Murri, dunque, come molti
altri del suo tempo equivocò i reali caratteri del fascismo e da protagonista coraggioso del primo ’900 si trasformò in fedele propagandista dei miti del duce.
Daniela Saresella
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I LIBRI DEL 2007
Giovanna De Angelis, Le donne e la Shoah, Prefazione di Anna Foa, Roma, Avagliano,
176 pp., € 13,00
La riflessione che il libro di Giovanna De Angelis propone al lettore affronta un tema su
cui, da qualche tempo, è presente un fitto dibattito storiografico relativo a come e cosa si dicono la Memoria e la Storia quando s’incontrano. L’a. concentra il suo studio sulla Shoah partendo da una prospettiva propria dei gender studies che complica il quadro della discussione
immettendo nel libro la ferita di genere come specifica pista di ricerca e di interpretazione. De
Angelis parte dalla realtà dei ghetti polacchi, per definire il ruolo della donna all’interno di
queste «realtà concentrazionarie», in cui, accanto alla riproposizione dei ruoli muliebri e materni tradizionalmente attribuiti alla femminilità, si riformulano diversamente i confini di genere dopo la perdita degli affetti biologico-familiari e delle identità a questi legati. Le forme
della soggettività letteraria prendono corpo nella seconda sezione, che avvia un’analisi puntuale su alcuni testi che cercano di raccontare una realtà e un’esperienza difficilmente restituibili alla parola. Etty Hillesum, Gertrud Kolmar, Liliana Segre, Giuliana Tedeschi vengono raccontate dall’a. in una duplice ottica: da un lato come testimoni dell’orrore, dall’altro come
donne che narrano la propria «acquisizione del sé» nello spazio simbolico e concreto dell’universo concentrazionario. Osservando le proprie compagne del campo di Westerbork, nelle pagine del suo diario, Hillesum, per esempio, riversa non solo pensieri sull’esperienza coattiva
del campo, ma si concede anche uno spazio intimo e conoscitivo che la porta a riflettere filosoficamente sui diversi modi di concepire l’amore nell’uomo e nella donna, sul perché «la donna cerca l’uomo e non l’umanità», fino ad arrivare alla conclusione che «siamo legate e costrette da tradizioni secolari. Dobbiamo ancora nascere come persone» (p. 77). Hillesum cerca una
lingua che «ospiti» il proprio vissuto, cerca, con le altre sue compagne, di creare una rete affettiva e solidale da contrapporre alle umiliazioni, fisiche e psicologiche, di tutti i giorni. Ricerca che nella prosa di Edith Bruck – a cui la studiosa dedica la parte finale del libro – viene
abbandonata, insieme alla sua lingua madre – l’ungherese – in favore dell’italiano, aderendo,
con questa opzione linguistica, al suo viversi sopravvissuta a un’esperienza che non concede
patria né lingua ma la sola condizione dell’essere apolide senza attese di riscatto. La scrittura
della Bruck esclude forme consolatorie dell’esistere «dopo» la Shoah e assume l’esperienza concentrazionaria come dolore perpetuo e solitario perché la solidarietà, umana e di genere, non
esisteva, anzi, come lei stessa scrive, «nei campi, le donne si comportavano assai peggio degli
uomini» (p. 151). Il libro si chiude su questa figura di donna, di scrittrice, di testimone di un
evento davanti al quale la parola e la scrittura sembrano balbettare. Proprio perciò il pregio
del libro sta sul confine tra detto e indicibile: istituire una soglia d’ingresso per accedere a un
mondo sommerso.
Elena Mazzini
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I LIBRI DEL 2007
Alberto De Bernardi, Discorso sull’antifascismo, a cura di Andrea Rapini, Milano, Bruno
Mondadori, 233 pp., € 20,00
Nella discussione sullo statuto etico-politico dell’antifascismo De Bernardi si è segnalato
già in passato per una posizione peculiare: per nulla indulgente verso il proposito di espungere l’antifascismo dal corpus dei valori della democrazia contemporanea, si è però mostrato non
meno reattivo a quei discorsi che, nell’opporsi alla vague post-antifascista, gli parevano scansare il dovere scientifico di sottoporre a un radicale riesame l’esperienza storica dell’antifascismo fra le due guerre e la lettura che la cultura antifascista ne ha successivamente proposto.
Proprio l’esigenza di una tale revisione è il filo conduttore del libro-conversazione con Andrea
Rapini, che appare così come un abbozzo di quella che potrebbe dirsi, per distinguerla dalla
polemica anti-antifascista, una critica antifascista dell’antifascismo.
La tesi di fondo è che l’antifascismo «si è configurato come il campo intellettuale, morale e
politico all’interno del quale si venne costruendo il più grande sforzo di ridefinizione della democrazia in Europa» (p. 166), basato sulla riprogettazione della cittadinanza e sulla contaminazione «tra Stato di diritto e liberazione del lavoro» (p. 113): ma non si trattò di un processo lineare, perché, considerato nella sua dimensione italiana, l’antifascismo stentò ad assumere quella prospettiva, mentre la democrazia europea a lungo coltivò la speranza di una «coesistenza pacifica» con il fascismo; inoltre, date le concezioni comuniste in tema di democrazia, nell’antifascismo «erano iscritti potenzialmente sia il destino democratico dell’Europa occidentale sia la soluzione autoritaria delle democrazie popolari» (p. 165). Nel suo excursus De Bernardi si ferma
soprattutto sui ritardi intellettuali, sulle incongruenze politiche, sull’incompiutezza democratica delle correnti antifasciste. Per quanto riguarda gli oppositori italiani del fascismo insiste sulle
conseguenze negative della loro incomprensione della natura del regime e della crisi della democrazia europea: la nostalgia dello Stato liberale, il primato assegnato alla rigenerazione morale o
l’invocazione del comunismo come sola alternativa al fascismo, che a lungo occuparono l’orizzonte degli antifascisti, indicano come questi, ognuno per vizi propri, abbiano tardato a portarsi sul piano della riqualificazione della democrazia. Esiziale fu soprattutto la dissociazione tra antifascismo e antitotalitarismo, che impedì al primo di risolversi senza residui in un’affermazione
di democrazia. Proprio in ragione dell’ipoteca costituita dal mito della dittatura proletaria, l’apporto comunista alla costruzione del progetto antifascista fu, per De Bernardi, pressoché nullo,
e fino alla Resistenza ci fu, a rigore, sostanziale estraneità tra comunismo e antifascismo.
La tesi di Furet sulla filiazione dell’antifascismo dall’universo comunista è così rovesciata. Si resta però con l’impressione che una certa idea di ciò che l’antifascismo avrebbe dovuto
essere e che solo post festum riuscì ad essere, e nemmeno compiutamente – una nuova e più
larga democrazia –, si sovrapponga al concreto svolgimento storico dell’antifascismo, con tutte le aporie, le contraddizioni e le mutazioni della sua materialissima realtà.
Leonardo Rapone
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I LIBRI DEL 2007
Michel de Certeau, La presa di parola e altri scritti politici, Roma, Meltemi, 239 pp., €
19,50 (ed. or. Paris, 1994)
La presa di parola, rimasta finora inedita in italiano, raccoglie scritti pubblicati da Michel
de Certeau (1925-1986) tra la fine degli anni ’60 e il 1985, e appartiene al periodo più fecondo della sua attività intellettuale. Si tratta di una edizione accresciuta che conta su una indispensabile Introduzione di Luce Giard, curatrice di tutta l’opera certiana. Il libro uscì nel settembre 1968: un centinaio di pagine sul maggio francese scritte da un testimone eccezionalmente attento a registrare che in quel contesto stava infatti emergendo «un tipo di comunicazione nuovo e diverso». Protagonista della prima parte è infatti l’utilizzazione creativa delle
parole, con esempi folgoranti come quello sulla négritude e sul rapporto tra oralità e scrittura,
un tema prediletto da Certeau. L’uso innovativo del linguaggio viene analizzato nella consapevolezza dei limiti che l’hanno caratterizzato: «la sua fragilità – scrive – è quella di esprimersi solo contestando, di testimoniare solo per via negativa» (p. 38). Già alla fine di giugno, alle parole si sostituiscono gli scritti, e fiorisce una pubblicistica immensa: «il successo del libro
è il ritorno all’ordine» (p. 71). Ma non si trattò di un ritorno al passato; nelle forme della comunicazione, nella rappresentazione del potere, il terremoto ci fu; e i suoi effetti, pur nell’avvenuta restaurazione politica, si fecero sentire a lungo. Tra questi emergono la crisi dei saperi
tradizionali e la fine dell’intellettuale impegnato à la Sartre; da allora non hanno cessato di costituire oggetto di turbamento. Per finire, una preziosa guida bibliografica ragionata.
Le altre sezioni del libro sono dedicate rispettivamente al risveglio politico dell’America
latina, che Certeau conosceva e avrebbe continuato a frequentare a lungo (pagine importanti sono dedicate alla tortura e alle «mistiche violente»); alla comunicazione e ai suoi risvolti
squisitamente politici (costituiti dalle reti sociali, dalle pratiche di appropriazione, e dai mediatori); e infine alle Economie etniche. In alcuni capitoli scritti nel 1983, al centro della comunicazione contemporanea è posto l’immigrato: «colui che mette alla prova la nostra società,
dato che è dalla capacità di rispettare ciò che non segue le proprie regole e le proprie tradizioni che si giudicano la tolleranza e l’apertura di una società» (p. 184). Contrario a ogni tentazione assimilatrice, Certeau propone nei confronti degli immigrati di «inventare» insieme a
loro una «cultura al plurale» (titolo di un suo libro del 1974 ancora inedito in Italia). La presa di parola costituisce infatti un’occasione per riflettere sui mutamenti del significato della
parola «cultura»: «un concetto molle, utilizzabile per qualsiasi scopo, insieme necessario (per
il problema che affronta) e ingannevole (perché non dice più niente di preciso» (p. 99). Quando si parla di «ritorno dell’evento» in storia, di «svolta linguistica», di «nuova storia culturale», sarebbe opportuno considerare questo libro come un riferimento indispensabile.
Paola Di Cori
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I LIBRI DEL 2007
Attilio De Gasperis, Roberta Ferrazaza (a cura di), Gli italiani di Istanbul. Figure, comunità, istituzioni dalle riforme alla repubblica 1839-1923, Torino, Centro Altreitalie - Fondazione Giovanni Agnelli, XII-427 pp., € 36,00
Sono gli atti del convegno «Gli italiani di Istanbul e la Società Operaia Italiana di Mutuo
Soccorso, nucleo rappresentativo della comunità. Dalle riforme ottocentesche (Tanzimar) alla Repubblica Turca (1839-1923)», svoltosi a Istambul dal 18 al 20 ottobre 2006 e organizzato dall’Istituto italiano di cultura. Gli interventi dei numerosi studiosi – italiani e turchi – sono affiancati da contributi e testimonianze di discendenti di antiche famiglie levantine e di
personaggi storici di spicco in entrambe le comunità.
Il volume risulta diviso in quattro parti: nascita e sviluppo della comunità italiana; le sue
istituzioni, specie a carattere filantropico; l’apporto di viaggiatori, scrittori e musicisti al rinnovamento culturale della società turca; i rapporti diplomatici e militari. Tutte scelte, queste, che
denotano una netta predilezione per le tematiche politico-culturali e lasciano sullo sfondo la
composizione socio-demografica dei flussi e il loro dispiegarsi nel tempo. Si accenna quindi solo di sfuggita ad antichi insediamenti genovesi esistenti fin dal Medio Evo, concentrati nel quartiere multietnico di Galata e in altre città dell’Impero come Edirne, Smirne, Damasco.
A questa impostazione è del resto dovuta la scelta del terminus a quo; ai primi decenni
dell’800 risale infatti l’esordio di una cospicua immigrazione politica, incalzata dagli sconvolgimenti dell’epoca – guerre napoleoniche, rivoluzione partenopea, moti indipendentisti degli
anni ’20 e oltre. Con qualche excursus nei decenni precedenti, quando avevano soggiornato a
Costantinopoli musicisti come Donizetti, pittori e altri artisti. Nel XIX secolo l’italiano era
una lingua franca diffusa quanto il turco, poi soppiantata dal francese.
Alla metà del secolo la città fu conquistata dall’ondata modernizzatrice europea e divenne, al contempo, uno degli avamposti del fuoriuscitismo risorgimentale. Vi si dettero convegno Garibaldi, il mazziniano Adriano Lemmi, Mauro Macchi e tanti altri, e videro la luce la
Loggia massonica Italia, di obbedienza del Grande Oriente Italiano, e la Società Italiana di
M.S. presieduta da Mazzini, che contribuì al rinnovamento delle istituzioni e della società ottomana ed ebbe al suo attivo una sezione femminile. Dopo l’unificazione italiana, l’Impero
turco entrò per breve tempo nel novero delle mete migratorie; professionisti e artigiani, specie operai e capomastri, dettero il loro apporto alla crescita urbanistica, e talvolta ne furono
ripagati. Ai primi del ’900, rispetto ai 130.000 stranieri, la comunità italiana di Istambul contava 7.000 persone, gruppi più sparuti risiedevano in altre città, ma si trattava comunque di
una presenza minoritaria. Destinata inesorabilmente ad assottigliarsi, parte preferì rimpatriare e parte si spostò verso le mete canoniche del grande esodo transoceanico.
Conclude questo interessante volume una ricognizione delle fonti documentarie per la storia dei rapporti italo-turchi conservate nell’Archivio storico del nostro Ministero degli Esteri.
Andreina De Clementi
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I LIBRI DEL 2007
Massimo De Giuseppe, Messico 1900-1930. Stato, Chiesa e popolo indigeni, Prefazione di
Giorgio Vecchio, Brescia, Morcelliana, 512 pp., € 35,00
Ripercorrere il complesso processo di definizione dei rapporti fra Stato, Chiesa e nazione
messicana nelle prime decadi del XX secolo assumendo come filo conduttore la questione indigena, questo l’obiettivo del denso volume di Massimo De Giuseppe, che arricchisce in modo significativo la conoscenza di una stagione decisiva nella formazione della contemporaneità
messicana: quella che dall’epoca del «porfiriato» (1876-1910), un periodo di pacificazione nazionale dopo i sessant’anni di dispute violente aperte della stagione indipendentista, attraversa gli eventi rivoluzionari (1910-1917) per approdare quindi alla difficile fase postrivoluzionaria, in cui più chiaro apparve il tentativo dello Stato di portare avanti il processo di modernizzazione politico-economico-sociale e di consolidamento della nazione, ma in cui più alto
apparve d’altra parte anche il livello di scontro, radicalismo e frammentazione fra le varie «anime» della nazione culminato nelle vicende del triennio della cristiada (1926-1929). Integrando gli studi disponibili sulle complesse dinamiche della costruzione della nazione, sui problemi dello Stato federale e sulla storia della Chiesa messicana con un ricco materiale documentario conservato in archivi ancora poco esplorati, l’a. sviluppa dunque un’articolata analisi storica del rapporto fra Stato, Chiesa e mondo indigeno, con i suoi tempi diversi, la sua multiforme religiosità, le sue tecniche di adattamento e resistenza, la sua pluriculturalità; un’analisi
nella quale emerge a più riprese come protagonista quel «Messico profondo» con cui devono
misurarsi sia una Chiesa che cerca di ridefinire la propria funzione e la propria presenza sul
fronte sociale e missionario, sia una leadership politica postrivoluzionaria che cerca una propria legittimazione nella costruzione di un’ideale identità mestiza e nell’inserimento della questione indigena nei miti fondanti dell’identità nazionale. Offrendo un significativo spaccato
di circa un trentennio di storia messicana, l’a. rilegge così le vicende del complesso processo
di costruzione nazionale e della contrapposizione fra Stato e Chiesa adottando come prospettiva privilegiata la questione indigena e la connessa «rincorsa» alla scoperta della pluriculturalità della nazione sia da parte di una nuova leva di agenti missionari, sia da parte del personale dei nuovi apparati educativo-incorporativi creati dallo Stato federale per il controllo culturale e sociale di tanta parte della popolazione rurale. In questa prospettiva vengono quindi sottolineati ed efficacemente documentati, da una parte, i tentativi di «messicanizzazione» dei
principi della Rerum novarum ed i rinnovati sforzi di incontro e rievangelizzazione compiuti
da diversi ordini religiosi, dall’altra la mobilitazione e le strategie dispiegate dalle istituzioni
del Messico postrivoluzionario per «raggiungere» le periferie e superare, attraverso l’educazione, le resistenze opposte al consolidamento di una solida identità nazionale dal riemergere, in
tutte le sue potenzialità, dell’articolazione regionale, temporale, culturale e religiosa di un paese particolarmente complesso.
Silvia Scatena
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I LIBRI DEL 2007
Ilaria Del Biondo, L’Europa possibile. La CGT e la CGIL di fronte al processo di integrazione europea (1957-1973), Roma, Ediesse, 309 pp., € 15,00
L’a. è ricercatrice presso la Fondazione Di Vittorio e presenta con questo libro un approfondimento della sua tesi di dottorato in Storia del movimento sindacale. Prendendo le
mosse dagli effetti dell’ERP sul movimento sindacale europeo – la fine dell’unità sindacale
conseguente alla promozione del modello di relazioni industriali fondato sulla politics of productivity –, il rapporto tra le due centrali sindacali e l’integrazione europea è qui scandito in
tre grandi fasi. Nella prima, 1950-1957, prevalendo la logica dei blocchi e assumendo la costruzione europea valenze strategico-militari, le due confederazioni conversero su una linea di
netta opposizione all’integrazione. Nella seconda, 1957-1967, con l’avvio di una nuova fase
dell’integrazione e nel quadro di una ridefinizione della propria azione a livello nazionale, la
CGIL impostò una revisione delle proprie posizioni, aprendo all’integrazione come «necessità
oggettiva» che, pur con molteplici rischi, poteva, a condizione di coinvolgervi le classi lavoratrici, dischiudere prospettive di crescita e rispondere alle questioni poste dall’ampliamento dei
mercati e dal progresso tecnologico. A fronte di questo sviluppo, in cui giocò un ruolo importante la componente socialista, la CGT restò invece attestata su posizioni di rifiuto. Il dibattito tra le due linee avvenne, aspro, in seno alla Federazione sindacale mondiale (FSM). Con
l’acuirsi del contrasto sino-sovietico e col mutare di scenari nella politica interna francese, il
clima divenne più consono alla ricerca di un compromesso. Così nel 1965 si costituì il Comitato permanente tra CGIL-CGT, col fine di promuoverne l’inserimento nelle istituzioni europee e di sviluppare lotte comuni transnazionali. La terza fase, 1967-1973, contrassegnata
dalla crisi del modo di produzione fordista, vide la definitiva rottura tra le due confederazioni, causata dalle divergenti risposte alla ripresa del conflitto sociale: da un lato la CGIL premeva sui temi dell’unità sindacale e dell’autonomia e, dopo un primo momento, riuscì ad entrare in sintonia con le nuove istanze portate dai movimenti; dall’altro la CGT rimase invece
diffidente verso i «faux révolutionnaires». La rottura si giocò anche sul terreno europeo, con
la fine, nel 1974, dell’esperienza del Comitato permanente, pochi mesi dopo l’ingresso della
CGIL nella Confederazione europea dei sindacati (la CGT vi sarebbe entrata nel 1999).
Il volume, che si basa sui fondi archivistici della CGIL, dell’Istituto Gramsci e della CGT,
copre un duplice vuoto storiografico: nella storia comparata dei movimenti sindacali, dove
scarseggiano studi sui paesi «latini», e nella storia dell’integrazione europea, dove sono stati
studiati, in un’ottica generalmente nazionale, soprattutto i sindacati schierati fin dall’inizio a
favore della creazione delle Comunità. La forza del libro sta nel riuscire ad ancorare le vicende esaminate all’interno del quadro definito dall’evoluzione interna dei due paesi e dagli sviluppi internazionali, in maniera chiara (anche se la narrazione tende a divagare un po’ nelle
parti dedicate al confronto nella FSM) e con un sapiente uso della storiografia esistente.
Francesco Petrini
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I LIBRI DEL 2007
Angelo Del Boca, A un passo dalla forca, Milano, Baldini Castaldi Dalai, 291 pp., € 17,50
«Conoscevo molto bene […] attraverso i documenti dei nostri archivi le vicende di Mohamed Fekini e della sua famiglia […] ma ciò che mi fece accettare con entusiasmo l’offerta del
nipote dell’irriducibile guerriero, era la possibilità veramente unica di poter aggiungere alla
già ricca documentazione italiana quella araba [...]. Per la prima volta, a uno storico italiano,
si prospettava l’occasione di studiare il pensiero, i sentimenti, le passioni, le aspirazioni degli
“altri”, e nello stesso tempo di mettere a confronto le due versioni dei fatti» (pp. 11-12). Così Angelo Del Boca, uno dei maggiori e più noti storici del colonialismo, introduce, nella Premessa al volume che recensiamo, la sua dettagliata ricostruzione delle vicende dell’occupazione italiana della Libia, condotta attraverso le memorie, le lettere, le fotografie dell’archivio personale di uno dei più tenaci combattenti e importanti notabili libici.
Mohamed Fekini fu infatti uno dei maggiori protagonisti della guerra di resistenza contro il colonialismo già a partire dall’ottobre 1911, quando la flotta italiana attaccò la Tripoli
ottomana, ma fu anche uomo politico di spicco fino al giorno della sua morte, ora corteggiato, ora aspramente avversato, sia dai rappresentati del governo coloniale che dai capi delle cabile libiche.
Attraverso il suo consueto stile narrativo, quasi una cronaca, Del Boca ripercorre in queste pagine circa quaranta anni della maturità di Fekini, mettendo in luce non solo il suo impegno nella resistenza armata contro l’invasore ma anche, per esempio, il suo apprezzamento
per il tentativo di mediazione dimostrato dagli italiani con la concessione degli Statuti nel
1919 (che, però, rimasero lettera morta), per arrivare alle difficoltà dell’era fascista con l’inaccettabile e spietata politica di riconquista, portata avanti da Badoglio e da Graziani, che lo portarono alla rovina e alla fuga, prima in Algeria e poi in Tunisia, luogo del suo esilio e della sua
morte. Nel 1950 infatti, all’età di 92 anni, Fekini lascerà definitivamente i pochi familiari sopravvissuti alle battaglie, alla povertà, agli stenti patiti nel deserto, non senza essersi adoperato fino all’ultimo per la libertà e l’indipendenza della Libia, raggiunta appena un anno e mezzo prima.
Rivolto al grande pubblico, il volume è di indubbia rilevanza per il suo contributo alla ricostruzione storiografica e, soprattutto, per l’intenzione di dare finalmente voce agli «altri» e al
loro punto di vista; tuttavia il testo traccia un quadro del colonialismo che rimane prevalentemente incentrato sulle vicende militari e politiche in cui fu coinvolto Fekini, dalle quali non
moltissimo traspare di quei pensieri e di quei sentimenti dei colonizzati che lo stesso Del Boca,
nella Premessa, si era promesso di indagare. Ma proprio nelle memorie del personaggio «non c’è
[…] molto spazio per i sentimenti, che non siano quelli legati al coraggio, alla nobiltà d’animo,
al disprezzo per chi tradisce o per chi non mantiene la parola» (p. 214). Peccato.
Giulietta Stefani
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I LIBRI DEL 2007
Davide Delbono, L’espansione europea in Africa e le prime voci critiche sul colonialismo. Edmund Dene Morel (1873-1924), Torino, L’Harmattan Italia, 234 pp., € 33,50
Il lavoro di Davide Delbono, studente del Dottorato di Ricerca su Istituzioni, idee, movimenti politici nell’Europa contemporanea dell’Università di Pavia, riprende la sua tesi di laurea, discussa all’Università di Genova nel 2004.
Il testo ripercorre il pensiero di E.D. Morel e le sue posizioni critiche su alcuni degli aspetti più devastanti e predatori (dalla tassa sulle capanne nell’Impero inglese, alla lotta alla schiavitù, all’opposizione alla sfruttamento indiscriminato del Congo di Leopoldo II del Belgio)
dei sistemi coloniali europei in Africa, in via di strutturazione tra la fine dell’800 e i primi decenni del ’900. Le campagne di Morel riflettono il pensiero liberista e mercantile dei ceti commercianti di città come Liverpool e le contraddizioni, anche di interesse oltre che di visione,
che emergono tra questi stessi ceti e gli apparati burocratici coloniali che in quegli anni stanno definendo il passaggio a politiche di vera e propria occupazione e controllo territoriale delle colonie lungo linee sostanzialmente monopolistiche. Ma si inseriscono anche in un movimento più ampio di denuncia delle forme di schiavitù e sfruttamento quasi schiavistico del
lavoro (il caso dello Stato Libero del Congo), che ha già una consolidata tradizione nella politica britannica (l’Anti Slavery Society è fondata nel 1839 e i suoi antecedenti erano stati particolarmente attivi nel condurre all’abolizione prima della tratta e poi della schiavitù nell’Impero inglese). E s’incrocia, ancora, con l’elaborazione della nascente antropologia britannica
moderna, in questo caso impersonificata da Mary Kingsley, dai suoi viaggi in Africa per studiare i popoli e le tradizioni locali, e soprattutto dalla sua critica tanto della «missione civilizzatrice» del colonialismo europeo (inclusa l’evangelizzazione), quanto dell’imposizione di tributi (come la famigerata «tassa sulla capanna»), funzionali ad alimentare le casse coloniali (l’Africa, nel pensiero coloniale dell’epoca, non doveva comportare costi per le amministrazioni)
e spingere gli africani ad impegnarsi in forme di lavoro, produzione e commercio sempre più
fondate sulla moneta e sullo scambio capitalistico con la metropoli.
La ricostruzione del pensiero e delle attività di Morel condotta da Delbono presenta un
certo interesse se si vogliono comprendere le motivazioni, le spinte, i gruppi di pressione ma
anche le linee di frattura e contraddizione dell’establishment mercantile e coloniale britannico
di quel periodo. La prospettiva entro la quale questa analisi viene svolta rimane tuttavia esclusivamente «britannica», con poco o nessuno spazio concesso all’interazione tra le politiche coloniali e i terreni in cui si andavano a esercitarsi e l’agency africana con cui si sono trovate a
confrontarsi. Ciò si riflette anche nella bibliografia finale e nella documentazione utilizzata,
dalle quali manca qualsiasi riferimento alla ricchissima e recente letteratura di ricerca su un
passaggio decisivo – quello tra fine ’800 e inizio ’900 – della storia dell’occupazione coloniale europea e in particolare britannica dell’Africa subsahariana.
M. Cristina Ercolessi
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I LIBRI DEL 2007
Fabio De Leonardis, Palestina 1881-2006. Una contesa lunga un secolo, Prefazione di Bassam Saleh, Napoli, La Città del Sole, 452 pp., € 18,00
L’a. di questo libro non pretende di essere uno storico e di presentare una sua propria ricerca. Al contrario egli dichiara di presentare «un lavoro di raccolta e filtraggio critico, basato
esclusivamente su fonti di seconda mano [...], ma al tempo stesso originale, in quanto si focalizza in particolare sul punto di vista della sinistra palestinese (FPLP, FDLO e Partito Comunista), laddove invece la maggior parte degli autori sono schiacciati su quello di Fatah» (p.
14). Di fatto il libro presenta una sintesi basata su una parte della storiografia israeliana e su
alcuni altri studi storici tradotti in inglese, oltre che su diversi siti internet. Ne risulta una narrazione interessante, con alcuni spunti che vengono spesso trascurati quando si narra la storia
del conflitto israelo-palestinese, perché sono considerati meno rilevanti per la storia politica o
perché riguardano la storia di gruppi deboli politicamente: le diverse dinamiche della società
civile ebraica nel periodo del mandato britannico (cap. 4); la storia dei profughi palestinesi;
la storia dei Mizarahim; la storia dei palestinesi divenuti cittadini israeliani (cap. 6); il fenomeno dei Rifusnik israeliani (p. 383). Collegando dinamiche del conflitto con dinamiche sociali interne a entrambe le società, e ispirato dalle analisi della sinistra palestinese, De Leonardis ci offre una chiave di lettura critica non solo della dirigenza dello Stato di Israele, ma anche di quella palestinese.
Il problema principale di questa narrazione non deriva tanto dalla prospettiva politica dell’a., quella cioè di auspicare la nascita di uno Stato multietnico al posto dello Stato d’Israele
(p. 399-400), quanto dal desiderio di adattare la narrazione storica a questa prospettiva. Egli
usa spesso un vocabolario ideologico (datato) come per esempio «Tel Aviv» per indicare il governo israeliano (ad es. alle pp. 160 e 363) o «Palestinesi dell’interno» (p. 170) per i palestinesi che appartengono alla minoranza palestinese che vive in Israele, e a volte anche, leggendo in modo non attento le fonti, cambia leggermente il loro senso. Così, per esempio, si riporta una citazione (p.183) da Benny Morris (Vittime, Storia del conflitto arabo-sionista 18812001, Milano, Rizzoli, 2001, p. 381), secondo cui dopo la Guerra di Suez «quello che i politici arabi più antisraeliani affermavano da tempo – che Israele era il “braccio armato” dell’imperialismo in Medio Oriente – era ormai un dato di fatto». Invece Morris, premette a questa
frase le parole «Agli occhi di molti», riferendosi al mondo arabo, e certamente non sposa questa affermazione (cosa ancora più chiara nella versione ebraica). Inoltre, spesso non è evidente su quale fonte si basa la cronaca (solo le citazioni sono esplicitamente indicate). In tale modo, lo scopo dell’a. di dare un contributo alla prospettiva della sinistra palestinese sul conflitto israelo-palestinese, dandole una base storiografica solida, risulta danneggiato da una lettura non sempre fedele alle fonti, piuttosto che dalla loro interpretazione.
Raya Cohen
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I LIBRI DEL 2007
Valeria Del Gamba, Il ragazzo di Via Panisperna. L’avventurosa vita del fisico Franco Rasetti, Torino, Bollati Boringhieri, 167 pp., € 19,00
Franco Rasetti è morto a Waremme, in Belgio, il 5 dicembre 2001; coetaneo e amico di
Enrico Fermi, aveva compiuto da poco cento anni. Poco noto presso il grande pubblico, quando la stampa lo ricordò ci fu chi si stupì: molti infatti credevano che fosse già morto. Nonostante fosse da anni consolidato il mito dei «ragazzi di Via Panisperna», la sua figura era rimasta in ombra, e non solo rispetto a Fermi, premio Nobel 1938 e leader indiscusso del gruppo
romano. Il fatto è che Rasetti non era legato a una vicenda capace di «bucare» la soglia di attenzione dei media: non era scomparso misteriosamente, come Ettore Majorana; non era fuggito in Unione Sovietica, come Bruno Pontecorvo; non aveva vinto il premio Nobel, come
Emilio Segrè; non era stato un protagonista della politica scientifica nel dopoguerra, come
Edoardo Amaldi. C’era però una cosa che Rasetti non aveva fatto e che poteva attrarre l’attenzione del pubblico: non aveva partecipato alle ricerche per la bomba atomica durante la guerra, e non perché fosse meno capace dei suoi colleghi, ma perché quando glielo avevano offerto aveva detto no. Quel no, nell’anno del centenario di Fermi, risultava clamoroso: e le rievocazioni ci si attaccarono, chiedendosene le ragioni e cucendo su Rasetti un curioso santino di
fisico «buono», di «anti-Fermi». A questo santino è fedele il lavoro di Valeria Del Gamba: ed
è un peccato, perché sotto altri punti di vista questa biografia ha vari pregi. È ben scritta e di
piacevole lettura; è equilibrata nel descrivere l’aspetto personale e umano di Rasetti e la sua
vasta attività scientifica (alla quale è dedicato anche un altro lavoro, scritto da C. Buttaro e A.
Rossi, recensito in questo volume); rende giustizia al Rasetti paleontologo e naturalista; dà il
giusto rilievo al suo lungo sodalizio con Fermi e mette bene in luce il contributo importante
da lui dato all’attività del gruppo romano. E però, quando entra nell’ottica del «buon» Rasetti contrapposto agli scienziati accecati dalla passione per la loro disciplina, l’a. non esita a fraintendere alcune parole di Segrè (p. 86) o a semplificare acriticamente una testimonianza di Heisenberg (p. 85); perfino la sobrietà stilistica di Rasetti viene velatamente presentata come prova della freddezza verso Fermi. Ora non c’è dubbio che le ragioni delle scelte professionali di
Rasetti, quali che siano state, sono interessanti per gli storici, non solo della scienza. Perciò se
si decide di dedicare un capitolo, per quanto breve, all’interpretazione del pacifismo di Rasetti, è necessario affrontare l’argomento senza banalizzarlo e tenendo in considerazione tutti gli
elementi disponibili: magari si arriverà alla stessa conclusione, ma con ben altra credibilità.
Rasetti è stato assai discreto da vivo: ha limitato al minimo la sua produzione memorialistica,
e ha affidato i giudizi più espliciti a materiali che non erano destinati, lui vivo, alla diffusione
pubblica. Il rispetto che si deve a questa scelta non è certo la reticenza: ma una discussione seria, questo sì.
Giovanni Paoloni
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I LIBRI DEL 2007
Nicola D’Elia, Delio Cantimori e la cultura politica tedesca (1927-1940), Roma, Viella,
158 pp., € 18,00
In un quadro storiografico segnato da divergenze anche assai marcate, l’a. sceglie la via
della discussione puntuale, con i molti interlocutori presenti sul terreno, della riesposizione
ordinata e documentata, e soprattutto dell’attenta periodizzazione, centrale quando ci si misura con tali itinerari intellettuali, e con tali questioni generali. Né l’apparato analitico ha una
funzione edulcorante rispetto alle esplicite considerazioni di fondo: «la posizione di C. nei
confronti del nazionalsocialismo subì dei significativi mutamenti nel corso degli anni Trenta.
Fino al 1933 il suo punto di vista, al riguardo, era stato decisamente critico […]. Non va trascurato il significato della svolta seguita al soggiorno di C. in Germania tra il 1933 e il 1934,
durante il quale egli aveva potuto seguire da vicino il processo in corso della costruzione dello Stato totalitario […] il fallimento delle prospettive del corporativismo in Italia fece entrare momentaneamente in crisi il suo rapporto con il fascismo. Ma, contrariamente a quanto
comunemente si afferma, la sua fiducia nel regime mussoliniano non venne irrimediabilmente compromessa; anzi, essa fu rilanciata […] proprio dall’alleanza con la Germania nazista nel
segno di una “nuova civiltà” che avrebbe travolto quella fondata sui valori borghesi» (pp. 117118). Date simili scansioni, e tenendo conto delle implicazioni dell’agosto 1939, il rapporto
con la tradizione marxiana, avviato all’inizio degli anni ’30, si sarebbe compiutamente ridefinito solo al termine del conflitto (p. 58); e l’a. si sofferma sul radicale antiliberalismo evidente nelle pagine di Cantimori sulla Germania della rivoluzione conservatrice, mentre «la cifra
della modernità era data, in quella particolare congiuntura storica, dalla rivoluzione sociale
che stavano realizzando i regimi totalitari di massa» (p. 28) – su questa base si spiega anche la
freddezza storiografico-politica mostrata da Cantimori nei confronti della socialdemocrazia
tedesca. E tuttavia la considerazione del Cantimori cronista culturale e storico sulla Germania – e sull’Italia – contemporanea non si sarebbe focalizzata solo sulla crisi postbellica. Da
questo punto di vista è interessante la sottolineatura della prospettiva di lungo periodo tracciata nei contributi di Cantimori per il Dizionario di politica, nella quale l’esperienza nazista
di governo veniva a chiudere, nella piena conseguita unità della Volksgemeinschaft, una vicenda di frammentazione politica e di disarticolazione sociale e nazionale, ponendosi quindi su
un terreno diverso da quello della reazione politica (pp. 105-115). Ben illustrato, sulla base
del carteggio, il rapporto – non privo di riserve – di Cantimori con Schmitt, ed il ruolo svolto da Cantimori come tramite, fra anni ’20 e ’30, della cultura della Germania «giovane» in
Italia; fra i due brevi testi riportati in appendice, la voce Onore tratta dal Dizionario di politica offre qualche spunto utile a cogliere la percezione della specificità della tradizione giuridica e spirituale germanica.
Mauro Moretti
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I LIBRI DEL 2007
Sergio Della Pergola, Israele e Palestina: la forza dei numeri. Il conflitto mediorientale fra
demografia e politica, Bologna, il Mulino, 252 pp., € 15,00
Con questo volume, la letteratura scientifica dedicata al conflitto israelo-palestinese esistente in lingua italiana si arricchisce notevolmente per due ragioni. Il libro, focalizzandosi
sulla questione demografica, fornisce ai lettori italiani nuovi elementi per comprendere meglio il conflitto; il suo autore, Sergio Della Pergola, professore all’Università Ebraica di Gerusalemme, è il più importante demografo israeliano, nonché il principale teorico del disimpegno da Gaza dell’estate 2005.
Il volume, diviso in nove capitoli più la Conclusione, condensa i risultati di un lungo e approfondito lavoro, relativo ai flussi demografici della popolazione che vive tra il Mediterraneo
e il Giordano, nello Stato di Israele, nella striscia di Gaza e in Cisgiordania. In particolare, è
composto di due parti: la prima, più breve, presenta una concisa storia del conflitto, mentre
la seconda affronta gli aspetti più prettamente demografici.
La prima parte, pur avendo il merito della sinteticità e della chiarezza, contiene alcune affermazioni problematiche. Della Pergola sembra, infatti, più a suo agio con i paradigmi della
prima storiografia sionista piuttosto che con le più recenti interpretazioni proposte tanto dai
«nuovi storici» quanto dai «sociologi critici». La possibilità di assimilare il sionismo ai movimenti coloniali europei di fine ’800 viene liquidata negativamente in poche righe (p. 37); la
denominazione «Territori palestinesi occupati» viene ritenuta «non […] del tutto chiara né
accurata» (p. 70); il nazionalismo palestinese viene, infine, messo parzialmente in discussione, visto il «ruolo privilegiato di un’identità panaraba rispetto a un’identità particolare palestinese» e la presenza di un «localismo vincolato […] alla proprietà individuale perduta più
che a un senso di patria ideale e di solidarietà nazionale» (pp. 106-107).
La seconda parte è decisamente più innovativa e istruttiva, per la grande quantità di dati contenuti e per il modo molto chiaro con cui questi sono presentati nelle varie tabelle. Il
dato cruciale è costituito dal più rapido accrescimento della popolazione araba rispetto a quella ebraica. Al più tardi nel 2050, la popolazione ebraica non sarà più maggioranza nel territorio tra il Mediterraneo e il Giordano. Ma, «senza i Territori occupati, una maggioranza ebraica sembra chiaramente sussistere almeno fino alla metà del XXI secolo» (p. 175). Passando alla politica, la domanda cruciale è come realizzare quanto detto. Della Pergola, in linea con il
ritiro da Gaza, i cui effetti sono pari a «vent’anni di movimenti demografici» (p. 192), propone alcune soluzioni, tutte basate su un aggiustamento territoriale che consenta ad Israele di
non esercitare più la propria sovranità sulla maggior parte della popolazione araba residente
tra il Mediterraneo e il Giordano.
Arturo Marzano
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I LIBRI DEL 2007
Renata De Lorenzo (a cura di), Storia e misura. Indicatori sociali ed economici nel Mezzogiorno d’Italia (secoli XVIII-XX), Milano, FrancoAngeli, 575 pp., € 35,00
Il libro curato dalla De Lorenzo affronta il tema della storia quantitativa. Le molte implicazioni legate all’uso di questa metodologia, resa possibile anche dalla diffusione di strumenti informatici, rendono quest’argomento tutt’altro che semplice, anche perché, come ricorda la stessa curatrice, dopo la significativa diffusione di quest’approccio – sorto, come è noto, prevalentemente
in ambito francese – molti entusiasmi iniziali si sono poi raffreddati sulla constatazione di come
spesso si corresse il rischio di presumere «che nelle cifre fosse contenuto tutto il reale» (p. 11).
L’ambito territoriale è il Mezzogiorno d’Italia dal ’700 al ’900, anche se non mancano alcuni contributi comparativi sia per aree italiane (la Toscana) che europee (il Portogallo). I venti saggi di cui si compone il libro hanno natura differente e trattano argomenti anche molto
diversi tra di loro. La prima parte (Il Mezzogiorno misurato) consta di tre saggi: quello della
Bulgarelli che adopera i «conti delle università» di 981 Comuni meridionali per «misurare
l’imponibile» nel secolo XVIII; quello di Russo che utilizza i dati catastali otto-novecenteschi
per ricostruire, con supporti cartografici, i cambiamenti colturali e del paesaggio agrario e la
mobilità dei lavoratori agricoli verso la Capitanata; e infine quello della Denitto che, dopo
aver illustrato il progetto della banca dati storico-cartografica denominata sTOria (storia di
Terra d’Otranto, risorse, istituzioni, ambiente), effettua, a grandi linee, un’analisi del rapporto tra distribuzione della popolazione e organizzazione delle circoscrizioni amministrative.
Del progetto sTOria parla più dettagliatamente anche il contributo successivo (LopalcoTommasi) che si sofferma sui criteri utilizzati per la costruzione della banca dati. Il saggio in
questione apre la seconda parte del volume tutta dedicata ai problemi di tipo metodologico
su temi quali la creazione di database e di cartografie storico-geografiche, l’uso del GIS e dell’informatica, ecc.
La terza parte del volume è anche la più corposa, ed è stata a sua volta suddivisa in quattro
sezioni. In quella intitolata Le risorse della terra e lo spazio misurato spiccano, tra gli altri, i lavori
di Armiero sui «numeri» del patrimonio boschivo e quello di Pasimeni su viabilità stradale e servizi automobilistici in Terra d’Otranto in età liberale. Significativa è poi la sezione successiva –
Gli agenti del cambiamento – dove il concetto di misura non si riferisce più al dato quantitativo
ma a ai misuratori e ai rilevatori di quelle informazioni. Chiudono il libro una sezione dedicata
alla misura di alcune variabili sociali e culturali ed un’altra sulle «misure» elettorali.
Se il rischio dell’approccio quantitativo è quello di un’eccessiva enfasi euristica consegnata
al dato numerico, il volume sfugge a questa strettoia non solo perché, come visto, utilizza un
ampio concetto di misura che non comprende solo le statistiche, ma anche perché, più in generale, in molti dei contributi compare una costante sottolineatura non solo dei vantaggi legati alle «misure», ma anche degli aspetti problematici legati alla loro rilevazione e al loro utilizzo.
Walter Palmieri
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I LIBRI DEL 2007
Mario Del Pero, Federico Romero (a cura di), Le crisi transatlantiche. Continuità e trasformazioni, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, XVI-139 pp., € 18,00
Così tanto in così poche pagine – si potrebbe dire, dato che i sei capitoli che compongono
questo libro (a cui si aggiunge l’Introduzione dei curatori, che propone una chiave di lettura di
carattere generale) riguardano nientemeno che mezzo secolo di storia dei rapporti tra Europa occidentale e Stati Uniti, che è come dire la storia del bipolarismo vista dalla parte occidentale.
Storia nota e arcinota, se non fosse che la discussione sui temi qui rivisitati decennio per
decennio richiede l’armonizzazione tra eventi apparentemente contraddittori, ai quali lo spirito narrativo degli aa. cerca di dare una coerenza che forse a sette mani non è facilissimo raggiungere. Il fatto è che la fine della guerra fredda ci ha colti impreparati e – più che altro – che
la divaricazione delle traiettorie politico-internazionali delle due sponde dell’Atlantico rappresenta una vera e propria sorpresa rispetto al modello dell’armonico cammino dell’Occidente
verso quella centralità statunitense a cui eravamo abituati. Fine di un’amicizia? O soltanto di
un’alleanza? In quest’ultimo caso diremmo dunque che tra le due sponde dell’Atlantico c’era
soltanto un rapporto di potenza (e ciò testimonierebbe di un rapporto sostanzialmente opportunistico, da entrambi i lati); nel primo invece si tratterebbe di un vero e proprio annuncio: una svolta epocale. Dopo aver in sostanza dato i natali agli Stati Uniti l’Europa li disconosce o ne è abbandonata?
La conseguenza sarebbe, nel caso dell’alleanza, che la stra-potenza americana avrebbe consigliato agli occidentali di rifugiarsi sotto l’ombrello nucleare statunitense per puro opportunismo; mentre nel caso dell’amicizia, ciò che emergerebbe è una differente concezione della
vita, meglio della globalizzazione (che difatti ha trovato molti più critici in Europa che negli
Stati Uniti). Chi vuole farsi un’idea su queste alternative non ha che da scorrere i capitoli scritti da Brogi (sulla CED, in cui già emerge un dissidio tra le due sponde), da Varsori (qui il gioco è scontato: si tratta della «ribellione» di de Gaulle). I capitoli di Gilbert (sugli anni ’70) e
di Nuti (sugli anni ’80) riguardano i momenti oggettivamente più complessi dell’intera vicenda. Il primo periodo perché è quello in cui gli Stati Uniti sono costretti ad accettare che gli
europei abbiano delle idee diverse dalle loro (e a Kissinger non andò mai giù), nonché di una
delle più grandi manovre diplomatiche europee, quella che portò all’Atto finale della CSCE
di Helsinki (primo agosto 1975). Il secondo perché è quello in cui un’aggressiva politica nucleare statunitense mette alle corde l’URSS fino al punto di costringerla a gettare la spugna (8
dicembre 1987, trattato INF). Il capitolo di Lucarelli, infine, sfoglia la prima pagina di un
nuovo libro, quello delle «nuove» guerre, che potrebbero essere l’indizio del sorgere di una società internazionale ancora incapace di disegnare il suo futuro, stretta tra il multilateralismo
all’europea e l’unilateralismo statunitense (su cui si conclude l’ultimo capitolo, di Del Pero),
ma in linea di massima intenzionata a ridurre la centralità storica delle guerre.
Luigi Bonanate
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I LIBRI DEL 2007
Gabriella De Marco, «L’Ora». La cultura in Italia dalle pagine del quotidiano palermitano
(1918-1930). Fonti del XX secolo, Milano, Silvana editoriale, 125 pp., € 18,00
Il quotidiano palermitano «L’Ora» (1900-1992), testata tra le più longeve e significative
dell’Italia meridionale, è stato oggetto diretto o indiretto di un’incisiva e suggestiva memorialistica (Vittorio Nisticò, Palermo, 2001 e 2004; Giuliana Saladino, Palermo, 2000) imperniata sulla stagione del secondo dopoguerra, allorché sullo sfondo delle lotte sociali e politiche
del tempo il giornale svoltò decisamente a sinistra divenendo uno dei simboli dell’opposizione alla mafia e il principale punto di coagulo dell’opposizione comunista in Sicilia, fino al gemellaggio col romano «Paese Sera». Manca invece una ricostruzione storica, sia pure sommaria, del primo mezzo secolo di vita; sul quale la successiva evoluzione della testata ha proiettato impropriamente un’aura di continuità all’insegna di un’indomita collocazione antigovernativa e «progressista» per nascita e vocazione. Da questa circostanza può derivare una ragione di curiosità per il periodo affrontato da Gabriella De Marco.
Coerentemente con gli interessi dell’a., il volumetto presenta tuttavia i risultati di un’indagine circoscritta esclusivamente agli articoli culturali (arti figurative, cinema, teatro e letteratura) ed è corredato da un discreto repertorio di illustrazioni, caricature e fotografie che vanno a costituire un apparato di interesse non secondario. La principale prospettiva di lettura rimane collegata all’ambito specialistico della storia dell’arte. La rassegna delle rubriche de «L’Ora» fornisce ad esempio una apprezzabile serie di informazioni sul futurismo in Sicilia e sui
suoi collegamenti con la scena nazionale. Un altro motivo di interesse sono le notizie sulla collaborazione di Piero Gobetti, benché l’andamento della rilevazione non abbia consentito un
confronto con la raccolta già pubblicata degli Scritti di critica teatrale gobettiani.
Non mancano informazioni rapsodiche su altri personaggi di primissimo piano: dal pittore Felice Casorati al grande storico dell’arte Adolfo Venturi. Anche in questi casi l’a. confessa di non essersi proposta un confronto sistematico con le opere edite. Pertanto non si è messi in grado di valutare in che misura il giornale palermitano godesse in esclusiva dei contributi di collaboratori così prestigiosi, o se gli articoli citati uscissero contemporaneamente su altri quotidiani nazionali. Il lavoro della De Marco può essere comunque considerato come
un’interessante spigolatura preliminare, rivelatrice della densità e dell’ampiezza della fonte.
Luciano Granozzi
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Vittorio De Marco, Guglielmo Motolese. Un vescovo italiano nel Novecento, Cinisello Balsamo, San Paolo, 312 pp., € 21,00
«Avrei voluto anch’io pregare con il suo popolo, ringraziare il Signore per il dono che a questa terra pugliese ha voluto fare, implorare dalla Vergine Immacolata ancora tanta lucidissima
forza, tanta capacità di coinvolgimento, tanta passione per il Regno che lei, Eccellenza, ha espresso in questi cinquant’anni di servizio. [...] La ringrazio per tutto il bene che fa per la nostra gente. La ringrazio, soprattutto, per quella saggezza biblica, serena, non precaria, umile e discreta,
che trasuda dai suoi gesti e dalle sue parole quando ci riuniamo nella Conferenza pugliese» (p.
179). Così scriveva, non potendolo incontrare di persona, il vescovo «giovane» don Tonino Bello al decano, l’arcivescovo di Taranto, Guglielmo Motolese (1910-2005) per i suoi 50 anni di
sacerdozio. Parole di stima sincera (e preghiera esaudita: mons. Motolese sarebbe sopravvissuto
di oltre dieci anni al suo più giovane e sfortunato confratello...), tra le tante pazientemente vagliate e riprodotte in questo libro da Vittorio De Marco, tarantino, docente di Storia contemporanea alla Facoltà di Economia dell’Università degli studi del Molise, che ha messo a nostra
disposizione la vicenda di questo vescovo «antico» e straordinariamente longevo, eppure capace
di camminare col proprio tempo, nel radicamento e nell’amore alla tradizione. A De Marco si
può rimproverare di non aver integrato il suo testo con l’apparato che meritava (perché non aggiungere un indice dei nomi, almeno, a un libro così ricco di memorie e di citazioni?).
Ne emerge il profilo di un vescovo «di Pio XII», dal punto di vista della formazione, cresciuto nella severa atmosfera del Seminario Romano, dotato di una spiritualità lineare e genuina (pietà mariana compresa). Motolese, però, fu anche un attento conoscitore della propria realtà d’origine, dalla quale non si allontanò mai, e insieme uno spirito aperto a cogliere
il soffio novatore dell’evento conciliare. Arcivescovo dal 1962 al 1986, fu promotore instancabile della «autocoscienza cristiana» di Taranto (puntando con decisione alla formazione del
clero e del laicato); ridisegnò la fisionomia della Chiesa locale, incoraggiando il fervore di riflessione e di impegno ormai richiesto dai tempi. Incoraggiò la promozione culturale ed economica della città, accompagnando con favore la nascita del polo siderurgico, pur consapevole dell’impatto «rivoluzionario» che avrebbe avuto sul contesto locale; fu interlocutore sia delle autorità e della classe dirigente, sia delle maestranze operaie dei cantieri e dell’Italsider (che
nel 1968 vide l’evento del tutto inedito di una messa celebrata da papa Paolo VI). Rinviamo
al testo di De Marco per il dettaglio dell’impressionante serie di iniziative di cui fu promotore a ogni livello (ricordiamo solo il suo sogno degli ultimi anni, la Cittadella della Carità, cresciuta in rapporto organico con la Fondazione S. Raffaele di Milano), per non dire dei ruoli
di vertice, ricoperti non solo nella Conferenza episcopale pugliese, ma nella stessa CEI.
Una biografia che integra ulteriormente il ritratto, ancora in larga parte incompiuto, della Chiesa meridionale.
Monica Vanin
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I LIBRI DEL 2007
Vittorio De Marco, Storia dell’Azione Cattolica negli anni Settanta, Roma, Città Nuova,
250 pp., € 18,00
Il volume ripercorre l’itinerario dell’Azione Cattolica nel decennio ’70, tra la stesura del
nuovo statuto, entrato in vigore il 1º novembre del 1969 e la quarta assemblea nazionale del settembre 1980. È la storia dell’AC di Bachelet e di Agnes, di mons. Costa e mons. Maverna; è la
storia della «scelta religiosa» dopo una lunga fase di politicizzazione e di «collateralismo» con la
DC. Ma questa storia è anche quella del difficile post-Concilio, della contestazione dentro la
Chiesa, dell’emergere di istanze di applicazione del Concilio o meglio delle diverse interpretazioni che del Concilio si danno; ed ancora è la storia di nuove istanze di riforme e di sperimentazioni, come le comunità di base o, sul piano politico, dei Cristiani per il socialismo. Ed in Italia l’AC opta per la «scelta religiosa» in un paese politicizzato come non mai. Le contraddizioni
del boom economico vengono al pettine in una calda stagione di lotte operaie così come si fanno più improrogabili le riforme di struttura che non avevano trovato risposta nel centro sinistra.
Era arduo scrivere una storia dell’AC in tale complessità. Quella di De Marco è una storia «interna» rivolta più a ricostruire le dinamiche di un’associazione che «riparte» piuttosto che inserire questa stessa «partenza» nel contesto cattolico e non dell’Italia nel decennio ’70. Il referendum sul divorzio del 1974 irrompe sulla scena così come altri eventi della cronaca, come il delitto Moro, ma prevale come linea di impianto del volume la ricostruzione dello sforzo dell’associazione, della dirigenza in particolare, di adeguare l’AC ai nuovi tempi, sulle piste tracciate
dal Concilio. Questo significava un altro modo di essere Chiesa, sempre più «popolo di Dio» e
sempre meno societas perfecta; un altro modo di essere dei laici nella Chiesa, collaboratori della
gerarchia ma sempre più autonomi ed infine un altro modo di essere laici nel temporale.
Un elemento di valore della ricerca è la capacità con cui De Marco porta avanti parallelamente l’evoluzione delle prospettive interne dell’Associazione e lo sguardo su di essa della
CEI attraverso l’occhio delle carte di mons. Motolese. Le fonti utilizzate sono due: documenti ufficiali e di archivio dell’AC e della CEI (Atti delle assemblee nazionali del 1971, 1973,
1977, 1980 e Verbali del Consiglio nazionale di AC; Atti delle assemblee generali della CEI) e
documenti dell’archivio di mons. Motolese (Verbali di riunioni della Commissione per il laicato e del Consiglio permanente). Il primo capitolo, di natura introduttiva, prende in esame l’elaborazione del nuovo statuto e l’immediato periodo successivo alla sua entrata in vigore. Il
secondo capitolo segue i passi dell’associazione dal 1970 fino alla seconda assemblea nazionale svoltasi a Roma nel settembre 1973. Il terzo capitolo, L’anno della prova, è tutto centrato
sul referendum abrogativo del divorzio del 1974. Il quarto capitolo affronta il biennio 19741976, dalla lacerazione nel mondo cattolico sul divorzio a quella rappresentata dalla candidatura per le elezioni politiche di alcuni cattolici nelle liste del PCI. Il quinto capitolo affronta
l’annosa questione della «ricomposizione dell’area cattolica» nel quinquennio 1976-1980.
Pietro Domenico Giovannoni
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I LIBRI DEL 2007
Carlo De Maria, Patrizia Dogliani, Romagna 1946. Comuni e società alla prova delle urne,
Bologna, Clueb, 120 pp., € 10,00
Il volume rappresenta un approfondimento in una dimensione locale di una ricerca sulle elezioni comunali che si svolsero in Italia nel 1946. Si tratta inoltre della continuazione di
due precedenti pubblicazioni della stessa collana, dedicate alla storia della Romagna tra fascismo e antifascismo e alla particolare situazione del Riminese, centro di raccolta dei prigionieri dell’esercito tedesco nell’immediato dopoguerra. Il testo condivide l’ipotesi secondo la quale il ritardo con cui si tornò a votare liberamente in Italia rispetto ad altre nazioni europee fu
dovuto alla vincente strategia politica di democristiani e Alleati ma anche alla disorganizzazione amministrativa che dilatò i tempi della formazione delle liste degli elettori. Le elezioni
amministrative della primavera del ’46 sono poi giustamente inquadrate dai due aa. nel contesto specifico dell’emergenza postbellica, prodotta dalla prolungata sosta nell’area romagnola di soldati prigionieri tedeschi o della RSI e dei sorveglianti alleati (specialmente polacchi)
che generò fino al 1947 aspre tensioni sociali con le popolazioni locali. Come ben dimostra
Dogliani, le province di Forlì e Ravenna risentirono pesantemente non solo delle devastazioni belliche e del massiccio sfollamento ma anche di problemi di ordine pubblico e di gestione alimentare, in un complicato intreccio di violenza politica e criminalità comune.
Attento alla ricostruzione del voto amministrativo in queste province, il paragrafo di De
Maria, oltre a fornire un’inedita analisi quantitativa dei risultati, corredata da un’ottima appendice statistica (la sinistra socialista e comunista vinse in 58 Comuni su un totale di 68), si
concentra sulle contrastate modalità di partecipazione e rappresentanza femminile, confermando lo scontro di genere e di generazioni innescato nel mondo del lavoro dal ritorno dei
reduci, rilevato già da Dogliani. In ultimo si sposa la tesi condivisibile del ruolo di supplenza
nei confronti dell’amministrazione statale svolto dai canali partitici nell’interscambio tra centro e periferia e nella distribuzione delle risorse, anche a scapito di imparzialità, competenza
e dei progetti di ricostruzione autonomistici (anche se ci pare forse eccessiva l’osservazione che
il protagonismo dei partiti affossi la figura del prefetto, che mantiene, a nostro giudizio, ancora un ruolo politico e di mediazione non marginale). Il volume fornisce in tal modo uno
stimolo importante a sviluppare, con ulteriori ricerche, il confronto dettagliato tra il voto amministrativo e i risultati delle elezioni politiche del 2 giugno ’46. Inoltre esso costituisce un
invito ad approfondire, sul piano dei rapporti tra istituzioni e società, il tema della continuità
degli apparati statali nonché quello relativo al ricambio della classe politica e amministrativa.
In definitiva ci sembra che il libro affronti nella giusta direzione lo studio delle condizioni
concrete con cui si avviò la ricostruzione democratica del sistema politico e delle logiche di
partecipazione elettorale in sede locale.
Giovanni Schininà
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I LIBRI DEL 2007
Maria Concetta Dentoni, Poteri locali e democrazia. La provincia di Cagliari tra età giolittiana e fascismo, Cagliari, CUEC, 248 pp., € 22,00
Il volume raccoglie sette saggi, uno per capitolo, tutti editi salvo uno, sul territorio della
provincia di Cagliari – la cui Presidenza patrocina la pubblicazione – compreso il Sulcis-Iglesiente, che oggi costituisce provincia a sé.
Il primo capitolo prende in considerazione «la figura più rappresentativa della Cagliari
del periodo giolittiano» (p. 7), Ottone Baccaredda, in due momenti chiave della sua carriera
di sindaco: durante i moti popolari contro il caroviveri del 1906 e del 1917. Gli eventi vengono confrontati tra loro e con la condotta, egualmente inopportuna, di Baccaredda che contribuisce nel 1906 a provocare conclusioni sanguinose evitate nel 1917 grazie alle dimissioni
imposte da un governo centrale attento ad allontanare, per quanto possibile, il pericolo di rivolte popolari durante la prima guerra mondiale. Il secondo analizza la crisi delle miniere dell’Iglesiente – di proprietà belga, con relativi risvolti internazionali – allo scoppio della Grande guerra nel 1914 e i conseguenti pericoli di proteste operaie, scongiurate l’anno seguente sia
dall’aumento delle richieste di minerali per uso militare, sia, soprattutto, grazie all’avvio al
fronte di molti disoccupati. Il saggio successivo legge attraverso la lente della storia di vita –
personale e familiare – di un consigliere di Prefettura, Erminio Giua, le vicende relative al successo socialista nell’iglesiente nelle prime elezioni, nazionali e locali, dopo la riforma del 1912
che aveva ampliato il suffragio maschile. Il quarto capitolo prende in esame la censura postale antisocialista svolta in Sardegna dalle autorità durante la Grande guerra, mentre il seguente – l’unico inedito – esamina la storia dell’amministrazione di Iglesias dal 1903 alla vittoria
del Partito socialista nelle elezioni locali del 1914. Gli ultimi capitoli sono dedicati al periodo fascista. Il sesto riprende l’utilizzo delle vicende biografiche personali, quelle di Giovanni
Valle, per soli tre mesi prefetto di Cagliari, per descrivere l’ascesa del fascismo nel capoluogo
sardo alla fine del 1922. L’ultimo narra della riduzione del numero dei Comuni imposta dalla dittatura che, nel Campidano, si risolse nella creazione della «Grande Cagliari», sacrificio
cui si videro costrette diverse comunità locali, pronte a chiedere – e ad ottenere – il ripristino
del proprio Municipio all’indomani dell’avvento della Repubblica. Il volume è chiuso da una
breve appendice documentaria.
Al pari di tutte le raccolte anche questa sconta una certa disomogeneità tra gli scritti, pubblicati tra il 2000 e il 2006. L’obiettivo è però felicemente raggiunto: attraverso l’analisi comparata di fonti archivistiche e di vicende politiche locali e nazionali, arricchite dall’intreccio
con caratteri e storie desunte dai fascicoli personali, viene svelato l’ordito della complessa trama che rende interdipendenti storia locale e storia nazionale, casi locali e questioni nazionali, momenti di vita personale, familiare e professionale degli individui e movimenti di massa.
Oscar Gaspari
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I LIBRI DEL 2007
Stefano D’Errico, Anarchismo e politica. Rilettura antologica e biografica di Camillo Berneri, Milano, Mimesis, 752 pp., € 48,00
Negli ultimi anni si sono pubblicati vari libri su Berneri dando finalmente spazio al suo
pensiero, molto articolato e complesso. Questo ampio studio – risultato di un lavoro metodico e analitico di un militante sindacalista alternativo nel settore dell’istruzione – intende analizzare l’opera intellettuale di Berneri valorizzandone le riflessioni sul difficile rapporto tra il
movimento anarchico e la questione della politica. L’anarchismo ha sviluppato molte diffidenze verso la politica, più o meno istituzionale, ma gli scritti di Berneri, per quanto talora poco
sistematici, permetterebbero di comprendere le necessarie mediazioni politiche con la realtà
sulla quale l’anarchismo interviene per spingerla in senso rivoluzionario e libertario. Nel cercare di dipanare questo nodo teorico e pratico, l’a. si confronta criticamente con le riflessioni
di Giampietro Berti (Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, Manduria, Lacaita,
1998). Il punto centrale della «quadratura del cerchio» tra le spinte anarchiche, quasi sempre
considerate antipolitiche in quanto antigovernative e antistatali, e le questioni politiche insuperabili, tra cui quelle del gradualismo e delle alleanze, verrebbe affrontato dal pensatore e militante esiliato, in Francia e poi in Spagna, che scrive e agisce «additando mete immediate, interpretando reali e generali bisogni, rispondendo a sentimenti vivi e comuni» (p. 399). Gli
strumenti con cui far progredire il progetto libertario, secondo l’interpretazione che l’a. offre
della teoria e della prassi berneriane, sarebbero identificati nell’anarcosindacalismo, nell’associazionismo autonomo, nell’organizzazione specifica anarchica e nel comunalismo federalista.
Le teorizzazioni di Berneri lo porteranno a cercare un terreno di confronto e di collaborazione con il movimento di Giustizia e Libertà, sia nel logorante esilio francese che nella dura esperienza spagnola. Una parte importante del volume è dedicata alla Spagna, paese dal forte radicamento anarcosindacalista dove si realizza l’accordo, militante anche se provvisorio, con
Carlo Rosselli e dove le posizioni di Berneri saranno, secondo D’Errico, molto equilibrate e
attente oltre che, per certi versi, temerarie al punto di costargli la vita. Il grosso volume esamina circa 300 articoli e scritti berneriani alla luce del loro possibile insegnamento per l’anarchismo del futuro. In questo sforzo l’a. passa dai temi più prettamente teorici (la critica al
marxismo) a quelli contingenti (le mire di Mussolini sulle Baleari), da questioni personali (l’esilio e la famiglia) a scritti sperimentali (le doti di attore del «duce», la psicanalisi). In fin dei
conti queste pagine ci offrono un ritratto efficace, sia pure criticabile per una certa strumentalità, di uno dei pochi intellettuali anarchici italiani degli anni ’20 e ’30. Tra l’altro Berneri,
lo ricorda spesso D’Errico, ebbe il merito di rifiutarsi di spiegare le sconfitte dei movimenti
popolari libertari in Europa con la pura denuncia dell’altrui violenza repressiva o con la reiterazione di posizioni rigide e quasi dogmatiche.
Claudio Venza
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I LIBRI DEL 2007
Roberta De Simone, Giuseppe Monsagrati (a cura di), A corte e in guerra. Il memoriale segreto di Anna de Cadilhac, Roma, Viella, 208 pp., € 22,00
Secondo titolo della collana «La memoria restituita», presenta l’edizione critica degli inediti Ricordi per mie memorie stesi da Anna de Cadilhac (1825-1896), aristocratica romana di origine francese, moglie del parvenu-patriota Bartolomeo Galletti e, soprattutto, madre di una figlia naturale di Vittorio Emanuele II. Nel saggio introduttivo Monsagrati ripercorre la «vita agra»
di Anna, protagonista della mobilitazione femminile all’epoca della Repubblica romana, quindi moglie e madre ambiziosa, continuamente alla ricerca di autorevoli protezioni per sé e per i
congiunti. Perorando una buona nomina per Galletti, nel 1861 Anna si ritrovò al cospetto del
«Gran Re»: «Provai un fascino straordinario nel trovarmi a lui vicina […] il Re mi prese la mano e posò le sue labbra sulla mia fronte. Retrocedetti tutta confusa e turbatissima per tale atto»
(p. 99). Dalla relazione nacque, tre anni dopo, Anna Maria Magatti, che sempre si sarebbe rivolta al sovrano chiamandolo «papà mio», che ebbe come padrino di battesimo Gian Lorenzo
Cantù (medico del re), e che fu destinataria di alcuni assegni provenienti da Casa Reale. Proprio
sul punto degli «alimenti», come Anna li chiama nel memoriale, si consumò una svolta cruciale: da motivo di maligna pruderie, la nascita illegittima fu all’origine di una vertenza destinata
(nonostante i ripetuti tentativi di contenere lo scandalo) a finire davanti ai tribunali del Regno.
Come Monsagrati sottolinea, Anna de Cadilhac fu sì «donna del Risorgimento», ma fu pure più
anziana compagna di strada «delle Mozzoni e delle Beccari […] le donne alle quali appunto il
patriottismo, e cioè una concezione più attiva della propria soggettività […] ha insegnato a guardare avanti, a porre rivendicazioni che vanno oltre il dovere di generare futuri combattenti» (p.
32). L’iniziativa comportò da subito reazioni persecutorie, ordite (secondo Anna) da Rosa Vercellana e dalla «Camerilla» torinese: minacce ufficiose e ufficiali, irruzioni degli agenti e perquisizioni ad opera dei questori, sorveglianza strettissima... Nel frattempo la abbandonarono il figlio, che pure si era battuto in duello per difendere il suo onore, e Galletti, irritato non tanto
dalla (invero vantaggiosa per la sua carriera) relazione adulterina quanto dalla presenza della piccola «intrusa». Abbandonata e impoverita, Anna mostrò allora una consapevolezza nuova: «non
era più il tempo che ignara del Codice e dei miei diritti cedevo alla forza» (p. 189). Pose mano
ai Ricordi – che si sarebbero fermati al 1877, quando ottenne i primi riconoscimenti formali da
Casa Reale – per difendere la sua reputazione e per legittimarsi agli occhi dei nipoti, ma pure per
tenere sotto ricatto avversari e detrattori.
De Simone ha valorizzato un testo di indubbio interesse, che illumina sul rapporto tra
esercizio della cittadinanza e pratiche di scrittura. Utilizzando abilmente i delicati documenti, e adottando un originale approccio «storico» alle sue vicende, Anna fece di un genere tradizionale un potente strumento – da usare, se necessario, a tempo debito – per affermare nella scena pubblica la sua voce di donna sola, di madre e di «onesta» titolare di diritti.
Maria Pia Casalena
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I LIBRI DEL 2007
Monica De Togni, Governo locale e socializzazione politica in Cina, Alessandria, Edizioni
dell’Orso, 182 pp., € 16,00
Oggetto di questo libro è l’evoluzione del rapporto tra le autorità del governo centrale e locale e i cittadini del Sichuan, provincia tra le più popolose e prospere della Cina, nel periodo
compreso tra il 1909 e il 1914, cioè dall’anno delle prime elezioni nel paese al momento in cui
Yuan Shikai, presidente della neonata Repubblica, sciolse le assemblee rappresentative. Un periodo breve ma cruciale per la Cina del ’900: dapprima l’introduzione delle riforme alla fine dell’epoca Qing, con il tentativo di fare della Cina una monarchia costituzionale, e in seguito, il
passaggio al regime repubblicano. Nell’ambito della complessiva modernizzazione dell’apparato
statale, il volume concentra l’attenzione su un particolare aspetto della storia politica, ovvero l’adozione di un sistema di autogoverno locale, nel quale il magistrato di distretto, rappresentante
dell’autorità centrale, veniva affiancato da assemblee e consigli locali, costituiti su base elettiva.
Nel 1909 vennero promulgati i «Regolamenti per le città e per i distretti» che dovevano
definire gli ambiti di partecipazione della collettività al governo locale. Con questa concessione, la corte intendeva in realtà controllare le iniziative dal basso dei cittadini, volte ad adeguare la politica ai cambiamenti sociali in atto. Anche l’impulso dato all’aumento del livello di alfabetizzazione e alla formazione dei cittadini – come scrive l’a. nella conclusione – «sembra
un pretesto per porre un freno e imbrigliare l’intraprendenza dei notabili» (p. 155). Il volume
analizza alcuni aspetti della riforma del sistema scolastico, attuata dalla corte Qing, a partire
dall’abolizione del sistema degli esami imperiali nel 1905, mettendone in luce le importanti
conseguenze sul rapporto tra la dinastia regnante e i suoi sudditi e soffermandosi sulla creazione dei centri di studio sull’autogoverno, appositamente creati per preparare la popolazione a partecipare attivamente al processo di rinnovamento istituzionale e politico.
Il processo di socializzazione della politica, esaminato attraverso un caso particolare,
smentisce efficacemente lo stereotipo storiografico che dipinge la Cina come un «impero immobile» di fronte alla propria rovina e illumina una pagina poco nota e poco studiata della
storia cinese di inizio ’900.
Monica De Togni, docente di Storia della Cina all’Università degli studi di Torino, si è avventurata su un terreno ancora poco battuto, compiendo un’approfondita ricerca e raccogliendo molte fonti di prima mano. Infatti, il caso del Sichuan viene dettagliatamente esaminato grazie a una ricca documentazione in buona parte inedita, raccolta dall’a. a Chengdu, nell’Archivio
provinciale e negli archivi di vari distretti del Sichuan. Alle fonti d’archivio si aggiungono i giornali e le riviste locali dell’epoca, numerose monografie locali e una vasta bibliografia per lo più
in lingua cinese. Proprio qui sta forse il pregio maggiore del volume. Nel panorama italiano, infatti, gli studi di carattere storico sulla Cina del ’900, che richiedono necessariamente una buona conoscenza della lingua cinese, sebbene in crescita, sono ancora molto scarsi.
Elisa Giunipero
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I LIBRI DEL 2007
Fernando J. Devoto, Storia degli italiani in Argentina, Roma, Donzelli, IX-501 pp., €
34,00 (ed. or. Buenos Aires, 2006)
Nel quadro di una fertile ripresa degli studi di storia dell’emigrazione italiana e di una loro più adeguata considerazione da parte della nostra storiografia, persistono in genere alcuni
limiti nelle scelte e nelle ricerche degli studiosi: l’eccessivo specialismo che induce molti ad occuparsi di un solo paese d’accoglienza, trascurando una necessaria riflessione comparativa;
l’enfatizzazione di uno solo dei due versanti del processo migratorio, la partenza o l’arrivo, le
cause o gli esiti, l’Italia o il paese di destinazione, mettendo in ombra la circolarità del fenomeno migratorio.
A questi rischi si sottrae senz’altro l’argentino Fernando J. Devoto, uno dei massimi studiosi dell’emigrazione italiana in America latina, docente all’Università di Buenos Aires. Devoto,
infatti, sostenitore dell’importanza di una prospettiva comparativa, è anche esperto della storia
italiana, oltre che un raffinato studioso della storia latinoamericana. Sicché questo volume, pur
aggiungendosi ai non pochi studi condotti sull’argomento (si pensi ai libri di L. Incisa di Camerana, E. Scarzanella, F. Korn, M. Nascimbene), si presenta con originali caratteri di sintesi e un
equilibrato dosaggio che consegna la monografia tanto alla storia d’Italia quanto alla storia d’Argentina. Ad un anno dall’edizione spagnola, questa traduzione italiana è quanto mai utile, perché persiste ancora in Italia uno squilibrio tra la coscienza che ha l’Argentina della propria «italianità» e l’ingiustificata distrazione che da noi si manifesta nei confronti dell’Argentina.
Il volume presenta un impianto cronologico che prende le mosse dalla pionieristica immigrazione ligure del primo ’800, la quale conduce i liguri al Plata, ma poi anche ai più lontani porti del Pacifico, e fa da apripista all’immigrazione di massa proveniente dall’Italia nordoccidentale, in partenza da Genova. Più tardi, con la costruzione delle ferrovie, prevarranno, sulle professioni marinare e commerciali dei liguri, i flussi migratori rurali che condurranno «dalla Val Padana alla pampa gringa». Nell’ultimo trentennio del secolo subentrerà «l’alluvione migratoria del Mezzogiorno», proveniente in specie dalle province di Salerno, Potenza
e Cosenza, in partenza principalmente dal porto di Napoli e orientata verso le aree urbane
piuttosto che verso le zone rurali da colonizzare. Dopo la drastica interruzione degli anni ’30
e il non lineare tentativo di «nazionalizzazione» degli italiani praticato dal fascismo in Argentina, Devoto dedica l’ultima parte del testo alla breve ripresa migratoria del secondo dopoguerra, non trascurando la presenza fascista negli anni di Perón ed evidenziando il grande peso dell’Italia e degli italiani nella vita economica argentina per almeno un quarto di secolo.
Nel mezzo del volume, l’a. ha collocato un interludio tematico, dedicato alle associazioni italiane, che in verità non vengono mai trascurate, neppure nella parte cronologica della
monografia, nella consapevolezza che si tratta di istituzioni che non hanno confronto nelle altre collettività italiane all’estero, per forza, grandezza e patrimonio.
Vittorio Cappelli
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I LIBRI DEL 2007
Matteo Di Figlia, Alfredo Cucco, storia di un federale, Palermo, Mediterranea, 264 pp.,
s.i.p. (versione elettronica: http://www.storiamediterranea.it/public/md1_dir/b757.pdf )
Matteo Di Figlia, dottore di ricerca in storia dell’Europa mediterranea e neo ricercatore
presso l’Università di Palermo, ha svolto vari studi sul fascismo radicale (di cui Alfredo Cucco fu il maggiore esponente in Sicilia) e sul suo leader, Roberto Farinacci, a cui il giovane storico ha dedicato lo scorso anno un interessante lavoro (Farinacci, il radicalismo fascista al potere, Roma, Donzelli, 2007). Le scarne notizie sopra riportate sono frutto di una nostra veloce indagine sul web, poiché il volume edito per la casa editrice Mediterranea non contiene alcuna informazione sull’autore né la canonica sintesi in quarta di copertina. Su Cucco poco era
stato scritto sino ad oggi: esistono, a quanto ci risulta, solo una modesta autobiografia (Non
volevamo perdere, Bologna, Cappelli, 1949) e un non eccelso lavoro di Giuseppe Tricoli (Alfredo Cucco, Palermo, Isspe, 1968); al termine dello studio, in una appendice ricca e interessante, è poi riportato integralmente il testo de Il mio rogo, dattiloscritto inedito redatto nello
stesso periodo di Non volevamo perdere, ma, rispetto a quello, incentrato sulle vicende della
querelle giudiziaria tra gli anni ’20 e ’30, dovuta alle accuse di collusioni con la mafia. Di Figlia ha il pregio di indagare su un personaggio ancora poco conosciuto e sullo scenario che fece da sfondo alla sua agitata vita pubblica: una Sicilia in cui il fascismo, vissuto come fenomeno esogeno e tardivo, trovò appoggi ma sempre entusiasmo scarso ed evoluzione gattopardesca, assorbendo progressivamente i pochi pregi ed i numerosi difetti espressi sino ad allora da
certa classe politica isolana. Cesare Mori, il «prefetto di ferro» che il duce inviò nell’isola per
stroncare il fenomeno mafioso, dopo gli iniziali successi restò anch’esso vittima di questo micidiale meccanismo fatto di scabrose conoscenze e indicibili alleanze, che gli procurò la giubilazione e la nomina a senatore nel 1929, non senza strascichi che coinvolsero lo stesso Cucco, al quale le accuse di collusione mafiosa costarono l’espulsione dal PNF. Riammesso nel
partito nel 1936, il medico palermitano conobbe una nuova stagione di protagonismo al momento della promulgazione delle leggi razziali, di cui fu acceso propagandista; seguì poi la parabola del fascismo più estremo fino a Salò, dove fu sottosegretario al Ministero della Cultura popolare. Unico appunto che si può fare al lavoro di Di Figlia è quello di non aver approfondito quest’ultima fase quanto il periodo 1920-1936. Non si può non rammaricarsene, visto il
ruolo che il gerarca palermitano ebbe nel creare l’oscura organizzazione delle «guardie ai labari», embrione del fascismo clandestino nel Sud Italia. Interessanti, infine, le note sul ritorno
in politica avvenuto nelle file del MSI, dove Alfredo Cucco militò, rappresentando anche in
questo caso l’ala più «antipolitica», fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1968. Nel complesso ci troviamo di fronte a un lavoro ricco di elementi interessanti, che può dare spunti per
compiere nuove indagini sugli uomini che furono la spina dorsale del regime nel Mezzogiorno d’Italia.
Andrea Rossi
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I LIBRI DEL 2007
Matteo Di Figlia, Farinacci. Il radicalismo fascista al potere, Roma, Donzelli, IX-260 pp.,
€ 25,00
Nel volume dedicato a Roberto Farinacci, Matteo Di Figlia, giovane storico dell’Università di Palermo, analizza il legame tra il ras cremonese e l’intransigentismo fascista.
L’intera vicenda politica del gerarca di Cremona è riletta in questa prospettiva. Formatosi alla scuola di Bissolati, Farinacci, convinto interventista nel 1915 al pari del suo maestro, è
il creatore, nel primo dopoguerra, dello squadrismo cremonese, foraggiato dagli agrari locali,
spaventati non solo dai successi dei socialisti ma anche dei popolari di Guido Miglioli. Il ricorso alla violenza contro il movimento contadino è individuato come il principale strumento del futuro ras per scardinare gli equilibri politici della sua città, emarginando gli esponenti del conservatorismo più tradizionale. Proprio in virtù della propensione alla forza contro il
movimento sindacale, rosso e bianco, Farinacci diventa una delle figure più importanti della
Bassa padana, assurgendo a riferimento delle istanze più radicali del primo fascismo. Salito al
potere Mussolini, il gerarca lombardo non cessa infatti di invocare con veemenza lo scatenamento di una «seconda ondata», costruendo la propria personale retorica politica di un fascismo radicale e intransigente, nemico di ogni accomodamento con gli oppositori del regime
ma anche con i suoi simpatizzanti dell’ultima ora. Presentatosi per questa via come il campione dell’ala più dura del PNF, il ras di Cremona viene chiamato nel 1925, dopo il delitto Matteotti, a guidare il partito. Forte di tale posizione amplia il suo network affaristico, consolidando i legami, inizialmente solo locali, con il mondo economico e finanziario. Da questo momento in avanti, seguendo la scia di Salvatore Lupo, autore dell’Introduzione al libro, Di Figlia analizza con maestria lo svilupparsi della retorica farinacciana, il cui sempre rivendicato
radicalismo diventa, specie dopo l’abbandono forzato della segreteria nel 1926, il modo per
guerreggiare, a colpi di denunce e materiali scandalistici, con gli altri gerarchi del regime, in
un gioco di intrecci sempre più fitti tra cordate politiche e potentati economici.
L’intransigentismo di Farinacci e il suo affarismo appaiono, altresì, due facce distinte, ma
inseparabili di un’unica medaglia, alimentando l’uno lo sviluppo dell’altro. E a tale gioco non
si sottraggono neppure le posizioni filo-naziste e antisemite dell’ultimo Farinacci, sempre salvatosi dalle purghe del duce grazie al proprio ruolo di custode dell’anima «rivoluzionaria» del
fascismo a cui, in fin dei conti, neanche Mussolini poteva rinunciare senza tradire pulsioni
fortemente presenti nel PNF. Sulla specifica cultura politica di questa parte del fascismo il volume però poco ci dice. Avendo Di Figlia privilegiato del discorso pubblico la sua natura di
retorica funzionale agli scontri di potere, gli aspetti più strettamente collegati alla dimensione teorica e ideologica della politica restano decisamente in secondo piano, facendo sparire
dalla ricerca alcune questioni cruciali quali la natura totalitaria del regime e la fascistizzazione della società italiana, vale a dire gli obiettivi finali perseguiti dal radicalismo fascista.
Tommaso Baris
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Costantino Di Sante, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra italiani in
Jugoslavia (1941-1952), Verona, Ombre Corte, 269 pp., € 22,00
Di Sante affronta le vicende degli italiani internati nei campi di prigionia iugoslavi tra i
giorni successivi all’8 settembre 1943 e la primavera del 1945. I prigionieri sono suddivisi in
tre gruppi. Il più numeroso è costituito dai militari disarmati dai tedeschi dopo l’8 settembre,
finiti in campi di internamento della Wehrmacht, soprattutto all’interno del Reich, ma in parte anche in Jugoslavia, e, con la sua progressiva liberazione, caduti in mano all’Armata popolare. Un secondo gruppo è formato da coloro che furono catturati dai tedeschi in Germania
e nei paesi occupati, internati nel Reich e bloccati in Jugoslavia dopo la fine della guerra nel
tentativo di raggiungere l’Italia. L’ultimo gruppo, il meno numeroso, è costituito da forze di
polizia e da unità militari e paramilitari della RSI imprigionate nella Venezia Giulia nel maggio 1945. L’a. analizza un tema poco indagato dalla storiografia, restituendo aspetti significativi sia dell’atteggiamento delle forze antifasciste jugoslave rispetto ai militari che si erano macchiati di crimini di guerra e contro l’umanità nel corso dell’occupazione dei territori balcanici annessi e occupati all’indomani dell’aprile 1941, sia di quello connesso alle rivendicazioni
territoriali jugoslave relative alle zone del confine orientale contese dall’Italia. Per far pendere
le trattative a proprio favore, gli jugoslavi, come del resto molti altri attori del periodo, trattarono i prigionieri come pedine. Il libro si snoda in sette capitoli; nel primo si espongono gli
eventi legati all’occupazione italiana e tedesca della Jugoslavia, nel secondo si affrontano invece i giorni seguiti all’8 settembre 1943, quando le fila dell’esercito si sfaldarono e parecchi
soldati e ufficiali vennero catturati dalla Wehrmacht. Numerosi militari, sfuggiti alla cattura,
si aggregarono ai partigiani jugoslavi. Nel terzo e nel quarto capitolo l’a. tipologizza le diverse prigionie degli italiani in Jugoslavia e traccia una mappatura dei campi di concentramento. Seguono tre capitoli sul rimpatrio dei prigionieri, centrati sulle difficoltà del rientro, che
per alcuni ebbe luogo solo nel 1947: per primi rientrarono quanti avevano militato nella Resistenza iugoslava, quasi tutti nel 1945.
Con questo lavoro Di Sante pone questioni di indubbio peso storiografico; tuttavia una
maggiore precisione terminologica in merito al quadro categoriale dei prigionieri italiani – a
volte gli internati militari sembrano confondersi con i deportati nei campi di concentramento nazisti (Konzentrationslager, KL) – avrebbe ulteriormente valorizzato la ricerca. In qualche
caso la documentazione avrebbe potuto essere gestita con maggiore attenzione. A p. 63, per
esempio, sarebbe stata utile una nota che chiarisse l’errore di memoria di un testimone di Dachau (KL) secondo il quale il campo – notoriamente liberato dagli angloamericani – sarebbe
stato invece liberato dai «russi».
Giovanna D’Amico
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I LIBRI DEL 2007
Spencer Di Scala, Filippo Turati. Le origini della democrazia in Italia, Prefazione di Giuliano Amato, Milano, Critica sociale, 277 pp., € 12,00
Padre riconosciuto ed effettivo fondatore del socialismo italiano, Filippo Turati non ha
avuto una fortuna storiografica commisurata ai suoi meriti. Pochi gli studi a lui dedicati fino
agli anni ’80, e per lo più centrati sul periodo giovanile. La biografia più completa – quella di
Renato Monteleone pubblicata nel 1987 dalla Utet – è assai critica e a tratti demolitoria. Uno
studioso statunitense del socialismo italiano, Spencer Di Scala, ci propone ora un lavoro biografico dedicato alla fase aurea di Turati e del turatismo: quella che va dalla prima giovinezza
al «suicidio riformista» del 1912 (la scissione di Reggio Emilia e la definitiva messa in minoranza dei riformisti nel PSI). L’intento, esplicitamente enunciato dall’a. e autorevolmente avallato da una Prefazione di Giuliano Amato, è quello di rivalutare l’opera di Turati e soprattutto il suo contributo positivo non solo alla storia del socialismo, ma anche alla fondazione della democrazia in Italia.
Manca però in questo studio qualsiasi confronto con la storiografia più recente, che a Turati ha pur dedicato qualche attenzione. Non sono citati nemmeno in bibliografia, solo per fare qualche esempio, gli atti del convegno tenuto a Milano nel cinquantenario della morte (Filippo Turati e il socialismo europeo, a cura di Maurizio Degl’Innocenti, Napoli, Guida, 1985);
non è citata la biografia politica di Franco Livorsi, del 1984; né si accenna alla recente edizione del carteggio con i corrispondenti stranieri curata da Daniela Rava per la Fondazione Turati (peraltro mai menzionata). Il lavoro si esaurisce così, da un lato, in una diligente e non particolarmente originale ricostruzione del ventennio 1892-1912; dall’altro nell’insistita riproposizione dell’assunto iniziale: tutto ciò che di buono ha fatto il movimento operaio italiano sta
già in Turati e tutto quanto di male gli è occorso si deve allo scostamento dalla lezione turatiana. Una tesi che nella sostanza si può anche accettare (personalmente la condivido in gran parte), ma che andrebbe esposta in forma più articolata e argomentata, senza scivolare sui nodi
non risolti (ad esempio, il rapporto col revisionismo bernsteiniano), sulle contraddizioni e sugli errori (non avrebbe guastato a questo proposito una conclusione meno rapida sulla guerra,
il dopoguerra e la scissione di Livorno). E senza piegare il ragionamento a improbabili parallelismi con le vicende degli ultimi decenni. Non credo ad esempio che la strategia berlingueriana del compromesso storico abbia molto a che vedere con Turati e il riformismo (visto che si
inserisce pienamente in una tradizione «togliattiana»). Per non dire del recente approdo degli
ex comunisti al Partito democratico: una storia di un altro mondo e di un altro secolo che ha
con le vicende del socialismo di inizio ’900 un nesso davvero troppo labile.
Giovanni Sabbatucci
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27-08-2008
16:47
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I LIBRI DEL 2007
Patrizia Dogliani, Maurizio Ridolfi (a cura di), 1946. I Comuni al voto. Elezioni amministrative, partecipazione delle donne, Imola, La Mandragola, 326 pp., € 30,00
Data di svolta per la vita civile del paese e per il radicamento popolare della democrazia
repubblicana, il 1946 – l’indimenticabile 1946 (Ridolfi), anno primo (e tardivo rispetto ad altre esperienze europee) della democrazia (Dogliani) – segna l’ingresso nel meccanismo rappresentativo di nuovi soggetti portatori di elementi di novità generazionale e di genere che modificano il rapporto tra diritti e cittadinanza e impongono ai partiti la ridefinizione delle proprie posizioni nei confronti delle autonomie locali. Le ricerche confluite nel volume ruotano
intorno a due tematiche tra loro strettamente intrecciate: il peso politico ed elettorale delle
donne e dei giovani e la centralità dell’istituzione Comune nella ricostruzione. A far da quadro, i saggi dedicati all’analisi comparativa tra i due turni delle elezioni amministrative e le
politiche (Forlenza), all’indagine dei nessi tra culture politiche territoriali (per le «regioni rosse») e assetti proprietari (mezzadria) e comportamenti elettorali (Caciagli, Baccetti). Quanto
al primo tema, i riferimenti alle battaglie condotte da UDI e CIF per costruire attraverso il
governo locale un’autonoma presenza politica (Gabrielli) evidenziano la drammatica impreparazione dei partiti di massa nell’affrontare lo specifico degli interessi femminili che si riverbera, a livello locale, nell’assenza di una piena legittimazione politica di giovani e donne (Baravelli, De Maria). Lo stentato affermarsi del soggetto politico femminile nella pratica dell’amministrazione (Furlan) mette tuttavia anche a nudo la tormentata ricerca di un equilibrio
tra identità di genere e rappresentanza nelle istituzioni (Silvestrini). Le considerazioni sulle
«quote» di giovani e donne nelle realtà pisana e bolognese (Carrai) ben si prestano ad aprire
sul secondo fil rouge che attraversa il volume. L’azione delle nuove o rinate associazioni – Lega dei Comuni democratici, ANCI, UPI – che rivendicavano all’ente locale una sovranità non
derivata sul territorio (Gaspari), molto contribuì a costruire quel nuovo «protagonismo dei
Comuni» specificato ora dalle funzioni imprenditoriali dei Municipi e dalla loro centralità
quali co-agenti dello sviluppo locale (Giuntini). Palese il divario, quanto a capacità propulsiva, tra i Municipi del centro-nord e quelli del Mezzogiorno dove la ricostruzione del sistema
partitico nel segno di una forte continuità istituzionale non riuscì però ad azzerare i tratti della cultura antifascista, democratica e repubblicana dei CLN, né poté evitare brevi esperienze
antagoniste la cui carica palingenetica si sarebbe trasfusa nel movimento di occupazione delle terre (Chianese). Nel faticoso percorso verso lo sviluppo e l’autonomia locali, tuttavia, non
solo differenze di natura geografica: diversi per «colore» politico, i casi di Modena e Padova
attestano il diverso concetto di autonomia delle due maggiori forze politiche e, a fronte di una
normativa fortemente centralistica, evidenziano una sorta di «pluralismo periferico» dove cruciale è la capacità negoziale dell’ente locale per l’accesso alle risorse (Taurasi).
Daniela Adorni
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27-08-2008
16:47
Pagina 274
I LIBRI DEL 2007
Andrea D’Onofrio, Razza, sangue e suolo. Utopie della razza e progetti eugenetici nel ruralismo nazista, Napoli, ClioPress, 155 pp., € 11,00
Il lavoro prende le mosse dalla figura di Richard Walter Darré, esperto del Partito nazionalsocialista per le questioni agrarie e poi, durante il regime, potente «Führer dei contadini del
Reich» e ministro dell’Agricoltura e dell’Alimentazione. Più che una riflessione approfondita
sull’itinerario intellettuale e politico di Darré (cui l’a. ha già dedicato precedenti studi) o sul
peso che il ruralismo ebbe nel corpus ideologico del nazionalsocialismo, l’intento di questo saggio è quello, più limitato, di concentrarsi sull’intreccio fra ruralismo nazista, razzismo ed eugenetica.
Le teorie del primato della razza nordica sono, perciò, brevemente richiamate, essenzialmente grazie alla figura di Hans Günther, autore di un fortunatissimo manuale sulla «dottrina razziale» e vicino personalmente a Darré. Sono poi brevemente ricostruite, avvalendosi di
un’ampia ed aggiornata bibliografia, le vicende dell’eugenetica tedesca, dalle origini fino al
«patto con il diavolo» con il nazismo e dunque alla micidiale combinazione di razzismo, antisemitismo ed eugenetica nelle politiche razziali del regime hitleriano.
La stessa combinazione contraddistingue anche l’ideologia ruralista di Darré, come testimonia lo slogan Blut und Boden (sangue e suolo) spesso richiamato nei suoi scritti. I contadini tedeschi non sono idealizzati solo come portatori di sani valori tradizionali in contrapposizione al decadente capitalismo delle città ma come nuova aristocrazia razziale, baluardo della
purezza del sangue ariano. Un’aristocrazia per la quale Darré, laureato in agraria ed esperto di
questioni zootecniche, immaginava una sorta di allevamento selettivo grazie a matrimoni razzialmente qualificati e al possesso di speciali poderi non divisibili nella successione ereditaria.
Nel corso della sua carriera politica Darré tentò a più riprese di dare corpo ai suoi vagheggiamenti, a partire dalla legge sui «poderi ereditari», indivisibili e protetti dallo Stato, fino ai
progetti di selezione razziale e colonizzazione dell’Est elaborati all’interno del tristemente famoso RuSHA, l’ufficio per la Razza e l’Insediamento delle SS, che contribuì a fondare.
La dimensione del ruralismo non fa che confermare, dunque, quanto l’ideologia razziale
sia cruciale per la comprensione delle dinamiche del regime nazista. Un termine, quello della
«razza», il cui vastissimo campo semantico, nei primi decenni del secolo, spaziava dagli studi
di biologia e antropologia alle proposte dell’eugenetica, nonché alla mistica nazionalista del
sangue e del suolo evocata, fra gli altri, dalle organizzazioni di giovani coloni tedeschi che, nel
dopoguerra, volevano salvare le terre dell’Est dalla «polonizzazione», nelle cui file militavano
sia Darré che Himmler. Il che contribuisce a spiegare come le più deliranti utopie di rigenerazione nazionale e politiche persecutorie tra le più micidiali potessero pretendere di parlare,
anche, con il linguaggio della scienza e come, per parte loro, molti uomini di scienza fossero
pronti a mettere le proprie competenze a servizio di quei progetti.
Claudia Mantovani
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I LIBRI DEL 2007
Angelo D’Orsi, Guernica, 1937. Le bombe, la barbarie, la menzogna, Roma, Donzelli,
XII-257 pp., € 25,00
Il bombardamento di Guernica è il punto di partenza, d’arrivo e anche il prisma di cui Angelo D’Orsi si serve per raccontare le vicende spagnole ed europee del periodo, per denunciare
le falsificazioni sul piano storico e soprattutto i rovesciamenti della realtà fattuale sul piano storiografico. Un vizio, quest’ultimo, indicato come malattia estrema o senile del revisionismo, denominata «rovescismo». Bombardata dall’aviazione tedesca e italiana nel pomeriggio del 26 aprile 1937, la distruzione della cittadina basca fu, infatti, attribuita dalle autorità franchiste all’esercito basco in ritirata, versione alla quale si accodarono anche gli organi di stampa cattolici impegnati nel sostegno della «crociata» e che ha resistito per molti anni, trovando interessati ripetitori anche in tempi recenti, sia in Spagna che in Italia. Proprio per questo motivo, episodio non
solo emblematico della brutalità, della dimensione ideologica e propagandistica del conflitto spagnolo, ma anche delle resistenze che l’accertamento dei fatti incontra a farsi strada sul piano storiografico, sia a ridosso degli avvenimenti che a distanza di tempo. Tra il punto di partenza e
quello di arrivo, l’a. si sofferma su vari momenti del 1937, annus horribilis, offrendo una panoramica ad ampio raggio, che spazia dalle ragioni e modalità del coinvolgimento dell’Italia fascista e della Germania hitleriana nel conflitto del 1936-39, alle purghe contro i trotzkisti nella
Russia di Stalin, passando attraverso la benedizione ecclesiastica del conflitto, gli assassinii di Andrés Nin, Camillo Berneri e dei fratelli Rosselli, gli aspri scontri tra anarchici e comunisti a Barcellona nel mese di maggio, il ruolo di Togliatti e la morte di Gramsci, la storia d’amore tra Picasso e Dora Maar, iniziata proprio nelle settimane in cui il pittore metteva mano alla grande tela (Guernica, per l’appunto) destinata all’Esposizione universale di Parigi. Altri episodi, pure opportunamente segnalati, come il massacro dei religiosi e dei giovani diaconi cristiano-copti del
monastero di Debrà Libanòs per mano dei militari italiani, restano forse troppo sullo sfondo,
quando non poco concorrono a determinare le caratteristiche di quell’orribile 1937 e i successivi interessati oblii degli italiani «brava gente». Su Guernica, poi, non vengono utilizzati gli importanti studi di Klaus A. Maier (1975) e di Herbert R. Southworth (1977). Con tutto ciò il
volume offre una panoramica leggibilissima, fitta di episodi, personaggi, notizie e dati, spunti e
riflessioni, sempre (o quasi) sostenuti dagli opportuni riferimenti alla storiografia.
Un libro generoso e appassionato che rivela il modo con il quale l’a. interpreta il proprio
ruolo intellettuale e, come modestamente si definisce, di «cultore di studi storici»; ruolo che
considera subalterno a quello di cittadino e che pertanto lo spinge a schierarsi contro le equidistanze con l’intento di scuotere le coscienze, servendosi anche di frequenti parallelismi tra
la guerra di Spagna e quelle del Vietnam e del Golfo, tra le rivelazioni di George L. Steer sul
bombardamento della cittadina basca e quanto il giornalista argentino Horacio Verbitski ha
scritto sui desaparecidos e le responsabilità della Chiesa argentina.
Alfonso Botti
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I LIBRI DEL 2007
Bernard Droz, Storia della decolonizzazione nel XX secolo, Milano, Bruno Mondadori,
XIII-304 pp., € 29,00 (ed. or. Paris, 2006)
In sole 304 pagine che includono bibliografia, indice dei nomi e utili concise biografie dei
protagonisti della decolonizzazione in Asia, Nordafrica e Africa sub-sahariana, Droz propone
una sintesi delle vicende che hanno caratterizzato una delle svolte fondamentali del XX secolo.
Dalle contraddizioni dell’imperialismo coloniale, nel momento della sua massima espansione
negli anni ’20, all’impatto della recessione e della seconda guerra mondiale, il libro percorre l’emancipazione del Sud del mondo prevalentemente da una prospettiva di storia diplomatica con
approfondimenti della storia delle idee e delle ideologie. Il lavoro è ben tradotto e si legge agevolmente e può rappresentare un utile completamento allo studio manualistico della storia del
XX secolo. Le parti sintetizzate in maniera più convincente trattano della decolonizzazione nei
possedimenti francesi, dal dibattito sulla crisi dell’impero coloniale, a Indocina, Nordafrica e decolonizzazione in Africa subsahariana. Per il resto l’a. si avventura in generalizzazioni che dimostrano scarsa familiarità con la letteratura specialistica, ormai ricchissima di contributi di scuole
non solo occidentali, bensì soprattutto asiatiche e africane, che hanno rivelato la complessità di
rotture, continuità, adattamenti, innovazioni che rappresentano la trama storica dei diversi percorsi verso le indipendenze. Eventi, personaggi, processi sono riassunti usando una storiografia
datata. Alcuni esempi: definire i Mau Mau al pari della stampa imperial-conservatrice inglese
d’epoca «setta xenofoba, messianica e poco politicizzata» (p. 188) non solo trascura il dibattito
sulla questione del governo coloniale, ma non tiene conto di una consolidata ricerca che ha messo in evidenza la politicizzazione così come le divisioni, e la feroce repressione che si abbatté sui
ribelli e sulla popolazione civile a cui seguì la loro esclusione dai negoziati che determinarono
l’assetto costituzionale e politico del Kenya. Fra i tanti contributi segnalo il recente capolavoro
di ricerca d’archivio di cui auspico la traduzione: David Anderson, Histories of the Hanged. Britain’s Dirty War in Kenya and the End of Empire (London, 2005), e l’innovativo lavoro di storia
orale di Caroline Elkins, Britain’s Gulag. The Brutal End of Empire in Kenya (London, 2005).
Appena accennata è la fondamentale svolta dei primi anni ’80 in Sud Africa, caratterizzata da una serie di riforme strutturali, volta a legittimare il regime di apartheid e che ebbe come conseguenza l’inizio della sua fine. La bibliografia di riferimento oltre a essere prevalentemente francofona per interi capitoli (ad es. la decolonizzazione portoghese e italiana) non segnala fonti bibliografiche. Più che un saggio d’interpretazione, che troviamo convincente soprattutto quando l’a. riferisce del dibattito su colonizzazione, decolonizzazione, memoria in
ambito francese e francofono, il lavoro si presenta come testo introduttivo, utile in un contesto come l’italiano in cui i manuali di storia contemporanea anche rivolti a un pubblico universitario trattano la decolonizzazione in maniera episodica e secondaria, come dimostra il limitato numero di riferimenti bibliografici citati nel volume tradotti nella nostra lingua.
Anna Maria Gentili
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I LIBRI DEL 2007
Andrea Duranti, Il rosso e il nero e la rivoluzione della modernità. Breve storia del pensiero
iraniano contemporaneo, Roma, Aracne, 327 pp., € 18,00
Il volume di Andrea Duranti, dottorando in Storia e relazioni internazionali dell’Asia e
dell’Africa presso l’Università di Cagliari, fa la sua comparsa in un momento in cui gli studi
sulla storia e sulla politica contemporanea dell’Iran, nonostante l’importanza dell’argomento,
ancora scarseggiano. Il libro è apprezzabile innanzitutto per la sua tempestività e per il tentativo di ripercorrere il pensiero iraniano, politico ma non solo, dalla rivoluzione costituzionale, all’inizio del ’900, fino ai giorni nostri. L’a. si muove all’interno di un arco temporale denso di avvenimenti riuscendo a dare una panoramica utile ed esaustiva della storia del pensiero, senza però limitarsi alla politica: molto lodevole è infatti l’attenzione al campo letterario
ed editoriale, con un’accortezza particolare alla letteratura femminile.
In quest’opera, di impianto narrativo sostanzialmente cronologico, Duranti affronta anche eventi e periodi storici controversi, che sono tuttora oggetto di una disputa storiografica
aperta e vivace. Tuttavia Duranti non ne dà indicazione, né chiarisce la propria collocazione
all’interno di tale dibattito. Allo stesso tempo, la tendenza a riprodurre brani ampi di un numero piuttosto ristretto di monografie esistenti, sia di carattere giornalistico che scientifico,
pare andare a scapito dell’utilizzo critico della storiografia, e forse rivela anche una conoscenza limitata degli studi già compiuti. Inoltre, si osserva l’uso preminente di fonti di tipo secondario anche dove, come per esempio nella presentazione del pensiero del filosofo Soroush (pp.
205-254), non sarebbe difficile accedere a fonti dirette, anche tradotte in inglese.
La parte conclusiva del volume, che arriva fino all’elezione di Ahmadinejad (2005) e che
è dedicata alle Débâcles nell’Iran post-rivoluzionario (pp. 255 e ss.), è quella più debole: data la
contemporaneità del periodo preso in esame, e l’incertezza che caratterizza anche la storiografia più autorevole, questa sezione si basa su un numero ancora più ristretto di monografie, non
tutte di carattere scientifico, di cui sono riportati passaggi piuttosto lunghi. Questa scelta ignora, ancora una volta, il dibattito che contrappone oggi gli studiosi sui temi della legittimità
del regime e sugli sviluppi futuri della politica iraniana.
Accanto a queste debolezze di impianto, si riscontrano anche delle imprecisioni minori:
l’inesatta definizione delle funzioni costituzionali del Consiglio degli esperti (pp. 169-170) e
della linea politica del Tahkim-e Vahdat (p. 181), che pare ignorare le trasformazioni ideologiche subite da questo gruppo a partire dal 1979; l’uso disinvolto dei termini «fondamentalisti» ed «integralisti», usati dall’a. come fossero sinonimi, e del termine «modernità».
Ciò nonostante, il volume è un buon indicatore dell’interesse che questo argomento comincia a suscitare anche in Italia e, soprattutto, può contribuire a stimolare un dibattito sulle prospettive di questo settore di studi.
Paola Rivetti
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I LIBRI DEL 2007
Luca Einaudi, Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, XIV-433 pp., € 28,00
Storico ed economista, ma soprattutto addetto ai lavori in quanto coordinatore delle politiche dell’immigrazione presso la Presidenza del Consiglio, Luca Einaudi affronta in questo
volume un tema di grande importanza e attualità quale quello delle politiche pubbliche relative ad un fenomeno, quello migratorio, con il quale l’Italia, per decenni paesi di emigrazione, si è scoperta a fare i conti in maniera consapevole solo a partire dalla fine degli anni ’80.
In cinque capitoli, corredati di appendice statistica, cronologia dei provvedimenti legislativi e indice dei nomi, Einaudi illustra il cambiamento della posizione dell’Italia nel sistema migratorio internazionale, la presa di coscienza del problema da parte della sua classe dirigente e le
politiche, caratterizzate da una sostanziale mancanza di un «disegno [...] complessiv[o]» (p. 101),
adottate a partire dalla seconda metà degli anni ’60 e fino alla Bossi-Fini del 2002. Un primo
elemento interessante che emerge dal lavoro di Einaudi è quello della periodizzazione dell’immigrazione. Sulla base di una rilettura dei numeri, Einaudi infatti retrodata agli anni ’60 gli inizi dei flussi diretti verso l’Italia correlando così il fenomeno al boom economico e all’aumento
del PIL procapite e non invece, come altri in precedenza hanno fatto, alla chiusura delle frontiere britanniche, tedesche e francesi avviata negli anni ’70. È lo sviluppo, e l’analisi evidentemente non è nuova ma è importante ribadirlo, e non la crisi ad agire come fattore di attrazione.
Ad un primo capitolo dal titolo Quando gli stranieri non erano immigrati (1861-1961) in
cui si offre una carrellata frettolosa e confusa (imprenditori, mercanti e banchieri tedeschi o svizzeri sono messi insieme a nomadi, minoranze di confine, ebrei, ecc.), basata su una letteratura
in gran parte invecchiata nel quale l’a. dimostra di non essere al corrente di molte ricerche sul
tema delle migrazioni d’élite apparse negli ultimi anni, ne seguono altri quattro più corposi (sia
per dati che per letteratura citata) dedicati all’ultimo quarantennio. In questi l’a. individua quattro fasi nell’attenzione verso il fenomeno: quella dell’Immigrazione senza politica (1961-1989),
quella della Politicizzazione dell’immigrazione (1989-1996), quella della ricerca di un’immigrazione normale (1996-2001) e infine quella delle politiche del centrodestra (2001-2006), che vengono seguite attraverso i dibattiti parlamentari, i giornali, la letteratura sociologica ed economica.
Dal testo emergono le opinioni dei partiti e dei loro esponenti, la genesi dei provvedimenti, il problema dell’immigrazione clandestina, le sanatorie, mentre rimangono più in ombra la costruzione del discorso pubblico sull’immigrazione, il razzismo, la scelta del modello
di integrazione. Su tutto però si staglia chiara la consapevolezza, enunciata nelle conclusioni,
che l’Italia, soprattutto a causa delle sue tendenze demografiche, dell’immigrazione non possa fare a meno e che si debba impegnare a governarla tenendo aperti sia i canali all’ingresso di
lavoratori medium and highly skilled che a quelli unskilled (p. 396), lavorando su politiche che
facilitino l’integrazione a partire da quelle sulle naturalizzazioni (p. 402).
Daniela Luigia Caglioti
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Mauro Elli, Politica estera ed ingegneria nucleare. I rapporti del Regno Unito con l’Euratom
(1957-1963), Milano, Unicopli, 160 pp., € 17,00
Sulla Comunità europea per l’energia atomica (Euratom) esistono diversi studi che riguardano le origini del progetto e i negoziati che portarono alla firma del Trattato di Roma.
La sua successiva esperienza è stata invece trascurata, scontando il fatto di essere stata una Comunità tormentata e mai veramente decollata e soprattutto di assai minore successo rispetto
alla sua gemella, la CEE. A tale esperienza possono oggi essere indirizzate nuove domande particolarmente stimolanti, alla luce sia della «ripresa» di un discorso pubblico sull’energia nucleare, sia di nuove sensibilità storiografiche sulle istituzioni europee, in particolare sulle dinamiche di costruzione storica di forme di «autorità pubblica» comunitaria. Questa ricerca sui
rapporti tra Regno Unito ed Euratom nei suoi primi anni di vita va in tali direzioni. L’a. fa
uso di un’estesa conoscenza delle fonti archivistiche, sia inglesi sia comunitarie, e di una grande sensibilità nel cogliere i nessi tra questioni tecniche, economiche e politiche, indispensabile per capire certi passaggi storici, i vincoli di scelte legate alla specificità dell’energia nucleare e ai suoi legami con l’atomo militare, la dimensione scientifico-tecnologica della guerra
fredda. In questa prospettiva viene inquadrata la prima attività di una Comunità creata per
occuparsi di un settore industriale allora completamente nuovo e politicamente molto sensibile. E in questa prospettiva vengono anche visti i limiti dei pure vivaci tentativi della nuova
Commissione Euratom di costruirsi una propria identità istituzionale. I negoziati per l’accordo Regno Unito–Euratom, qui dettagliatamente descritti, mostrano, da una parte, le frustrazioni di una Commissione molto condizionata dall’ostilità francese dopo il ritorno di de Gaulle; dall’altra, il fatto che qualunque tema apparentemente di semplice ordine commerciale (come le importazioni di coke olandese per produrre grafite per il raffreddamento dei reattori inglesi) poteva sollevare così tante questioni riguardanti la sicurezza scientifica nazionale e gli
accordi militari internazionali da rendere impraticabili soluzioni «comunitarie».
Ma questo è anche un libro sulla storia dell’adesione inglese all’Europa comunitaria, vista da una prospettiva diversa rispetto a quella più studiata dei negoziati tariffari per l’ingresso nel Mercato comune. Se questi coinvolgevano l’eredità imperiale britannica sugli assetti istituzionali del commercio mondiale, la «dimensione atomica» della prima domanda di adesione e le sue «velleità» – come recita il titolo di un capitolo – sollevavano questioni altrettanto
vaste, a partire dalle trasformazioni postbelliche nella natura della leadership tecnologica e industriale nel sistema internazionale. Anche per questo, una minore «timidezza» narrativa (ad
esempio, una introduzione di maggiore respiro su questi grandi temi, dei quali Elli dimostra
comunque di essere pienamente consapevole) avrebbe ulteriormente valorizzato questa ricerca, che si colloca in un ambito ancora poco esplorato dalla storiografia italiana.
Barbara Curli
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I LIBRI DEL 2007
Antonella Ercolani, L’Albania di fronte all’Unione Sovietica nel Patto di Varsavia (19551961), Viterbo, Sette Città, 246 pp., € 25,00
Questo lavoro di Antonella Ercolani prende in esame le relazioni diplomatiche tra Albania
e Unione Sovietica dalla costituzione del Patto di Varsavia all’uscita dell’Albania dal patto stesso.
Il libro è strutturato in due parti: una parte di ricostruzione storica e un’appendice documentaria. La prima parte segue un ordine rigidamente cronologico e suddivide l’arco di tempo considerato in tre sottoperiodi: 1955-1957, 1958-1959 e 1960-1961. L’attenzione è naturalmente dedicata soprattutto ai rapporti tra Albania e Unione Sovietica, ma per ciascuna delle fasi considerate emergono altri protagonisti: i paesi occidentali ad esempio nella prima fase, la Jugoslavia e
l’Ungheria nella seconda, la Jugoslavia e la Cina nella terza. Il libro fa emergere chiaramente come l’iniziale fedeltà albanese all’Unione Sovietica venga messa in crisi dal mancato appoggio da
parte di Chruščëv nei rapporti con la Jugoslavia, con la quale si è aperta la questione del Kosovo. Tutto ciò si intreccia con l’iniziale tentativo occidentale di allacciare un dialogo con l’Albania, che si trasforma in disinteresse dopo la destalinizzazione. La rottura con l’URSS e il raffreddamento dei rapporti con l’Occidente spingono Hoxha verso un’alleanza con la Cina, con la quale condivide la critica contro l’allontanamento dall’ortodossia comunista da parte dei sovietici.
L’appendice documentaria costituisce probabilmente il maggior pregio del lavoro. Talvolta però anche nella prima parte le citazioni dai documenti finiscono per prendere il sopravvento e si ha l’impressione che il testo si limiti a «raccordarle» tra loro, invece di proporre
un’interpretazione critica delle stesse. Ne consegue che a volte si perde il riferimento con il
contesto: per il 1956 ad esempio si dedicano dodici pagine alla posizione dell’Albania sui fatti di Ungheria, mettendo in luce la rigidità di Hoxha nel difendere l’ortodossia comunista, ma
si dà poco spazio al XX Congresso del PCUS e nessuno alla reazione albanese. Trattandosi di
un passaggio decisivo nella storia dei rapporti interni al blocco comunista, sarebbe stato utile
chiarire la posizione dell’Albania sulla destalinizzazione, non solo per fornire una chiave di lettura sui fatti contingenti, ma soprattutto per fare luce su quello che è l’oggetto principale del
libro: la rottura del 1961, che viene giustificata da Tirana proprio sulla base di un allontanamento sovietico dall’ortodossia marxista-leninista. Da quanto l’a. stessa fa emergere, in realtà
la scelta albanese di uscire dal Patto di Varsavia è soprattutto legata alla «delusione» per il mancato sostegno sovietico nei rapporti con la Jugoslavia, ma proprio per questo sarebbe chiarificatore conoscere quanti e quali documenti degli anni precedenti il 1961 si siano pronunciati
sulla questione ideologica. L’attenzione dedicata ai documenti spiega anche probabilmente la
debolezza di un apparato bibliografico non particolarmente ricco.
Ad ogni modo il libro presenta l’indubbio pregio di raccogliere e presentare alcuni documenti tradotti tratti dagli Archivi Centrali Statali d’Albania (AQSH). Questo lo rende uno strumento bibliografico utile, in un panorama storiografico che in genere trascura l’area albanese.
Emanuela Costantini
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I LIBRI DEL 2007
Emilio Falco, Il Ministero Saracco. Un governo liberalconservatore dalla crisi di fine Ottocento all’età giolittiana, Milano, FrancoAngeli, 234 pp., € 22,00
L’accurata ricerca di Emilio Falco è l’esempio di un rinnovato, sebbene ancora episodico,
interesse storiografico per la fase liberale della storia italiana. In questo caso, l’attenzione è focalizzata sul momento, spesso considerato come semplice transizione, che va dalla crisi di fine secolo all’età giolittiana e che vede come protagonista il governo del liberalconservatore
Giuseppe Saracco.
Cosa spiega la scelta di un tema e di un momento tanto sottovalutato da sfiorare il disinteresse della storiografia?
Sicuramente una ragione sta nell’idea che, sebbene solitamente Saracco appaia una figura poco carismatica e il suo un esecutivo il cui compito principale – se non esclusivo – era
quello di favorire la ripresa della normale attività parlamentare dopo il periodo critico della
reazione e dello scontro sociale, le condizioni della società italiana di inizio secolo non davano, come sostengono molti, come risultato diretto l’inevitabilità dell’ascesa di Giolitti (ministro dell’Interno nel governo Zanardelli) nel febbraio del 1901.
Il ritratto che emerge dalla ricerca – che incrocia fonti di archivio e documenti diplomatici con la vivacità della stampa e dei commenti politici coevi – restituisce, dunque, un’immagine di mesi tutt’altro che caratterizzati da immobilismo politico e orientati alla fatidica attesa del successore «di carattere», con un Parlamento più variegato di quello semplicemente scisso tra i seguaci dei due più probabili successori, ossia Giolitti da una parte e Sonnino dall’altra (cfr. I pretendenti alla successione). Su questo sfondo, anche alcuni avvenimenti noti come
le elezioni politiche del giugno 1900 o l’assassinio del re Umberto I nel luglio dello stesso anno, prestano il fianco ad una lettura diversa. Se, ad esempio, è vero che repubblicani e socialisti esprimono una forza nuova nel costituendo Parlamento, non è altrettanto sicuro che questo si sia tradotto in un incondizionato appoggio alla linea politica Giolitti-Zanardelli (come
dimostra l’episodio dell’elezione della Commissione dei quindici, pp. 190 e ss.). Inoltre, come spiegare la sopravvivenza del ministero all’attentato di Monza se non considerando che
per molti autorevoli capi dei gruppi parlamentari e persino per il nuovo re, Saracco era la giusta quanto auspicabile «via di mezzo» politica?
Pressoché sconosciuta è poi l’attività di governo che, nei pur brevi mesi che vanno dal giugno 1900 al febbraio 1901, segue le linee di un disegno politico conservatore ma non reazionario, che guarda alla conciliazione sociale pur non assecondando le istanze del movimento
operaio. Cruciale soprattutto perché è questa che determina l’inizio della fine: furono le dimissioni del ministro del Tesoro Rubini ad aprire la crisi dell’esecutivo, aggravata poi dal dibattito provocato dallo scioglimento della Camera del Lavoro di Genova e al conseguente sciopero generale che decretarono la fine dell’esperienza.
Francesca Canale Cama
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27-08-2008
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Pagina 282
I LIBRI DEL 2007
Gabriella Fanello Marcucci, Giuseppe Pella. Un liberista cristiano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 427 pp., € 20,00
Giuseppe Pella è stato uno degli artefici della ricostruzione economica dell’Italia dopo la
seconda guerra mondiale, tanto che si parla di «linea Pella» a proposito del rigore monetario,
della severità nei conti pubblici, del favore per il multilateralismo e la liberalizzazione degli
scambi e dei pagamenti, obbedendo ai quali l’economia progredì rapidamente fino al miracolo economico. Nato vicino Biella nel 1902 da una modesta famiglia di operai-mezzadri, Pella riuscì ad affermarsi negli studi e ad emergere professionalmente come commercialista, docente di contabilità, consulente ed esperto dell’industria laniera. Dopo aver compiuto le prime giovanili esperienze politiche con il movimento cattolico piemontese, si dedicò alla professione nella sua città, ritornando in politica solo dopo la guerra come candidato, eletto, per
la DC all’Assemblea Costituente nel 1946. Dopo pochi mesi assumeva un primo incarico di
sottosegretario e nel 1947 era già ministro delle Finanze nel IV governo De Gasperi, rimanendo poi nella cabina di regia di tutti i governi centristi fino al 1953. Nella seconda legislatura,
caratterizzata dalla difficile battaglia di successione a De Gasperi, egli fu il primo presidente
del Consiglio, sia pure per breve tempo, nella seconda metà del 1953. Affrontò, allora, l’ennesima crisi scoppiata sulla questione di Trieste con energico piglio nazionalista (insieme al
suo ministro della Difesa, Taviani). Ricoprì, in seguito, vari prestigiosi incarichi governativi
(l’ultimo nel 1972 nel I governo Andreotti), e esercitò nella DC il ruolo di autorevole rappresentante dell’ala destra, avverso all’interventismo statale, al partito della spesa e dell’inflazione, all’apertura a sinistra.
L’a. di questa biografia è stata responsabile dell’Archivio storico della DC, ha pubblicato
altre biografie di esponenti democristiani, da Scelba a Piccioni. Si muove quindi con una certa autorevolezza fra le fonti del partito e, in questo caso, si giova della consultazione dell’Archivio Pella custodito dalla Cassa di risparmio di Biella. Il suo studio, ben organizzato e valorizzato da una veste editoriale elegante e accurata, è esauriente per una prima ricostruzione
della figura di Pella, ma al di sotto di una vera biografia storico-critica. Infatti, non fa alcun
riferimento alla vasta produzione storiografica sulla ricostruzione, sulla politica economica italiana, sulla stessa vita interna della DC. È difficile, quindi, capire quanto le notizie qui diligentemente raccolte ed esposte apportino elementi nuovi. Non manca qualche considerazione critica e qualche spunto interpretativo, slegato però dal dibattito storiografico. Vi è il tentativo lodevole di presentare anche elementi della biografia personale, degli interessi intellettuali, del legame con il Piemonte, della vita religiosa di Pella. Un capitolo è dedicato al suo
ruolo nella fase di costruzione dell’Europa: egli fu, tra l’altro, presidente dell’Assemblea comune della CECA dal 1954 al 1956. Si tratta di un profilo biografico utile ma limitato; molto resta ancora da indagare su una figura di primo piano della storia repubblicana.
Ruggero Ranieri
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27-08-2008
16:47
Pagina 283
I LIBRI DEL 2007
Emma Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa, Torino, Einaudi,
XXIX-252 pp., € 22,00
L’apertura dell’Archivio Segreto Vaticano per gli anni del pontificato di Pio XI ha permesso di approfondire la conoscenza di quegli anni e di chiarire alcuni aspetti di un pontificato
giudicato fino ad ora più sulla base di alcuni stereotipi che sulla realtà dei fatti. Il libro della
Fattorini, basato appunto sulla nuova documentazione recentemente messa a disposizione,
fornisce inedite e suggestive interpretazioni sulla Chiesa nel tormentato periodo tra le due
guerre mondiali.
Non sono poche le novità interpretative che emergono. Innanzitutto l’atteggiamento di
Pio XI di fronte al nazismo, un atteggiamento sempre più intransigente e disposto ad arrivare fino alla rottura, nonostante le perplessità e le resistenze di una parte della Curia, e soprattutto del segretario di Stato, Eugenio Pacelli. L’atteggiamento intransigente di Pio XI non nasceva certo da una sensibilità democratica, né era frutto di una estemporanea illuminazione,
bensì era l’esito di una conversione interiore, che gli aveva fatto comprendere l’intrinseca perversità del nazismo. Il totalitarismo nazista appariva a Pio XI «la punta più avanzata della secolarizzazione» (p. XXIV) e quindi un reale pericolo per la Chiesa. Il nazismo era il nemico
principale, perché si basava su di una ideologia nettamente contrapposta al cristianesimo, alle cui radici occorreva invece tornare per impedire il trionfo in Europa di un sostanziale paganesimo.
Assolutamente inedito è poi l’atteggiamento di Pio XI di fronte alla politica comunista
della «mano tesa», atteggiamento che dimostrava una disponibilità all’ascolto e una preoccupazione spirituale che furono invece interpretate dalla maggioranza dei collaboratori del papa
quasi come una sconfessione dell’appena pubblicata enciclica Divini Redemptoris.
Un altro motivo di interesse che emerge dalla documentazione presentata nel libro è la
difesa degli ebrei, derivata dalla convinzione teologica della comune origine. Pio XI intendeva pubblicare una enciclica che, ancor più della Mit brennender Sorge, condannasse l’antisemitismo nazista. Si tratta della famosa enciclica che non vide mai la luce per la morte del pontefice e che il suo successore, Eugenio Pacelli, procurò di far scomparire, nella convinzione che
con il nazismo fosse più opportuno trattare senza contrapporvisi frontalmente. L’introduzione delle leggi razziali in Italia aveva profondamente scosso l’anziano pontefice. Il 24 ottobre
1938, ricevendo il padre Tacchi Venturi, che gli riferiva dell’intransigenza del governo fascista circa la «questione razziale», Pio XI affermò di vergognarsi «come italiano», aggiungendo:
«E lei padre lo dica pure a Mussolini. Io non come papa ma come italiano mi vergogno! [...]
Io parlerò, non avrò paura! Mi preme il Concordato, ma più mi preme la coscienza» (p. 184).
Ma l’intransigenza di Pio XI non fu ripresa dal suo successore, che ritenne invece più opportuno seguire la strada della distensione col fascismo e col nazismo.
Alfredo Canavero
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I LIBRI DEL 2007
Costantino Felice, Verde a Mezzogiorno. L’agricoltura abruzzese dall’Unità a oggi, Roma,
Donzelli, 664 pp., € 38,00
Si tratta di un amplissimo e solido studio, frutto sia di lavori precedenti, sia di una ricerca specifica commissionata dall’Agenzia per i servizi di sviluppo agricolo della Regione Abruzzo. Probabilmente questo contribuisce a spiegare la forte saldatura tra una prospettiva storica
abbastanza profonda nel tempo e la situazione di oggi e del possibile domani che caratterizza
il volume, basato su un approccio sociale, economico, ambientale.
L’a. considera la regione un luogo esemplificativo di molti nodi storiografici rilevanti a livello nazionale, come nel caso della vicenda dell’emigrazione e delle iniziative di tutela territoriale, per citare solo due tra i fatti più noti immediatamente evocati dalla parola «Abruzzo».
E all’interno della regione, già così ricca di significati non solo locali, Costantino Felice identifica nel Fucino un «laboratorio» di storia, «modello di riferimento» (p. 165) per l’Italia intera. È condivisibile l’atteggiamento, cauto e lucido insieme, dell’a. di fronte a questa complessa materia. Sfilano così davanti agli occhi del lettore gli anni della bonifica ottocentesca
del bacino lacustre, e la svolta verso una coltura industriale in età giolittiana. Il tallone d’Achille del sistema è chiaro fin dall’inizio: è l’ampia zona ad affittanze, dove parcelle di terre
sempre più piccole passano di mano, attraverso un meccanismo di vendita del subaffitto che
favorisce una pericolosa illusione, ossia che possesso in locazione e proprietà privata del bene
coincidano. È qui che si rivela «la contraddizione che costituiva il cuore stesso della questione fucense: lo sproporzionato rapporto tra abitanti e risorse» (p. 356). Questo problema continuò a segnare la storia del Fucino, qui raccontata molto efficacemente. Quando negli anni
’50 l’ex alveo divenne zona di riforma, per motivi sociali fu scelta una quotizzazione che portava polverizzazione e frammentazione e non raggiungeva l’obiettivo dell’autosufficienza. Nonostante i numerosi problemi, il Fucino è però considerato il luogo di miglior esito della riforma. Vi si è selezionata una piccola borghesia agraria dotata di senso dell’impresa e, dagli anni
’90, in un quadro di svolta della politica agraria comunitaria, si sono create le condizioni perché la dimensione ristretta delle imprese famigliari cessi di essere uno svantaggio per diventare invece un fattore positivo ai fini di una crescita economica meno legata alla chimica, con
altissimo valore ambientale e sociale.
È tutta la regione oggi, conclude Felice, a mostrare la tensione verso un’agricoltura ecosostenibile, per competere nel mercato dei prodotti di pregio, che è in realtà l’unica possibilità del domani. Ma è credibile che il Mezzogiorno, com’è sotto i nostri occhi, ne segua l’esempio?
Giacomina Nenci
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I LIBRI DEL 2007
Gianpaolo Ferraioli, Politica e diplomazia in Italia tra XIX e XX secolo. Vita di Antonino di
San Giuliano (1852-1914), Soveria Mannelli, Rubbettino, 1.016 pp., € 45,00
Antonino di San Giuliano era secondo Vittorio Emanuele III l’uomo di Stato più illuminato che l’Italia avesse avuto. Anche se questo giudizio può non essere condiviso San Giuliano fu senza dubbio una delle maggiori personalità che caratterizzarono la vita politica italiana tra la fine dell’800 e la prima guerra mondiale. Dobbiamo quindi essere grati a Gianpaolo Ferraioli per aver affrontato lo studio di questo importante uomo politico in un’ampia biografia che affronta tutti gli aspetti della sua carriera e soprattutto il suo ruolo sulla scena della politica internazionale.
Il lavoro di Ferraioli, nonostante la sua mole, risulta di facile lettura e unisce al rigore nell’utilizzo delle fonti diplomatiche, frutto degli insegnamenti della scuola romana diretta da
Pietro Pastorelli, l’esame della letteratura sulla storia politica italiana, inserendo di San Giuliano nel quadro più ampio dell’ambiente nel quale si trovò ad operare. Si tratta quindi di una
biografia a tutto tondo che parte dalle prime esperienze di amministratore locale nella sua Catania, analizza la sua attività di parlamentare attento alla questione meridionale, e si conclude con il ruolo svolto come diplomatico e ministro degli Esteri, facendo giustizia dell’affascinante ritratto fornito da Federico De Roberto nel romanzo I Viceré.
Ampio spazio è dedicato da Ferraioli all’interesse di San Giuliano per la questione coloniale. Sull’onda delle prime vittorie in Africa egli sperava si potesse creare una colonia di popolamento per i contadini italiani. In Eritrea egli compì anche un viaggio per studiare tutti
gli aspetti della questione. Si rese conto fin da allora che qualsiasi disegno coloniale in Africa
Orientale avrebbe dovuto godere della benevolenza britannica. Dopo Adua tuttavia la sua attenzione si spostò sul Mediterraneo dove visitò la Tripolitania e la Tunisia e più tardi l’Albania. A suo parere comunque gli obiettivi coloniali non potevano essere realizzati senza un’adeguata preparazione diplomatica, militare e finanziaria. Una preparazione che egli evidentemente giudicava raggiunta al momento della dichiarazione di guerra all’Impero ottomano per
la conquista della Libia. Con l’occupazione del Dodecanneso la sua attenzione si allargò poi
anche al Mediterraneo orientale.
Di grande interesse sono infine le pagine che l’a. dedica agli ultimi mesi di vita di San
Giuliano che coincidono con l’inizio della guerra mondiale. Dichiarata la neutralità il 3 agosto egli dedicò le sue ultime forze (muore infatti il 16 ottobre) al tentativo di ottenere il completamento dell’unità nazionale con l’aiuto della Germania e all’apertura di un dialogo con le
potenze dell’Intesa che costituì la base del patto con il quale l’Italia entrò in guerra.
Marta Petricioli
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I LIBRI DEL 2007
Carlotta Ferrara degli Uberti, La Nazione ebrea di Livorno dai privilegi all’emancipazione,
1814-1860, Presentazione di Michele Luzzati, Firenze, Fondazione Spadolini-Le Monnier,
VII-166 pp., € 12,60
In questo agile, ma stimolante studio Ferrara degli Uberti prende in esame l’organizzazione interna, gli orientamenti culturali, religiosi e politici della Comunità ebraica di Livorno, analizzandone i rapporti con le consorelle toscane e con le autorità di governo e soffermandosi sulle modalità di auto-rappresentazione degli ebrei nel periodo 1814-60, durante il
quale iniziò e si attuò il processo di emancipazione.
Mezzo secolo durante il quale anche nella Comunità ebraica di Livorno, come in altre
della penisola, in seguito alle rivendicazioni di uguaglianza avanzate soprattutto dai liberali e
dai democratici, si sviluppò una importante riflessione sull’emancipazione civile e giuridica
degli ebrei. L’élite economica e intellettuale ebraica livornese seguì con partecipazione e grande attenzione le tappe e le modalità del processo e si interrogò sulle conseguenze che esso
avrebbe avuto sull’identità ebraica tradizionale. Il 1848 rappresentò un momento di cesura:
lo Statuto assicurò agli ebrei toscani i pieni diritti civili e politici e sollecitò in figure di rilievo, come il rabbino Elia Benamozegh, una importante riflessione sul patriottismo degli ebrei
italiani e sull’idea di nazione che stava maturando in ambito ebraico, spingendo parecchi di
essi a impegnarsi in prima persona nelle lotte risorgimentali.
Nonostante la sua abolizione (1852), il processo di trasformazione interna della Comunità proseguì, come continuarono fino all’unificazione le rivendicazioni degli ebrei livornesi
e delle altre comunità ebraiche toscane per vedere riconosciuti i diritti perduti. Questi sono
in sintesi i passaggi salienti affrontati dall’a. nel volume, che è frutto di una ricerca condotta
nell’archivio della Comunità ebraica di Livorno e in altri archivi toscani.
Preceduto da un’esauriente Introduzione incentrata sulla produzione storiografica più recente sull’ebraismo italiano, lo studio si articola in sei capitoli: il primo ripercorre brevemente le tappe dello sviluppo della Comunità dal XVI al XIX secolo; il secondo invece analizza i
complessi meccanismi organizzativi interni per poi avviare una proficua riflessione sui maggiori problemi che gli ebrei di Livorno dovettero affrontare in questi decenni: il cosiddetto
«indifferentismo» religioso, le conversioni, l’educazione delle nuove generazioni, la lotta per
conseguire la laurea in Giurisprudenza. Il terzo capitolo è dedicato al biennio 1847-48, e costituisce senza dubbio la parte più innovativa sul piano metodologico. Lo spazio riservato all’analisi del linguaggio usato dagli ebrei nel definire la propria appartenenza alla nazione italiana apre nuove riflessioni sul tema; mentre altrettanto stimolanti risultano essere le pagine
dedicate al concetto di «rigenerazione» per gli ebrei. I restanti tre capitoli sono invece dedicati al percorso intrapreso dalla Comunità ebraica livornese verso una progressiva integrazione,
che significò anche assunzione di una nuova identità nazionale, ma anche un profondo ripensamento dell’organizzazione interna: tutti temi affrontati con uno sguardo rivolto anche alla
storia culturale e non solo istituzionale.
Tullia Catalan
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I LIBRI DEL 2007
Aldo Ferrari, Breve storia del Caucaso, Roma, Carocci, 152 pp., € 14,00
Il prolifico Ferrari, uno dei più importanti rappresentanti degli studi caucasologici nel
nostro paese, ci ha già fornito corposi lavori di storia armena (Alla frontiera dell’impero. Gli armeni nell’impero russo 1801-1917, Mimesis, 2000), nonché l’affascinante affresco dell’idea eurasista degli ultimi due secoli (La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa,
Scheiwiller, 2003). Questa Breve storia appartiene invece alla produzione divulgativa dell’a.
(che comprende anche Il Caucaso. Popoli e conflitti di una frontiera europea, Edizioni Lavoro,
2005, più centrato sulle evoluzioni politiche post-sovietiche, delle quali peraltro si dà conto
nel capitolo finale dell’opera qui recensita) e raggiunge pienamente l’obiettivo di fornire un’introduzione accessibile al non specialista della storia caucasica dall’antichità ad oggi. Come
spiega l’a., la catena caucasica è stata per secoli lo spartiacque «poroso» tra le civiltà urbanoagricole del Vicino Oriente e le società nomadi-pastorali delle steppe eurasiatiche a Nord. La
dorsale montuosa è servita inoltre come frangiflutti di popoli, accogliendo e isolando nelle sue
valli impervie comunità sospinte dall’urto di migrazioni ed espansioni di imperi fino a creare
la «montagna delle lingue» – come fu chiamata dai geografi arabi. La regione tra il mar Caspio e il mar Nero divenne poi la cerniera culturale e geografica tra società e Stati a maggioranza islamica e popolazioni di antichissima cristianità come armeni e georgiani, la cui continuità identitaria nei secoli l’a. difende da studiosi il cui «ipercriticismo talvolta irritante» sottovaluta la «continuità di tradizione e autopercezione». Dal XVI secolo in poi le entità politiche caucasiche si ritrovarono sempre più incuneate tra gli Imperi degli Ottomani, dei Safavidi in Persia e dei Romanov. Quest’ultimo, emerso come lo Stato più forte, unificò politicamente nel XIX secolo la regione per la prima volta nella storia. È inevitabile che l’area e il periodo di specializzazione di Ferrari – le popolazioni cristiane del Caucaso in epoca zarista –
sbilancino un po’ la trattazione a danno della storia nord caucasica e musulmana (non ci sono ad esempio riferimenti agli innovativi studi di Vladimir Bobrovnikov, a cavallo tra storia,
islamologia e antropologia del Caucaso del Nord, o alla poderosa opera di Jörg Baberowski
sui musulmani azeri). Il libro rimane in ogni caso all’interno del paradigma storia degli Imperi/storia dei popoli. L’a. certo mette in evidenza come per molti di costoro la regione caucasica fosse solo uno dei teatri della propria vicenda culturale, religiosa e politica (il caso emblematico sono gli armeni, concentrati soprattutto in Anatolia fino allo sterminio del 1915).
Restano però inespressi gli innumerevoli fili che univano le popolazioni dei vari Imperi: legami economici, culturali e politici nell’andirivieni tra le due sponde del mar Nero di ebrei, armeni, greci, musulmani. La storia delle reti, biografiche e di scambio, come agenda di ricerca
che superi le narrazioni in cui Stati ed etnonimi sono i protagonisti dell’analisi storiografica?
È sperabile ed è una via in parte già esplorata, ma non è a brevi opere di sintesi che si chiedono sguardi innovativi.
Niccolò Pianciola
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I LIBRI DEL 2007
Paolo Ferrari, Il cammino verso l’Occidente. Berlinguer, il PCI e la comunità europea negli
anni Settanta, Bologna, Clueb, 272 pp., € 18,00
Il libro ricostruisce un passaggio fondamentale della storia del Partito comunista italiano
in un decennio complicato come gli anni ’70: la svolta in senso europeista. L’a. si muove su
due piani: ricostruire la cronologia delle relazioni tra il PCI e l’Europa comunitaria; analizzare le implicazioni più profonde dell’europeismo del PCI in rapporto alla sua collocazione internazionale e alla sua identità «comunista». Il punto di partenza è il 1969, quando un piccolo gruppo di comunisti, guidato da Amendola, entra nell’Assemblea parlamentare della CEE.
Quello di arrivo è individuato nel 1979, quando, secondo l’a., con le prime elezioni europee
a suffragio universale, inizia una fase nuova nel rapporto tra i partiti e la dimensione europea.
La ricostruzione di come dall’«Europa dei monopoli», dalla CEE «arma dell’imperialismo
statunitense» ecc., si arrivi all’adesione alla politica e ai valori del mondo occidentale mediante la scelta europeista – rendendo il PCI diverso in questo dagli altri partiti comunisti – è svolta con grande finezza e attenzione. La base è un approfondito lavoro di ricerca nelle carte conservate presso il «Gramsci», ma anche presso archivi personali di ex dirigenti del Partito (come Luciano Barca). I punti di svolta – a partire dalla condanna dell’intervento sovietico in
Cecoslovacchia nel 1968 – sono individuati nel 1973, quando si ha un significativo passo in
direzione di una posizione più aperta verso la CEE, e nell’incontro con le posizioni di Altiero Spinelli a partire dalla metà degli anni ’70. Naturalmente questa evoluzione – così la definisce l’a. – è vista alla luce delle grandi questioni che la «politica estera» pose alla politica e all’identità del PCI in quel cruciale decennio. Ferrari mette al centro della sua interpretazione
il nesso nazionale-internazionale e il concetto di «doppia lealtà» proposti da Franco De Felice, evidenziando le tante «svolte» operate da Berlinguer ma anche la loro incompiutezza alla
luce di una collocazione incerta del Partito. Il PCI infatti non era più ancorato al blocco sovietico ma al tempo stesso non rompe definitivamente con quel riferimento – considerato, tra
l’altro, l’unico baluardo contro un’«americanizzazione del mondo». In sostanza si avvicina all’Europa e per molti versi la usa per caratterizzarsi in modo nuovo sul piano internazionale.
Viene però categoricamente rifiutata una svolta in senso socialdemocratico, non volendo il
gruppo dirigente investire i problemi legati alla sua identità più profonda. In definitiva – come nota Ferrari – «anche quando il PCI dà vita a un’azione compiutamente occidentale resta
prigioniero delle compatibilità internazionali» (p. 30), come nel caso dell’eurocomunismo.
Se una critica si può fare al lavoro di Ferrari è di non aver fatto valere fino in fondo il nesso
nazionale-internazionale per quanto riguarda la «politica interna» dei comunisti negli anni ’70
rispetto alla quale i riferimenti nel testo sono scarsi. Considerare separatamente i due piani della
politica comunista appare, ad esempio, impossibile per il cruciale triennio 1976-1979. In questo senso la «politica estera» del PCI corre il rischio di una sovraesposizione nella trattazione.
Ermanno Taviani
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Pagina 289
I LIBRI DEL 2007
Alberto Filippi, Il mito del Che. Storia e ideologia dell’utopia guevariana, Torino, Einaudi,
137 pp., € 14,50
Questo denso saggio analizza la nascita del mito di Ernesto «Che» Guevara alla luce di
molteplici aspetti, non sempre tenuti nel debito conto dalla storiografia e dalla saggistica più
recente. L’affermazione del mito di Guevara è ricostruita, dopo che nell’Introduzione l’a. ha
puntualizzato il discorso sul mito e sull’utopia sviluppato dalla dottrina fino agli anni ’60, in
un filo che va da Marx a Gramsci a Marcuse, scorrendo i principali avvenimenti storici e politici lungo la stessa vicenda personale dell’argentino. In questo modo sono prese in considerazione la formazione ideologica dei partecipanti all’impresa cubana, la situazione internazionale, le reazioni della sinistra latinoamericana ed europea agli eventi cubani, l’espansione della guerriglia in America latina, fino alla repressione, alle dittature militari, al crollo del muro,
evento che modificò lo scenario anche in estremo Occidente.
Guevara realizzò un’utopia incompiuta, con la sua morte, e sempre valida, con la sopravvivenza del suo mito, le cui componenti sono così evidenziate: la lotta contro l’ingiustizia, specificamente quella derivante dal capitalismo internazionale, elaborata su un piano umano prima ancora che politico; l’abnegazione personale, fino al sacrificio, portata avanti anche, consapevolmente, come esempio per gli altri in una sorta di «pedagogia della rivoluzione» e della speranza di cambiamento; l’elemento cristiano presente nell’etica della rivoluzione, poi approfondita dalla «cristificazione» di Guevara, al punto di trasformarsi, nell’immaginario più
recente, in un «santo pacifista». Attraverso questi passaggi il mito sopravvive sganciato dal momento storico, ma conservando alcuni tratti essenziali del personaggio, colti, più che dalla saggistica e dalla storiografia, dalla letteratura di finzione, della quale sono riportati vari esempi.
La guerra di guerriglia del Che segnò non solo il terzomondismo europeo, ma anche l’apertura di una nuova fase storica, in America latina e nel mondo, di lotta contro l’imperialismo. La lezione di Guevara, che fu sottovalutata in Europa per piegarla troppo spesso ai fini
specifici dei vari movimenti di lotta locali, fu l’attenzione alle condizioni interne necessarie allo scatenamento della rivoluzione. Il foco, questa fu la sua più importante intuizione, si «autogenera» in base alle condizioni nazionali. Ma il Vietnam invocato dallo stesso Guevara era
impossibile da ripetere in America latina, era diversa la situazione strategica internazionale, il
continente americano era fuori dalla cintura di sicurezza sovietica, e la crisi dei missili del
1962, risolta da Kennedy e Chruščëv senza interpellare la parte cubana, lo dimostrò ampiamente. L’utopia s’infranse sulla politica. L’a., del quale traspaiono, in vari punti dello scritto,
considerazioni basate su testimonianze personali d’alto valore, giunge in sostanza ad affermare che, depurato dalla molte stratificazioni, la figura di Ernesto «Che» Guevara conserva a
tutt’oggi una parte della suo slancio originario, tanto da poter incarnare ancora una speranza
autentica, un modello positivo per le nuove sfide della democrazia.
Luigi Guarnieri Calò Carducci
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16:47
Pagina 290
I LIBRI DEL 2007
Maria Filippi (a cura di), Laboratori del sapere. Università e riviste nella Torino del Novecento, Bologna, il Mulino, 197 pp., € 15,00
Otto saggi, accompagnati da una Premessa di Pietro Rossi e da alcune considerazioni conclusive di Giuseppe Ricuperati, illustrano caratteri e tendenze di una serie di riviste scientifiche variamente legate alla storia dell’Ateneo torinese, ed all’opera di studiosi che in esso insegnarono e insegnano. Tortarolo, nel suo contributo dedicato ai periodici del campo storico,
rinvia opportunamente ad «un insieme di questioni che, se ancora non possono costituire una
griglia sistematica di problemi alla luce dei quali studiare le riviste storiche, rappresentano certamente almeno punti di vista dai quali porsi» (p. 17); e nel volume andrà rilevata la specificità, ed una certa disomogeneità dei punti di vista adottati. Così, il lungo articolo di Ferrari
sulle riviste filosofiche ne segue la biografia intellettuale, centrata sulle figure di Abbagnano,
Guzzo, Pareyson, e sul lungo confronto fra le posizioni laiche e neoilluministiche e quelle cattoliche, poi disarticolatosi «nel corso degli anni Ottanta» (p. 57); mentre le riviste economiche apparse fra ’800 e ’900 sono riprese in considerazione rivalutando il ruolo della storia delle dottrine economiche contro il primato di una scienza economica costruita «su modelli deduttivi, fondati su pochi principi economici generali, che incorporano elevate dosi di matematica», in nome di una «economia come scienza della complessità umana e sociale» (p. 84).
In altri casi, l’arco cronologico strettamente contemporaneo preso in considerazione fornisce
lo spunto per considerazioni polemiche interne al campo disciplinare (pp. 149-153); oppure
emerge, a partire dal ruolo peculiare delle riviste giuridiche, «strumenti orientati alla prassi»,
che svolgono «una funzione non informativa ma normativa» (pp. 69-70), la problematicità
della definizione, su questo terreno, di un’area umanistica, che forse andrebbe ripensata a partire dai vecchi accostamenti ottocenteschi, che associavano le due grandi facoltà di Giurisprudenza e Medicina.
Vari saggi, in particolare quello di Tortarolo, offrono spunti di rilievo per una trattazione più organica dell’oggetto-rivista – la ricostruzione delle «reti», dei meccanismi di committenza e dei procedimenti di valutazione, la questione dei finanziamenti; ma si pensi anche alle diverse tipologie dei periodici scientifici –, spunti non uniformemente presenti all’attenzione dei vari aa., ed affidati in fondo, per una loro ricomposizione, alle cure del lettore. Non
mancano, poi, diagnosi e prognosi in merito allo stato delle riviste accademiche torinesi-italiane nell’ambito del mercato scientifico internazionale; a proposito delle quali mi sembrano
più convincenti le riflessioni sulla necessità di adottare una strategia di almeno parziale plurilinguismo, e di consolidare la disponibilità di testi ed indici online, rispetto all’invocazione di
classificazioni rigide e vincolanti per le riviste, e di meccanica applicazione di parametri elaborati in altri contesti intellettuali e disciplinari e spesso ben poco adeguati.
Mauro Moretti
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27-08-2008
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Pagina 291
I LIBRI DEL 2007
Marco Fincardi, C’era una volta il mondo nuovo. La metafora sovietica nello sviluppo emiliano, Roma, Carocci, 287 pp., € 23,50
Il libro presenta, in un affascinante intreccio di storia e memoria, alcuni tratti della genesi del mito dell’Unione sovietica in Emilia. Si tratta di un percorso genetico perché, nonostante una parte delle fonti sia costituita da interviste e riguardi un ambito cronologico successivo alla seconda guerra mondiale, l’a. ha a cuore il problema dell’egemonia di una determinata cultura politica nella società locale e per questo prende le mosse da Prampolini, dall’Inno
dei lavoratori, dal radicamento del socialismo riformista nel Reggiano. I primi due capitoli servono a Fincardi a impostare i problemi e definire i percorsi di ricerca per la ricostruzione di
fondamenti e contenuti dell’immaginario collettivo, mentre i tre capitoli finali – riccamente
documentati da ampi brani di interviste – costituiscono il cuore del lavoro e devono essere discussi. Una delle tesi del libro è indicata con chiarezza a p. 205: la provincia reggiana rappresenterebbe una smentita alla tesi – espressa originariamente da G. Roth e poi largamente ripresa – secondo la quale l’opposizione radicale e senza esito di governo (i comunisti in Italia,
ma anche i socialdemocratici nella Germania guglielmina) darebbe luogo a un’integrazione
negativa e alla creazione di subculture territoriali chiuse in se stesse e limitate nei loro orizzonti. La tesi è interessante e riceve argomentazioni e una buona documentazione nelle pagine
dedicate alla ricostruzione del clima culturale nel Convitto-Scuola della Rinascita «Luciano
Fornaciari», fondato a Reggio Emilia dall’ANPI nel 1945, di cui sono ricordati i programmi
di formazione tecnica e la cultura produttivistica. Solo che i capitoli precedenti (3. 19291945: un’altra patria e 4. Repubbliche da edificare) contengono proprio le testimonianze che
illustrano la classica subcultura territoriale «rossa», quella delle piccole Russie, delle feste di cellula e di sezione come feste di famiglia, della socializzazione tutta interna al mondo del Partito. Dunque «Stachanov in Emilia» negli anni ’50 non sembra mettere in discussione i caratteri noti della subcultura territoriale rossa. Diverso, probabilmente, sarebbe il discorso per gli
anni successivi, fra miracolo economico e centro-sinistra, quando tutte le aree rosse vissero
un’importante stagione di sviluppo con l’esplosione della piccola e media industria, e quando la continuità col «mondo nuovo» della «metafora sovietica» fu integrata dall’idea del profitto e dell’arricchimento individuale e dall’accettazione della legittimità del modello capitalistico. Si nota a volte – ma la cosa è vera in numerosi lavori di storia fondati su interviste e
fonti orali – un eccesso di Verstehen dell’a. verso i soggetti della sua ricerca e qualche lacuna
bibliografica. Per tutte: D. Kertzer, Politics & Symbols. The Italian Communist Party and the
Fall of Communism (New Haven, Yale University Press, 1996), e altri lavori dello stesso studioso che sarebbero stati particolarmente utili all’a. nel suo disegno di «decifrare le simbologie dell’esperienza politica memorizzate dai militanti» (p. 11).
Franco Andreucci
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Michele Finelli, Lorenzo Secchiari, La memoria di marmo. L’iconografia mazziniana nelle
province di Massa Carrara e La Spezia, Introduzione di Roberto Balzani, Villa Verucchio, Pazzini, 80 pp., € 15,00
Quella realizzata da Michele Finelli è una puntuale ricostruzione della memoria mazziniana scolpita nelle piazze e negli spazi pubblici di un territorio emblematico e strategico. L’apparato fotografico di Lorenzo Secchiari è parte integrante ed eloquente di questa ricognizione che, in schede essenziali ed esaurienti, dà conto degli omaggi monumentali più o meno elaborati e imponenti inaugurati a Carrara, a Massa, in Lunigiana, a La Spezia e nella Val di Magra ligure. Statue, busti, lapidi che nella maggior parte dei casi videro la luce nella fase postrisorgimentale e dopo la nascita della Repubblica italiana ed ebbero quasi sempre come committenti le associazioni repubblicane locali, talvolta in grado di avvalersi del contributo gratuito di maestranze e di artisti a loro volta militanti o simpatizzanti mazziniani.
Come mette bene in evidenza Roberto Balzani «il punto di partenza di Finelli, non è l’oggetto in sé, quanto il contesto, le sollecitazioni endogene o esterne che l’hanno prodotto» (p.
7), nella consapevolezza di quanto la figura e l’icona di Mazzini potessero contare per legittimare a livello locale una élite democratica bisognosa di «evocare un’Italia “altra” e diversa per
conquistare il consenso di plebi istintivamente “all’opposizione”» (p. 7).
La dimensione monumentale diventa allora chiave interpretativa e punto d’osservazione
attraverso cui rileggere conflitti ed equilibri politici, configurandosi del resto come una sorta
di autobiografia sociale ed economica a cielo aperto, capace anche di evocare una «genealogia
patriottica di villaggio» (p. 8).
Un’iconografia, quella mazziniana, non solo difficile da tradurre in forme materiali eloquenti e popolari, ma di limitata e faticosa diffusione – a lungo anche per ovvie ragioni di incompatibilità politica – in tutta la penisola: un dato generale rispetto al quale il caso specifico si pone dunque in decisa controtendenza, con quindici realizzazioni complessive presenti
anche in centri minori.
Quella analizzata non è solo una delle roccaforti della militanza e del «culto» mazziniano
dal 1848 in avanti, ma anche – specie nel Carrarese – una realtà dominata dall’economia del
marmo, attorno alla quale riescono ad affermarsi specifici «modelli di aggregazione sociale» e
una «convivenza tra anarchismo, mazzinianesimo e internazionalismo socialista» (p. 15).
Lucidità interpretativa e precisione documentaria coesistono felicemente nel volume, che
– incrociando stampa periodica, pubblicazioni d’occasione, fonti archivistiche – raggiunge lo
scopo dichiarato nelle pagine introduttive: quello cioè di applicare ad un caso di studio di indubbio interesse le categorie e le strumentazioni metodologiche elaborate dalla storiografia
negli ultimi vent’anni in merito agli «aspetti politici, sociali e culturali legati alle celebrazioni
post-risorgimentali» (p. 14).
Eva Cecchinato
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I LIBRI DEL 2007
Marcello Flores, 1917. La Rivoluzione, Torino, Einaudi, X-139 pp., € 8,00
Sono passati novant’anni dalla Rivoluzione russa. A parte questo, perché scrivere un libro sul 1917? La ragione potrebbe essere la possibilità di riflettere su quegli avvenimenti alla
luce di nuovi documenti di archivio e della storiografia post-sovietica. L’obiettivo del libro non
è questo. Marcello Flores vuole rispondere a una domanda chiara e semplice: cosa ci riguarda
ancora di quanto accadde nel 1917?
Del 1917 interessa anzitutto il fatto che fu una rottura, ossia un momento strano della
storia in cui l’ordine precedente svaniva rapidamente e in cui pareva che il futuro potesse essere costruito a partire quasi da zero. Ovviamente la storia pesò poi sugli avvenimenti e la libertà dal passato fu un’illusione, tuttavia i protagonisti di allora vissero nella certezza che il futuro sarebbe stato necessariamente diverso dal passato. Era una situazione straordinaria: oggi
nessuno nel nostro paese pensa di trovarsi in una situazione simile, il declino non è occasione di ingegno, speranza, illusioni. Il 1917 lo fu.
Flores riflette su una libertà che fu soprattutto soggettiva. Già nelle prima pagine del libro si sofferma sui contatti tra rivoluzione e fede: la rivoluzione come risurrezione, la rivoluzione che cancella tutti i mali del passato. Nella costruzione dell’immaginario collettivo di allora la razionalità atea e cinica di Lenin dialogò con le speranze di una società contadina e credente in crisi. Il legame tra il rivoluzionario di professione e le masse plebee non era costituito dai punti di un progetto politico, ma dal contenuto evocativo delle parole d’ordine e dalla
libertà che queste facevano intravedere. Con questa attenzione Flores fa una ricognizione rapida sulla creatività non solo politica, ma anche culturale e artistica della Russia di allora. La
politica però lo attrae particolarmente e, in questa, soprattutto l’azione dei bolscevichi che costruirono e cavalcarono l’utopia finché fu possibile (ossia per poco tempo).
Il 1917 suggerisce riflessioni sulla natura della politica, sugli strumenti della mobilitazione popolare, sul nesso esistente tra discorsi libertari e aspirazioni autoritarie, tra rivoluzione e
dittatura. Flores è attratto dalla complessità del pensiero politico di Lenin e lo segue nella critica alle debolezze e alle ambiguità dei moderati del Governo provvisorio. Su questa via non vede il contenuto altrettanto utopistico e rivoluzionario che era nella proposta del Governo provvisorio. In una situazione di crisi generale e di guerra, il Governo provvisorio decise di liberare
i prigionieri politici, di dare libertà di stampa e di parola, di favorire la formazione o rinascita
di partiti, di preparare e fare elezioni a suffragio universale, di affidare il governo ad un’Assemblea costituente elettiva. La politica nel 1917 costruì diverse ipotesi rivoluzionarie, non soltanto quella dei bolscevichi. Flores, grazie a Dio, non entra nei dibattiti di allora e negli eterni dibattiti che accompagnarono l’esistenza misteriosa dell’URSS, tutto questo è passato. Flores si
chiede cosa dava anima alla politica, come si poteva avere il futuro a portata di mano, come era
possibile non essere realistici. La Rivoluzione ha soltanto novant’anni, noi ancor meno.
Marco Buttino
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I LIBRI DEL 2007
David Forgacs, Stephen Gundle, Cultura di massa e società italiana (1936-1954), Bologna, il Mulino, 425 pp., € 25,00 (ed. or. Bloomington, 2007)
Benvenuta quest’opera uscita contemporaneamente in inglese e in italiano. I rapporti tra
produzione culturale, consumo, potere politico e attori sociali tra la fine degli anni ’30 e i primi anni ’50 sono indagati in tre capitoli che riflettono anche diversi corpora di fonti. Il primo
capitolo dedicato al consumo e alla vita quotidiana si appoggia su un’ampia raccolta di testimonianze orali che raccontano oggetti, spazi e pratiche di consumo così come gli universi simbolici e di senso dei consumatori (e si evince, come sottolineato dagli aa., la competente collaborazione di Marcella Filippa). Il secondo capitolo si concentra sulle industrie culturali e sugli attori economici che hanno contribuito a definire le forme e i mercati della produzione
culturale (privilegiando il variegato mondo cinematografico e non trascurando le imprese editoriali, radiofonica e musicale). Il terzo capitolo analizza invece gli attori politici statuali e della società civile attivi nella sfera culturale di massa. In un libro denso di elementi e argomentazioni mi preme sottolineare quegli aspetti maggiormente innovativi nel contesto del dibattito storiografico italiano sulla cultura di massa. Innanzitutto la centralità assegnata alle voci
dei consumatori che, oltre a corrispondere all’interesse della storia culturale per la quotidianità, apre una finestra molto importante sulla soggettività, sulla sua articolazione in relazione
al consumo culturale, sulle sue trasformazioni in termini di identità di genere. In secondo luogo gli elementi che emergono da un approccio che coglie le ambivalenze, il ruolo insieme integrativo e disintegrativo della cultura di massa. Se guardata attraverso le pratiche di specifici
soggetti, la produzione culturale assume configurazioni difformi, spesso contraddittorie che
fanno i conti con le negoziazioni di senso attivate dalla lettura, dall’ascolto, dalla visione. In
terzo luogo gli aa. lavorano sulle «connessioni»: tra luoghi, soggetti, prodotti. Il libro mostra
gli scambi fisici e virtuali che intrecciano storia della cultura e della soggettività. Alla luce di
tutto ciò, categorie come «propaganda», «consenso», «persuasione occulta», «americanizzazione» dimostrano i propri limiti euristici.
Per concludere, si condivide con gli aa. l’opinione (già espressa da P. Ortoleva) che tra anni ’30 e primi anni ’50 è identificabile un sistema culturale segnato da forti continuità nel personale, nelle pratiche e nelle istituzioni, continuità che neppure la rottura fascismo-repubblica scalfisce. Una proposta che ridimensiona da un lato la versione più accreditata di una cultura di massa italiana primitiva fino all’avvento della televisione e dall’altro la rottura del «miracolo economico», la cui retorica tende a mascherare una geografia dei consumi ancora molto differenziata fino agli anni ’70. Insomma l’immagine di un’Italia rurale estranea alla cultura di massa fino al neocapitalismo viene contrastata tracciando la mobilità di persone e di merci, le connessioni interne all’Italia e con la cultura di massa statunitense, la vivacità dell’immaginario e delle fantasie che permettono di imbastire diverse narrazioni storiche.
Enrica Capussotti
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I LIBRI DEL 2007
Fabio Franceschi, La condizione degli enti ecclesiastici in Italia nelle vicende politico-giuridiche del XIX secolo, Napoli, Jovene, 320 pp., € 28,00
Apparentemente il libro, scritto da un giurista, non fa che ripercorrere vicende assai note agli storici: attraverso la ricognizione delle discipline statali a cui furono sottoposti i soggetti collettivi tradizionalmente regolati dal diritto canonico l’a. ripercorre i momenti cruciali dei
rapporti tra Stato e Chiesa in Italia nell’arco di tempo che si estende dalla dominazione napoleonica alla legislazione crispina sulle opere pie. Tuttavia, alcuni spunti ricostruttivi che emergono da questa trattazione meritano di essere segnalati.
Non ci si riferisce tanto alla prima parte del volume, dedicata alla politica eversiva di Napoleone e alla parziale restaurazione dei privilegi ecclesiastici reintrodotti all’indomani del 1815.
Qui semmai il lettore potrà compiacersi dello sforzo sistematico con cui vengono esposte le diverse legislazioni emanate nei singoli Stati, del rigore analitico con il quale viene dato conto della sorte occorsa alle svariate realtà organizzative che componevano la società ecclesiale. Ma la trattazione nel complesso segue le tracce di un’interpretazione storiografica del tutto consolidata.
L’interesse maggiore risiede invece nelle pagine dedicate alla legislazione unitaria. Quest’ultima – è vero – fece propri i provvedimenti piemontesi che avevano voluto ridimensionare l’incidenza delle istituzioni ecclesiastiche nella vita del paese. Tramite la recezione della legge Siccardi del 1850 (abolizione del foro ecclesiastico e introduzione dell’istituto autorizzatorio per
gli acquisti) e l’accoglimento della legge Cavour-Rattazzi sulla soppressione delle corporazioni
religiose tra il 1866 e il 1867, si avviò quella graduale laicizzazione dello Stato che avrebbe portato alla completa frattura con la Chiesa. Tuttavia questa decisa linea politica «neo-giurisdizionalista», sulla quale si sono sempre appuntati gli strali della Chiesa, poiché fa dello Stato l’unica fonte di giuridicità di ogni istituzione esistente all’interno dei suoi confini, si accompagnò,
a parere dell’a., ad un atteggiamento assai rispettoso nei confronti della struttura costituzionale della Chiesa, addirittura più liberale di quello posto in essere nel 1929 con il regime concordatario. Lo dimostra una lettura attenta, come quella che viene condotta in questo volume, di
alcuni istituti cardini, su cui la storiografia meno specialistica spesso è adusa sorvolare: si pensi al fondamentale art. 2 del Codice civile unitario, regolante l’esistenza di tutte le persone morali, che, pur sottoponendole al riconoscimento dello Stato, rinviava poi per la qualificazione
di un ente come «istituto ecclesiastico» alla disciplina del diritto canonico, senza fare alcun cenno all’attività da esso perseguito (come avverrà poi in applicazione del Concordato). Ugualmente, per quanto lo Stato italiano si dichiarò competente a decidere quali istituti ecclesiastici dovessero essere aboliti, perché ritenuti superflui per l’esercizio del culto, gli altri li conservò
sempre come erano stati, secondo la fisionomia giuridica riconosciutagli dal diritto canonico.
Anche per la politica ecclesiastica, potremo concludere, la classe politica liberale adottò
in conclusione una politica compromissoria.
Francesca Sofia
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I LIBRI DEL 2007
Silvia Franchini, Monica Pacini, Simonetta Soldani (a cura di), Giornali di donne in Toscana. Un catalogo, molte storie, 1770-1945, Firenze, L.S. Olschki, 2 voll., IV-672 pp., € 65,00
Le catalogue des périodiques toscans proposé ici prend clairement comme référence la Bibliografia dei periodici femminili lombardi, 1786-1945 publiée en 1994 par Rita Carrarini e
Michele Giordano et qui se proposait «non solo come uno strumento di recupero e valorizzazione di una parte importante della produzione editoriale locale, ma [...] punto di riferimento di carattere nazionale» (Carrarini-Giordano, p. VII). Du local au national, donc, et dans
un arc de temps qui est largement celui de la consolidation du pays. C’est donc une seconde
étape qui est proposée avec Un catalogo, molte storie (1770-1945). Ce sont 170 titres qui sont
présentés, non par ordre alphabétique, mais par date de parution, de «La toelette, o sia Raccolta galante di prose e versi toscani dedicate alle dame italiane» et la «Biblioteca galante» à
«L’educatrice italiana», «Cornelia», «La madre cristiana», «La maestra elementare italiana»
pour le premier tome (1770-1897), à l’«Almanacco delle donne fasciste» ou des périodiques
plus «politiques» dans le second volume. Cette présentation permet une attention accrue au
contexte de production et de réception, comme l’explique bien Simonetta Soldani dans les
Suggestioni di lettura fra testi e contesti. Les problèmes méthodologiques posés par un travail de
cette ampleur sont clairement posés par Monica Pacini dans son introduction Sulle tracce dei
giornali di donne in Toscana: guida alla consultazione. Sont considérés comme journaux féminins ceux dont le contenu est explicitement destiné à un public de femmes, mais aussi ceux à
direction féminine, sans que le contenu ne soit pris en compte. Ainsi le caractère féminin ne
détermine pas seulement les thématiques traitées ou leur réception, mais fait émerger la spécificité de ces nouvelles protagonistes professionnelles du journalisme que sont les femmes,
suivant en cela un projet d’histoire sociale de la communication rappelé par Silvia Franchini
dans le chapitre introductif Donne e stampa periodica. Un nuovo repertorio regionale. En ouvrant largement les critères de définition de ces Giornali di donne, les auteurs permettent de
définir, sans a priori, une sphère féminine que le contenu des périodiques définit tout autant
que les éléments de mise en page ou de typographie. Envisagé sur presque deux siècles, cette
reconstruction de «giornali di donne» met en évidence les paramètres fluctuants de la «féminité» qu’ils soient critères sociaux, politiques ou professionnels, tout en proposant un très précieux instrument de travail, résultat, est-il besoin de la souligner, d’un important travail collectif.
Catherine Brice
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I LIBRI DEL 2007
Mimmo Franzinelli, Il delitto Rosselli. 9 giugno 1937. Anatomia di un omicidio politico,
Milano, Mondadori, 291 pp., € 18,50
Mimmo Franzinelli, già autore di ampi studi dedicati agli apparati informativi del fascismo (e al neofascismo), conclude una ricerca avviata alcuni anni fa sul delitto dei fratelli Rosselli. Com’è noto, l’omicidio fu commesso a Bagnoles-de-l’Orne e suscitò enorme scalpore sia
in Francia sia in Italia. Le indagini condussero all’arresto di alcuni membri della Cagoule, ma
gli esuli antifascisti si persuasero che il mandante dell’omicidio fosse, in realtà, Mussolini.
Il pensiero politico e l’azione di Carlo Rosselli sono stati al centro di numerosi e approfonditi studi, da Bobbio a Garosci. Quasi altrettanto conosciuto è ormai anche il lavoro storiografico di Nello Rosselli (Belardelli, Giannetto). Sorprende quindi che Franzinelli scriva (p.
34) che Nello Rosselli fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti – la notizia
è inesatta. Sorprende anche che attribuisca ancora a Nello Rosselli (p. 42) un lavoro su Mazzini pubblicato postumo nel 1946 – in realtà si trattava di un saggio su Giuseppe Montanelli. L’a. spiega come l’ambiente in cui Carlo Rosselli operava a Parigi fosse da tempo inquinato da spie e doppiogiochisti. Il custode della sede di GL a Parigi, Alfredo Bondi, era «Boldini», autore di decine di informative inoltrate alla polizia politica. Alla cerimonia funebre al
Père-Lachaise Alfredo Zanella giurò nelle mani della vedova di voler lottare «fino alla vendetta». Ma anche Zanella, spiega Franzinelli, era una spia di Bocchini. A volte, tuttavia, l’a. procede in modo sommario. Scrive ad esempio che persino Attilio De Feo, tra i più stretti collaboratori di Rosselli, era un fiduciario OVRA. In realtà si trattava del fratello di Attilio, Francesco Paolo, figura assai meno autorevole (si veda M. Canali, Le spie del regime, Bologna, il
Mulino, 2005).
La parte più interessante del volume riguarda le vicende giudiziarie apertesi in Italia nel
1944 con le indagini dell’Alto Commissario aggiunto, Mario Berlinguer. L’a. spiega come gli
sforzi per istruire il procedimento per l’omicidio dei Rosselli richiedessero la collaborazione
di funzionari del controspionaggio, a loro volta imputati in altri processi. Franzinelli illustra
come Santo Emanuele fosse indotto a confessare di avere ricevuto l’ordine di eliminare Carlo
Rosselli dal colonnello Angioi. Dopo una serie di udienze, testimonianze e appelli, tuttavia,
nel 1949 la Corte d’Assise di Perugia pose la «pietra tombale» sul delitto con il proscioglimento di quanti (tra i quali lo stesso Emanuele) erano sotto accusa. La giustizia italiana, nello sconcerto generale, non riuscì a identificare gli assassini né i mandanti.
Il lavoro di Franzinelli ricostruisce puntualmente la progressiva acquisizione di prove e
testimonianze sul delitto Rosselli incrociando documenti francesi e italiani, in parte noti e in
parte inediti. Non scioglie tuttavia l’interrogativo sulle responsabilità di Mussolini e di Ciano, né svela le ragioni (o le pressioni) che indussero i cagoulards a sparare e poi pugnalare con
selvaggia ferocia Carlo e Nello Rosselli.
Dario Biocca
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I LIBRI DEL 2007
Patrizia Gabrielli, Scenari di guerra, parole di donne. Diari e memorie nell’Italia della seconda guerra mondiale, Bologna, il Mulino, 291 pp., € 23,00
L’esperienza vissuta da alcune donne nel biennio cruciale 1943-45 in Toscana ci arriva
«celebrata» dalla scrittura non ufficiale dei documenti autonarrativi dell’Archivio diaristico di
Pieve Santo Stefano. Fra le memorie e i diari femminili conservati – circa duecento – Patrizia
Gabrielli ha selezionato un ampio materiale, un’antologia tematica che comprende scritti di
donne antifasciste e non, borghesi e popolane, che, pur non sempre familiari alla scrittura,
vollero fissare sulla carta vita quotidiana e momenti limite degli anni di guerra. A questo materiale l’a. ha premesso un’ampia e aggiornata riflessione sulle chiavi di lettura offerte dalla storia di genere negli ultimi decenni, in particolare per l’interpretazione degli eventi bellici e resistenziali.
Fra gli incentivi alla produzione autonarrativa si possono individuare i cambiamenti radicali nella vita personale, come le emigrazioni, e ancor più quelli indicibili portati dai conflitti
armati. Per stare alla produzione colta di memorie, il noto War in Val d’Orcia di Iris Origo, che
l’a. cita in apertura come modello e riferimento di questa letteratura, edito in inglese nel ’47,
uscì nella traduzione italiana soltanto nel 1968. Molto resta ancora da scoprire dunque e il passaggio dalla privatezza del documento alla sua fruizione pubblica segue tempi suoi (ricordo in
proposito che sta per uscire, curata da Mara De Benedetti, la traduzione dall’inedito inglese
del diario di Thelma Hauss de Finetti, depositato nell’Archivio Storico Intesa Sanpaolo). Ma
il «bisogno di scrivere» coinvolse profondamente anche chi aveva una pratica limitata della
scrittura (p. 61), che ci ha lasciato in eredità testi quasi sempre «belli» alla lettura.
Gabrielli ha organizzato le narrazioni femminili per temi, con l’8 settembre 1943 a far da
spartiacque fra quello che è considerato, cronologicamente ma anche esperienzialmente, il
«prima», e il «poi» rappresentato dall’occupazione nazi-fascista, lo sfollamento, le stragi, le resistenze, la Liberazione. Le memorie rivelano lo scarto tra la «guerra sublimata» come anche
oggi è rappresentata dai media e la realtà spasmodica di terrore e violenza (fino alle stragi e agli
stupri) che ogni guerra vera porta con sé, insieme a un indispensabile acuirsi dell’intelligenza
dei soggetti nelle situazioni limite, che creano strategie di sopravvivenza, ma si misurano anche con prove etiche decisive. Vi acquistano valore le «azioni minime», segni di quelle «virtù
quotidiane» che hanno costituito le fitte maglie della Resistenza senz’armi, spesso operata dalle donne, complementare a quella con le armi, che però non fu prerogativa solo maschile.
L’a. ha valorizzato fonti soggettive dalla forte intensità espressiva (fra queste, spiccano i
diari delle sorelle Talluri, che ci parlano della trasmissione familiare degli ideali politici). Ribadisce così la sua fiducia, condivisibile, nel loro utilizzo critico per la restituzione «a tutto
tondo» dell’esperienza femminile della guerra e della Resistenza.
Roberta Fossati
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I LIBRI DEL 2007
John L. Gaddis, La guerra fredda. Cinquant’anni di paura e di speranza, Milano, Mondadori, 326 pp., € 19,00 (ed. or. New York, 2005)
Gaddis è un eccellente storico delle strategie statunitensi, e se ha spesso mutato le sue interpretazioni sulle origini del conflitto bipolare (ma sempre entro un alveo occidentalista conservatore) lo ha fatto seguendo i progressi della documentazione, con il conseguente aggiornamento prospettico che può apparire incoerente solo a chi antepone il manicheismo all’investigazione storiografica. Di casa tra gli statisti di Washington che ha saputo raccontare come pochi – sia per empatia culturale che per sapienza storiografica – Gaddis sembra inconsapevole di
fronte ad altri soggetti. Perché condensa la storia nell’antagonismo di potenza e il contenzioso
ideal-morale, e perché la sua autentica matrice storiografica è l’elaborazione strategica. Ragione per cui quando questa non riesce a rendere conto di trasformazioni come la conclusione della guerra fredda, la sua narrazione deve ricorrere a un deus-ex-machina. In un libro precedente
era il Reagan che, andando finalmente a vedere il bluff di un impero sovietico tanto corazzato
fuori quanto vuoto dentro, faceva crollare l’intero sistema della guerra fredda, mentre a Stalin
era attribuito un ruolo inverso ma analogo nel causare quel conflitto per il suo «romanticismo
autoritario» (J. Gaddis, We Now Know, Oxford, 1997, p. 289). In questa più agile narrazione
divulgativa Reagan viene affiancato da Giovanni Paolo II, Margaret Thatcher, Deng Xiaoping
e Michail Gorbačëv, le cui voci spezzano la pervasiva visione della guerra fredda come ordine
immutabile, consentendo di immaginare il suo superamento e far crollare il castello di carte.
È questo l’aspetto più discutibile della guerra fredda di Gaddis: il suo essere un ordine di
cui si comprende l’origine – ormai non più il principale problema interpretativo - ma la cui
durata diventa sempre più inspiegabile conducendo a un epilogo che appare inevitabile. L’idea del guscio vuoto, del colosso che sopravvive a se stesso fino a quando pochi coraggiosi gridano che il re è nudo ha l’inventività seducente di una soluzione favolistica, ma come interpretazione storica è davvero poco convincente. Il corpo della narrazione – che si muove con
agilità secondo un ordine approssimativamente cronologico ma sostanzialmente tematico –
mostra le luci ed ombre che ci si può attendere da Gaddis. Incisivo, sicuro ed esauriente quando riassume i gesti e le dottrine del confronto di potenza, scivola poi nella semplificazione binaria quando sfiora i contesti socio-culturali, astratti nella pura contesa valoriale tra libertà e
autoritarismo. Padrone dei grandi protagonisti dei due regimi, e degli statisti che popolano le
due alleanze, preferisce ignorare le trasformazioni dell’economia mondiale che ridefiniscono
la contesa storica tra capitalismo e comunismo, così come il rivolgimento antropologico che
decentra il posto dell’Occidente e del socialismo nella storia globale.
Immaginifico e confortante più che problematico e stimolante, non è un testo che metterei in mano agli studenti, mentre per lo studioso è un libro magari da comodino ma di poca utilità sulla scrivania.
Federico Romero
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27-08-2008
16:48
Pagina 300
I LIBRI DEL 2007
Dario Gaggio, In gold we trust. Social capital and economic change in the Italian jewelry
towns, Princeton-London, Princeton University Press, 352 pp., $ 39,50
L’importante volume di Dario Gaggio affronta con un taglio storico-sociologico le vicende novecentesche dei tre più rilevanti distretti dell’oreficeria italiana (Valenza Po, Vicenza e
Arezzo) confrontandoli con il più importante nucleo di lavorazione orafa statunitense vale a
dire Providence nel Rhode Island. In particolare Gaggio appare interessato a esaminare i conflitti e le tensioni che il processo di sviluppo economico produce, ancorandosi da un lato al
dibattito sul capitale sociale, concetto utilizzato secondo lui in modo non del tutto appropriato, e dall’altro a quello sull’embeddedness, un termine che vorrebbe ridefinire in un modo più
complesso. Di grande importanza nella sua ricerca è il concetto di fiducia, utilizzato in un modo molto ampio e articolato, sia con riferimento alla realtà italiana, analizzando il comune impiego dell’oro di dubbia provenienza, che al caso statunitense, sottolineando il fallimento dei
tentativi del governo statunitense di sradicare il lavoro a domicilio a Providence.
La lunga parte introduttiva del lavoro di Gaggio ha un dichiarato intento metodologico e
riesamina, a partire dai casi dei distretti dell’oreficeria italiani, il dibattito sui distretti industriali e sullo small scale capitalism, portando utili elementi in vista di una ridefinizione più ampia e
flessibile dei concetti di capitale sociale e embeddedness (a partire da un’analisi delle tesi di Granovetter, Bordieu, Coleman e Putnam). L’intento è quello di riuscire a ricomprendere in modo
più convincente categorie apparentemente contraddittorie come illegalità e sviluppo.
I primi quattro capitoli del volume sono dedicati ai distretti italiani dell’oreficeria di cui
si evidenziano le relative peculiarità: dall’importanza dell’ideologia socialista nel disegnare le
relazioni sociali a Valenza Po, alla mancanza della cooperazione nel caso vicentino, al rilievo
crescente assunto dalle donne nell’oreficeria aretina. In particolare Gaggio mette chiaramente in luce come in tutti questi casi di successo, pur caratterizzati da differenti modalità, non è
possibile ignorare il fatto che la costruzione della crescita e delle istituzioni che l’hanno resa
possibile è stata tutt’altro che priva di conflitti e di lotte.
Il quinto e il sesto capitolo affrontano nuovamente tematiche dal grande rilievo storiografico e metodologico, come le politiche della conoscenza da un lato e il modo in cui i protagonisti locali e globali hanno influenzato la costruzione delle economie dei distretti orafi
dall’altro; mentre il settimo è dedicato all’esame del caso di sviluppo di Providence e al paradosso apparente di uno sviluppo considerato un fallimento, nonostante abbia attraversato tutto il XX secolo.
Nelle conclusioni Gaggio torna poi sulle questioni metodologiche affrontate all’inizio sottolineando la necessità di un approccio più problematico, sia con riferimento agli aspetti economici che a quelli culturali. Il suo è quindi un contributo di notevole rilievo che arricchisce in misura significativa il dibattito in corso sullo sviluppo economico locale e sui suoi protagonisti.
Luca Mocarelli
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27-08-2008
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Pagina 301
I LIBRI DEL 2007
Alessio Gagliardi, L’impossibile autarchia. La politica economica del fascismo e il Ministero
scambi e valute, Soveria Mannelli, Rubbettino, 342 pp., € 14,00
Alessio Gagliardi, assegnista di ricerca presso l’Università di Torino, in questo volume ripercorre l’attività breve, ma intesa, del Ministero scambi e valute (1935-1939), che nato in
primis per poter meglio fronteggiare gli effetti della crisi mondiale del 1929 sul commercio
internazionale, dovette in seguito lavorare d’intesa con le finalità di politica economica e politica industriale (autarchica) del governo fascista. Sotto la guida di Felice Guarnieri, il Ministero sviluppò competenze di ampia portata: dalla decisione sulle licenze di importazione, alla disciplina dei cambi e dei pagamenti, all’autorizzazione sulla cessione o assunzione di partecipazioni italiane all’estero, fino al controllo sulle frodi valutarie. Per gestire al meglio la concessione delle licenze, Guarnieri istituì le «giunte corporative» in rappresentanza di imprenditori e associazioni di categoria: le giunte hanno fatto parlare in passato di «corporativismo realizzato», ma, come mostra Gagliardi, da una analisi attenta del lavoro svolto emergono notevoli «disfunzionalità nella procedura corporativa adottata», quali ad esempio la preminente
influenza dei grandi gruppi nell’assegnazione dei contingenti di importazione e il trattamento sfavorevole nei confronti dei gruppi minori.
Un tema interessante affrontato dall’a. è il rapporto tra politica commerciale e politica
estera, quest’ultima dominata dalla politica di aggressione fascista e dall’alleanza con la Germania. La guerra di Etiopia segnò una svolta importante: da una parte le sanzioni della Società delle Nazioni determinarono l’isolamento economico del paese, dall’altra spinsero l’Italia ad incrementare gli scambi con la Germania, che non faceva parte della Società. Il commercio si ridusse, a vantaggio degli accordi di clearing con la Germania (fulcro delle relazioni
economiche dello Stato fascista) e si cominciò a parlare di «surrogati di produzione nazionale ai materiali prima importati». Le conseguenze delle scelte di politica estera si ripercossero
quindi inesorabilmente sull’impossibilità crescente di bilanciare importazioni ed esportazioni
e portarono alla cronicizzazione del deficit commerciale e all’esodo progressivo delle riserve
auree.
A nulla valsero i tentativi dello stesso Guarnieri di comprimere gli ingenti acquisti in valuta delle forze armate e dirottare verso i mercati esteri parte della produzione nazionale, in
quanto tali tentativi erano contrari al programma di rafforzamento militare e agli obiettivi bellicisti del regime. L’orientamento neutralista di Guarnieri, così come l’equilibrio dei conti e il
reinserimento in Europa erano scelte che Mussolini «aborriva».
Il libro è ben costruito e di grande interesse. A fianco infatti dell’analisi puntuale del funzionamento interno del Ministero Scambi e valute, l’a. affronta la ricostruzione delle politiche economiche adottate, unendo così allo studio della struttura quello delle strategie, sempre più senza via d’uscita se non il conflitto, nella «notte autarchica» del fascismo.
Francesca Fauri
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Antonio Galdo, Fabbriche. Storie, personaggi e luoghi di una passione italiana, Torino, Einaudi, IX-153 pp., € 14,50
Milano, Torino, Genova, Sesto San Giovanni, Marghera, Valdagno, Parma, Pontedera,
Terni, Bagnoli, sono solo alcuni di quei luoghi simbolo dell’industrializzazione italiana in cui
sono ambientate le diciotto storie proposte nel volume in questione. Antonio Galdo, giornalista e, attualmente, direttore del quotidiano «L’indipendente», utilizza il materiale raccolto
per il programma radiofonico Alle otto della sera, trasmesso su Radio 2 alla fine del 2005, che
in venti puntate delineava la storia di alcune tra le più significative «fabbriche» italiane, per ricostruire in centocinquanta pagine, intrecciando luoghi, personaggi ed eventi, momenti significativi delle vicende di alcune tra le maggiori dinastie del capitalismo italiano, ripercorrendo così la storia dell’industrializzazione italiana dalle origini ai giorni nostri. Si parte dunque dalla Milano della dinastia Pirelli, ricostruita attraverso le vicende della Pirelli-Bicocca, la
grande città-fabbrica in cui arriveranno a lavorare 20.000 persone, e della famiglia Falck, per
anni il primo gruppo siderurgico privato italiano, che trasformò un piccolo centro agricolo
come Sesto San Giovanni in una città industriale; passando per la Torino della Fiat, incarnata dalle vicende del Lingotto, ma anche di Pininfarina; per la Valdagno della famiglia Marzotto, trasformata in una vera e propria company town che arrivò ad occupare 16.000 operai nell’industria tessile; per la Pontedera della Piaggio, per la Terni delle Acciaierie e la Fabriano della Merloni; per la Verona delle caldaie della famiglia Riello e la Parma dell’industria alimentare della famiglia Barilla; sino alle più recenti esperienze, legate alle nuove tecnologie, ai servizi, espressione del lavoro flessibile e creativo, esemplificato significativamente dai call center
dell’Atesia «regno metafisico del post-operaio» (quarta di copertina). Testimonianze, aneddoti, vicende personali, seppure non corredate dal riferimento a un adeguato apparato critico, se
si eccettua la presenza di una bibliografia essenziale, permettono comunque di ricostruire in
maniera sintetica fasi importanti della storia d’impresa italiana che, tuttavia, forse eccessivamente semplificando, viene simboleggiata dalla lotta dell’imprenditore per l’autoaffermazione economica e sociale: «Capitalisti senza capitale. Non avevano soldi e sono andati a prenderli ovunque: anche sotto i materassi dei contadini» (p. VII), e dalla coscienza dell’operaio,
il quale vedeva nella fabbrica il luogo della propria identità e dell’appartenenza di classe, e che
sentiva di costruire con il proprio lavoro la storia del paese. Un libro dunque affascinante e
intrigante come un romanzo, che ricostruisce in realtà solo una parte di una storia come quella dell’industrializzazione italiana, segnata certamente da entusiasmo, spirito di iniziativa, rischio ma anche, e non bisogna dimenticarlo, da vicende non sempre esaltanti ed edificanti,
da incertezze, compromessi, sfruttamento, corruzione: anche nel passato forse, a differenza di
quanto osserva l’a., imprenditori e operai «a vederli vicini […] erano tanto distanti, irraggiungibili come oggi» (p. VIII).
Angelo Bitti
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I LIBRI DEL 2007
Giorgio Galli, La venerabile trama. La vera storia di Licio Gelli e della P2, Torino, Lindau,
151 pp., € 16,00
Autore di innumerevoli pubblicazioni che spaziano dalla storia dei partiti a quella del terrorismo e della lotta armata, dal pensiero di Mao alle componenti esoteriche del nazismo e al
rapporto fra magia e potere nella politica occidentale, da molti anni a questa parte Galli ha prestato particolare attenzione alla dimensione «sotterranea» della storia italiana nel secondo dopoguerra: ossia i tanti misteri, complotti, scandali, stragi e progetti eversivi, che hanno scandito –
spesso in maniera cupa e dolorosa – il tempo della Repubblica. È del 1983 L’Italia sotterranea.
Storia, politica, scandali (Laterza), cui sono seguiti, fra gli altri, Affari di Stato (Milano, Kaos,
1991) e La regia occulta. Da Enrico Mattei a Piazza Fontana (Milano, Marco Tropea, 1996).
In questo volume l’a. si sofferma su uno dei più inquietanti complotti dell’Italia repubblicana (l’affaire P2) e sull’influenza che il suo tessitore, Licio Gelli, ha esercitato in alcuni snodi decisivi della vita politica ed economico-finanziaria del paese. Occorre premettere subito
che il libro non si basa su alcuna nuova risorsa documentaria né intende offrire al lettore una
ricostruzione puntuale del profilo biografico di Gelli e della vicenda P2. L’obiettivo è un altro: riproporre una lettura d’insieme della questione attingendo alla vasta pubblicistica esistente, individuando come (garbato) bersaglio polemico quella parte della storiografia che ha
sostenuto la tesi del «doppio Stato», ossia della «doppia lealtà» di una parte del mondo militare e dei servizi segreti italiani (alla Costituzione, ma anche e forse di più al Patto Atlantico
e alla NATO), in virtù della quale l’Italia repubblicana sarebbe stato un paese a «sovranità limitata» e al principale partito della sinistra, il PCI, sarebbe stato in vario modo impedito di
arrivare al potere. La tesi di Galli, argomentata in modo convincente, è che Gelli non abbia
«mai preparato colpi di stato», ma abbia «concorso, con i vertici dei servizi e delle forze armate reclutati nella Loggia, a elaborare vari passaggi delle iniziative di destabilizzazione, che
avrebbero dovuto condurre a una stabilizzazione moderata e all’emarginazione del PCI» (p.
95). I massimi dirigenti del Grande Oriente d’Italia, l’obbedienza di cui faceva parte la P2,
avallarono questa strategia, che si inquadrava nel tradizionale patriottismo massonico, adesso
«involuto in un pregiudiziale anticomunismo» (p. 36).
Resta da spiegare attraverso quali dinamiche un sodalizio come il Grande Oriente, rinato nel 1943 all’insegna dell’antifascismo e della difesa della democrazia, allora con forti radici anche nella sinistra social-comunista, sia approdato nel giro di un ventennio su posizioni
così radicalmente diverse, fino a far proprio il progetto reazionario di Gelli. L’a. offre qualche
chiave di lettura interessante (il rapporto consolidato fra massoneria e mondo militare, i legami con le obbedienze americane che si riattivarono a partire almeno dal 1943, la necessità di
riallacciare i rapporti con la massoneria inglese): ma quella della presenza massonica nell’Italia repubblicana resta una pagina di storia ancora sostanzialmente da scrivere.
Fulvio Conti
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I LIBRI DEL 2007
Giorgio Galli, Storia del socialismo italiano. Da Turati al dopo Craxi, Roma, Baldini Castoldi Dalai, 555 pp., € 19,50
Si tratta della quarta edizione di un libro concepito alla fine degli anni ’70 quando cioè stava delineandosi con estrema nettezza il periodo craxiano e la cui seconda edizione usciva proprio
mentre Bettino Craxi diventava il primo presidente del Consiglio socialista d’Italia. Eppure anche in un contesto di apparente marcia trionfale Galli continuava a cercare le spiegazioni sulla
anomalia di un socialismo italiano minoritario nella sinistra. Una dimensione minoritaria che,
Galli pensava, non si sarebbe modificata neppure sotto le insegne apparentemente trionfali di
Bettino Craxi. Proprio nella continuità, al di là delle apparenze, tra il modo di porre il problema
della riforma sistemica del primo Craxi, ed i modi della gestione del potere politico del secondo
Craxi, Galli individua le ragioni della crisi finale del Partito socialista italiano. Craxi aveva posto
il problema della «grande riforma» in termini che prescindevano totalmente da un’analisi del rapporto tra forze politiche, rappresentanze sociali, trasformazione e continuità delle forme economiche. La questione riguardava invece solo la superficie politica, anzi politicistica, di una gestione del potere sottratta alle difficoltà della coniugazione con i movimenti profondi della dimensione economico-sociale. Anzi proprio il rifiuto del tipo di analisi, dell’intera cassetta degli strumenti, necessari a porsi i problemi della riforma politica nei suddetti termini, veniva configurandosi come la cifra culturale di quello che ormai era un «nuovo» PSI. Di qui la navigazione esclusivamente manovriera di una forza politica che cercava di far fruttare al meglio una modesta consistenza elettorale. Di qui, data la condizione italiana, il rapido prevalere di una politica strettamente coniugata all’«economia della corruzione» che preparava le condizioni della fine. «È questo meccanismo che ha portato alla morte del PSI» (p. 510), afferma Giorgio Galli. La morte del
Partito socialista, appunto, non del socialismo italiano che è fenomeno assai più ampio e complesso. La «morte del socialismo» dovrà aspettare ancora qualche anno per essere ufficialmente
decretata. E come tutte le morti di organismi proteiformi, i cui mutamenti non si configurano
in definizioni generalmente accettate, quella stessa morte si trova ancora in fase di accertamento.
Il grosso volume di Galli, dunque, scartata la prospettiva della storia del socialismo, si
configura come la storia di una organizzazione politica, nella tradizione consolidata della storiografia dei partiti. Naturalmente Galli è troppo avvertito per chiudere questa scelta in una
dimensione di autosufficienza. Il quadro tracciato è invece assai attento all’aspetto del «guardar fuori». Come tutte le storie affatto politiche la posizione dell’a. è condizione fondamentale per la chiave di lettura. Galli sostiene che la democrazia «è in crisi dove è nata anche per
l’assenza di un pensiero critico che si richiami al socialismo». Sostiene «che vi è ancora spazio
per un socialismo che si colleghi alla sua storia, ora che non corre più il rischio di rimanerne
prigioniero». Nell’attuale dibattito sulla «morte del socialismo» Giorgio Galli, quindi, è tra
quelli decisamente contrari a metterci una pietra sopra.
Paolo Favilli
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I LIBRI DEL 2007
Massimo Gamba, Vermicino. L’Italia nel pozzo, Milano, Sperling & Kupfer, XIV-278 pp.,
€ 14,00
Il 10 giugno 1981 un bambino di sei anni, giocando su un prato a Vermicino, alle porte
di Roma, cadde in un pozzo profondo da cui sarebbe uscito cadavere. Un intera nazione, sotto shock per la scoperta delle liste della Loggia P2 (20 maggio), cercò di salvarlo tra improvvisazione e generosità, mentre il presidente della Repubblica Sandro Pertini sostava nei pressi
del pozzo strettissimo in cui invano si calavano acrobati, nani, speleologi. La televisione di Stato inviò i suoi mezzi tecnici per le riprese di cronaca, peraltro ancora ridottissimi (una sola telecamera); il collegamento non terminò, quasi spontaneamente, con la fine del telegiornale e
si svolse così la più lunga diretta televisiva della storia italiana: diciotto ore a reti unificate (Rai
Uno, Rai Due e per molte ore anche Rai Tre) in nome della neonata, e qui veramente insulsa, concorrenza interna fra reti Rai di diversa filiazione politica.
Questo è il tema del reportage che Massimo Gamba ha dedicato alla tragedia di un’Italia
che sembra arcaica, rurale e lontanissima. Il podere fra Roma e Frascati, con la casetta (abusiva) in costruzione e il micidiale pozzo privo di qualunque protezione; il bambino, cardiopatico ma dalla forte personalità, che gioca da solo e a un certo punto scompare. Le ricerche a
casaccio, che impiegheranno diverse ore per localizzarlo nella profondità del cunicolo. I pompieri che dirigono i soccorsi guidati dall’ing. Elveno Pastorelli, che diventerà poi il primo dirigente della Protezione civile, già costituita ma ancora inoperante. L’assenza di qualunque
competenza geologica sul territorio, surrogata da generosi ragazzi di un club speleologico. La
scelta fatale di calare nella fenditura del terreno una tavoletta di legno, che si incastrerà a metà
strada rendendo ancora più difficili i soccorsi. Il bambino che parla, con una voce percepita
chiaramente da tutti i telespettatori, e che scivola sempre più in giù, sfuggendo dalle braccia
di un soccorritore. L’accorrere sulla scena della tragedia di un vero circo mediatico: persone
che propongono di scendere nel pozzo, di sperimentare qualche loro invenzione, o perfino di
calare giù una scimmia ammaestrata.
Soltanto con grave ritardo viene tentata la strada che oggi fa parte del protocollo per affrontare simili incidenti: lo scavo di un pozzo parallelo. Giunge sul posto una enorme scavatrice, che
abbatte passando muri e filari di vite. Le operazioni saranno rallentate da uno strato impenetrabile di roccia. Al termine di un lavoro frenetico il bambino sarà raggiunto ormai esanime. Una
sensazione di impotenza si impadronirà di tutti, seguita da polemiche sull’inefficienza dei soccorsi, le circostanze dell’incidente e il ruolo che ebbero i vari familiari e parenti del bambino.
Giulio Nascimbeni sul «Corriere della Sera» si chiese «se esiste il diritto allo strazio, se sia
giusto far entrare in milioni e milioni di case quella voce di passero, quel richiamo di infinita
paura […]. Dovere di informazione, si dice. Ma ancora una volta è parso che un confine sia
stato valicato».
Enrico Menduni
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I LIBRI DEL 2007
Aldo Garzia, Olof Palme. Vita e assassinio di un socialista europeo, Roma, Editori Riuniti,
223 pp., € 15,00
Aldo Garzia è un giornalista che ha partecipato fin dagli inizi all’esperienza de «il Manifesto» e per alcuni anni è stato inviato a Cuba. Recentemente ha cominciato ad indagare la vicenda del socialismo europeo e ha pubblicato un libro-intervista su José Luis Zapatero. In Italia sono pochi gli studi storici sulle socialdemocrazie europee nel periodo della guerra fredda,
mentre ha prevalso a lungo l’attenzione verso le vicende del «socialismo reale». Libri come
quello di Garzia sono animati dal desiderio di capire se sia mai esistita la più volte evocata «terza via» europea fra capitalismo e comunismo. In modo inusuale per un testo storico, più comprensibilmente per un saggio dal tono giornalistico, il libro prende le mosse dalla fine, cioè da
un’avvincente rievocazione dell’omicidio di Palme nel 1986, il primo delitto politico della storia svedese, per il quale non è mai stato individuato il colpevole anche se molte sono le ipotesi e le congetture, alcune delle quali coinvolgono centrali internazionali. È un modo per descrivere in forma vagamente agiografica lo stile di vita di un capo di governo che andava al cinema senza scorta e in metropolitana, ma che, pur dietro il rispetto formale per lo statista, si
era attirato una profonda diffidenza per la sua politica estera sospetta di filocomunismo e per
la sua ostilità alla piena libertà imprenditoriale privata proprio nel momento in cui questa veniva ideologicamente rilanciata negli anni ’80 di Reagan. La parte centrale del volume tratta
dell’apprendistato politico di Palme come braccio destro di Tage Erlander, primo ministro svedese dal 1946 al 1969. Il 1968 esplode anche dietro l’apparente stabilità svedese, e Palme si
ritrova leader del partito impegnato ad espandere i servizi sociali. Dopo la sconfitta elettorale del 1976, nel 1982 Palme torna al governo con il Piano Meidner attraverso il quale i fondi
dei lavoratori avrebbero dovuto progressivamente acquisire il controllo delle imprese. Al centro dell’analisi di Garzia c’è il rapporto fra Palme e il capitalismo, «una pecora che va tosata
periodicamente, ma non ammazzata». In fondo, la sua sconfitta, così come quella del piano
Meidner, sembra adombrare l’a., è anche quella dei progetti europei di fuoriuscita dal capitalismo in senso socialista. Altra parte del volume è dedicata alla politica internazionale di Palme. Garzia descrive la sua precoce opposizione alla guerra nel Viet Nam, il viaggio a Cuba nel
1975, l’impegno per il disarmo all’interno dell’Internazionale socialista, l’appoggio al Nicaragua. Alcune pagine sono dedicate al dialogo inconcluso con Enrico Berlinguer. Si tratta di vicende rilevanti, purtroppo qui solo abbozzate, quindi non sempre comprensibili. Alla bibliografia manca tutta una serie di riferimenti a volumi importanti editi sull’Internazionale socialista e ad archivi che avrebbero permesso di chiarire alcuni passaggi delicati. Il volume può
utilmente essere preso come una prima introduzione alla questione della socialdemocrazia svedese, l’esperimento più avanzato di socialismo in Europa occidentale che ha cercato di coniugare modernizzazione e Stato sociale.
Giuliano Garavini
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I LIBRI DEL 2007
Oscar Gaspari, Stefano Sepe (a cura di), I segretari comunali. Una storia dell’Italia contemporanea, Roma, Donzelli, XII-259 pp., € 30,00
Questo volume svolge la storia dei segretari comunali dall’Unità alle riforme del 1997 attraverso i saggi di Stefano Sepe, Luigi Maria Leonardis, Oscar Gaspari, Giovanni Vetritto,
Giuliana Rago e Walter Anello. Il tema era stato affrontato, limitatamente all’età liberale, dal
libro di Raffaele Romanelli (Sulle carte interminate, Bologna, il Mulino, 1989). Come nota
Andrea Piraino nella Presentazione, la mancanza di studi sui decenni successivi sussisteva nonostante quella del segretario comunale si presenti come figura centrale nella pianificazione
delle amministrazioni urbane, negli ultimi decenni coinvolte in processi che vanno ridefinendo sostanzialmente l’assetto dei governi locali.
Riprendendo un’impostazione già presente nel lavoro di Romanelli, questi nuovi lavori si
propongono di leggere la storia dell’amministrazione nella sua declinazione sociale, ovvero di andare oltre il dato normativo per comprendere le funzioni esercitate nel vivo dai segretari, che a
lungo hanno costituito un trait d’union tra potere centrale e società locali. Il saggio introduttivo
(Sepe) ricostruisce utilmente i passaggi di questa vicenda, intrecciata alla storia dei modelli amministrativi: dalla funzione unificatrice svolta dai segretari dopo l’Unità, alla forte progettualità
dei Comuni in età giolittiana, al totale controllo del centro stabilito dal regime fascista. Nel secondo dopoguerra alla cesura politica e istituzionale non corrisponde un’innovazione circa i ruoli e i compiti dei segretari, che restano al vertice dei Comuni come «corpi estranei» all’ente locale, un paradosso smosso sostanzialmente solo nel corso degli anni ’90 e con la svolta del 1997.
Per l’età liberale si dà conto soprattutto dell’intreccio tra il movimento dei segretari e le
dinamiche politico-parlamentari messe in moto per ottenere un generale miglioramento delle condizioni della categoria (Leonardis) che, con l’avvento del fascismo, sembra inizialmente potersi riqualificare attraverso un nuovo professionismo. Ma, a partire dai tardi anni ’20, la
gestione dell’innovazione e dei servizi pubblici viene ricondotta al centro, segnando una sconfitta del movimento dei segretari, che tuttavia raggiungono l’obiettivo della «statizzazione»
con il loro inserimento, nel 1928, nei ranghi del Ministero dell’Interno (Gaspari). Lo scambio «sicurezza contro potere» è la chiave attraverso cui viene letta l’esperienza repubblicana,
all’insegna della continuità burocratica e dell’incapacità di riformare la pubblica amministrazione (Vetritto), mentre la riforma del 1997 (Legge 127), che pone i segretari alle dipendenze di un’apposita Agenzia nazionale autonoma, viene analizzata (Rago) sottolineando la complessità dei problemi insiti nell’applicazione di una «terza via» tra statizzazione e municipalizzazione. Il volume è chiuso da una testimonianza del direttore della Lega nazionale delle Autonomie locali negli anni ’90, Walter Anello, sulle dinamiche concorrenti alle riforme e i diversi attori che hanno animato il dibattito e la gestazione delle nuove leggi, cantieri aperti per
una definizione ancora in fieri di nuovi modelli per le autonomie locali.
Mariapia Bigaran
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I LIBRI DEL 2007
James L. Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese. Cent’anni di guerra, Torino, Einaudi, IX362 pp., € 19,50 (ed. or. Cambridge-New York, 2005)
Nonostante esistano già numerosi libri sul conflitto israelo-palestinese, è certamente da
apprezzare la scelta di Einaudi di pubblicare in italiano questo testo, uscito in inglese nel 2005.
Gelvin, professore di storia del Medio Oriente alla UCLA, ha, infatti, scritto un volume ottimo, molto chiaro, approfondito ma sintetico, soprattutto equilibrato. Caratteristica, quest’ultima, troppo spesso assente dai libri che affrontano tale argomento.
Il volume è diviso in dieci capitoli e affronta in ordine cronologico i molti eventi di questi
cento anni di conflitto, partendo da fine ’800 e arrivando sino alla guerra tra Israele e Hizballah
nell’estate 2006. Il nucleo centrale, come l’a. afferma nella nota introduttiva, è rappresentato dalla trattazione «della creazione, dell’evoluzione, dell’interazione, della reciproca definizione di due
comunità nazionali» (p. VII), impegnate a creare un proprio Stato nella poca terra a disposizione, la Palestina – Eretz Israel. Gelvin è giustamente convinto che la motivazione principale del
conflitto sia la volontà di garantirsi «la proprietà della terra» (p. 5). Ed è per questa ragione che
il libro si apre con il capitolo Il richiamo della terra, considerato un elemento centrale sia nella
costruzione dei due movimenti nazionali, sia nella loro auto-narrazione storica.
Partendo dalla diffusione dei nazionalismi in Europa, Gelvin racconta la nascita del sionismo, la realizzazione – accogliendo l’interpretazione di Gershon Shafir (p. 91) – del suo progetto di colonizzazione, la creazione delle istituzioni dell’Yishuv, il ruolo crescente della destra laica e religiosa nella vita politica israeliana a partire dal 1967. All’interno di tale analisi, Gelvin
non tralascia l’accenno ad un aspetto molto controverso e dibattuto, il ruolo che l’archeologia,
«lo sport nazionale d’Israele» (p. 15), ha avuto nel costruire la narrazione sionista e, più recentemente, nel giustificare l’occupazione della Cisgiordania e la diffusione degli insediamenti.
Parallelamente, Gelvin ricostruisce la storia del nazionalismo palestinese, a partire – in linea
con gli studi di Bishara Doumani (p. 45) – dalle trasformazioni socio-economiche avvenute in
Palestina a metà ’800, passando per la prima guerra mondiale, il mandato inglese, la «dispersione e l’esilio» (p. 176) successivi alla naqba, la vittoria di Fatah all’interno dell’OLP anche grazie
all’«onore» vendicato nella battaglia di Karameh (p. 259), fino all’intifada e all’affermazione di
Hamas. Un aspetto molto interessante, su cui Gelvin si sofferma, è il ruolo che dagli anni ’30 l’Islam ha avuto nel «nazionalismo palestinese di matrice popolare», tanto da fornire a questo «immagini e vocabolario» (pp. 139-140), come dimostra l’uso diffuso dell’appellativo shahid (martire), attribuito tuttora a chiunque muoia combattendo per la causa palestinese.
Un ultimo pregio del volume è rappresentato da alcuni strumenti, che permettono al lettore una migliore comprensione delle vicende: varie cartine, un glossario, una cronologia, un
elenco biografico dei protagonisti e, soprattutto, una serie di approfondimenti bibliografici
ragionati alla fine di ogni capitolo.
Arturo Marzano
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I LIBRI DEL 2007
Emilio Gentile, Fascismo di pietra, Roma-Bari, Laterza, X-273 pp., € 16,00
Partendo dall’assunto che «l’origine e la natura del mito fascista della romanità e dell’impero» sono temi essenziali alla comprensione del fascismo, l’a. ne esplora la «vasta colata di ideologia pietrificata» che fu riversata nella capitale durante il ventennio (pp. V e VI). La trasformazione urbanistica di Roma, già oggetto di vari studi, è qui osservata nel suo intreccio di implicazioni, il cui denominatore comune è rinvenibile nell’attualizzazione del mito della romanità. Il processo seguì un’evoluzione dagli esiti non scontati. Dopo aver condiviso a lungo il
giudizio sprezzante sulla capitale, simbolo di corruzione e parassitismo, Mussolini avviò il recupero della funzione mitica della romanità, riuscendo gradualmente a imporla come «la principale fisionomia simbolica del fascismo, che l’adottò per definire la sua individualità politica,
la sua organizzazione, il suo stile di vita e di lotta, e gli obiettivi stessi della sua azione» (p. 43).
La capitale diventò il luogo fisico e simbolico di una scoperta manipolazione dell’eredità
classica, che fu svuotata di ogni richiamo libertario (presente invece nella Rivoluzione francese e nel Risorgimento) e piegata alle esigenze della Roma fascista. Tuttavia non si trattava, nell’ottica di Mussolini, di un’operazione ispirata a mera «nostalgia reazionaria» né a «venerazione reliquiaria»; bensì di uno sforzo finalizzato all’«azione politica per la creazione del futuro»
(p. 48), in cui la rigenerazione monumentale era obiettivo e al tempo stesso strumento della
pedagogia totalitaria. In gioco erano il rifacimento del carattere degli italiani, l’assimilazione
di una moderna romanità, imperniata su disciplina, gerarchia, coscienza imperiale, vitalità
della razza e virtù militare, valori capaci di affermare il fascismo quale nuova civiltà universale. Scanditi da demolizioni e sventramenti, gli interventi urbanistici (via dell’Impero, l’ara dei
caduti fascisti in Campidoglio, la città universitaria e il Foro Mussolini, l’Eur e l’espansione
edilizia verso il mare) avrebbero dovuto siglare anche sul piano dell’estetica politica il senso
della rigenerazione totalitaria in corso, proiettando l’immagine del fascismo quale «ierofania
della Roma eterna nell’epoca della modernità» (p. 193). Ciò spiega anche il ricorso insistito a
canali di comunicazione – le mostre e le esposizioni (la Mostra della rivoluzione fascista, la
Mostra della romanità, la progettata E42) –, concepiti come «concrete esperienze di sacralizzazione della politica» (p. 165) entro cui poter sperimentare l’incontro di arte e politica.
Agile nello stile e nell’impostazione, seppure talora un po’ ripetitivo, ritmato da un’analisi costante delle immagini come fonti privilegiate, attento a cogliere le questioni di lungo periodo e gli scarti interni alla cultura fascista, il libro non si presta a una lettura superficiale: i
temi affrontati, sollevando nodi cruciali rispetto all’ambizione totalitaria e alle forme dell’autorappresentazione del regime, aprono una fitta rete di rinvii a problemi di metodo e di interpretazione, tra cui quello – che meriterà ulteriori scavi analitici – volto a misurare i livelli di
penetrazione e di ricezione della romanità fascista.
Massimo Baioni
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I LIBRI DEL 2007
Emilio Gentile, Il fascino del persecutore. George L. Mosse e la catastrofe dell’uomo moderno, Roma, Carocci, 176 pp., € 18,50
Nel contesto storiografico italiano Emilio Gentile è stato certamente fra i primi ad accogliere e seguire la lezione storiografica e metodologica di Mosse, in particolare in Il culto del
littorio (1993), una bella ricostruzione della natura e della efficacia delle liturgie del fascismo.
Così non sorprende che in questo suo nuovo libro Gentile tracci un profilo intellettuale di
Mosse. Il libro, che è accurato e scritto con acuta partecipazione, non si limita a ripercorrere
il contenuto delle principali opere storiche di Mosse, ma – ove necessario – allarga lo sguardo anche a saggi relativamente minori, oltre che alle versioni inedite delle lezioni che Mosse
tenne all’Università dell’Iowa così come ad altri documenti conservati nella George L. Mosse
Collection, presso il Leo Baeck Institute di New York.
Al centro dell’attenzione di Gentile c’è il lavoro incessante di ricostruzione e interpretazione che Mosse ha dedicato al nazismo e al fascismo. Alla base di questo percorso di studio
ci sono – com’è noto – dirette e dolorose esperienze di vita attraversate da Mosse e dalla sua
famiglia, come da molti milioni di ebrei europei: e il titolo del libro intende alludere proprio
al carattere intensamente autobiografico del contributo di Mosse alla storiografia.
Se la propria esperienza personale è ciò che motiva Mosse nella scelta dei temi che lo hanno
reso famoso, tuttavia questo retroterra non ne condiziona affatto le analisi: ciò che c’è di straordinario nei suoi lavori è infatti un’ammirevole capacità di mantenersi distante dai giudizi di valore, anche quando affronta gli aspetti più eticamente repulsivi dell’esperienza nazista: «Alla sua opera di storico del nazismo e del fascismo – scrive giustamente Gentile – [Mosse] non volle dare mai
il carattere di una inquisizione polemica retrospettiva o di una requisitoria morale» (p. 11).
Del tutto convincente è poi il riconoscimento della capacità di fascinazione che nazismo
e fascismo ebbero su una vasta massa di persone in Germania e in Italia; si trattò di una forza comunicativa condensatasi attraverso processi di lungo periodo che contribuirono a costruire i materiali simbolici, le formazioni ideologiche, le pratiche liturgiche su cui si fondarono i totalitarismi del XX secolo, un aspetto del lavoro di Mosse che Gentile ripercorre con
grande competenza.
Il libro si concentra soprattutto sul Mosse storico del nazi-fascismo novecentesco, e lo fa
in modo ineccepibile ed estremamente efficace. Con ciò restano forse un po’ troppo in ombra i contributi dedicati all’analisi del rapporto tra sessualità e nazionalismo o all’idea di mascolinità, che – a mio parere – avrebbero meritato un capitolo a parte: in fondo Sessualità e
nazionalismo, un libro del 1984, non solo esplora un aspetto centrale delle ideologie nazionaliste, ma anticipa perfino, e con grande intelligenza, temi e metodi della storia di genere, all’epoca ancora in fase di formazione (il saggio di Joan Scott sul «genere» come utile categoria
storiografica è solo del 1986!).
Alberto Mario Banti
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27-08-2008
16:48
Pagina 311
I LIBRI DEL 2007
Umberto Gentiloni Silveri, Maddalena Carli, Bombardare Roma. Gli Alleati e la «città
aperta» (1940-1944), Bologna, il Mulino, 290 pp., € 25,00
Questa ricerca negli archivi britannici e americani fornisce una visuale «dall’alto» della storia dei bombardamenti su Roma durante la seconda guerra mondiale. I protagonisti sono vertici politici, alti comandi alleati e diplomatici. Come specificano gli aa., è una visuale che esclude
il «basso»; la popolazione romana è presente in quanto va convinta, tramite volantini che precedono le bombe, ad abbandonare il fascismo, non come «vittima». Attraverso un’ottima scelta,
traduzione e commento dei documenti, gli aa. non si limitano all’analisi delle discussioni strategiche e morali tra Alleati, governo italiano e Vaticano, ma avanzano interrogativi sul rapporto fra
essi e la popolazione civile, un rapporto che si sarebbe poi costruito con la liberazione della città.
A differenza delle altre città europee bombardate, Roma legava, «anche inconsapevolmente, il destino di una storia millenaria agli esiti di un conflitto» (p. 10), oltre a essere il centro
della cristianità. Questo status speciale si tradusse, fino al luglio 1943 (quando Roma fu colpita per la prima volta), nella convinzione che la città fosse inviolabile, tanto che, contrariamente a quello che succedeva nelle altre capitali che durante la guerra si svuotavano, migliaia di persone dalle campagne circostanti si riversarono su Roma, sperando di trovarvi lavoro e rifugio.
Nelle corrispondenze alleate e vaticane, i dubbi sul bombardamento di Roma sono intrecciati alla più ampia questione della dichiarazione, unilaterale da parte di Badoglio nell’agosto 1943, di Roma «città aperta», discussa a più riprese fino alla liberazione. Il nesso tra
bombardamento e status speciale di Roma (che in seguito subì 51 incursioni con oltre 7.000
vittime) continuò a essere ribadito dalla diplomazia vaticana nel tentativo di garantirne l’immunità. I documenti chiariscono che per gli Alleati Roma era però prima di tutto la capitale
di un paese filo-nazista. Se la questione della città aperta accompagnò la riflessione degli Alleati e causò tentennamenti, soprattutto da parte degli americani (preoccupati delle reazioni
dei cattolici nel loro paese), la posizione rimase negativa: in guerra non ci sono mediazioni
possibili. Il fatto che il papa fosse preoccupato dall’arrivo di truppe alleate «di colore», oltre
allo scarso entusiasmo vaticano nei confronti della liberazione, confermava inoltre l’idea che
egli fosse ancora dalla parte sbagliata. Fin dall’ingresso dell’Italia in guerra, la questione non
fu mai se, ma quando fosse giustificato l’impegno dell’aviazione per un obiettivo che prima
dell’invasione della Sicilia non presentava valenza militare ma simbolica (sede del governo fascista). Con l’invasione, Roma divenne uno dei principali nodi di smistamento ferroviario,
avanzando quindi nella graduatoria degli obiettivi da colpire.
Se la prospettiva della popolazione non è oggetto di questa ricerca, le possibili reazioni
dei partigiani e dei fascisti romani discusse nelle corrispondenze alleate sono oggetto della riflessione degli aa., che mostrano come ogni bomba fosse un’occasione per addossare ogni responsabilità agli Alleati da un lato, ai tedeschi e ai fascisti dall’altro.
Claudia Baldoli
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I LIBRI DEL 2007
Dario Gerardi, La Suisse et l’Italie, 1923-1950: commerce, finance et réseaux, Neuchâtel,
Editions Alphil, 605 pp., € 39,00
Il ponderoso volume di Gerardi presenta i risultati di una ricerca sulle relazioni tra l’Italia e la Svizzera negli anni del fascismo, con un’estensione al successivo periodo della ricostruzione. La ricerca è stata condotta sulla scorta di un’ampia pluralità di archivi italiani ed elvetici, sia pubblici sia privati. L’obiettivo dello studio è ricostruire, in termini storiograficamente fondati, le conoscenze acquisite negli ultimi due decenni sulle relazioni tra i due paesi. In
tale prospettiva Gerardi intende integrare i risultati, non sempre soddisfacenti, delle ricerche
condotte dalla cosiddetta Commissione Bergier, costituita come noto dal governo federale nel
dicembre 1996 in risposta alle pressioni internazionali seguite allo scandalo dei fondi non reclamati in giacenza presso le banche elvetiche. La Commissione Bergier concentrò prevalentemente le proprie ricerche sui rapporti con la Germania nazista, lasciando tuttavia in ombra
le relazioni con l’Italia fascista. Opportunamente, pur imperniando la ricerca sugli anni cardine della seconda guerra mondiale, Gerardi estende l’analisi a un più ampio arco temporale,
individuato, secondo criteri giuridico-istituzionali che tendono però a sovrapporsi largamente con cesure politiche, nei due trattati italo-svizzeri del 1923 e del 1950. Una ricca messe di
dati consente di ricostruire in termini fattuali le relazioni commerciali e finanziarie tra i due
paesi, ponendo costantemente tali aspetti in risonanza con i rapporti politico-istituzionali.
Le relazioni italo-svizzere furono largamente influenzate dal responsabile della politica
estera elvetica, il cattolico conservatore Giuseppe Motta, il cui apprezzamento del regime fascista è noto. Ma le relazioni economiche e commerciali tra i due paesi avevano già una salda
profondità storica. La presenza di comunità di imprenditori elvetici in alcuni grandi centri urbani italiani sin dai primi dell’800 è dato di per sé sufficiente a richiamare la lunga durata di
un interscambio di capitali finanziari e di capitale umano tra i due paesi. La fascinazione verso il fascismo provata dai ceti dirigenti e dai gruppi intellettuali svizzeri rafforzò un mutamento di prospettiva nella valutazione delle capacità e delle qualità della penisola che dette maggior vigore alle relazioni commerciali e alla presenza degli investimenti diretti delle imprese
svizzere in Italia. Durante gli anni finali dell’esperienza fascista il legalismo del governo e in
generale dei ceti dirigenti elvetici giustificò il mantenimento di rapporti relativamente intensi con la Repubblica di Salò e ambigue relazioni tanto verso gli esponenti del fascismo, quanto verso la Resistenza. La ricerca di Gerardi propone una ricostruzione di grande ricchezza,
pur non presentando un quadro sufficientemente convincente della politica del governo elvetico verso i rifugiati civili. Se il governo federale offrì asilo a personaggi come Luigi Einaudi e
Adriano Olivetti, il console di Milano Franco Brenni arrivò, nell’ottobre 1943, a chiedere alle autorità di Berna una punta di maggior durezza verso «les juifs qui prétendent être persecutés».
Giandomenico Piluso
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I LIBRI DEL 2007
Marco Gervasoni, François Mitterrand. Una biografia politica e intellettuale, Torino, Einaudi, XVII-237 pp., € 22,00
Marco Gervasoni, autore di un documentato ed agevole volume sulla Francia del ’900
(Francia, Milano, Unicopli 2003), si è cimentato nella ricostruzione del percorso politico e
intellettuale dell’ex presidente francese François Mitterrand. L’impresa era titanica e forse l’a.
ne è rimasto sopraffatto. La scelta di Gervasoni è comunque limpida, ed argomentata nell’Introduzione: concentrarsi sulla figura, peraltro troneggiante, di Mitterrand, ed «isolarlo» per
quanto possibile dal contesto. Grazie a questa scelta il lavoro è stato contenuto in un numero ridotto di pagine senza debordare nelle dimensioni spesso ingestibili di tante altre biografie. Eppure in questo tentativo minimalista, alla Carver, qualcosa si è perso. In primo luogo
si è persa la dimensione intellettuale di Mitterrand. Nonostante il sottotitolo richiami questo
côté così rilevante della personalità del presidente francese, in realtà c’è assai poco del suo percorso intellettuale, delle sue frequentazioni, dei suoi gusti e della sua ambizione post-haussmaniana di lasciare una impronta sulla capitale transalpina. In secondo luogo c’è straordinariamente poco di un momento importante, discusso e controverso, della giovinezza del presidente, dalle sue infatuazioni droitière al suo allineamento a Vichy fino al passaggio alla Resistenza. Gervasoni non ignora certo il dibattito, anche velenoso, che si è acceso su quei passaggi e
le zone d’ombra che, come ricorda, ancora ricoprono quel momento. E tuttavia maggiore attenzione alla documentazione e alle diatribe suscitate dalla «riscoperta» di quel passato, sarebbero state utili. Lo stesso vale per altri momenti cruciali della vita politica di Mitterrand, dal
’68 alla conquista del PS, trattati con una rapidità resa inevitabile dalla dimensione del lavoro, ma che nondimeno lascia insoddisfatti i lettori più avvertiti.
Altrettanto perplessi si resta di fronte ad un giudizio che l’a. dà sul presidente nelle pagine introduttive, quando lo definisce un politico non professionista, alla Max Weber, nonché
un impolitico. Ora si può dire tutto di Mitterrand ma impolitico proprio no. Se c’è un leader
che ha vissuto, benché non weberianamente, di politica, giorno e notte, questo è Mitterrand.
Certo non alla maniera stereotipa ed oleografica del dirigente del partito di massa – tipo di
partito presente solo sub specie di PCF in terra francese – bensì in quella, tutta transalpina, del
notabile «radicale», distante anni luce dalle riunioni di sezione e dai riti partitici, ma finissimo analista e tessitore di strategie. Non per nulla Mitterrand è il primo, e a lungo il solo, a sinistra che comprende la logique presidentielle introdotta dalla V Repubblica e a comportarsi di
conseguenza.
Infine, l’assenza di una riflessione d’insieme, appena accennata nella breve Introduzione,
priva il lavoro di quel respiro che la cronaca delle vicende, spesso narrata con piglio agile e necessariamente veloce, non poteva dare. E questa mancanza, purtroppo, non rende giustizia
della competenza dell’a.
Piero Ignazi
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I LIBRI DEL 2007
Marco Gioannini, Giulio Massobrio, Bombardate l’Italia. Storia della guerra di distruzione aerea 1940-1945, Milano, Rizzoli, 507 pp., € 24,00
Il volume ripercorre la storia dei bombardamenti alleati sull’Italia dal 1940 al 1945. Gli
autori ricostruiscono la cronologia dei bombardamenti con le loro caratteristiche militari (potenza delle bombe, quantità di aerei, composizione delle squadre) attraverso la documentazione di archivio italiana e internazionale (prevalente quella proveniente dal Public Record Office di Londra) e ne analizzano le ripercussioni locali attraverso fonti secondarie: testimonianze, biografie, notizie tratte da articoli e volumi di storia locale, di cui viene data ampia bibliografia in fondo al volume.
La narrazione come la riflessione sulle vicende vengono esposte attraverso l’individuazione di fasi differenti, che si distinguono per una specifica strategia politica oltre che militare:
la spinta al «collasso morale» della nazione e la pressione sulla classe dirigente del regime e sulle sue contraddizioni; i bombardamenti tattici legati agli sbarchi, ai combattimenti terrestri
lungo le linee di fortificazione tedesche. In ogni fase viene poi analizzata la condizione della
popolazione civile: il razionamento e la fame, lo sfollamento dalle città, le vittime.
Una particolare attenzione viene posta sulle differenziazioni regionali e, cosa nuova nei
volumi di ampia divulgazione, viene sottolineata la gravità della situazione nel Mezzogiorno,
«una questione meridionale» nella guerra: il numero di raid e le distruzioni che le città e i paesi meridionali ebbero a subire appaiono di gran lunga superiori nell’Italia meridionale.
Un lavoro divulgativo, costruito con un certo rigore. In rete, nel sito web di Rizzoli, si
può consultare un data base con le informazioni sui singoli raid.
Gabriella Gribaudi
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I LIBRI DEL 2007
Francesco Giordano, Storia del sistema bancario italiano, Prefazione di Marcello De Cecco, Roma, Donzelli, XIII-270 pp., € 32,00
La storia della banca e della finanza in Italia vanta una produzione di elevato livello scientifico e forse proprio per questo i lavori di sintesi sono paradossalmente molto più ardui da
realizzarsi. Ci ha provato Francesco Giordano, che storico non è (è responsabile dell’Area Pianificazione, strategie e studi del Gruppo UniCredit), realizzando uno studio che offre un’immagine secolare del sistema bancario italiano: dalla banca mista alla «nuova» banca universale, passando attraverso l’intervento pubblico, la faticosa trasformazione del sistema negli ultimi trent’anni, fino alle privatizzazioni e all’emergere di nuove aggregazioni in un contesto di
mercato molto più aperto che in passato. Coadiuvato da uno staff di prim’ordine che mastica finanza e analisi economiche tutti i giorni, l’a. dà inevitabilmente il meglio di sé là dove gli
storici si sono fermati: a partire dagli anni ’70. In effetti, la prima parte del libro, priva di sbavature, ma anche di picchi interpretativi originali, è in un certo senso «dovuta», un po’ come
i capitoli iniziali di tesi che offrono invece elementi originali man mano che ci si addentra nella ricerca. Così accade con questo libro, che presenta capitoli (il quarto e il quinto) di assoluta rilevanza interpretativa, oltre che di grande efficacia sintetica. Emergono qui le conoscenze extra-fonti, i ferri del mestiere di chi è abituato ad operare in un grande gruppo bancario
internazionale e che sa che deve guardarsi attorno per capire il contesto in cui verranno prese
le decisioni della banca. In questa parte si rarefanno ulteriormente le fonti storiografiche e dominano le analisi di esperti della finanza e di economisti, sebbene non vengano sottovalutate
le pesanti implicazioni dei condizionamenti che il mondo politico italiano ha esercitato fino
ad epoche molto recenti sul sistema finanziario nazionale. Il legame tra quanto avveniva a livello internazionale e quanto il mondo bancario italiano fu costretto a fare a seguito dei processi che avvenivano fuori dai confini viene esplicitato nell’analisi dei mutamenti avvenuti negli anni ’80, ma anche nell’osservazione delle molte remore con cui si pose mano ad una riforma del sistema creditizio. Il ruolo della Banca d’Italia – da una parte frangiflutti rispetto alle
invasioni di campo della politica, dall’altra rompighiaccio rispetto alle titubanze di una parte
del mondo bancario stesso – emerge in tutta la sua valenza di autentica levatrice di una nuova fase della storia bancaria italiana. Il coronamento di tale processo avviene, pur tra mille titubanze e non pochi errori, durante le privatizzazioni, negli anni ’90, che vedono tra i protagonisti assoluti proprio le maggiori banche del paese. Resterà deluso chi si aspettava elementi originali da quest’ultima parte, costruita dall’a. in maniera molto istituzionale e qua e là paludata (invano si cercherà un nome di banchiere) e sorprenderà vedere Enrico Cuccia, che pure qualche cosa ha fatto nella storia del sistema bancario italiano, «sparire» da quelle vicende
dopo il 1977.
Luciano Segreto
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I LIBRI DEL 2007
Pietro Domenico Giovannoni, «A Firenze un concilio delle nazioni». Il primo Convegno per
la Pace e la Civiltà Cristiana, Firenze, Polistampa, 301 pp., € 16,00
Primo volume di una sottoserie di «Studi e testi» della collana «I libri della Badia» promossa dalla Fondazione La Pira, il libro ricostruisce la genesi, la preparazione e lo svolgimento del primo Convegno per la pace e la civiltà cristiana organizzato da La Pira a Firenze nel
giugno 1952. Avvalendosi della ricca documentazione conservata nell’archivio della Fondazione – «un vero e proprio “archivio nell’archivio”» (p. 17), contenente i carteggi, i rapporti e
le proposte relativi ai convegni tenuti annualmente dal 1952 al 1956 –, Giovannoni ricostruisce puntualmente il contesto, le difficoltà, le intenzioni, che informarono la preparazione e lo
svolgimento di questa prima iniziativa lapiriana a carattere internazionale, sulla quale mancava ancora una ricerca specifica.
È questa lacuna che l’a. intende dunque iniziare a colmare, a partire da una ricognizione
delle fonti e da un’attenta lettura degli atti dei convegni di cui nel primo capitolo si ripercorre
efficacemente l’itinerario. Progettati come l’occasione per una riflessione culturale sulla validità
«politica» della civiltà cristiana e sul contributo che essa poteva dare alla costruzione della pace
nella fase più rigida della guerra fredda, i cinque convegni del 1952-1956, così come il Convegno dei sindaci delle capitali del 1955 e i quattro Colloqui mediterranei, registrano infatti un’evoluzione di prospettive, di temi, di orizzonti, pur all’interno di un quadro che resta per molti versi invariato e in cui sono chiaramente riscontrabili elementi e categorie costanti nel tempo, come quelle di «crisi della civiltà», «civiltà cristiana», «regalità di Cristo». Merito del puntuale studio di Giovannoni – corredato da un’ampia appendice documentaria con le relazioni
principali degli atti del convegno del 1952 e il carteggio inedito con vari ambasciatori, con il
sostituto della Segreteria di Stato mons. Montini, con alcune personalità di spicco del mondo
cattolico quali Jacques Maritain, Charles Journet e Vittorino Veronese – è dunque quello di
iniziare a documentare con acribia le sfumature, le oscillazioni e le diverse accezioni con cui La
Pira utilizza queste categorie, evidenziando la coesistenza del ricorso a espressioni tipiche del
cattolicesimo intransigente con una sincera volontà di dialogo con la modernità secolarizzata
nella sua versione laica e marxista, così come con le tradizioni religiose dell’emergente mondo
arabo, africano e asiatico. In questo senso la ricostruzione della preparazione del primo convegno del 1952 – i rapporti con l’interlocutore vaticano, i canali attivati per la nomina dei rappresentanti delle nazioni, la scelta dei relatori – apre una pista di ricerca senz’altro molto feconda per approfondire sia l’evoluzione del pensiero politico lapiriano, delle sue continuità e discontinuità, delle sue incertezze e piccole variazioni, sia il crescendo di interesse che i convegni
coagulano in molti ambienti diplomatici, in alcune élites culturali dei paesi arabi mediterranei
e nel reseau di intellettuali e gruppi del cattolicesimo progressista francese legati alla prospettiva maritainiana di una nuova cristianità profana o all’esperienza della nouvelle théologie.
Silvia Scatena
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I LIBRI DEL 2007
Elisa Giunchi, Afghanistan, Storia e società nel cuore dell’Asia, Roma, Carocci, 149 pp., €
13,50
Elisa Giunchi offre un’ampia panoramica di storia afghana, che permette di leggere le vicende recenti di questo paese nel quadro di una prospettiva storica lunga e di collocarle in un
complesso contesto di rapporti internazionali. L’a. spiega che in Afghanistan il processo di affermazione dello Stato, come autorità politica centrale, è stato parziale e non costante nel tempo. Lo Stato è debole perchè riflette una società divisa, attraversata da una continua competizione tra poteri locali che hanno nelle campagne le loro radici. Quando un gruppo politico
o un’alleanza riesce ad imporsi e ad ottenere il controllo sulla città e sullo Stato, la sua capacità di mantenersi al potere dipende dalla sua forza, anche militare, e dalla sua capacità di dialogare con i molti poteri locali. Se vuole governare e modernizzare il paese deve, in qualche
modo, anche polemizzare con la tendenza della società a conservare tradizioni antiche e a mantenere gli equilibri di potere locale ad esse connessi. La storia afghana dell’ultimo secolo è segnata da un alternarsi di fasi di riformismo (che si concretizza in particolare in leggi sulla famiglia e sui diritti delle donne) e di fasi in cui le riforme sono respinte da tendenze politiche
che fanno appello al rispetto di tradizioni ritenute tradite. Un colpo di Stato ha più volte segnato il salto da una fase all’altra.
Elisa Giunchi sottolinea come l’imposizione di riforme radicali dopo il colpo di Stato del
1978 apra la via a reazioni nel paese e porti all’intervento militare sovietico. L’a. analizza il
quadro delle relazioni internazionali attorno ai conflitti iniziati allora e in corso ancor oggi. Il
gioco tra le potenze, si direbbe, diventa predominante tanto che gli equilibri interni del paese sono leggibili soltanto tenendo conto delle possenti ingerenze esterne. Tra queste, quella degli Stati Uniti è indubbiamente di importanza centrale anche se probabilmente non è sorretta dalla grande capacità strategica che le attribuisce Giunchi. Il ruolo giocato dagli USA è rilevante anche, e forse soprattutto, per la sua mancanza di lungimiranza. L’attenzione, giustamente rivolta verso il protagonismo degli USA, porta però l’a. a mettere in secondo piano l’azione dell’URSS. Vorremmo entrare più nel merito di quanto accade negli anni della disastrosa occupazione sovietica, perché questo è un aspetto indispensabile per comprende quanto avviene dopo. L’a. però non ci porta in questa direzione.
L’ultima parte del libro tratta dei talibani, della loro sconfitta e della situazione di oggi.
Stranamente quando affronta la politica di Karzaj e i suoi compromessi con esponenti politici prima legati ai talibani o difensori del tradizionalismo localistico, oppure quando descrive
la Costituzione attuale, che lascia spazi al conservatorismo islamico, l’a. prende posizione criticando la mancanza di radicalità e i compromessi. Un governo troppo riformista, e troppo
sensibile alle ragioni degli occidentali, avrebbe possibilità di influire sulla società afghana senza accentuare le consuete risposte conservatrici e localiste?
Marco Buttino
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I LIBRI DEL 2007
Elisa Giunipero, Chiesa cattolica e Cina comunista. Dalla rivoluzione del 1949 al Concilio
Vaticano II, Prefazione di Agostino Giovagnoli, Brescia, Morcelliana, 254 pp., € 18,00
Il volume di Elisa Giunipero fornisce una minuziosa ricostruzione del rapporto conflittuale tra la Cina comunista e la Santa Sede attraverso l’analisi, compiuta sulla base di un’ampia documentazione inedita cinese, della genesi del movimento cattolico «patriottico». Pur facendo uso della bibliografia internazionale di riferimento, prevalentemente concentrata sulla
Chiesa cattolica clandestina duramente perseguitata dal 1949 ad oggi, l’a. contesta il postulato secondo il quale il regime guidato da Mao si proponesse sin dagli esordi di distruggere il
cattolicesimo in Cina. Senza negare l’esistenza e l’ampiezza della persecuzione dei cattolici, si
tenta di contestualizzarne le motivazioni politiche (eccellente la trattazione, corredata da
un’appendice documentaria, dell’espulsione dell’internunzio apostolico mons. Antonio Riberi e degli altri missionari occidentali). I comunisti cinesi non avrebbero dunque desiderato la
completa scristianizzazione del paese, almeno sino alla seconda metà degli anni ’50, ma piuttosto l’affermazione di un movimento cattolico «autoctono» spiritualmente legato al Vaticano ma politicamente asservito allo Stato. L’affrancamento del nuovo cattolicesimo legittimista dalla tutela esercitata dai missionari stranieri avrebbe favorito il superamento delle contrapposizioni ideologiche con il clero, grazie anche alla peculiare compenetrazione di dottrina cristiana, dettato comunista e tradizione sincretica cinese che costituì nei primi anni ’50 la
base filosofica del Movimento delle Tre Autonomie e successivamente (dal 1957) la principale fonte di legittimazione politica dell’Associazione patriottica dei cattolici cinesi. Soltanto in
concomitanza con il cosiddetto Grande Balzo (1958-1961) la politica religiosa del regime
maoista conobbe un ulteriore inasprimento: diversi vescovi e centinaia di sacerdoti e fedeli
vennero imprigionati e condannati, mentre nei confronti del Vaticano i comunisti cinesi si
orientarono verso una politica di totale chiusura.
Il paziente e intelligente lavoro di scavo di Elisa Giunipero rende conto del faticoso lavoro di mediazione spirituale e politica compiuto da quella parte del clero che, convinta dell’inutilità della resistenza e del martirio di fronte alla pressione governativa, optò (in forme e
gradi differenti) per la collaborazione. Per l’equilibrio e la sensibilità con cui tratta «dall’interno» una materia delicata, senza giudicare a priori ma cercando di capire motivazioni e meccanismi dell’interazione politica fra il regime di Pechino e i cattolici che accettarono di collaborare con esso, il lavoro di Giunipero si inserisce in una nuova stagione di studi comparativi sull’evoluzione del rapporto Stato-Chiesa negli Stati comunisti dell’Europa orientale e dell’Asia. Possiamo solo augurarci che l’a. voglia proseguire le sue ricerche e indagare in un prossimo studio come vennero riavviati i contatti fra la Cina e il Vaticano in seguito al superamento della furia antireligiosa degli anni della rivoluzione culturale.
Stefano Bottoni
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I LIBRI DEL 2007
Francesca Giusti, Vincenzo Sommella, Storia dell’Africa. Un continente fra antropologia,
narrazione e memoria, Roma, Donzelli, XII-241 pp., € 16,50
Questo primo volume del progetto dedicato alla «Storia dei continenti» nasce per portare la storia dell’Africa fuori dagli ambiti ristretti dell’accademia e diffonderla. La prima parte
riguarda l’antichità fino al 1500; la seconda analizza alcuni temi della modernità in chiave interdisciplinare. Il fine è creare una storia africana dell’Africa, consapevoli che il continente è
stato letto in primis attraverso la mediazione della società europea.
La prima parte è molto descrittiva e la trattazione è condotta su grandi aree geografiche,
per sintetizzare il più possibile e affrontare il discorso in chiave comparativa. Le principali formazioni politiche africane, statuali e acefale, sono delineate in quadri regionali e sincronici.
Da notare, nella trattazione dell’Africa orientale, la citazione di Assum per riferirsi alla monarchia salomonica dell’Etiopia invece della dizione corretta Axum, e la parola arcaica mussulmano invece della corretta musulmano. Più interessante è la seconda parte dal XVI secolo ai nostri giorni, più agile nella descrizione tematica e più chiara nell’esposizione. Volutamente gli
aa. hanno trattato solo alcuni temi di base – tratta degli schiavi, colonialismo, decolonizzazione – argomenti chiave della storia moderna del continente. Il capitolo VI confronta la tratta
degli schiavi per il nuovo mondo con la schiavitù interna al continente, il VII descrive la trasformazione sociale dello Stato indigeno in seguito alla tratta, per aree geografiche. Se l’esposizione è chiara, appare più discutibile inserire in fondo a questo capitolo una pagina intitolata La tratta degli schiavi e il problema del tribalismo (p. 148), tema troppo complesso che per
la grande produzione scientifica in merito non è possibile affrontare in un’opera divulgativa.
I capitoli su colonialismo e decolonizzazione sono i più articolati. Il lettore beneficerà dal vedere argomenti come l’assimilazione francese, l’indirect rule britannico, l’invenzione della tradizione,
lo sfruttamento economico. Giustamente il capitolo sulla decolonizzazione enfatizza il ruolo delle
due guerre mondiali nel produrre mutamenti di rilievo sul terreno coloniale e nell’aumentare la coscienza critica degli africani e il loro ruolo contrattuale nei confronti dei colonizzatori. Tema non
sempre considerato come merita e che qui trova spazio, insieme al peso delle ideologie nazionalistiche. L’ultimo capitolo affronta alcune dei problemi più importanti del periodo contemporaneo –
megalopoli, malattie, ambiente – con l’analisi di alcune guerre locali, differenziate per aree. Il Corno d’Africa e il Rwanda con il Darfur appaiono le crisi più importanti, la Nigeria e il Sudafrica i due
Stati più contraddittori nelle scelte dello sviluppo moderno. Chiudono delle schede di approfondimento incentrate su arte in Africa, socialismo africano, sguardo dell’Occidente, progresso.
Non va cercato qui ciò che gli aa. non volevano proporre, cioé un trattato sulla storia dell’Africa. È un’opera di divulgazione, utile nel panorama italiano per introdurre la storia dell’Africa nelle scuole secondarie. A lungo sottovalutato, il continente africano deve essere analizzato, discusso e posto in rilievo, per confrontarsi con la mondializzazione degli spazi.
Irma Taddia
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Linda Giuva, Stefano Vitali, Isabella Zanni Rosiello, Il potere degli archivi. Usi del passato e
difesa dei diritti nella società contemporanea, Milano, Bruno Mondadori, XI-212 pp., € 20,00
Il potere degli archivi è un ossimoro: il primo termine rimanda alle moderne tecniche del
controllo della memoria, il secondo evoca l’idea di polverosi depositi di carte. Gli archivi hanno
spesso trasmesso l’immagine «sfuggente e opaca di un potere lontano e vessatorio» (Giuva, Archivi e diritti dei cittadini, p. 24); e Vitali ci dà, nella prima parte del suo Memorie, genealogie,
identità, una sintesi efficace di questo modo di rappresentarli come regno degli arcana imperii.
Eppure, al tempo stesso, è sempre esistito un «potere degli archivi»: Zanni Rosiello (Archivi, archivisti, storici) documenta come sia stato efficacemente esercitato, in particolare a partire dall’unificazione nazionale. A cosa sono serviti gli archivi nella costruzione della nazione?
Innanzitutto a fondare la certezza dei diritti, classificando i materiali della certificazione pubblica; in secondo luogo a creare e consolidare una tradizione dello Stato, avvalorando prassi,
consuetudini, manifestazioni del potere, linguaggi specifici delle istituzioni; infine gli archivi,
alla pari di musei, pinacoteche, gallerie d’arte, biblioteche nazionali, hanno giocato un ruolo
centrale nel processo di costruzione dell’identità nazionale.
Qui però Zanni evidenzia alcune decisive contraddizioni: perché emergono le stesse incrinature tipiche di ciò che Raffaele Romanelli ha chiamato «il comando impossibile». Ecco dunque
una dicotomia destinata a durare, tra gli archivi come fattore dell’unificazione nazionale e come
luogo, invece, deputato alla valorizzazione della memoria locale, legati alla geografia e alla storia
delle cento città. Archivi dunque come santuari dello Stato centralista ma al tempo stesso come
cattedrali della storia locale. E poi la corposa e irriducibile presenza degli archivi ecclesiastici; la
vitalità degli archivi privati e di famiglia; la nuova realtà degli archivi degli enti locali; e l’irruzione degli archivi delle banche novecentesche, e più tardi degli enti pubblici e delle corporazioni;
dei partiti politici, dei sindacati, delle imprese. Il pluralismo istituzionale tipico dell’Italia del ’900
gradatamente erode la coerenza del modello organizzativo basato sulla rete provinciale degli archivi di Stato: anticipa la crisi strisciante che concluderà nell’attuale galassia.
Vitali e Giuva riprendono il tema dove il saggio della Zanni lo aveva sapientemente abbozzato. Documentano la produzione di archivi non più solo cartacei, di immagini, o addirittura informatici (Giuva); riflettono sul mutare della domanda sociale (Vitali), cui si connette un’esigenza nuova di legittimazione; evocano il nesso tra gli archivi-gestione della memoria e lo sviluppo della democrazia. Si aggiunga l’effetto rivoluzionario dell’informatica che
rende possibile «navigare» in più archivi, archivi sempre più «meticci», in cui vanno stemperandosi i tradizionali confini identitari del documento rispetto agli altri oggetti della memoria. Di queste radicali trasformazioni dà conto il volume. Nella consapevolezza che i problemi connessi agli archivi sono oggi parte viva della lotta per affermare una nuova cittadinanza
democratica. Troppo importanti per essere lasciati ai soli archivisti.
Guido Melis
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27-08-2008
16:48
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I LIBRI DEL 2007
Eric Gobetti, L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia 1941-1943, Roma, Carocci,
259 pp., € 19,00
Le occupazioni balcaniche italiane nel 1941-1943 sono un tema ancora largamente rimosso e ben poco studiato; questo volume, agile come impianto, ma fitto di pagine, ci offre
aperture interessanti e una buona sintesi. Con un’avvertenza necessaria, il sottotitolo dettato
dall’editore è troppo ambizioso, l’a. precisa subito che si occupa «della parte dello Stato indipendente croato compresa tra la Dalmazia annessa all’Italia e la linea di demarcazione italotedesca» (p. 15), più o meno metà della Jugoslavia (restano escluse la Slovenia a Nord, la Serbia, il Montenegro, la Macedonia a Sud). Ciò non toglie interesse al volume, la materia trattata è già grande e complessa.
Il primo merito di Gobetti è di avere studiato il serbo-croato, che gli ha permesso di affrontare la storiografia jugoslava. Che non è facile; prima il trionfalismo patriottico del dopoguerra come elemento costitutivo del nuovo Stato, poi la crescita di una storiografia scientifica, dopo il 1990 lo sviluppo di nuove strumentalizzazioni secondo le sciagurate divisioni etniche. Dinanzi alle quali Gobetti è risalito a monte. Le sue ricerche negli archivi di Belgrado
e Zagrabia non sono certo esaustive, ma ricche di nuovi elementi. Lo stesso si può dire delle
sue ricerche nei diversi archivi romani, limitate, ma interessanti.
Il quadro dell’occupazione italiana della Jugoslavia croata che Gobetti traccia è soddisfacente e in parte nuovo, grazie all’utilizzazione delle fonti citate. La politica di occupazione del
territorio dei comandi italiani con una rete di presidi statici e una serie di rastrellamenti è bene descritta, anche nei suoi costi elevati di devastazioni e fucilazioni. Così come i rapporti di
collaborazione che i comandi italiani stabilirono con le formazioni cetniche con il comune
obiettivo di combattere i partigiani comunisti di Tito. Viene infine ricordato il sostanziale fallimento dell’occupazione italiana, che non riuscì a impedire la crescita del suo maggiore nemico, la guerra partigiana comunista. In sostanza un buon volume di sintesi, con qualche svista dovuta alla fretta (a p. 49 l’ingresso delle truppe inglesi in Addis Abeba viene anticipato di
un mese; a p. 184 Roatta viene presentato come un reduce d’Etiopia anziché di Spagna).
Un buon volume, ma con un titolo sciagurato: L’occupazione allegra. Tutto si può dire dell’occupazione italiana, salvo che fosse allegra, per la popolazione che la subiva e per i soldati italiani che la conducevano. Secondo Gobetti «se i tedeschi incutevano timore, ma anche rispetto,
l’occupazione italiana non era vista come una cosa seria», tanto che «nel linguaggio ufficiale (sic)»
dei partigiani comunisti era definita appunto «l’occupazione allegra» e gli italiani considerati «come nemici da operetta, pessimi soldati, codardi…» (p. 176). Vecchi stereotipi sorprendenti nel
volume di un giovane che invece documenta ampiamente la durezza dell’occupazione italiana e
la cinica efficacia degli accordi dei comandi italiani con i cetnici. La ricerca di un titolo che faccia colpo non è il modo migliore di presentare una ricerca così interessante.
Giorgio Rochat
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I LIBRI DEL 2007
Judith R. Goodstein, The Volterra Chronicles. The Life and Times of an Extraordinary
Mathematician 1860-1940, Providence, American Mathematical Society, 310 pp., s.i.p.
La figura del matematico Vito Volterra è sicuramente una delle più affascinanti negli anni del cosmopolitismo scientifico della belle époque; egli visse poi con passione e coinvolgimento anche la crisi di quel mondo, con la prima guerra mondiale e il ventennio tra le due
guerre. Judy Goodstein ha dedicato quasi tre decenni di ricerche a questa figura, per realizzare una biografia (prossimamente tradotta anche in italiano per Zanichelli) che non solo ne ricostruisca la straordinaria avventura scientifica e umana, ma la renda nota a un vasto pubblico di lingua inglese che spesso non riesce a guardare al di là dei propri confini geografici e linguistici. In questa ottica, l’a. dedica ampio spazio alla dimensione internazionale dell’attività
di Volterra non solo come ricercatore, ma anche come organizzatore di scienza, e soprattutto
al Volterra privato. Sono quindi ricostruiti puntualmente la formazione e i primi segnali della precoce vocazione scientifica, le emozioni di un giovane che subito dopo la laurea, a soli 23
anni, vince una prestigiosa cattedra universitaria, il matrimonio che cambia la sua vita e coincide con l’inizio di una nuova fase in una carriera già straordinaria, i suoi molti viaggi. Meno
spazio, comparativamente, è dedicato agli anni conclusivi della vita di Volterra, che coincidono con la sua emarginazione politica, e che sono invece quelli oggi più noti al pubblico italiano, che lo ricorda soprattutto come uno dei pochissimi docenti universitari che non giurarono fedeltà al fascismo. Per quanto riguarda la ampia e complessa produzione scientifica di Volterra, infine, l’a. sceglie di non affrontare direttamente l’argomento e di affidarsi invece alla
ricostruzione, pubblicata in appendice al volume, che ne fece nel 1941 un altro grande matematico, Sir Edmund Whittaker. Nella sua ricostruzione biografica l’a. si avvale non soltanto
di fonti già note, e in particolare dell’archivio Volterra presso l’Accademia dei Lincei, ma anche di fonti private da lei stessa localizzate e studiate per la prima volta. Purtroppo, per volontà di chi le ha comunicate all’a. (presumibilmente un erede di Volterra), tali fonti restano
non identificate, né è noto il luogo dove sono custodite: esse sono pertanto inaccessibili ad altri studiosi che volessero, stimolati da questa biografia, approfondire altri aspetti della personalità del grande matematico. Non si può, a questo proposito, non ricordare la generosità con
cui altri eredi di Vito Volterra hanno messo a disposizione degli studiosi non solo il materiale donato ai Lincei e pubblicamente fruibile, ma anche i pochi materiali privati rimasti ancor
oggi nelle loro mani: e il paragone non è certo favorevole per l’anonimo detentore di questa
ulteriore e interessante documentazione. Se dunque l’uso estensivo che l’a. fa di queste fonti
è meritorio, in quanto ne permette la fruizione, pur parziale e mediata, a tutti i lettori, resta
il rammarico di non poter disporre della documentazione nella sua totalità.
Giovanni Paoloni
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I LIBRI DEL 2007
Elisa Gori, L’istruzione in appalto. La scuola elementare a sgravio dall’unità al fascismo, Milano, FrancoAngeli, 219 pp., € 18,00
Storica dell’educazione, Elisa Gori dedica un volume alle scuole elementari a sgravio, meglio conosciute come «paritarie» (dizione che assunsero nel 1935), cioè quelle scuole gestite
da enti, associazioni e singoli, e utilizzate dai Comuni prima e dallo Stato poi «a sgravio» dei
loro obblighi istituzionali. Rientrano in questa categoria di scuola pubblica molteplici tipologie in realtà fra loro molto diverse: alcune scuole preunitarie di grande prestigio (ad esempio,
le scuole Leopoldine), così come quelle degli istituti assistenziali retti dagli ordini religiosi e le
piccole scuole di campagna.
L’a. ne ricostruisce le vicende con l’intento di quantificarle, valutarne l’operato e il peso
che ebbero nel sistema scolastico nazionale e lo fa soffermandosi sugli snodi politico-amministrativi che via via ne mutarono la normativa: dalla Legge comunale e provinciale del 1865
alla riforma del 1935, fermandosi sulle riforme crispine e la legge sulle municipalizzazioni del
1903, fino al Testo unico del 1934 sulla finanza locale. L’analisi delle fonti normative, delle
quali Gori mette in rilevo l’interpretazione, spesso assai elastica e piegata a prassi locali, si accompagna a quella delle inchieste ministeriali (essenziale per la ricchezza di dati quella svolta
dal ministro Corradini nel 1905-1906), dei verbali del Consiglio superiore dell’Educazione
nazionale e, per il periodo ottocentesco, della statistica dei lasciti e dei legati per l’istruzione,
unica fonte utilizzabile per avere indicazioni quantitative.
All’indomani dell’Unità le scuole a sgravio rientrano fra i numerosi provvedimenti d’urgenza necessari a istituire le scuole elementari su tutto il territorio nazionale e, come altri provvedimenti, mettono in luce la necessità di recuperare tradizioni più vicine all’assistenza e alla beneficenza che a una moderna idea di scuola. Si configurano, dunque, come uno degli indicatori
del «lento passaggio che viene ad identificare l’istruzione elementare come un ambito dotato di
proprie caratteristiche di educazione e istruzione distinte e diverse da quelle tradizionali dell’assistenza, con le quali avevano mantenuto nel tempo forme di commistione e di contiguità» (p.
18). Una vicenda ben delineata dall’a. che, attenta a seguire la storia dell’amministrazione scolastica parallelamente a quella dell’assistenza e della beneficenza, ne evidenzia i confini sfumati
e gli elementi di ambiguità. La ricerca di Gori, dunque, fornisce un ulteriore tassello della storia
del sistema scolastico italiano, un originale punto di vista dal quale osservarlo e consente di mettere a fuoco una peculiarità della politica scolastica italiana nella quale lo sgravio costituisce «una
costante – condotta talvolta a malincuore e tenuta un po’ nascosta» (p. 16).
Chiudono il volume un’appendice normativa (1860-1935) e una documentaria, che raccoglie la tavola riassuntiva delle scuole a sgravio dell’inchiesta Corradini, il verbale del Consiglio superiore dell’Educazione nazionale (1934) e i dati emersi dall’indagine dell’ispettore
Senesi (1940).
Teresa Bertilotti
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I LIBRI DEL 2007
Yvan Gouesbier, «La maison de sable». Histoire et politique en Italie, de Benedetto Croce à
Renzo De Felice, Rome, École Française de Rome, 695 pp., € 74,00
Anche osservare l’intreccio tra politica e storia può essere un modo per stringere la storia
italiana, notoriamente sfuggente. Questo libro non è tanto una storia di ciò che è accaduto in
Italia. È, piuttosto, la storia interna di un nesso, quello tra politica e storia, così come fu «agitato» nelle polemiche, nelle opere storiche e nelle riviste, negli ultimi sessanta o settant’anni:
di quel nesso e della sua rappresentazione, come condizioni di studi storici e di azioni politiche. Alle Condizioni generali di scrittura della storia contemporanea – quadri storici, vincoli e
schemi mentali – è dedicata la prima parte; al rapporto tra storia contemporanea e politica la
seconda. I caratteri originali dell’impegno degli intellettuali italiani – elitismo individualistico, serietà degli studi e azione civile, secondo la lezione di Croce – sono fatti «reagire» con le
varie congiunture del secolo scorso (il crollo del fascismo, la guerra fredda, l’esplosione della
società dei consumi, la crisi «corrosiva» della Repubblica). Ne deriva una sorprendente introduzione alla cultura storico-politica italiana. I testi sono letti e tradotti con acume, erudizione precisa, lucidità costante e compongono un paesaggio disegnato nelle sue linee di forza.
Difficile dire di più, anche se sarebbe giusto, perché quest’opera contiene al suo interno
almeno tre libri, connessi tra loro: un’interpretazione del pensiero storico di Croce e della sua
efficacia nella cultura italiana; un’indagine sul mito della nazione italiana; un resoconto del
«caso De Felice» – all’intervista del 1975 sono dedicate pagine cruciali – inquadrato nella più
ampia storia del giudizio sul fascismo. Per «comprendere un po’» il caso italiano (p. 2) e per
superare la «familiarità ingannevole» (p. 617) che lega le sorelle latine, Gouesbier ha studiato
per molti anni – presumibilmente – numerose fonti a stampa e ha consegnato il risultato delle sue ricerche in un volume di quasi 700 pagine. Presumibilmente, perché con ammirevole
sobrietà egli non dà al lettore alcuna informazione sul suo percorso (che definisce alla fine una
«autointossicazione prolungata»). Il suo libro, di conseguenza, potrebbe apparire all’osservatore italiano un frutto miracolosamente spuntato dal nulla (e se non bastasse, una nota a p.
29 ci informa che un altro autore, Frédéric Attal, ha dedicato agli intellettuali meridionali del
secondo dopoguerra una tesi di oltre 1.000 pagine). Evidentemente, invece, dalla Croce Renaissance avviata proprio a Parigi nel 1983 – e ancora prima con la tesi sul giovane Croce di
Charles Boulay –, e dalla scuola di Pierre Milza, sono derivate opere sostanziose anche sulla
storia della nostra cultura. È bene che i loro risultati circolino anche in Italia. Però occorre avvertire che – pubblicato nel 2007 – il libro non si giova, se non in modo puntiforme, degli
studi sulla cultura storica italiana pubblicati negli ultimi dieci anni: l’indagine di Gouesbier
sarà stata chiusa alla fine degli anni ’90.
Massimo Mastrogregori
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I LIBRI DEL 2007
Alberto Grandi, Tessuti compatti. Distretti e istituzioni intermedie nello sviluppo italiano,
Torino, Rosenberg & Sellier, 304 pp., € 29,00
Il panorama degli studi sullo sviluppo industriale italiano si è da tempo arricchito di numerose ricerche dedicate ai distretti. L’attenzione a queste realtà dinamiche, a lungo oscurata
dal prevalente orientamento storiografico privilegiante l’analisi della grande impresa manifatturiera e quindi stimolata, sin dagli anni ’70 del ’900, dagli studi di economisti e sociologi, ha
prodotto ormai risultati significativi. Il saggio di Grandi, che compare in una collana di volumi aventi per oggetto lo «sviluppo locale», si propone come sintesi efficace di conoscenze e
teorie consolidate e come rassegna di alcuni interessanti studi di caso nel variegato mondo dei
distretti italiani.
Dopo avere schematicamente tracciato le linee dello sviluppo industriale del paese dall’Unità alla fine del ’900 in pagine dense di schiette valutazioni (talvolta discutibili: parlare,
ad esempio, di «ruolo strutturalmente distorsivo dell’intervento statale» [p. 12] rimanda a
un’impostazione datata e opinabile che considera alcune dinamiche di sviluppo più «naturali» di altre storicamente determinatesi), l’a. riprende le classiche definizioni del modello distrettuale legandole alla riflessione storico economica. Il focus si sposta quindi sulle istituzioni, quelle intermedie soprattutto, e sul ruolo che esse possono assumere nella promozione e
nel successo dei distretti. Le variabili «istituzionali» osservate sono quelle della formazione professionale, dell’associazionismo imprenditoriale, del credito, dell’azione di governo (del territorio in particolare) degli enti locali. L’obiettivo è quello di verificarne l’impatto nei casi che
si presentano: quelli dei distretti di Prato (tessile), del Fermano (calzature), di Maniaco (coltellerie), del Cadore (occhiali), di Sassuolo (ceramica), della Valpolicella (industria lapidea),
di Suzzara (meccanica), di Cerea-Bovolone (mobile), di Viadana (legno). La loro evoluzione
viene descritta puntualmente, evidenziando così una pluralità di percorsi e la diversa tempistica dell’emersione-esplosione dei singoli distretti. A questo riguardo, per quanto si sottolinei come vi fossero «aree geografiche e settori industriali che mostravano ben prima della
Grande guerra» vivacità e capacità di innovazione ragguardevoli (p. 269), la stessa narrazione
evidenzia come il successo della maggior parte di essi risalga agli anni del «miracolo economico». L’analisi della presenza delle istituzioni intermedie non consente di trarre definitive e univoche conclusioni sul loro peso in generale: di volta in volta, o caso per caso, l’una o l’altra variabile sembra avere giocato un ruolo più rilevante. Poco incisiva appare nel complesso l’azione delle amministrazioni locali (che tardano a manifestare una effettiva capacità di governo
delle trasformazioni territoriali). Fondamentale risulta sempre – e ciò è difficilmente riconducibile a qualsivoglia modello – il ruolo degli imprenditori, veri protagonisti delle storie trattate e obbligati oggi, nei nuovi scenari globali, a dimostrarsi ancora competitivi e vincenti.
Marco Doria
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I LIBRI DEL 2007
Casimira Grandi, Donne fuori posto. L’emigrazione femminile rurale dell’Italia postunitaria,
Roma, Carocci, 223 pp., € 18,50
In un percorso di ricerca che da anni si è andato snodando attraverso gli interrogativi posti
dalla storia dell’emigrazione dei rurali e in particolare da quelli dell’area trentina, questo libro affronta uno dei temi a ragione considerato fra i più opachi in materia di studi migratori, quello
delle migranti contadine. Si tratta di un campo dove gli interrogativi posti dalla storia di genere si intersecano con quelli posti dalla storia dei ceti subalterni e in cui si sommano le difficoltà
dell’uno e dell’altro settore disciplinare, nutrendosi di uno spesso silenzio delle fonti.
Per gettare luce su tale aspetto meno appariscente della storia dell’emigrazione, Grandi
innanzitutto affronta il problema appunto dell’assenza della donna nella documentazione delle migrazioni. Si tratta in primo luogo di invisibilità dovuta alla sua collocazione sociale, che
ne fa una specie di appendice dei maschi di famiglia, e quindi moglie, madre, figlia di migranti, ma anche della consueta scarsa rilevanza sociale che a lungo accomuna uomini e donne nell’emigrazione temporanea. Concorre anche la collocazione lavorativa, ai confini sempre con
la domesticità, sia che si tratti di lavoranti rurali, sia di donne occultate negli spazi meno visibili delle dimore nobiliari e borghesi. In tale disinteresse dei rilevatori della mobilità, l’unica forma osservata e descritta divenne la devianza. Di qui il grande impatto misuratore di prostitute, malate, ricoverate, defunte, sempre indicate come donne appunto «fuori posto», cioè
fuori dal contesto ascritto soprattutto alle contadine. Il loro posto, come risulta dalle indagini condotte nei primi decenni dell’Italia unitaria, era infatti quello del lavoro che non valeva
nulla perché esercitato in ambito domestico, del trasporto di materiali in assenza e in sostituzione delle bestie da soma, presentando il vantaggio della maggiore longevità, obbedienza e
pluralità di impiego. I medesimi lavori domestici e rurali anche gravosissimi svolti nell’ambito familiare, se invece esercitati in modo salariato, divenivano fonte di preoccupazione e sintomo di pericolose derive sociali: braccianti e mondine, ma anche filatrici e tessitrici, collocate al di fuori del controllo della famiglia, assumevano un ruolo minaccioso oltre che per il proprio onore, per l’ordine e le gerarchie della società.
Nel corso dei quattro capitoli attraverso cui si snoda il libro, che affrontano rispettivamente i problemi dell’invisibilità, il quadro dell’emigrazione femminile entro quello della
grande migrazione e quindi gli scenari dell’esodo rurale femminile, fino ad approdare alla casistica che meglio è stata indagata dall’a., quella delle migranti feltrine, bellunesi e trentine,
dalle ciòde alle balie, viene declinata la varietà del lavoro rurale femminile e quella dell’esodo
contadino, sempre al femminile. In tale rassegna, paradossalmente, il caso più fortunato appare quello delle balie, fornitrici di un bene esclusivamente di genere, che le poteva sottrarre
alle rigide gerarchie domestiche, renderle fonti di reddito aggiuntivo e infine portatrici di invisibili ma non meno importanti capitali sociali.
Patrizia Audenino
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I LIBRI DEL 2007
Giovanni Graziani, Il nostro Statuto è il contratto. La Cisl e lo Statuto dei lavoratori (19631970), Prefazione di Vincenzo Saba, Roma, Edizioni Lavoro, 327 pp., € 16,00
Il volume di Giovanni Graziani, il quale con il tema del rapporto tra «legge e contrattazione collettiva» si è già cimentato con la curatela della raccolta degli scritti di Mario Grandi (Roma, Agrilavoro, 2003), ricostruisce la vicenda che ha portato all’approvazione nel 1970 dello
Statuto dei lavoratori, cercando di colmare il vuoto su un tema al quale «non è stato dedicato
alcun libro, né alcun contributo specifico di una certa consistenza» (p. 5). Rimettendosi all’impianto storiografico che ha fatto da sfondo alla ricerca di Vincenzo Saba, che ha anche firmato la Prefazione, l’a. analizza, attraverso la strumentazione del diritto del lavoro mediata con
materiali documentari pubblici, il tortuoso cammino che ha portato alla Legge n. 300 del 1970,
prendendo le mosse dalla lontana proposta di Filippo Turati del 1920, soffermandosi poi sulla
richiesta avanzata a nome della CGIL da Giuseppe Di Vittorio nel 1952, approfondendo quindi il contributo di Fiorentino Sullo come ministro del Lavoro nel terzo governo Fanfani nel
preparare l’incontro tra DC e PSI, per poi mettere a fuoco le suggestioni di Pietro Nenni sulla
«Costituzione nelle fabbriche». Sul retroterra costituito da questi «antenati», la ricostruzione –
sintetizzata in una puntuale cronologia finale – si allarga al fitto dibattito maturato nel corso
degli anni ’60 sulle «regole» delle relazioni industriali, che conobbe un’accelerazione con le diverse proposte elaborate da Gino Giugni in favore di una legislazione di sostegno, per approdare al disegno di legge presentato dal ministro del Lavoro del primo governo Rumor, Giacomo Brodolini, che finì per espungere l’alternativa rappresentata dall’accordo quadro. Il cuore
del saggio, tuttavia, è dedicato alla cultura della CISL, condensata nella risposta negativa del
segretario Bruno Storti – evocata anche nel titolo – di fronte alle proposte maturate nella stagione del centro-sinistra per «ingabbiare» per via legislativa la cittadinanza del sindacato e la
promozione dei lavoratori. La «sconfitta» della posizione della centrale sindacale fondata da
Giulio Pastore attorno a questi caratteri genetici – resi anche nella ricca documentazione riportata in appendice – è ricondotta al cambiamento della «carte in tavola» operato dalla «nuova
CISL» trainata dalla componente metalmeccanica, che, battendo la strada dell’unità sindacale,
allentò i contrappesi rispetto agli equilibri confusi che si stavano determinando sul terreno politico. Si tratta di una ricostruzione a tesi, che, peraltro, non toglie interesse alla domanda conclusiva – che fuoriesce, comunque, dal campo storiografico – su a chi abbia dato ragione la storia. Abbozzando un confronto in chiave comparativa con altri paesi del mondo occidentale,
Graziani perviene alla risposta che il diritto privato negli ultimi venti anni si sia preso una «rivincita», che ora attende di essere tradotta compiutamente attraverso la costruzione di un sistema di regole basato sull’autonomia che le parti si riconoscono. A questo livello, però, il confronto non può che procedere con altri strumenti di analisi.
Paolo Trionfini
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I LIBRI DEL 2007
Andrea Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica, 1914-1945, Bologna, il Mulino, 630 pp., € 30,00
Si sapeva che il dissolversi dell’URSS, e la contestuale e anche precedente caduta dei comunismi, avrebbe trasformato la lettura storiografica dell’intera parabola sovietica e persino della vicenda complessiva dell’intero ’900, un secolo non riconducibile a una cronologia rigidamente definibile. Tanto più che l’apertura degli archivi sovietici e poi ex sovietici, iniziata per aspetti di primissimo piano (e sia pure in modo non ancora completo) già nella seconda metà degli anni ’80,
ha squarciato il velo imposto dal primato dell’ideologia e dall’invadenza pervasiva della storia politica propagandata, spesso in modo eguale e contrario, dai bolscevichi e dagli antibolscevichi.
La narrazione di Andrea Graziosi – che in questo primo e straordinario volume giunge
sino al 1945 – è il punto d’arrivo, allo stato attuale difficilmente superabile sul piano internazionale (e non solo italiano), della rilettura. Con esiti che si rivelano, e si riveleranno, irreversibili per chiunque si avventurerà in futuro su questi temi. Non si comincia del resto con il
1917 e neppure con il fatale 1914, ma con il 1861 e con la lunga, e da moltissimi incompresa, fase declinante dello zarismo. Al centro di una storia plurinazionale polimorfa vi sono così molti fattori, tra cui gli sbalzi demografici drammatici (condizionati dalla prima guerra
mondiale, dalle guerre civili, dalla carestia del 1921-22, dall’industrializzazione forzata e dalla collettivizzazione delle campagne, dalla spaventosa e immane carestia indotta del 1932-33,
dalla seconda guerra mondiale). E vi è poi la questione femminile, ampiamente sottovalutata
sinora dalla storiografia; la questione delle abitazioni e la penalizzazione della classe operaia
negli anni ’30 per quel che riguarda gli esigui spazi concessi alle famiglie; e prima le rivoluzioni al plurale del 1917 (l’occidentalista di febbraio, il contropotere dei Soviet e soprattutto la
sconfinata e irrefrenabile peregrinazione acquisitiva della componente contadina); il colpo di
Stato bolscevico che asseconda e poi soffoca il differenziatissimo, e non bolscevico, processo
rivoluzionario del 1917. Emerge a questo punto, e Graziosi affronta la questione come nessuno prima, la lunghissima guerra contadina durata un quindicennio, ossia dal 1918 al 1933.
La Russia zarista era stata del resto incapace, nella guerra, di nazionalizzare le masse contadine. Con la seconda guerra mondiale, e già prima di Stalingrado, toccò all’URSS tale compito, anche se la nazionalizzazione fu in moltissime circostanze una statalizzazione. Non mancano ovviamente, nel libro di Graziosi, i Soviet, l’energia bolscevica, il socialismo in un paese
solo, la specificità dello stalinismo che si affermò disintegrando lo stesso partito bolscevico.
Ma è una complessa società endoconflittuale che viene soprattutto messa in evidenza. All’interno di una logica dispotica, asiatica, brutale, ma non totalitaria. Graziosi ci conferma così,
sul versante sovietico, che il totalitarismo non è mai esistito. È una parola degli antifascisti e
un concetto dei filosofi della politica. Sono esistiti il fascismo, il nazismo, il comunismo bolscevico. Nel secondo volume vedremo l’apogeo e la lunga agonia di quest’ultimo.
Bruno Bongiovanni
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I LIBRI DEL 2007
Vincenzo Greco, Greci e Turchi tra convivenza e scontro. Le relazioni greco-turche e la questione cipriota, Prefazione di Antonio Varsori, Milano, FrancoAngeli, 400 pp., € 28,00
Questo ampio e denso volume fornisce alla comunità scientifica italiana un contributo
prezioso, innanzitutto in quanto costituisce un’accuratissima silloge ed espozione della letteratura in lingua greca sulle relazioni greco-turche in età contemporanea e in particolare sulla
spinosa questione di Cipro. Si vede nell’a., e si apprezza, l’entusiasmo giovanile, il desiderio
di leggere tutto e di dire tutto, il rammarico (in un libro di 400 pagine, dall’andamento assai
lento e di non amena lettura) di non poter indulgere in ulteriori particolari.
Per quanto riguarda l’aspetto interpretativo, non si può non sottoscrivere quanto afferma
a p. 13 il prefatore Antonio Varsori: «Va infine apprezzato lo sforzo dell’autore di assumere un
atteggiamento nel complesso equilibrato». Greco infatti non si logora nell’inibente ricerca di
un’assoluta obiettività ma persegue più utilmente l’onestà critica. Ciò vuol dire che non nasconde il proprio punto di vista, favorevole all’effettiva unità di Cipro (traduzione: dominio
della maggioritaria comunità greca con il riconoscimento alla comunità turca dello status di
minoranza con tutte le relative garanzie), ma consente al lettore di valutare serenamente opinioni differenti: quella di De Gaulle, per esempio, a cui bastò uno sguardo sulla faccenda per
opinare che la spartizione fosse la soluzione più semplice, nonché, per quanto certamente dolorosissima, l’unica foriera di pace e di stabilità (p. 222).
Sessanta anni dopo, appare difficile non associarsi a quell’antica opinione: è lecito supporre che da una sensata, concordata e pacifica spartizione che avesse garantito la massima sicurezza alle rispettive «minoranze» sarebbero con calma emersi tutti gli ottimi motivi per la
confederazione e per una sempre maggiore integrazione; e che oggi, in particolare, la spartizione sarebbe di fatto superata dalla comune appartenenza all’Unione Europea.
Il libro del Greco, tra i suoi molti pregi, mette bene in luce un aspetto tra i più singolari
della vicenda, ossia la frequente mancanza di «gioco di squadra» tra lo Stato greco della madrepatria e la comunità greco-cipriota. Vista dalla parte greca, la controparte turca appare più
compatta e sicura nelle sue scelte, ma questo resta da verificare.
Come l’a. si inoltra in «cose turche», arrivano, al solito, gli errori e le imprecisioni (per
esempio a p. 17). Tanto più rispetto a un’opera veramente seria e meritoria quale quella in oggetto, questo rilievo non ha nessun intento polemico e negativo. Se il presente recensore scrivesse senza consultarsi con nessuno di cose greche, incorrerebbe probabilmente in altrettante
inesattezze. Quel che interessa dire è che la mutua e costante consultazione tra esperti dovrebbe essere pratica ovvia, normale, comune e organizzata, e questo potrebbe essere uno dei campi d’azione della SISSCo.
Fabio L. Grassi
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I LIBRI DEL 2007
Giovanni Gregorini, Per i bisogni dei «non raggiunti». L’Istituto Suore delle Poverelle tra
Lombardia orientale e Veneto (1869-1908), Milano, Vita e Pensiero, 109 pp., € 12,00
Il libro di Gregorini indaga su uno dei tanti istituti assistenziali che, fino alle soglie del
XX secolo, rappresentarono l’unico tipo di welfare state esistente in Italia. Come la maggior
parte degli istituti dello stesso tipo dediti alla «formazione religiosa, morale e professionale dei
ragazzi e delle ragazze più povere» (ospizi, orfanotrofi, educandati, ospedali, brefotrofi, collegi ecc.), quello in questione era di natura ecclesiastica, anzi direttamente gestito da un ordine
religioso femminile e fondato da un sacerdote bergamasco, Luigi Maria Palazzolo, nel 1869.
La città di Bergamo era una delle più importanti nella Lombardia del XIX secolo e l’Istituto
si inserì rapidamente in un territorio che, tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, conobbe una
rapida industrializzazione. L’analisi delle attività economiche e finanziarie della congregazione religiosa dimostra la necessità, per i fondatori, di intrecciare relazioni con il territorio per
raggiungere, attraverso una vera e propria «imprenditorialità sociale e religiosa», quelle finalità assistenziali proprie della «ragione sociale» dell’Istituto.
Fu così creata in pochi anni una rete diffusa di opere assistenziali nelle tre province di Bergamo, Brescia e Vicenza, che veniva incontro alle esigenze di una società in movimento e in
via di modernizzazione. La prima parte ricostruisce la storia della città e della famiglia del fondatore, la nascita e lo sviluppo dell’Istituto fino alla morte di Palazzolo e, dopo, sotto la direzione della prima madre generale Maria Teresa Gabrielli. Particolarmente interessanti i capitoli dedicati ai rapporti tra l’Istituto e lo sviluppo locale, all’evoluzione dei modelli contabili
e al rapporto tra centro e periferia. La seconda parte comprende un’ampia appendice di documenti di diseguale rilevanza: fotografie d’epoca molto belle, dell’Istituto e delle sue ospiti,
ma anche foto di documenti di cui non si capisce l’utilità nell’economia del saggio; vari rendiconti annuali con un semplice elenco di spese e di entrate e ben più interessanti accordi tra
l’Istituto e opifici locali come quello con un cotonificio al quale venivano «concesse» le suore
per la sorveglianza delle operaie.
La ricerca è chiaramente limitata alla vita dell’Istituto bergamasco. Nonostante ciò colpisce la assoluta mancanza di riferimenti a una ormai ampia storiografia sulle opere pie e sugli
istituti assistenziali e di beneficenza del XIX secolo: del tutto ignorati dall’a. sono i saggi di
Lepre, Tonelli, Cherubini, Farrell-Vinay, Fiori e tanti altri che hanno scritto pagine fondamentali su tali tematiche. Così come nessun accenno viene fatto alle inchieste sulle opere pie
degli anni ’60 e ’80 dell’800 e alla relativa legislazione (se si escludono le poche righe in cui si
accenna alla legge crispina).
Si perde così l’occasione di inserire lo studio di un caso particolare all’interno di quello
che fu un processo di grande rilevanza storica: la riorganizzazione e laicizzazione dell’assistenza compiuta prima da Crispi e poi da Giolitti proprio nel periodo preso in esame dall’autore.
Giancarlo Poidomani
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I LIBRI DEL 2007
Ilan Greilsammer, Il sionismo, Bologna, il Mulino, 114 pp., € 9,50 (ed. or. Paris, 2005)
Ilan Greilsammer, docente di Scienze politiche all’Università di Bar Ilan, in Israele, è autore di alcuni notevoli studi intorno all’identità nazionale israeliana, che muovono dal presupposto che la scrittura della storia debba essere una sorta di autobiografia della nazione (citiamo La nouvelle histoire d’Israël. Essai sur une identité nationale, 1998). In tal senso va inquadrata questa fresca e snella sintesi dedicata al sionismo, che il Mulino ha dato alle stampe all’interno della collana «Universale Paperbacks». Il quesito fondamentale da cui muove l’a. è la
rilevanza del sionismo nell’economia e nell’estetica dell’identità israeliana.
Il libro è costruito intorno a un tipico canovaccio di storia delle idee: 1) prodromi dell’idea-movimento; 2) emersione di tale idea nelle menti di alcune persone; 3) formazione del
movimento; 4) paternità del movimento; 5) critiche esterne al movimento; 6) risposta interna del movimento; 7) miti fondanti; 8) portata e validità dell’idea-movimento come mitomotore. Particolarmente curato è il capitolo dedicato al sionismo socialista, essendo direttamente alla base della nascita dello Stato d’Israele.
L’obiettivo di fondo di Greilsammer è di natura squisitamente politica (non ci pare affatto politologica!): quello di interrogarsi circa l’ebraicità dello Stato d’Israele. Non è un caso che
lo studioso dedichi le sezioni conclusive del proprio lavoro al cosiddetto vaglio della storia: in
altre parole, il sionismo ha saputo rispondere alle domande proposte dalla modernità? Ovvero, è la realizzazione di un’aspirazione messianica, la reazione a una minaccia fisica e – per l’appunto – l’esito dell’incontro della modernità?
Greilsammer affronta il discorso sul sionismo connotandolo come ideologia, senza tuttavia spiegare cosa intenda per ideologia. Ricorre inoltre all’espressione di «mito storico» senza
dirci cosa intenda per mito. Ricostruisce poi una storia mitologica dello Stato d’Israele intaccando alla base il laburismo di Ben Gurion (leggi il rapporto con gli arabi-palestinesi, l’uso
della Shoah a fini auto-giustificatori e celebratori e la «fine» del sionismo), senza tuttavia fornire un quadro d’insieme esaustivo del problema nazionale più generale dell’epoca.
La lunga carrellata termina abbozzando il problema del «carattere ebraico» dello Stato d’Israele. Mentre, tuttavia, alcuni studiosi politicizzati hanno avuto la coerenza di esprimersi pro
o contro questa visione d’insieme (dai cosiddetti «nuovi storici» provenienti dalla sinistra radicale sino ai laici «illuministi» come Sternhell), Greilsammer resta vago e volutamente generico in materia. In tal senso, il libro non fornisce risposte esaustive al problema iniziale: quello della modernità del nazionalismo ebraico. Il limite di questo lavoro consiste nello stesso impianto storicistico fornito dallo studioso, che determina inevitabilmente un quadro evolutivo
del movimento sionista privo di solide argomentazioni intorno ai problemi connaturati allo
Stato d’Israele.
Vincenzo Pinto
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I LIBRI DEL 2007
Gabriella Gribaudi (a cura di), Le guerre del Novecento, Napoli-Roma, l’ancora del mediterraneo, 307 pp., € 20,00
Il volume raccoglie le relazioni, ampiamente rielaborate, presentate in occasione del colloquio internazionale «La guerra e il Novecento» all’Università di Napoli nel 2004. Questa genesi del volume spiega la sua estensione tematica, geografica e cronologica che spazia dalle guerre
postnapoleoniche alle «nuove guerre» postcoloniali. I quindici saggi, preceduti da un’Introduzione della curatrice che spiega le linee guida del volume, sono suddivisi in quattro sezioni. Per
la maggior parte dei saggi è stato mantenuto il carattere originario di interventi finalizzati ad
una discussione, arricchiti poi di note e riferimenti bibliografici. Ciascun contributo è a sé stante e meriterebbe una recensione a parte, purtroppo impossibile in questa sede. Sono due gli assi portanti del volume: da un lato le premesse, le anticipazioni, gli effetti e le conseguenze della guerra più ingombrante del ’900 europeo, cioè della seconda guerra mondiale, in particolare
per quanto riguarda la sorte toccata ai civili inermi, cioè donne e bambini, paradossalmente meno tutelati dalle leggi internazionali; dall’altro lato le politiche disastrose sulle identità «storiche»
applicate sia nel Medioriente (la politica della terra di Israele, R. Cohen) che dopo la fine dell’URSS nelle Repubbliche asiatiche multietniche (una lotta per l’identità senza guerra, M. Buttino). I conflitti postcoloniali nell’Africa subsahariana (M.C. Ercolessi) ruotano attorno alla definizione della cittadinanza, con i relativi meccanismi di inclusione/esclusione, che producono
una lotta violenta per la distribuzione delle risorse economiche.
L’800 cambia la percezione della guerra da avventura romantica a scienza positivista (G.L.
Balestra), ma rimane una distinzione essenziale tra guerra europea e guerra coloniale, con tentativi di codificazione giuridica solo per la prima: il nemico non europeo della guerra coloniale degli europei rimane privo di diritti, con conseguenze fino ad oggi (N. Labanca). I conflitti
a partire del 1914 creano «nuove vittime», i civili. Sono le donne esposte ora ad una mobilitazione politica e morale sempre più totale, soprattutto nei territori invasi e occupati che diventano campi di sperimentazione per la futura guerra totale nella seconda guerra mondiale (A.
Becker), nella quale diventano poi vittime di stupri e della punizione maschile postbellica (F.
Virgili). La forza del volume consiste anche nel proporre delle riflessioni su alcune categorie interpretative di fondo delle guerre novecentesche, sulla natura della violenza bellica, sulla violenza della guerra aerea (O. Wieviorka, D. Voldman, G. Gribaudi), con un’attenzione particolare al suo lessico giustificatorio e mistificatorio; sulle contraddizioni del diritto internazionale
in materia di rappresaglia (P. Pezzino); sulla tipologia della violenza fascista-repubblicana aumentata persino rispetto alle origini violente del fascismo (D. Gagliani). Utile anche il concetto euristico di «società estremamente violente» (C. Gerlach) e il paragone implicito tra sogno
imperiale fascista (D. Rodogno) e le eterogenee politiche di occupazione nazista (G. Corni).
Lutz Klinkhammer
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I LIBRI DEL 2007
Roger Griffin, Modernism and Fascism. The Sense of a New Beginning under Mussolini and
Hitler, Basingstoke, Palgrave, 470 pp., £ 19,99
Sulla scia di sue analisi precedenti (soprattutto The Nature of Fascism, London, Pinter, 1991),
Griffin presenta i regimi di Hitler e Mussolini come «Stati modernisti». Tema centrale del libro è
che al cuore della psicologia e dell’ideologia fascista ci fosse il «senso di un nuovo inizio» (p. 1),
un sentimento, condiviso dai pionieri dei movimenti fascisti, di essere sulla soglia di una nuova
era. Come sottolinea l’a., era una parte della società, non la maggioranza, ma gli attivisti più convinti, coloro che credevano di poter «fare la storia» (p. 4). In diversi punti del volume, Griffin ricorda che la comprensione di questo aspetto rivoluzionario non deve far dimenticare i crimini
commessi dai due regimi; essa è anzi utile a spiegare i motivi che portarono a quei crimini.
Secondo Griffin i regimi italiano e tedesco furono la concreta realizzazione di un’ideologia
politica, il «fascismo» generico, che poteva nascere soltanto in quel periodo del XX secolo, come variante politica del movimento artistico e intellettuale del modernismo, cioè della rivolta
contro l’età liberale che precedette e seguì la Grande guerra. L’a. spiega il modernismo come
prodotto della modernità (dell’illuminismo, delle rivoluzioni francese e industriale), in un periodo, tra la seconda metà dell’800 e la seconda guerra mondiale, in cui artisti e intellettuali descrivevano il presente come epoca non più di progresso ma di decadenza. Negli anni della Grande guerra e subito dopo, avvenne la collusione fra modernismo, ultranazionalismo e razzismo.
Tutto questo corroborato dal mito del sacrificio nelle trincee e della morte-resurrezione, prodotto del conflitto mondiale. Si trattava sempre di una minoranza, quella che poi confluì nello squadrismo in Italia e negli vari gruppi di outcast della Repubblica di Weimar. Ne conseguì
una serie di progetti utopistici, che nel caso dell’Italia includevano la ripresa del Risorgimento
mazziniano, quello populista e della «religione nazionale» che era stato tradito dalla tradizione
liberale di Cavour, realizzato, secondo Giovanni Gentile, nello «Stato etico» fascista (pp. 192193). Il rapporto fra modernismo e fascismo non fu lineare: nel fascismo italiano confluirono
il futurismo di Marinetti, l’urbanistica moderna sostenuta da Bottai, ma anche strapaese e Farinacci; in Germania anche le manifestazioni più anti-moderne dell’estetica nazista annunciavano, come scrisse nel 1932 Ernst Jünger, l’arrivo di un nuovo tipo di essere umano, fisicamente perfetto e violento. Come ha spiegato anche Enzo Traverso, il risultato fu un prodotto storico e scientifico allo stesso tempo, che univa antico spirito antisemita e la modernità dello sterminio industriale. Da questo punto di vista, il modernismo è alle origini di Auschwitz.
Questo libro, come ammette l’a., non è di facile lettura, e si avventura fra diverse discipline come l’arte, la letteratura e la filosofia; non ha l’ambizione di soppiantare modi preesistenti di spiegare le origini e lo sviluppo dei fascismi, ma di far pensare e suggerire nuove idee,
analizzando il fascismo attraverso la lente della cultura modernista, e muovendosi tra una gran
mole di testi dell’epoca e storiografici.
Claudia Baldoli
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I LIBRI DEL 2007
Yuri Guaiana, Il tempo della Repubblica. Le feste civili in Italia (1943-1949), Prefazione di
Barbara Bracco, Milano, Unicopli, 218 pp., € 14,00
L’agile volume di Yuri Guaiana costituisce allo stato forse il lavoro complessivo più ampio e convincente sulla riorganizzazione della ritualità pubblica dopo la caduta del fascismo.
Lo studio, che si concentra sugli anni di incubazione del nuovo calendario delle feste civili,
combina l’analisi della genesi e della stabilizzazione normativa del nuovo assetto liturgico con
l’attenta e intelligente ricostruzione delle cerimonie che si susseguono in quei sei anni, concentrandosi in particolare sul 25 aprile, il 2 giugno, il 1° maggio, ma non tralasciando l’analisi dell’evoluzione di ricorrenze precedenti come il 24 maggio e il 4 novembre, o di carattere
diverso come il 4 ottobre, festa del patrono d’Italia (San Francesco).
Il libro intreccia felicemente la bibliografia esistente con il ricorso a fonti archivistiche –
in primo luogo le carte della Presidenza del Consiglio dei ministri – e a stampa. Mentre le prime offrono un quadro delle intenzioni dell’autorità governativa, dello spirito con cui si muove nell’organizzazione delle feste, dei soggetti con cui coopera o con i quali è in contrasto, le
seconde ci descrivono le manifestazioni che effettivamente si svolsero, riportano spesso i discorsi dei principali oratori pubblici e – anche dal confronto tra le diverse testate – ci offrono
la possibilità di accedere alle segmentazioni politico-ideologiche che connotano il vissuto festivo.
Il lavoro avrebbe potuto essere ulteriormente arricchito dal ricorso sistematico ad altre
fonti: mi riferisco ai cinegiornali – facilmente scaricabili dal sito web dell’Istituto Luce – ed ai
resoconti di prefetti e questori inviati regolarmente al Ministero degli Interni. Dalla mia personale esperienza di ricerca ho potuto constatare come confrontando le carte di polizia con i
resoconti giornalistici emerga una realtà più articolata e complessa. Molto spesso infatti i quotidiani – in quei delicati anni fondativi del nuovo ordine repubblicano e antifascista – tendevano a occultare o minimizzare scontri ed episodi spiacevoli, di cui si trovano invece descrizioni ricche nelle relazioni di prefetti e questori. Questi ultimi inoltre ci illuminano sulle vicende della provincia, delle località minori, che generalmente sfuggono ad un’analisi che si
concentri principalmente sui grandi organi di stampa.
Ciò non sminuisce comunque i pregi di una ricerca che ci offre un quadro complessivo
del sistema delle celebrazioni pubbliche nell’Italia del dopoguerra. Mentre gli studi sulle politiche della festa solitamente analizzano una ricorrenza lungo un arco di tempo abbastanza
ampio, in questo caso la scelta di restringere l’arco cronologico e nel contempo ampliare il
quadro delle ricorrenze prese in esame risulta felice e fruttuosa. Guaiana ci fa così ben comprendere l’interazione tra le varie feste e tra i diversi soggetti che – di volta in volta – furono
protagonisti dello spazio pubblico.
Guri Schwarz
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I LIBRI DEL 2007
Pier Luigi Guastini (a cura di), Storia contemporanea di Pistoia dal 1944 al 1995, Pistoia,
ISRPT, 174 pp., € 12,00
Questo agile volume raccoglie i testi degli interventi sulla Pistoia contemporanea tenuti
tra il 2005 e il 2006 da Pier Luigi Guastini e da alcuni protagonisti della vita politica e amministrativa della città toscana. Il libro riprende la struttura del ciclo di conferenze e propone
un profilo storico di Pistoia a partire dalla constatazione che «mentre a livello nazionale, la ricerca sulla storia contemporanea, per il periodo sopra considerato, è abbastanza impegnata ed
è già disponibile una considerevole quantità di opere, a livello locale dobbiamo lamentare che
siamo soltanto ai primi timidi passi» (p. 9). Basato sull’intreccio tra la ricostruzione storica di
Guastini e le testimonianze dei protagonisti della vita locale, il libro si sviluppa in quattro parti attraverso una prospettiva che privilegia la dimensione politico-amministrativa pur riservando ampi riferimenti ai mutamenti socio-economici e al processo di urbanizzazione della
città toscana. Il volume si apre con l’esame della situazione politica e socio-economica negli
anni della ricostruzione su cui si innesta il contributo di Alberto Cipriani sull’eredità economica prodotta dal fascismo negli anni successivi alla fine della guerra. La questione dell’assestamento politico-amministrativo e dello sviluppo negli anni del boom economico è affrontata nella seconda parte corredata dalla testimonianza di Vittorio Brachi sull’originale esperienza della prima giunta di centro-sinistra italiana destinata a passare alla storia pistoiese e nazionale della fine degli anni ’60 come «repubblica conciliare»; segue una ricostruzione delle vicende politiche ed economiche degli anni ’80 quando a Pistoia per la prima volta alle elezioni fu eletto alla Camera un esponente repubblicano, Roberto Barontini, del quale viene ripreso un intervento parlamentare. Il volume si chiude con l’analisi delle ripercussioni locali del
«terremoto» politico del decennio 1985-1995 e una riflessione di Vannino Chiti, sindaco di
Pistoia nei primi anni ’80, sul ruolo della principale industria pistoiese, la Breda, nella recente vicenda cittadina.
Il libro, introdotto da un appassionato Preludio di Emiliano Panconesi, ha un taglio prevalentemente cronachistico e consegna una ricca messe di informazioni e dati biografici ma
anche di nodi problematici intorno ai quali è ruotata la vicenda della Pistoia contemporanea.
Nonostante il carattere divulgativo e narrativo degli interventi, il libro nel suo complesso ha
il merito di offrire una ricostruzione di sintesi della città toscana e di proporre interessanti
spunti di riflessione sul rapporto tra i processi di cambiamento a livello nazionale e quelli che
si svolgono su scala locale in occasione di alcuni passaggi decisivi della storia pistoiese come
l’esperienza della «repubblica conciliare» e la crisi delle industrie Breda. In chiusura è da segnalare l’assenza dell’indice dei nomi mentre risulta sufficientemente dettagliata l’indicazione
delle fonti e della bibliografia.
Alberto Ferraboschi
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I LIBRI DEL 2007
Giulia Guazzaloca (a cura di), Governare la televisione? Politica e TV in Europa negli anni
Cinquanta-Sessanta, Prefazione di Paolo Pombeni, Reggio Emilia, Diabasis, 220 pp., € 16,00
I sei saggi compresi nel volume – che traggono origine dall’omonimo convegno internazionale svoltosi presso il Dipartimento di Politica, Istituzioni, Storia dell’Università di Bologna
nel maggio 2004 – propongono uno sguardo comparato sullo sviluppo dei sistemi di broadcasting in alcune delle principali nazioni europee; uno sguardo attento, in primo luogo, al rapporto tra il medium e la democrazia. L’insieme degli studi sui modelli di gestione e di controllo adottati sin dall’avvio delle trasmissioni televisive regolari fa emergere la comune concezione europea del sistema radiotelevisivo come «“servizio pubblico” controllato, direttamente o indirettamente, dallo Stato» (Guazzaloca, p. 23). Convitato di pietra è il sistema televisivo americano il
cui modello commerciale e di «flusso» è stato oggetto di ampia discussione e confronto e al quale la cultura dominante nel Vecchio continente ha contrapposto il modello del «monopolio».
Tuttavia tale contrapposizione – come evidenzia Guazzaloca nella Introduzione – non era così
netta, per la forza di attrazione che esercitò la televisione americana sia in termini tecnici che
culturali. Così lo stesso «modello europeo» è stato in realtà coniugato in forme molto diverse,
forme «profondamente condizionate dal substrato politico-culturale e dai reali rapporti di forza – tra partiti, istituzioni e società – presenti in ciascuna realtà nazionale» (Guazzaloca, p. 22).
I saggi affrontano in successione: il caso olandese, il cui modello «pluralista» era stato sottoposto a profonde critiche nel dibattito politico interno (Susan Aasman); il broadcasting britannico e la sua difficile gestazione (Lawrence Black); le televisioni francese (Evelyne Cohen) e italiana
(Guazzaloca), che hanno condiviso il monopolio pubblico sotto il diretto controllo governativo;
ancora il caso francese visto attraverso la lente del maggio ’68 (Marie-Françoise Lévy); chiude la
serie di saggi il confronto tra le due Germanie (Jürgen Michael Schulz). In appendice sono riportate le testimonianze di Adolfo Battaglia, Giorgio Bogi, Franco Chiarenza ed Emilio Rossi.
Delle diverse modalità di controllo e di gestione dei sistemi radiotelevisivi proposte dal
panorama europeo restano le numerose analogie che Pombeni, nella Prefazione, fa derivare
dalle comuni radici storiche e culturali «del fenomeno del passaggio della “questione pedagogica” da una sfera riguardante più che altro il lato morale e l’inserzione del singolo nelle sue
comunità naturali di appartenenza a una sfera che toccava direttamente la formazione alla cittadinanza nazionale» (p. 13). È dunque all’interno dei processi di nazionalizzazione che si rintraccia il retroterra culturale che definirà gli atteggiamenti e le politiche intorno alla «questione televisiva» e che determinerà, tra l’altro, anche la linea di continuità fra il sistema radiofonico e quello televisivo.
Tra i meriti del volume si può annoverare quello di contribuire a spostare l’attenzione sul
rapporto tra televisione e politica dal fronte della comunicazione, ovvero prevalentemente il
tema del controllo e della manipolazione, a quello della storia dei sistemi politici.
Giancarlo Monina
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I LIBRI DEL 2007
Francesco Guida (a cura di), Dayton dieci anni dopo: guerra e pace nella ex Jugoslavia, Roma, Carocci, 304 pp., € 28,30
Carocci pubblica un’opera collettanea di grande interesse per gli studiosi dell’area jugoslava. Si tratta degli atti di un convegno tenuto a Roma nel 2005, in occasione del decennale
della firma degli accordi di Dayton, che posero fine alla guerra in Bosnia e stabilirono il futuro del paese, di fatto «congelando» lo status quo raggiunto con le armi dalle parti in conflitto.
Il libro si presenta come un’opera su più piani, che mette insieme interventi di personalità «ufficiali» (rappresentanti delle istituzioni internazionali, politici e diplomatici italiani ed ex jugoslavi), con i contributi scientifici di storici, economisti, giornalisti, scienziati politici o individui impegnati in prima persona nel complesso teatro bosniaco (è il caso della breve intervista ad Adriano Sofri). Non mancano articoli di studiosi stranieri (alcuni non tradotti dall’inglese), che consentono di allargare la visuale al ruolo, per esempio, della Russia o al conflitto «a bassa intensità» in Macedonia.
Senza avere la pretesa di esaurire gli argomenti, il volume affronta, in 300 densissime pagine, una serie impressionante di questioni: dalla ricostruzione «storica» delle guerre jugoslave, a una loro interpretazione socio-politica; dal ruolo dei mass media a quello delle associazioni umanitarie; dai problemi specifici dell’attuale monstrum costituzionale rappresentato
dalla Bosnia-Erzegovina, a uno sguardo geo-politico ed economico d’insieme sui Balcani occidentali; dalla firma di Dayton ai possibili meccanismi per l’entrata dei paesi dell’area nell’Unione Europea. Il risultato, come sempre in questo genere di volumi, è altalenante, poiché dipende molto dalla qualità dei singoli contributi. Al curatore va comunque il merito di essere
riuscito a tenere insieme un complesso molto disuguale di saggi, in tutto quasi quaranta pezzi, suddivisi in sette parti.
Pur non condividendo l’assunto teorico che il progetto politico della Jugoslavia fosse in
se stesso insensato e la sua disgregazione ineluttabile, mi pare che il valore di questo volume
sia indiscutibile. La tesi di fondo è convincente: l’accoglimento di tutti i paesi ex jugoslavi nell’Unione Europea sembra essere l’unica exit strategy possibile per risolvere l’impasse delle classi politiche locali e della diplomazia europea dopo la necessaria ma fragile tregua imposta dieci anni fa dall’intervento americano. Attraverso quali meccanismi e con quali obiettivi si possa raggiungere tale obiettivo (alla luce delle recenti proposte di «separazione guidata» del Kosovo) rimane un problema di difficile soluzione.
Eric Gobetti
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I LIBRI DEL 2007
Laura Guidi (a cura di), Vivere la guerra. Percorsi biografici e ruoli di genere tra Risorgimento e primo conflitto mondiale, Napoli, Cliopress, 168 pp., € 12,00
Il volume raccoglie i contributi di un panel del IV Congresso della Società italiana delle
storiche e si colloca nel nuovo panorama di ricerche sulla «costruzione della nazione», sulle figure simboliche che sostengono il discorso nazional-patriottico del Risorgimento e poi, in larga parte, il nazionalismo postunitario. Figure che calcano e risignificano altri simbolismi identitari, in primo luogo quelli di genere. Le ricerche qui proposte indagano il rapporto tra idea
di nazione e modelli di genere attraverso il confronto fra esperienze maschili e femminili delle guerre nazionali, tramite cioè l’analisi delle continuità e cesure nelle percezioni e narrazioni dei conflitti risorgimentali e della Grande guerra.
In questo contesto, il genere è quindi prettamente una categoria d’analisi utile a svelare
l’organizzazione simbolica del potere, come rileva Dianella Gagliani nelle conclusioni. I modelli di genere e i discorsi sulla nazione e la nazione in guerra sono intrecciati e si sostengono
a vicenda, attribuendo senso alle stesse esperienze soggettive. Per questo appare parzialmente
sfocata, rispetto all’impianto del volume, la domanda che sembra orientare l’Introduzione di
Guidi: «si può parlare di una percezione di genere della guerra?» (p. 8). Come dimostrano proprio il suo contributo e alcuni altri – la disparità dei testi è inevitabile in simili pubblicazioni
– una volta sfatati gli stereotipi sulla donna naturalmente pacifista e l’uomo naturalmente bellicista, la ricerca verte piuttosto sulla razionalità di quegli stereotipi, sulla funzione che svolgono nel legittimare o trasformare un ordine sociale, quindi sui motivi della loro fissità o mutazione. Il garibaldino e il legittimista (Marco Meriggi) guardano ai ruoli maschili e femminili in guerra sospinti da diverse urgenze: il primo deve suffragare un ordine nazionale che si
vuole fondato su un’idea universale di libertà ma in realtà esclude le donne; da qui la pietas
verso «l’intera comunità di combattenti (maschi) sui due fronti» (p. 37) e lo smarrimento di
fronte alla patriota che invade la scena pubblica e militare. Il secondo, fedele alla visione divina e regale della sovranità, può accogliere senza traumi il temporaneo protagonismo femminile, tanto più quando si tratta di regine, «parti biologiche» della sovranità (p. 39). La stessa
trasformazione rilevata da Guidi nella cultura politica delle interventiste rispetto alle patriote
risorgimentali solleva domande sulle risorse culturali disponibili per sostenere la domanda di
cittadinanza femminile e sulle mutazioni dell’idea di cittadinanza, evidenti nel confronto tra
vecchie e nuove irredentiste (Angela Russo), o nell’autorappresentazione del giovane ufficiale
nelle trincee della Grande guerra (Anna Grazia Ricca). La patriota infermiera del Risorgimento (Marcella Varriale), la narratrice del frammento umano del primo conflitto mondiale (Annamaria Lamarra) – come poi le protagoniste della «resistenza civile» (Gagliani) – sono figure femminili la cui differenza, in pace o in guerra, si inscrive pur sempre in un preciso contesto storico che ne regola l’espressione.
Catia Papa
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I LIBRI DEL 2007
Andrea Guiso, La colomba e la spada. «Lotta per la pace» e antiamericanismo nella politica
del Partito comunista italiano (1949-1954), Soveria Mannelli, Rubbettino, 686 pp., € 38,00
Anche se la mobilitazione pacifista ha marcato a fuoco l’azione del PCI negli anni del centrismo, gli studi specifici sul tema sono ad oggi ancora limitati. In particolare nessuno aveva
affrontato la questione in una prospettiva così intra-partitica come fa Guiso in questo suo interessante volume. La prima sezione dedica ampio spazio a temi quali la «nuova resistenza»
contro il Patto atlantico, l’italianizzazione delle teorie zdanoviane sulla lotta per la pace come
direttrice politica (non irreversibile) e la ridefinizione dell’antiamericanismo. La parte più originale è però quella che si addentra nelle forme di mobilitazione, nell’attivismo delle scuole
di partito, nella costruzione di una politica di piazza che, pur rispettando i confini dell’area
della legalità togliattiana, si scontrava con le esigenze della «lotta per il dominio visivo». L’utilizzo incrociato di verbali, fogli divulgativi, frammenti di propaganda orale, ci dice molto di
come la questione pacifista incidesse sul dialogo tra comunisti e socialisti, offrendo spiragli di
competizione (e confronto dal basso) con il mondo cattolico (tra «Madonne pellegrine» e mito staliniano). Tale linea interpretativa mi sembra che dia grande respiro alla ricerca, spingendola in terreni nuovi e interessanti. Questo emerge ancor più chiaramente nella seconda parte del libro, quella in cui la mobilitazione antiatomica dei Partigiani della pace irrompe con
tutta la sua forza simbolica, culminando nel 1950 nella mobilitazione per l’appello di Stoccolma. L’analisi di Guiso tocca qui un nodo particolarmente delicato per la storia del PCI: la
ricerca di interlocutori esterni. Un processo che passò per il dibattito parlamentare (intorno
alle mozioni per la pace presentate da Giavi, Parri e Pertini) ma non solo: si vedano i tentativi di dialogo (mai concretatosi) con il gruppo mazzolariano di «Adesso» ed il confronto pubblico con Giordani. Il rapporto con il mondo cattolico viene colto nella sua duplice dimensione: la ricerca di un dibattito con le «avanguardie critiche» e l’abbozzo di una diplomazia segreta con la Santa Sede (la vicenda del monarco-pacifista Sella di Monteluce). Guiso rilegge
anche i contatti con quella parte della destra perplessa verso la linea atlantista, toccando il tema della presenza comunista nelle forze armate. Quello che manca, in questa ampia analisi, è
l’approccio dei comunisti al pacifismo minoritario e nonviolento: quello di Capitini e Lanza
del Vasto, già allora tesi verso un allargamento dei confini partitici del movimento antiatomico. La terza parte del volume mette ancora molta carne al fuoco (gli artisti, la scuola, la cultura…), pur perdendo un po’ di equilibrio nel confronto tra antiamericanismo e politica di
pace. La continuità riprende invece nell’ultima sezione, con l’aprirsi di una nuova stagione segnata dall’avvento della bomba H sovietica. Il monopolio comunista della mobilitazione pacifista in Italia si sarebbe da allora incrinato, ridimensionando anche l’interesse dei quadri del
Partito verso un tema fattosi nel tempo sempre più spinoso e difficile da gestire.
Massimo De Giuseppe
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I LIBRI DEL 2007
Stephen Gundle, Figure del desiderio. Storia della bellezza femminile italiana, Roma-Bari,
Laterza, XXXV-475 pp., € 22,00 (ed. or. New Haven-London, 2007)
Gundle affronta lo studio di uno stereotipo «apparentemente statico», ma soprattutto
«prevalentemente maschile» (p. XXXI). Lo sguardo maschile costituisce il filo conduttore del
discorso, almeno fino agli ultimi decenni, quando – secondo l’a. - la parola passa anche ad alcune giornaliste donne: una tesi tutta da verificare, ora che tanti studi hanno messo in luce la
grande ricchezza della stampa femminile italiana degli ultimi due secoli aprendo altre piste di
ricerca possibili e meno ovvie.
Il discorso prende le mosse dall’800 (dal quale curiosamente manca la classica icona di
Overbeck della giovane Italia medievaleggiante e bruna contrapposta alla bionda Germania)
con i viaggiatori del grand tour e si snoda poi, in modo più convincente, fino al secondo ’900.
Il libro è un po’ rapsodico, costruito in larga parte come una sorta di galleria di bellezze
che comprende la regina Margherita e le modelle di Sargent ma anche attrici come Lina Cavalieri – alla quale è dedicato il lungo capitolo sull’Ascesa della bellezza professionale, per giungere poi a medaglioni dettagliati su singole figure: come Loren e Lollobrigida, ma anche Ilona Staller e Moana Pozzi, Alessandra Mussolini e così via.
La parte più solida del volume appare quella dedicata ai momenti forti della costituzione
di uno stereotipo di bellezza «italiana» attraverso concorsi di bellezza e soprattutto le rubriche
dei giornali. Il «Corriere italiano» degli anni del fascismo ad esempio ospitava una rubrica fissa intitolata Pareri sulle belle donne in cui gli intellettuali cercavano di definirne le qualità e finivano spesso per dichiarare con il pittore Armando Spadini: «le più belle donne sono in Italia, e probabilmente nel Lazio. Sono convinto che la bellezza si accentra in Roma» (cit. a p. 145)
con la palese intenzione di contrastare miti basati su una esterofilia di lungo periodo e sui nuovi modelli hollywoodiani. L’ostilità del regime contro l’uso dei cosmetici e la moda straniera, e
la riproposizione della bellezza contadina si affermano di pari passo con la critica della «donna
crisi», duramente stigmatizzata persino dall’Enciclopedia italiana. Mentre Calzini esalta la bellezza fascista e si impone l’orgoglio razziale, il popolare personaggio della signorina Grandi Firme, disegnata da Boccasile a partire dal 1935, suscita lo sdegno di Mussolini, il quale fa chiudere la rivista perché la giovane protagonista ha la vita troppo sottile e non risponde ai canoni
del regime. Interessante appare la messa a fuoco – caratterizzata da aperture e discontinuità –
dello stereotipo della bellezza femminile nell’Italia repubblicana quando nasce Miss Italia ma
la pratica dei concorsi di bellezza – qui documentati da una serie di fotografie significative – si
afferma anche in ambienti comunisti con le miss Vie Nuove. Di rilievo appare infine il tema
delle bellezze regionali italiane, destinate ad incorporare la varietà del paese tanto poco riducibile a un unico tratto, che consente anche una serie di incursioni nella recente letteratura meridionalista à la Moe, e che probabilmente potrebbe essere ulteriormente approfondito.
Ilaria Porciani
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I LIBRI DEL 2007
Gerd-Rainer Horn, The Spirit of ’68. Rebellion in Western Europe and North America,
1956-1976, Oxford, Oxford University Press, 254 pp., s.i.p.
Come efficacemente recita il titolo, il volume ricostruisce radici e ragioni del moto di protesta che investì il mondo occidentale a cavallo degli anni ’60. Intento esplicito è quello di sottrarre il ’68 non solo alle demonizzazioni, ma anche alle letture in chiave di modernizzazione
socio-culturale che tendono a distinguere i mutamenti valoriali, apprezzabili, dalle pratiche
contestative, effimere quando non deprecabili. Furono invece quest’ultime, secondo l’a., ad
esprimere originalità e obiettivi qualificanti del movimento: la costruzione di forme di democrazia partecipativa e dunque comunitarismo egualitario.
Per illustrare la natura eminentemente politica del movimento, e al tempo stesso, la sua
concezione innovativa della politica, l’a. ne rintraccia i presupposti tra gli anni ’50 e ’60 e poi
ne analizza i passaggi costitutivi. La ricostruzione, favorita da una scrittura limpida ed efficace e da una consolidata conoscenza della documentazione disponibile, spazia in un ampio contesto geografico – ove tra l’altro l’Europa mediterranea giuoca un ruolo inedito, ma rilevante
– nella convinzione che il movimento crebbe reagendo alle diverse realtà nazionali, ma sulla
base di una circolazione largamente transazionale di esperienze e valori. Concentrandosi sulle questioni e vicende cruciali, si ripercorre il radicalismo culturale e giovanile degli anni ’50,
l’attivismo studentesco dei ’60, le mobilitazioni operaie di fine decennio e il rinnovamento
della sinistra politica, ben evidenziando sia le specificità di questi processi, sia le interazioni –
non lineari, ma evidenti – tra le dinamiche di ciascuno di essi e tra le diverse realtà nazionali.
Ne emerge, come denominatore comune e asse di sviluppo del movimento, una tensione
contestativa che animò dapprima mentalità, stili di vita e iniziative culturali, e quindi più decisamente pratiche di contestazione politica all’interno e in seguito all’esterno delle istituzioni educative e dei luoghi di lavoro, all’insegna di un dominante spirito antiautoritario e della sperimentazione di forme di «democrazia partecipativa», di nuove modalità di comunicazione e aggregazione interpersonale, di esercizio del potere e di erogazione delle conoscenze. Su queste basi, la
radicalità del movimento, più che esprimere una deriva estremistica, pare rispecchiare in modo
eloquente la realtà del cosiddetto «neo-capitalismo» affermatosi nell’Europa del benessere postbellico e i tratti di paternalismo e autoritarismo sociale in essa ancora largamente presenti, anche se una maggiore attenzione ad alcune altre tematiche, come quella della guerra e dello sviluppo, avrebbero forse ancor meglio sostanziato questa chiave di lettura. In conclusione, l’approccio e i risultati del volume sono di indubbio rilievo e ben si integrano, anche oltre le intenzioni dell’a., con le migliori letture sociali e culturaliste delle dinamiche che investirono l’universo giovanile tra i ’50 e i ’70. Va però anche osservato, che la scelta di non considerare gli esiti ultimi del movimento certo concentra l’attenzione sul suo valore progettuale e critico, ma lascia
tuttavia sullo sfondo le difficoltà, gli errori e le contraddizioni che pure ne segnarono la storia.
Simone Neri Serneri
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I LIBRI DEL 2007
Steven C. Hughes, Politics of the Sword. Dueling, Honor and Masculinity in Modern Italy,
Columbus, The Ohio State University Press, XV-360 pp., $ 64,95
Nel 1902 il ministro degli Esteri italiano Prinetti combattè in duello contro l’autorevole
parlamentare Franchetti. Negli anni precedenti già avevano difeso il proprio onore a colpi di
spada, fra i tanti, Minghetti, Rattazzi, Pareto, Croce. Il duello, tuttavia, era un vero e proprio
reato per la legge. Il paradosso è notevole, e in questo volume diventa un ottimo spunto per
l’analisi storiografica di importanti dinamiche normative e codici culturali delle élites italiane
durante l’800 e buona parte del secolo successivo. Mettere analiticamente a frutto i paradossi è una classica impresa della migliore storia culturale, cui è senz’altro da ascrivere questo libro, che illumina vasti territori interpretativi ai confini fra storia politica, sociale, di genere,
del diritto. Con notevoli risultati: è infatti sorprendente la rete di temi e questioni che l’a. riesce a costruire a partire dal filo apparentemente marginale della storia del duello (come altri
studi hanno già fatto per Francia, Germania, Irlanda, Belgio, Portogallo, America latina), basandosi su fonti a stampa come trattati e manuali, saggistica e opuscoli vari, articoli di giornali e riviste, atti parlamentari, opere letterarie e testi teatrali. I capitoli del libro spaziano dunque felicemente fra i piani del nazionalismo, dei meccanismi retorici di inclusione ed esclusione sociale, dei sistemi normativi (codificati o meno), oltre che – naturalmente – delle dinamiche della onorabilità maschile fra pubblico e privato.
Prestigio personale e nazionale furono gli obiettivi paralleli di un’etica da gentiluomini
destinata a puntellare, grazie a virtù marziali e dunque virili, l’incerto profilo identitario di ceti superiori candidati o impegnati a guidare l’Italia, e dell’Italia stessa. Quella che Hughes definisce «comunità cavalleresca» inventò, nel corso del Risorgimento e fin dentro gli anni ’30
del ’900, una tradizione: il duello infatti era quasi scomparso nel ’700 (con l’eccezione del Piemonte), ma risorgeva nella prima metà dell’800. Il «revival cavalleresco» servì quindi a formare un codice culturale che unificava le élites di ceti e regioni diverse, a istituzionalizzare la loro conflittualità interna entro un ordine normativo speciale, a «battezzare col sangue» i giovani rampolli della buona società (difficilmente un duello aveva conseguenze mortali, grazie appunto alla sua logica cavalleresca).
Dopo una notevole recrudescenza nel primo dopoguerra, il duello conobbe il suo declino finale durante il regime fascista, che lo inquadrò sempre più come espressione di deteriore individualismo man mano che veniva costruendo il proprio progetto totalitario, e infine lo
spense ingabbiandolo in complicate dinamiche burocratiche. Ma all’estinzione del duello concorsero, sottolinea l’a., anche altri e ben più ampi mutamenti: la fine del pluralismo politico
e della libertà di stampa, innanzitutto, due condizioni che ne avevano grandemente favorito,
nel quarantennio postunitario, la fioritura come onorevole sistema semilegale di risoluzione
delle controversie personali (ma non tanto) presso le élites.
Sandro Bellassai
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I LIBRI DEL 2007
John Iliffe, Popoli dell’Africa. Storia di un continente, Milano, Bruno Mondadori, XI-450
pp., € 45,00 (ed. or. Cambridge-New York, 2007)
Nel 1995 veniva pubblicata la prima edizione di Africans: The History of a Continent di John
Iliffe, docente, allora, di Storia a Cambridge. Dalla preistoria alla fine dell’apartheid in Sudafrica,
incardinata sulla tesi della resistenza africana a un ambiente ostile, lungo i trend demografici e i
processi di «colonizzazione» africana del continente, prendeva forma un’innovativa storia della durata: innovativa, rispetto alle analisi incentrate su formazione dello Stato moderno e sottosviluppo caratterizzanti la storiografia africanistica degli anni ’60 e ’70, ed evolutiva rispetto alle prospettive del rapporto tra culture e ambiente degli anni ’80. Il volume era incentrato sulle strategie d’adattamento e controllo rispetto al territorio; sul consolidamento di società dai complessi
schemi di parentela, di relazioni di potere e meccanismi di sostentamento a garanzia di un’interdipendenza capace di sopravvivere tanto alla pervasività coloniale che all’instabilità dello Stato
moderno, nonché sui sistemi di difesa di quelle società da agenti esterni (tratta degli schiavi e colonialismo) e si sviluppava in dodici capitoli, otto dei quali dedicati all’Africa pre-coloniale, a rottura dell’impostazione eurocentrica predominante, sostenuti da un vasto apparato conoscitivo e
bibliografico. Trattando fenomeni storici, politico-istituzionali e mercantili in modo disinvolto,
senza disequilibri evidenti tra regioni e in cui le pur presenti generalizzazioni erano argute e mai
azzardate all’eccesso, Africans costituiva un’esemplare prospettiva per gli studiosi e un’eccellente
lettura per gli studenti. Si plaude, dunque, alla traduzione della riedizione aggiornata (2007) di
un libro che aveva fatto epoca: dall’identica impostazione, ampliato nelle utili appendici bibliografiche, corretto rispetto a talune imprecisioni, a cui è stato aggiunto il capitolo L’epoca dell’Aids,
che conferma, però, una delle principali critiche alla prima edizione. Pur bandito l’afropessimismo, si diceva allora, il focus sulle leve demografiche dei popoli d’Africa, quali meccanismi di cambiamento storico rispetto ad ambiente e pressioni esterne, e l’insistenza sul loro isolamento, evidenziavano un’attitudine reactive piuttosto che proactive rispetto ai fenomeni sofferti: intitolare
un’era alla pandemia che colpisce e deriva da quei meccanismi demografici suona ora come la definitiva condanna di un continente dipendente dalla medicina occidentale. Si tratta però d’una
chiave di lettura coerente con la ricerca successiva di Iliffe (cfr. Honour in African History, New
York, 2005 e The African Aids Epidemic: a History, Athens-Oxford, 2006).
Un paio di note ancora all’edizione italiana: Southern Africa, nella speculazione in chiave
regionale (p. 235), si traduce con «Africa australe» e non «Sudafrica»; il passato remoto riferendosi al 2005 appesantisce la lettura; l’indice dei nomi a scapito di quello analitico è insufficiente in volumi di questa portata, così come carte geografiche carenti e affatto descrittive,
e il prezzo elevato rende inaccessibile allo studente universitario questo strumento – pur adatto nella centellinata pubblicistica in italiano in materia – senza farlo cadere nel peccato d’un
uso smodato della fotocopiatrice.
Cristiana Fiamingo
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