Fiorella Imprenti, Operaie e socialismo. Milano, le leghe femminili, la

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Fiorella Imprenti, Operaie e socialismo. Milano, le leghe femminili, la
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Fiorella Imprenti, Operaie e socialismo. Milano, le leghe femminili, la Camera del Lavoro
(1891-1918), Milano, FrancoAngeli, 304 pp., € 23,00
Il volume ricostruisce, con precisione e vivacità, la vicenda delle leghe femminili milanesi tra fine ’800 e prima guerra mondiale. Come avverte l’a. «Questo lavoro pone l’attenzione
su alcuni aspetti inediti del sindacalismo italiano tra Otto e Novecento: la presenza delle donne nel movimento operaio, il loro ingresso nelle organizzazioni di categoria e lo sviluppo delle leghe femminili, nell’intreccio dei rapporti tra operaie e istituzioni sindacali locali e nazionali» (p. 11).
Ci viene così restituito un mondo del lavoro composito, per settori e per sessi, nella Milano che si avvia a diventare capitale industriale d’Italia. Protagoniste del volume sono le operaie delle manifatture maggiori, tessitrici e tabaccaie, ma anche le lavoranti delle confezioni e
delle sartorie, le cucitrici di biancheria, le cravattaie e le orlatrici di calzature. L’a. ci mostra
come queste lavoratrici riuscirono ad organizzarsi in leghe e a promuovere agitazioni, ottenendo anche alcuni successi. Dal confronto tra leghe femminili e miste, emerge come nelle prime le operaie poterono elaborare rivendicazioni basate sulle loro particolari esigenze e connotate da istanze emancipazioniste. Nelle leghe miste difficilmente le loro richieste erano accolte nelle piattaforme sindacali, e le donne erano escluse dalle cariche sociali. Le leghe femminili mostrarono capacità di lotta, espressero leader di prestigio, ed ottennero il sostegno della
Camera del Lavoro, che ne incluse un piccolo numero nei suoi organismi dirigenti. Ancor più
importante fu il rapporto con le associazioni emancipazioniste, e in particolare con le donne
socialiste.
Il lavoro di Imprenti copre un vuoto solo in parte colmato dalle pubblicazioni su donne
e sindacato, in occasione del centenario della CGIL, poco interessate a queste prime lotte. Ed
è proprio nella ricostruzione delle agitazioni, dei legami tra lavoratrici e dirigenti e dei rapporti col femminismo socialista che l’a. raggiunge i migliori risultati. Mentre forse avrebbe meritato maggiore considerazione il mutare nei decenni della situazione industriale – preminenza
della metallurgica e meccanica a danno del tessile – e della mentalità della classe operaia, nella quale i migliori redditi delle fasce professionali maschili diffondevano un modello di domesticità femminile. Una maggiore attenzione alla storiografia estera, soprattutto francese ed anglosassone, che già ci offre letture di genere nel mondo del lavoro e nel movimento sindacale, avrebbe arricchito quest’aspetto della trattazione, così come l’analisi dei rapporti tra lavoratrici e sindacato. Queste osservazioni non diminuiscono il merito del volume: l’averci dimostrato l’esistenza di un protagonismo rivendicativo femminile nel mondo del lavoro operaio, per anni dimenticato e persino negato da buona parte della storiografia italiana.
Laura Savelli
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Ludovico Incisa di Camerana, I ragazzi del Che. Storia di una rivoluzione mancata, Milano, Corbaccio, 402 pp., € 20,00
Dopo I caudillos, L’Italia della luogotenenza e Il grande esodo, la collana storica di Sergio
Romano ospita l’ultimo volume di Incisa di Camerana, noto esponente del mondo diplomatico italiano in America latina che, nella sua lunga carriera, ha ricoperto, tra gli altri incarichi,
quello di ambasciatore in Argentina e Venezuela.
I ragazzi del Che, ricco di aneddoti e le cui fonti, tutte edite, afferiscono essenzialmente
a memorialistica e stampa internazionale, opera una sistematica demistificazione dell’icona
per antonomasia della lotta armata nel sottocontinente e delle aspirazioni di giustizia sociale
legate a un’intera generazione: Ernesto Guevara de la Serna. L’obiettivo dichiarato dall’a. è
quello di valutare l’impatto che «una figura occidentale senza riscontro in altre aree extraeuropee, dal mondo arabo all’Africa, alla Cina, al Vietnam, all’India» (p. 10) ha prodotto all’interno di quell’area geografica, politica e culturale la cui collocazione si definisce all’insegna di
una forte ambiguità – l’«Occidente del Terzo Mondo» o «Terzo Mondo dell’Occidente», per
dirla con Alain Roquié.
Non è un caso, probabilmente, che il clima di attuale effervescenza politica e sociale latinoamericana stimoli in questo senso, e da più versanti, riflessioni articolate sulla genesi e le
potenzialità di una pluralità di movimenti sociali che affonda le sue radici proprio nei primi
anni ’60 del ’900 e nel processo rivoluzionario cubano.
Suddiviso in cinque sezioni, il testo dedica le prime tre a una minuziosa narrazione della
biografia del Che, dalla nascita ai rapporti con le potenti oligarchie argentine, all’avventura
caraibica, a quella africana, fino al tragico epilogo in Bolivia. Non sembra trapelare, in questa
parte, la complessità e la conflittualità del rapporto con Fidel Castro, in parte assodata dalla
latinoamericanistica contemporanea. Le ultime due sezioni vedono invece una ricostruzione
minuta dello scacchiere sociale e politico degli anni ’70 nel sottocontinente, dove emergono
in particolare il protagonismo dei Tupamaros uruguaiani e l’esercito sandinista in Nicaragua.
Non c’è successo, secondo Incisa di Camerana, per l’eredità del Che. Le conclusioni vedono
infatti la sua rivoluzione, che «non è stata contadina, né operaia, né sociale, né indigena» ma «studentesca e intellettuale, romantica, populista, temporanea» (p. 349), come un processo destinato
inevitabilmente a fallire nel medio e lungo periodo. Saranno poi gli anni ’90 e la fine dell’equilibrio
bipolare a decretare inoltre l’assoluta non praticabilità della lotta armata, anche da parte degli stessi leader latinoamericani. In questa operazione di destrutturazione di un personaggio passato dalla
storia al mito, resta da chiedersi se effettivamente, come lasciano intuire le ultime parole del volume, «la sua perdurante popolarità» non ne abbia fatto soprattutto «un bene di consumo eccezionale e a buon mercato, che ha finito con il logorare sempre più gli ideali di quei giovani che hanno cercato a caro prezzo di seguire l’esempio del «comandante delle Americhe» (p. 381).
Benedetta Calandra
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Ombretta Ingrascì, Donne d’onore. Storie di mafia al femminile, Prefazione di Renate Siebert, Milano, Bruno Mondadori, XXII-200 pp., € 18,00
Come avverte Siebert nella Prefazione, di recente due fenomeni hanno dato trasparenza
alla situazione delle donne nel mondo mafioso: il pentitismo con le connesse possibilità di scegliere tra diverse lealtà, e i processi sociali generali di emancipazione femminile. Nelle turbolenze dell’espansione mafiosa contemporanea, secondo le ricche fonti pubblicistiche e giudiziarie di cui dà conto anche questo agile percorso tra Sicilia e Calabria sotto il profilo della visibilità femminile, si può dire che il fenomeno confermi la sua natura adattiva nel lasciare alle donne crescenti spazi nella gestione economica e nella stessa delega di potere, a fronte della forte assenza maschile per carcerazioni e latitanze. Nonostante la perdurante esclusione dall’affiliazione e il carattere strumentale e temporaneo delle deleghe alle donne di famiglia, gli
spazi da queste occupati segnano uno scarto netto rispetto a un passato di esclusione dalla rete «stretta». L’evoluzione si riflette anche a livello giudiziario, con il relativo superamento della differenziazione di genere nel trattamento processuale e dunque l’inclusione delle donne almeno nel concorso esterno del 416 bis, mentre intanto l’estendersi della collaborazione incrina la regola del silenzio e apre alle donne le strategie di scelta del caso. Il rilevante spaccato
della complessità mafiosa recente, che l’a. organizza secondo la prospettiva donne d’onore, si
muove tra alcuni riferimenti teorici all’ambiguità della condizione femminile in una mafia al
canonico confine tra tradizione e modernità (letta come pseudo-emancipazione), l’ampio uso
della letteratura che valorizza la crescente visibilità femminile, infine il proprio originale contributo di ricerca attraverso alcune interviste a collaboratori di giustizia. Quella a Rosa N. conquista uno spazio privilegiato grazie al particolare «colloquio tra donne» che si è stabilito tra
la giovane ricercatrice e la «ndranghetista» pentita. Buona eccezione che conferma la regola di
una pseudo-emancipazione femminile (dove la tensione tra sfera esterna/moderna e
interna/tradizionale resta irrisolta), il vissuto di Rosa N. dimostra tra l’altro che le scelte individuali possono produrre un’effettiva rottura, e l’identità personale risultare più forte di quella familiare-mafiosa. La regola resta quella di una subordinazione femminile che, più visibilmente che in passato, condivide onori ed oneri con il potere mafioso-maschile. «Se lui fosse
morto avrei avuto più onore», dichiara la moglie arrabbiata di un pentito (p. 142): frase chiave di un onore femminile come risorsa quantificabile nella competizione sociale, che aprirebbe possibilità comparative con la già lunga storia dell’onore camorrista/mafioso e con altre accezioni anche più risalenti nelle strategie sessuali-familiari delle donne. Alle poche eccezioni
à la Rosa N. può riportare il riferimento, alquanto incerto, ad una vittimizzazione della condizione femminile nella vita di mafia versus la partecipazione al potere maschile. A venire in
evidenza è piuttosto la complementarietà, a partire dalla stessa tradizionale divisione dei ruoli, che lascia alla madre la trasmissione ai figli dei principi mafiosi.
Marcella Marmo
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Will Irwin, Chiamati in azione. Francia 1944: la storia segreta delle forze speciali alleate,
Milano, Longanesi, 370 pp., € 18,60 (ed. or. New York, 2005)
A partire dalla divulgazione della fluviale The Second World War, che valse a Winston
Churchill, nel 1953, l’assegnazione – immeritata – del premio Nobel per la letteratura, la pubblicistica sull’ultimo conflitto mondiale ha costituito un fortunato e remunerativo filone editoriale, che non accenna a esaurirsi negli scaffali delle librerie.
L’opera prima di Will Irwin si inserisce a pieno titolo in tale casistica, ricomponendo il
mosaico di un’azione bellica tenuta secretata fino agli anni ’80. L’a., nato nel 1950 nello Iowa,
dopo una carriera trascorsa nelle Special Forces dell’esercito statunitense, si è dedicato agli studi storici e ricopre il ruolo di consulente presso il Pentagono.
Il volume riporta alla luce l’impresa dei trecento Jedburgh – probabilmente dal nome in
codice assegnato al piano e derivato dalla città omonima scozzese –, squadre speciali, ciascuna composta da tre soldati, provenienti dall’Office of Strategic Service (OSS) americano, dallo Special Operations Executive (SOE) inglese e dall’Armée Française de la Libération, che
vennero paracadutate, nel luglio del 1944, vicino alla città bretone di Briec-de-l’Odet, per affiancare e proseguire l’operazione Overlord.
I veterani sopravvissuti fecero la loro prima rimpatriata a Parigi, nel 1984 e da allora hanno continuato a radunarsi periodicamente in varie parti del mondo. L’a. racconta la storia di
diciotto di quei Jedburgh, mescolando generi disuguali, dalla storia orale, alla storia militare,
alla memorialistica dei reduci, con un montaggio da fiction televisiva. La narrazione è densa
di riscontri documentali provenienti dalla sede londinese dell’OSS, ma risulta carente di qualsiasi riflessione storiografica sulle tematiche affrontate.
Il lavoro di Irwin deve molto a due pubblicazioni pionieristiche di Robert Ford: Fire from
the forest: the SAS Brigade in France, 1944 (London, 2003) e Steel from the sky: the Jedburgh
Raiders, France 1944 (London, 2004), anche se, a nostro avviso, la migliore ricostruzione, sul
versante francese, è quella di Anne-Aurore Inquimbert, con Les équipes Jedburgh, juin 1944décembre 1944 (Panazol, 2006).
A differenza delle opere sopra citate, in questa viene data la parola direttamente ai protagonisti, mettendo in rilievo come la loro missione fosse stata quella di addestrare e armare i
maquisard, per progettare azioni di sabotaggio e di guerriglia, allo scopo di coprire l’avanzata
degli Alleati. Le forze speciali «ebbero un ruolo chiave nel far succedere tutto ciò e nell’effettuare un coordinamento così stretto tra gli sforzi bellici convenzionali e quelli non convenzionali che nessun altra misurazione del loro successo sembra appropriata» (p. 273).
Irwin sembra trascurare, invece, il fatto che i francesi puntassero sulle gesta della Resistenza non solo per ragioni militari, ma anche politiche, dato che volevano ripristinare la sovranità statale, prima che s’instaurasse, sul loro suolo, un governo provvisorio alleato. Risiede
anche in ciò, probabilmente, la mancata traduzione oltralpe del libro e la scarsa attenzione riservatagli dalle riviste specializzate.
Giuseppe Caramma
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Mario Isnenghi, Dalla Resistenza alla desistenza. L’Italia del «Ponte» (1945-1947), RomaBari, Laterza, 418 pp., € 24,00
Lo sguardo attraverso la lente del «Ponte» restituisce la complessità del processo di transizione alla democrazia vissuto in Italia negli anni tra il 1945 e il 1947. Un percorso tormentato
che si snoda tra i depositi delle memorie individuali e collettive, prossime e lontane, chiamandovi a partecipare, attraverso il saggio e il racconto, la cronaca e la testimonianza, alcune delle
migliori menti dell’epoca. La rivista è stata a più riprese oggetto di studio, anche recente, ma
Isnenghi ne propone una lettura originale, intesa a cogliere il significato più intenso – fortemente intrecciato alla dimensione del vissuto – delle rappresentazioni e delle autorappresentazioni di
quegli autori-attori che furono i fondatori e i principali collaboratori. Il volume raccoglie un’ampia selezione di articoli tratti dai fascicoli degli anni 1945-1947 e si inserisce nel piano di riedizione delle opere di Piero Calamandrei curato da Sergio Luzzatto. La parte antologica, oltre ai
testi di Calamandrei, comprende interventi, tra gli altri, di Agnoletti, Tumiati, Branca, Salvemini, Rossi, Stuparich, Jemolo, Mazzucchetti, Garrone, Spini, Alessandro e Carlo Levi.
Il lungo saggio introduttivo, La vita della patria, prende le mosse dal giovane Calamandrei, nel suo esordio intellettuale sulla scena di Firenze città delle riviste, considerato come «filo conduttore nella storia mentale della Nazione» (p. 5). Una premessa lontana ma quanto
mai necessaria nella chiave di lettura delle Generazioni: in primo luogo i nati negli anni ’80
dell’800 i quali, ormai padri nel secondo dopoguerra, si fanno «pontieri» della loro eredità verso se stessi e verso i figli. Lo sguardo della rivista – avverte l’a. – ha una duplice direzione: rivolta all’indietro, nel proporre Genealogie e ritratti del passato prefascista; rivolta in avanti, nella Memoria costituente della guerra, della Resistenza, dell’Italia liberata e della Repubblica. Nel
definire «le intenzioni e i tratti» di una «delineazione identitaria» (p. 36), attraverso un dialogo serrato e appassionato con i testi, emerge la galleria di antenati (De Amicis, Turati, Pascoli, Zanotti-Bianco, i Rosselli, Lussu, Gramsci, Capitini, Dorso, de Bosis, gli autori-personaggi Stuparich, Alessandro Levi, Salvemini) che lascia il posto al gruppo dei fondatori (con Calamandrei ci sono Pancrazi, Russo, Tumiati, Levi) in un ritratto familiare di gite tra la Toscana e l’alto Lazio. Dalla «Toscana piccola patria» (p. 64) all’Italia, che si specchia nell’assidua
riflessione sull’Europa e, in particolare, sulla Germania che rappresenta una «specie di gigantografia sulla desistenza dell’uomo europeo» (p. 9), e le cui tracce, tra indulgenza e furore, si
trovano fin dentro la letteratura specialistica. Il gruppo di amici presto si allarga per estendere gli itinerari della memoria che attraversano la rivista: dalla entrata in guerra alla battaglia di
Firenze, con i suoi ponti distrutti e da ricostruire nel dilemma tra continuità e nuovo inizio.
L’indice del «Ponte», il suo ordito, assurge così a progetto, di cui l’a. propone, nel saggio
e nella scelta dei testi, il «senso di una grande riapertura degli sguardi, di una ansiosa rimessa
a fuoco di raggio internazionale» (p. 60).
Giancarlo Monina
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Mario Isnenghi, Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato, Roma,
Donzelli, VIII-215 pp., € 14,00
Il Parlamento della nuova Italia è un’assemblea abbastanza giovane, chi da ragazzo ha fatto i moti carbonari non ha ancora sessant’anni, i clandestini della Giovane Italia non più di
cinquanta, e quegli scranni «sono pieni di scampati alla forca, di martiri mancati, di reduci
dalle barricate, dagli esili e dalla galera: non sono ancora vecchi, adesso sono o potranno salire al comando, diventare ministri; e però l’accelerazione storica è stata tale che coloro che hanno pensato e agito hanno ora la possibilità di raccontarsi e di candidarsi essi stessi a storici dell’evento che li ha visti tra gli attori» (p. 65). Inconfondibile nello stile e nel taglio tematico,
Mario Isnenghi ripropone in questa «Saggina» donzelliana il tema delle «rotte dell’io» nell’Italia che trascorre dalla stagione dell’illegalismo insurrezionale alla legalità monarchica, che
costruisce l’inevitabile miscela di nazione e di ordine pubblico a partire da equilibri/squilibri
culturali e psicologici oltre che politici, che – come sempre dopo una guerra o una rivoluzione – rivanga, costruisce, manipola, enfatizza, discredita le memorie individuali e le mitologie
collettive. Con un intreccio di canto e controcanto. Producendo le «favole luminose» che raccontano impossibili vittorie e gloriose sconfitte e, insieme, quel «fosco brulichio» che rimugina e rimastica il recente passato nell’ottica del realismo ma anche della faziosità politica. E naturalmente Isnenghi sta dalla parte delle grandi cause, di quei giovani avventurosi che erano
andati «a liberare mondi, a combattere draghi» (p. 32), e tratta in modo talvolta sprezzante
non tanto chi da sponde legittimiste nega il Risorgimento, quanto piuttosto i cavouriani alla
Giuseppe La Farina («il livido manovratore della Società Nazionale», p. 50) e più ancora coloro che, essendone stati protagonisti, lo rileggono col senno del poi, ne fanno un fenomeno
divisivo di guerra civile, finiscono per sporcare i propri stessi anni eroici. Il che vale per la
schiera degli ex – da Depretis a Cairoli, da Nicotera e Crispi, tutti simili a «Pietro nel giardino degli ulivi» (p. 80) – ma anche per dibattiti assai più recenti, come quello agitato da Ernesto Galli della Loggia sull’illegalismo della violenza risorgimentale.
Inutile dire che, di queste riflessioni raffinate e di questa agra vis polemica, il topos per eccellenza – il pane politico più saporito e la rotta dell’io più trasparente – è Garibaldi. Colui
che meglio rappresenta l’alternativa tra finire su una forca come un qualunque brigante o diventare l’accorsato monumento della patria. È venuto il momento di dir bene di Garibaldi,
scrive l’a., perchè, a dispetto delle schioppettate di Aspromonte, il Generale è il segno di un
percorso costruttivo. Incompatibile con il «giusto mezzo», caratterialmente estremo ma capace di obbedienza. Specchio di un rapporto difficilissimo tra le anime della nuova Italia ma per
nulla evitabile e, tutto sommato, meno irrisolto di quanto si creda. Oggi, conclude Isnenghi,
«fai due passi e, praticamente, in qualunque città d’Italia esci da piazza Vittorio Emanuele ed
entri in corso Garibaldi» (p. 146).
Paolo Macry
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Massimiliano Italiano, La FIAT al fronte. La grande industria tra guerra e sviluppo (18991918), Firenze, Phasar Edizioni, XXXVII-309 pp., € 17,00
Gli storici hanno ampiamente discusso su quanto la crescita e le trasformazioni dei sistemi industriali nei principali paesi siano debitori nei confronti dell’intervento dello Stato e della spesa pubblica, in particolare quella militare. La produzione bellica si è infatti dimostrata
determinante nell’offrire alle imprese un’alternativa alla crisi dei mercati specie nel periodo tra
fine ’800 e Grande guerra, quando l’inasprirsi delle tensioni internazionali che culminerà nella conflagrazione europea portò ad una generale richiesta di armamenti. Nel caso dell’Italia,
la spesa militare rappresentò il maggiore fattore di crescita e di sviluppo per la grande industria e garantì la sopravvivenza di ampie aree occupazionali diversamente condannate al fallimento. Un rapporto quindi, quello tra Stato e industria, «di compensazione» che assume un
«aspetto sinusoidale crescente, raggiungendo i suoi picchi di massima proprio durante i periodi di crisi» (p. X).
La ricostruzione, da questo particolare e fecondo angolo di visuale delle vicende della dirigenza del gruppo Fiat, permette, attraverso l’indagine su un caso di studio di grande importanza, di confermare e inverare sul campo dell’indagine storica l’ipotesi di partenza. Constatati, a due anni dalla fondazione del 1899, i deludenti risultati commerciali, nel gruppo dirigente della Fiat dopo una lunga discussione sul futuro dell’azienda si giunse alla conclusione
che le cause del mancato decollo erano da ricercarsi, fondamentalmente, «nella carenza del
mercato automobilistico e che, quindi, occorreva cercare delle possibili alternative» (pp. 9-10).
Era naturale orientarsi verso il settore militare, interno e internazionale, in un momento in
cui gli eserciti si modernizzavano sostituendo ad esempio il trasporto animale con quello a
motore. Inizia quindi il complesso percorso di costruzione del rapporto con l’amministrazione statale, dettagliatamente ricostruito dall’a., che andrà sempre più consolidandosi, attraverso tutti i passaggi decisivi, la crisi del 1907, la guerra di Libia, la Grande guerra, quando l’azienda torinese, con l’ausilio della Mobilitazione industriale, diventerà uno dei pilastri dello
sforzo bellico.
Caratteristica peculiare del gruppo dirigente della Fiat – sembra questo l’asse interpretativo della ricostruzione – è intendere il rapporto con lo Stato non in termini di passiva richiesta di commesse, ma considerare il «sostegno» pubblico come occasione per modernizzare ed
innovare, dal macchinario alla gestione della forza lavoro, al fine di affrontare nelle migliori
condizioni i periodi – ad esempio quello postbellico – in cui il sostegno pubblico necessariamente si contrarrà e bisognerà cominciare a confrontarsi di nuovo con i mercati internazionali e con le esportazioni dal momento che la debolezza del mercato interno si configura come dato strutturale da cui non è possibile prescindere. Il che consentirà all’azienda torinese di
superare positivamente le drammatiche fasi del primo dopoguerra economico italiano.
Piero Di Girolamo
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Nancy Jachec, Politics and Painting at the Venice Biennale, 1948-64. Italy and the Idea of
Europe, Manchester, Manchester University Press, 213 pp., £ 55,00
La tesi di questo libro è che nel periodo considerato l’Italia ebbe una parte attiva nella proposta di attività culturali che contribuirono all’unificazione europea. Fin dai primi anni ’50 il Consiglio d’Europa sviluppò gli aspetti culturali dei suoi sforzi verso l’integrazione europea attraverso la
campagna denominata «Idea d’Europa», intesa a rendere l’Europa un’unità sul piano culturale senza tuttavia sacrificarne la varietà di espressioni, a diffondere l’idea dello spirito europeo nelle generazioni a venire. Tali attività del Consiglio non sono state finora prese sufficientemente in considerazione.
A partire dal 1948, la DC si occupò direttamente della Biennale di Venezia, decidendone la
forma amministrativa e la direzione. Essa era allora la più importante manifestazione artistica europea, non esistendo ancora Documenta, che venne creata a Kassel nel 1955, né la Biennale di
Parigi, fondata nel 1959. La Biennale si prestava quindi in modo particolare a restaurare i contatti culturali tra l’Italia e la comunità internazionale dopo il ventennio fascista. Questo periodo si
prolungò fino all’apertura al PSI nel 1963. Nel quadro di tale strategia politico-culturale, la pittura informale e gestuale (gesture painting) costituiva un mezzo particolarmente idoneo, in quanto simbolicamente espressiva di una tendenza comune all’Europa occidentale, sotto la quale veniva anche sussunta – con operazione prettamente eurocentrica – la cultura artistica statunitense. Le espressioni «cultura europea» e «cultura occidentale» venivano infatti usate in modo intercambiabile, rivelando la convinzione comune dell’universalità dei valori culturali europei. Il Consiglio d’Europa riteneva quindi legittimo mirare a una leadership culturale e morale internazionale. Il fatto che tra il 1948 e il 1964 il numero delle nazioni espositrici raddoppiasse, passando da
sedici a trentaquattro, rendeva la manifestazione particolarmente importante rispetto ai fini di integrazione e rappresentatività perseguiti dal Consiglio.
L’a. affronta questo tema finora sottovalutato con ricchezza di documentazione sia primaria – grazie a una vasta ricerca negli archivi italiani, britannici e statunitensi – sia secondaria e adotta tanto procedimenti di storia generale quanto il metodo del case-study, includendo così vari paesi dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina. Ciascuno di essi presentava una
versione diversa della pittura informale, il che complica la visione della ricezione della cultura e dell’arte occidentali nel mondo. Risulta da questo studio che la Biennale trasformò la pittura informale, intesa come espressione della condizione umana nel dopoguerra, emblematica del trauma della seconda guerra mondiale e della ricostruzione europea, nella base di un
nuovo umanesimo, e come tale la promosse. Il volume illustra quindi in modo convincente il
ruolo che ebbe la Biennale nell’evidenziare l’impegno dei governi centristi dell’Europa occidentale, attraverso iniziative diplomatico-culturali, nei confronti dell’integrazione di questa
zona, dell’atlantismo e dell’anticomunismo. Complessivamente ne risulta dimostrato l’uso
della pittura informale da parte della Biennale come iniziativa europeista.
Luisa Passerini
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I LIBRI DEL 2007
François Jankowiak, La Curie Romaine de Pie IX à Pie X. Le gouvernement central de l’église et la fin des États pontificaux (1846-1914), Rome, École Française de Rome, 852 pp., s.i.p.
Segnata da un’impronta culturale di storia del diritto, l’opera ambisce a collocarsi accanto ai pochi studi dedicati alla storia della Curia romana. Come dimostra la corposa bibliografia che occupa un centinaio di pagine, l’a. mostra un’ampia conoscenza della letteratura storiografica e giuridica dedicata alla storia della Chiesa e del Papato nel periodo che precede e
segue la caduta del potere temporale della Santa Sede. Egli conduce l’attenzione del lettore sul
«governo centrale» della Chiesa in questo passaggio epocale ed è proprio nell’individuazione
di tale questione che la lunga narrazione storica di circa un secolo offre i suoi spunti più originali. Una lucida conoscenza dei problemi metodologici (connessi all’individuazione dell’oggetto d’indagine) e terminologici (come la distinzione tra Curia romana e Corte di Roma)
consente all’a. di utilizzare con disinvoltura un approccio istituzionale per esaminare i passaggi fondamentali della trasformazione del «governo centrale» della Chiesa: dal periodo del papa-re (che implicava quasi uno sdoppiamento di organismi per guidare, da un lato, gli incerti Stati pontifici e, dall’altro, la «barca di Pietro») alla organizzazione della Curia romana in
un «governo centrale» senza Stato.
Il volume si presenta come una ben congegnata «radiografia» della critica situazione degli ultimi tempi del potere temporale e della successiva «recomposition du gouvernement pontifical», nei suoi «aspects structurels» (p. 24), capace anche di offrire immagini evocative: il
pontificato di Pio IX appare in equilibrio tra il timore della restaurazione e della dissoluzione, mentre Leone XIII sembra muoversi nell’«orrore del vuoto» di una Curia romana che sarebbe stata, infine, «trasfigurata» da Pio X. Ricco di citazioni interessanti e rinvii bibliografici, il volume sembra, tuttavia, restare talora prigioniero del proprio impianto; non solo, infatti, consapevolmente rinuncia all’indagine prosopografica dei cardinali e dei funzionari vaticani, ma anche ad un profilo interpretativo, con le dovute verifiche ed approfondimenti, degli
eventi storici e delle «politiche» che accompagnarono l’evoluzione dei confini e della capacità
di governo della Curia romana. Così, alcuni spunti e approcci di grande interesse si affiancano a considerazioni che poggiano su una letteratura disparata e a volte semplicemente giustapposta; allora, la storia istituzionale della Curia romana proposta non acquista quel respiro più
ampio che lo stesso a. auspica. Nondimeno, il libro mantiene l’interesse di un affresco ben elaborato e ben disegnato, a vantaggio della riflessione degli studiosi.
Andrea Ciampani
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I LIBRI DEL 2007
Christian Jansen, Italien seit 1945, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 255 pp., s.i.p.
Terzo volume di una serie dedicata a brevi introduzioni alla storia dei vari paesi europei
nel secondo dopoguerra, questo volume in parte mantiene e in parte delude le aspettative per
cui è stato scritto. Il volume di apertura della serie, scritto da Thomas Mergel e dedicato alla
Gran Bretagna era stato accolto molto favorevolmente come capace di dare in qualche centinaio di pagine una buona idea dello sviluppo della politica e della società Oltre Manica. Questo studio cerca di ripeterne il successo, ma con esiti, come si è accennato contraddittori.
Bisogna riconoscere che dominare l’intera materia, cioè mettere di fatto insieme sociologia, cultura, politica e costumi è impresa tutt’altro che facile, sicché quando si studia il fenomeno dall’esterno si finisce per mettersi nelle mani di una serie di studi complessivi assumendone il bene, se si è fortunati, ma anche gli stereotipi se non si incappa negli autori giusti.
L’impressione è che Jansen non abbia sempre saputo valutare bene le informazioni che si
trovava fra le mani, sicché ne è uscita un’immagine dell’Italia postbellica piuttosto stereotipata, ma soprattutto scarsamente provvista di profondità storica. In sessant’anni di storia sembra che non ci siano vere periodizzazioni, se si eccettua il periodo iniziale fino al 1947. Tanto
per dire centro-sinistra, ’68 e terrorismo hanno tutti più o meno lo stesso breve spazio narrativo. Le imprecisioni non mancano: per citarne una, a p. 150 viene scritto non solo che i «dorotei» erano una corrente sotto la guida di Moro (errore che peraltro sta anche in autori italiani), ma che essi «vennero anche scherzosamente soprannominati morotei». Tuttavia il problema maggiore è dato da una certa mancanza di capacità di interpretazione, che è maggiormente richiesta nei libri di sintesi che non nelle narrazioni più distese.
Il punto dove si vede maggiormente la dipendenza di Jansen da una serie di stereotipi è
nella valutazione delle vicende della cosiddetta «seconda Repubblica». Non stupisce tanto l’abusato ricorso alla categoria del «trasformismo» per spiegare la politica italiana, perché come
esempi di questo le oscillazioni di campo degli on. Mastella o Fisichella ci sembrano poca cosa (qualcuno ricorda i vari passaggi di campo di Winston Churchill?). Ci pare invece un eccesso di appiattimento sui giornali sostenere che col presidente Ciampi si aveva una autorità
che si «radicava nella resistenza» e che riportava in auge il Partito d’Azione «per lungo tempo
dimenticato», mentre come suo successore sarebbe arrivato il «funzionario del PCI di lungo
corso» Giorgio Napolitano (p. 225). Sono frasi buone per il giornalismo pasticcione dei nostri giorni, non per un volume, sia pure divulgativo, di storia.
La lettura di questi volumetti fa comunque bene per redimerci dalla nostra prospettiva
provincialista, per cui all’estero sono sempre più seri e preparati di noi. Cose di simile livello
su Gran Bretagna, Germania, Francia, ecc. sono state tranquillamente prodotte anche da storici italiani.
Paolo Pombeni
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I LIBRI DEL 2007
Victoria Johnson, Jane F. Fulcher, Thomas Ertman (a cura di), Opera and society in Italy and
France from Monteverdi to Bourdieu, Cambridge, Cambridge University Press, 406 pp., s.i.p.
La chiave di lettura principale di questo corposo volume collettaneo sul teatro d’opera in
Francia e in Italia – così almeno scrive Craig Calhoun nella premessa – va individuata nel riferimento apparentemente un poco eccentrico a Pierre Bourdieu che compare nel titolo e alla cui memoria il libro è dedicato. Se al lettore che affronta le prime due parti del volume, dedicate rispettivamente alla rappresentazione del sociale e del politico nei lavori operistici e alle basi istituzionali della produzione e della ricezione dell’opera, questa centralità appare tutto sommato poco marcata, il tema dell’impatto di Bourdieu sui nuovi studi relativi all’opera
diventa invece centrale nella terza parte, quella più teorica e metodologica che completa e arricchisce il lavoro.
Le intenzioni dei tre curatori, due sociologi della musica, Johnson e Ertman, e una musicologa, Fulcher, è infatti sia quella di offrire – attraverso alcuni affondi di ricerca che coprono i quattro secoli della storia del genere – una sorta di mappatura tematica e dei punti di vista sviluppatisi negli studi in anni recenti, sia di proporre suggerimenti ulteriori di percorso
per le ricerche future. Ed è qui che il lavoro del sociologo francese sul funzionamento del campo artistico, fino ad oggi molto meno presente negli studi sull’opera rispetto ad altri punti di
riferimento come Adorno, Foucault o Raymond Williams, viene individuato come possibile
fonte di nuovi approcci anche sulla «esperienza sociale» dell’opera.
Ciò che emerge chiaramente nell’insieme dei saggi è la vitalità rintracciabile oggi in questo filone di indagine soprattutto in termini di interdisciplinarietà. In qualità di genere strutturalmente multimediale l’opera come fenomeno sociale e culturale ha infatti sollecitato negli
ultimi due decenni – una volta superate le frontiere di un approccio puramente critico-stilistico – una sorta di divisione del lavoro tra competenze analitiche proprie di settori diversi (ai musicologi si affiancano sempre più spesso storici – qui troviamo William Weber e Christophe
Charle –, sociologi, letterati, filosofi) e nel contempo un’originale convergenza di percorsi che
ritroviamo ben rappresentata all’interno del volume. Due le principali direzioni di lettura intorno a cui vengono raccolti i saggi: una più culturale, l’opera come luogo di produzione e diffusione di significati; la seconda più sociale, attenta a ricostruire le condizioni materiali dell’esperienza operistica. Emergono così due mondi dell’opera, quello italiano e francese, molto diversi nella configurazione istituzionale e nelle condizioni produttive ma anche profondamente collegati da fili transnazionali, oltre che accomunati da una presenza forte, nella vita civile
come nella produzione culturale nazionale, di questo genere semioticamente instabile, così lo
definisce qui Jane Fulcher, eppure capace di rappresentare, di rafforzare, anche di contestare il
reale attraverso una inimitabile combinazione di linguaggi artistici diversi.
Carlotta Sorba
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I LIBRI DEL 2007
Tony Judt, Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi, Milano, Mondadori,
X-1075 pp., € 32,00 (ed. or. New York, 2005)
Con questa ricostruzione multiforme, densa e vivace della storia del continente dopo il
1945 l’a. ha fissato un robusto parametro letterario e interpretativo con cui ogni discussione
storiografica dovrà misurarsi. A parer mio si tratta dell’opera più convincente e stimolante in
materia, innanzitutto perché integra le storie generalmente separate dell’Est e dell’Ovest in
uno sguardo unitario. Ciò discende da un baricentro interpretativo fissato non sulle visioni
occidentaliste di nuovi inizi e rigenerazioni, bensì sull’analisi dell’intero periodo come di un
«prolungato epilogo della guerra civile europea iniziata nel 1914» (p. 925). Il quarantennio
chiusosi nel 1989 è quindi un lunga, complessa marcia per fuoriuscire dalla «lunga ombra lasciata da dittatori e conflitti del recente passato» (p. 10). I tempi e i modi sono molto diversi, ma il percorso è comune all’Est e all’Ovest.
Quella di Judt è un’Europa che trova la via della pacificazione nel proprio ridimensionamento identitario oltre che post-imperiale. Fascismo e comunismo vengono finalmente trascesi perché si dissolvono gradualmente le grandi narrazioni di progresso e rivoluzione, i progetti ideologici di dominio e rigenerazione, e al loro posto si converge ben più pacificamente
intorno alla cultura di una regolamentazione socio-economica variamente negoziata. Che
questo avvenga anche per mezzo di silenzi e rimozioni sulla varietà di stragi e pulizie etniche
con cui le dittature avevano ridisegnato la mappa etnica del continente – e in primo luogo silenzio sulla «indifferenza» (p. 1011) degli europei verso il destino degli ebrei – appare qui non
giustificabile ma storicamente comprensibile e costantemente soppesato in un raro, bell’esempio di equilibrio interpretativo tra storia e memoria.
Eccellente sui primi decenni – in particolare sulle dinamiche della separazione tra Est ed
Ovest, la formazione e stabilizzazione dei rispettivi regimi politici, la rapida eclissi dei costumi della vecchia Europa, le tensioni verso la prosperità e i linguaggi della modernizzazione –
il testo ha pagine di grande intensità sul costante confronto tra l’illusione intellettuale che il
comunismo appartenesse alla famiglia delle aspirazioni progressiste e la sua dolorosa applicazione nei paesi dell’Est. La storia del dibattito intellettuale è il primo specialismo di Judt, che
mostra una spiccata, lucida attenzione a Francia, Gran Bretagna, Polonia e Cecoslovacchia,
ma è ben integrata entro panoramiche delle trasformazioni economiche, sociali e della cultura di massa nell’intero continente.
Risulta inevitabilmente più estemporanea la parte sui decenni più recenti – e secondo me
esageratamente critica quella sulle pochezze delle culture emanate dal 1968 – dove tuttavia
spiccano l’eccellente ricostruzione della crisi strisciante dei regimi dell’Est, l’analisi di raro
equilibrio sulle radici, virtù e aporie del «modello europeo» e, infine, la percettiva discussione sulla memoria odierna della storia europea.
Federico Romero
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I LIBRI DEL 2007
Randal Keynes, Casa Darwin. Il male, il bene e l’evoluzione dell’uomo, Torino, Einaudi,
XVII-357 pp., € 26,00 (ed. or. London, 2001)
Keynes, ufficiale dell’esercito britannico e discendente di una figlia di Charles Darwin,
ha scritto questa storia familiare basandosi soprattutto sulle carte acquisite in eredità. Attraverso uno stile narrativo molto piacevole, l’a. ha inteso dimostrare che per Darwin – anzi, per
«Charles», com’è chiamato dall’inizio alla fine – «la vita e la scienza furono una cosa sola» (p.
6). Emerge così un intellettuale che, pur avendo alle spalle gli anni di Cambridge e la missione sul Beagle, rifuggiva per molti versi dall’ottimismo della borghesia vittoriana, e anzi si mostrava perennemente turbato dalla questione religiosa. Del resto, in gioventù Darwin aveva
meditato di diventare pastore di anime; e nella maturità, pur avendo perso la fede, continuava con la moglie Emma Wedgwood a frequentare la Chiesa unitariana. Non trovando alcun
conforto in quel materialismo di cui pure fu uno dei «maestri», negli ultimi anni si avvicinò
ai profeti della religione umanitaria universale, e mostrò interesse persino per lo spiritismo.
Emerge, inoltre, un marito affettuoso e talvolta sensibilissimo («Che faccenda terribile è un
parto. Mi ha stremato, quasi quanto ha stremato Emma», p. 13), e un padre tenero, che passava
ore con i figli e le figlie, prendendosi cura della loro salute e della loro educazione. Alla secondogenita Annie, che pure dovette presto imparare a fare da «mamma in seconda» degli otto fratelli, fece leggere alcuni degli autori a lui più cari: Edgeworth, Cooper, Dickens. Alla moglie, invece, Charles rivelò le ipotesi sull’origine della specie umana molto tempo prima di pubblicarle; per
quanto aliena dalle conseguenze ultime di teorie che escludevano la presenza della divinità nella
vicenda umana, Emma incoraggiò il marito a perseguire la verità scientifica. Ma Darwin stesso
– questa la tesi centrale della biografia – soffriva di non poter trovare più alcuna traccia di bene
nel mondo naturale. L’agonia di Annie, morta a dieci anni, lo pose tragicamente, come padre e
come studioso, di fronte a un groviglio di dilemmi: perché Dio aveva colpito tanto duramente
una creatura inerme e innocente? Le amare riflessioni lo spinsero a deporre il distacco del naturalista «da tavolino» tipico della sua generazione, sollecitando ulteriormente – attraverso progetti di riforma sanitaria – la sua sensibilità per le voci più deboli: poveri e fanciulli.
Lo scalpore suscitato da altri lavori che avanzavano ipotesi inconciliabili con l’ortodossia aveva nel frattempo raggiunto la regina Vittoria, la quale si adoperò presso i «gentiluomini della
scienza» di Oxford e Cambridge affinché arginassero con nuove teorie il già vistoso dilagare dell’ateismo nelle élites del paese. Alla fine, un’agguerrita difesa delle teorie darwiniane doveva venire da una donna che ne conosceva il risvolto privato: Snow Wedgwood, cugina di Annie, riuscì
a conciliare la selezione naturale con la religione, identificando la lotta per la sopravvivenza con
un sintomo dell’imperfezione del Creato. Di questa interpretazione femminile e «moderata», che
poteva parzialmente appagare quelli che erano stati i suoi stessi turbamenti, il vecchio Darwin –
già autoesiliatosi da tanti circoli di illustri specialisti – fu infinitamente grato all’autrice.
Maria Pia Casalena
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I LIBRI DEL 2007
MacGregor Knox, To the Threshold of Power, 1922/33. Origins and Dynamics of the Fascist and National Socialist Dictatorship, Vol. I, Cambridge-New York, Cambridge University
Press, XIV-448 pp., € 40,00
Knox è autore noto agli studiosi del fascismo; già in un’altra opera importante si era cimentato in un’analisi comparativa dell’Italia mussoliniana e della Germania hitleriana (Common Destiny. Dictatorship, Foreign Policy, and War in Fascist Italy and Nazi Germany, Cambridge, Cambridge U.P., 2000). Questo volume (il primo di due messi in cantiere sul tema) ne costituisce ad un tempo il prolungamento e l’estensione. Oggetto della ricerca sono le origini dell’instaurarsi nei due paesi di dittature radicali dai tratti comuni, nonché le dinamiche che mossero entrambi i regimi nella loro parabola verso la guerra. L’approccio metodologico dell’a. è
chiarito nella prefazione con un esplicito riferimento a Tucidide: «human history is the history
of power – dynamis – and of armed conflicts» (p. XI). Dopo una compatta introduzione (pp.
1-19) in cui vengono passate in rassegna le interpretazioni correnti di fascismo e nazionalsocialismo, verso cui Knox non lesina imparzialmente le proprie critiche, si passa ad una corposa prima parte (pp. 19-139) dedicata all’analisi parallela delle vicende intercorse negli spazi italofono e germanofono nel «lungo secolo diciannovesimo» (1789-1914), a cui segue un’ancor
più robusta seconda parte (pp. 143-398) dal titolo From War to Dictatorship 1914-1933. Chiude una sintetica conclusione (Into the Radical National Future: Inheritances and Prospects of the
New Regimes, pp. 399-406) che si configura come un ponte lanciato verso il secondo volume
in fieri. L’approccio di Knox è risolutamente comparativistico, di un comparativismo sui generis, però, che rifiuta di servirsi di categorie generalizzanti quali «fascismo» o «totalitarismo», ma
punta ad individuare similitudini attraverso un’analisi puntuale dello svolgersi degli eventi. La
base archivistica e bibliografica è impressionante, la ricchezza dell’esposizione colpisce il lettore, tuttavia le chiavi esplicative lasciano non di rado perplessi: la radice di fascismo e nazismo
andrebbe ricercata nel ritardato processo di unificazione nazionale di Italia e Germania, nelle
modalità con cui si istituirono e si consolidarono entrambi gli Stati, nel modo in cui essi attraversarono la Grande guerra, nelle culture profondamente antiliberali che ne impregnavano
le élites politiche e culturali, nella fragilità dei sistemi politici postbellici. Tesi ragionevoli, ma
non particolarmente innovative; ci sono poi alcune sottolineature assai datate, quali il recupero pieno della legenda nigra borussica, la riduzione della Repubblica di Weimar a mera parentesi tra autoritarismo imperialguglielmino e Terzo Reich, e così via. Un’opera stimolante, di
cui si auspica la traduzione, ma non sempre convincente.
Brunello Mantelli
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I LIBRI DEL 2007
Malte König, Kooperation als Machtkampf. Das fascistische Achsenbündnis Berlin-Rom im
Krieg 1940-1941, Köln, SH-Verlag, 368 pp., € 34,60
Pubblicato nella collana «Italien in der Moderne» diretta da alcuni tra i più importanti
italianisti tedeschi, il volume è la rielaborazione della tesi di dottorato discussa a Colonia nel
2004 dall’a., ora borsista a Saarbrücken. Obiettivo della ricerca è l’analisi del passaggio avvenuto nell’Asse tra l’entrata in guerra dell’Italia e la primavera del 1941, al cui interno si collocano l’attacco italiano alla Grecia, la forte Resistenza ellenica ed il successivo intervento tedesco che, coadiuvato da Ungheria e Bulgaria, determinò il crollo della Jugoslavia e la resa di
Atene. Se l’avventura ellenica provocò il venir meno delle velleità di «guerra parallela» da parte del regime monarchico-fascista, è ancora terreno di discussione, sostiene König, come siano mutati i rapporti tra i partner dell’Asse, se si possa parlare di una «satellizzazione» dell’Italia già nella seconda metà del 1941 oppure se il mutamento dei rapporti di forza abbia avuto
uno sviluppo più ondivago e lento. Il volume tenta di fornire una risposta complessiva, e prende in esame i rapporti italogermanici trattandoli per sezioni separate. Il primo capitolo (pp.
19-87) è dedicato alla cooperazione militare; il secondo prende in esame gli scambi economici e commerciali (pp. 89-147), il terzo la propaganda attraverso il reciproco intervento sui
mezzi di comunicazione di massa (pp. 149-176). Si analizzano poi le rispettive politiche di
occupazione nelle aree di dominio congiunto: Grecia e Croazia (pp. 177-226). Un denso capitolo è dedicato alle regioni di confine, tra cui spicca il Sudtirolo coinvolto dal dilemma delle opzioni (pp. 227-249). Le ultime due sezioni (pp. 251-291 e pp. 293- 325) si occupano dei
reciproci flussi migratori (militari tedeschi inviati in Italia e lavoratori italiani impiegati nell’economia di guerra tedesca) e delle molteplici voces populi sull’alleato diffuse in entrambi i
paesi. Completano la monografia un’introduzione tematica e metodologica ed una sintesi
conclusiva. Lo scavo archivistico e la vastità della bibliografia sono degni di nota, così come è
rimarchevole lo sforzo dell’a. di misurarsi con tematiche di ampio respiro quali lo svilupparsi
dei concreti processi decisionali. König, pur provenendo da una scuola storiografica di impostazione funzionalista, è ben conscio ad esempio che la politica estera fu terreno d’elezione per
entrambi i dittatori, su cui quindi essi svolsero una funzione chiave. Nonostante si abbia a volte l’impressione di trovarsi di fronte più ad un collage che ad una sintesi, cosa che deriva sia
dalla forma espositiva scelta, sia dal fatto che l’a. rifugge dallo stabilire gerarchie di rilevanza
tra i diversi livelli, abbiamo a che fare con un notevole sforzo interpretativo, che si auspica attiri presto l’attenzione di qualche editore nostrano.
Brunello Mantelli
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I LIBRI DEL 2007
Vjačeslav Kolomiez, Il Bel Paese visto da lontano… Immagini politiche dell’Italia in Russia
da fine Ottocento ai giorni nostri, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 279 pp., € 18,00
Il pregio maggiore del volume sta indubbiamente nel gran numero di nuovi documenti
russi e sovietici sull’Italia post-unitaria portati qui all’attenzione del lettore italiano, sebbene a
volte in modo un po’ disordinato. Altrettanto nuova è del resto la volontà dell’a. di superare la
tradizionale melensaggine della storiografia sovietica (e post-sovietica: gli specialisti sono spesso rimasti gli stessi) affermando chiaramente che, «lungi dal presentare un esclusivo quadro idilliaco» (p. 7), le immagini da lui studiate mostrano quanto pesante sia stata invece la «tradizione culturale a sfondo xenofobico e classista» (p. 168) che le ha in genere caratterizzate. Scopo
del libro è «indagare un particolare aspetto della interdipendenza delle culture politiche in Russia e in Italia» (p. 8), ma al suo interno toni e contenuti risultano spesso diseguali, risentendo
delle diverse impostazioni di precedenti ricerche di Kolomiez. I titoli stessi delle sezioni in cui
è diviso il testo (Il sessantennio liberale, Il ventennio fascista, Il cinquantennio repubblicano) denunciano l’originale interesse dell’a. per la storia italiana, o meglio del socialismo italiano, piuttosto che per le vicende della cultura politica russa e delle sue rappresentazioni dell’Italia. Studioso della violenza politica italiana dell’800, egli mostra un raro interesse per le opinioni delle rappresentanze diplomatiche russe di fine secolo, forti in proposito di una notevole esperienza comparativa. Ma anche al di là delle fonti diplomatiche russe (e sovietiche, per il periodo
successivo), la grande ricchezza dei riferimenti alle più disparate e meno note fonti a stampa
contribuisce a dare una visione assai articolata della durevole attenzione russa verso il sistema
politico italiano. Qualche informazione in più sugli autori di quei testi sarebbe forse stata utile, ma anche qui emerge invece l’interesse primario di Kolomiez, che non va tanto alle fonti
russe quanto al loro oggetto, atteggiamento metodologicamente poco consigliabile quando si
maneggiano immagini nazionali. Molto interessanti, naturalmente, le analisi del fascismo da
parte di un regime sovietico che «si contraddistinse fin dalle origini per un’esasperata autarchia
culturale, spesso con elementi di vera e propria xenofobia» (p. 90), ma che nei suoi primi anni
mostrò una notevole ricchezza e contraddittorietà d’analisi della realtà italiana. In particolare,
l’a. tiene a sottolineare la permanente contrapposizione tra il punto di vista della diplomazia
sovietica e quello degli ambienti del Komintern, ma non scioglie in alcun modo l’antico nodo
storiografico legato a tale questione. Non mancano infine nuovi dati sui finanziamenti russi alle sinistre italiane, mentre l’ultima parte del volume riflette il rarefarsi delle fonti utili per l’ultima fase del regime sovietico e il quindicennio successivo, testimoniando soprattutto la finale
«provincializzazione» (p. 259) dell’immaginario russo sull’Italia.
Antonello Venturi
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I LIBRI DEL 2007
Angus Konstam, Salerno 1943. The Allied Invasion of Italy, Barnsley, Pen and Sword Military, XIV-172 pp., £ 19,99
Si tratta di un’accurata ricostruzione dello sbarco effettuato a Salerno dagli Alleati nel settembre 1943. Si decise allora di procedere verso la penisola per sfruttare il concentramento di
forze già ammassate per l’occupazione della Sicilia; si aprì così la campagna d’Italia con la promulgazione dell’armistizio e di tutto ciò che ne seguì. Konstam non si occupa di questi aspetti più generali della vicenda, ma segue con andamento diaristico le operazioni nei dieci giorni della battaglia (dal 9 al 19 settembre) ingaggiata sulla spiaggia di Salerno, i cui esiti furono
a lungo incerti per la reazione tedesca, molto più decisa e concentrata che in Sicilia, per gli errori commessi dal comandante americano dell’operazione, il generale Mark Clark.
I movimenti delle truppe vengono seguiti d’ora in ora e analizzate le decisioni dei comandanti. In particolare, come è tipico di questa letteratura, si analizzano i diversi punti di vista
e comportamenti dei comandi britannici e americani, le cui divergenze emergono con particolare acredine per via del fatto che Salerno fu la prima operazione in cui gli americani ricoprirono un ruolo più importante rispetto agli inglesi, per il momento sul piano militare, ma
ben preso anche sul piano politico. Le scelte effettuate sul campo avevano dunque un retroterra più complicato che non sempre emerge da una narrazione così minuziosamente attenta
alle azioni militari nel loro svolgersi.
L’utilità e l’importanza del testo per la storiografia militare è indubbia, anche perché viene colta l’opportunità di analizzare come in laboratorio una operazione congiunta con la possibilità di effettuare comparazioni sia con altri episodi della storia della seconda guerra mondiale, sia con episodi più recenti di operazioni militari congiunte. Meno affascinante la lettura per lo storico che non sia direttamente interessato a questi aspetti, anche se qua e là si possono cogliere squarci di storia sociale della guerra. Per non interrompere il ritmo diaristico
queste diversioni sono contenute in apposite schede e riguardano aspetti diversi; ne segnalo
due: quella sulla questione dei carri Tigre (pp. 74-75) e il racconto di un ammutinamento di
soldati britannici (pp. 136 ss.). Nella prima si ha un tema classico della storia della guerra: la
diffusione delle false notizie, che viene discusso per verificare l’attendibilità della memorialistica di guerra. Si parla del fatto che in molti diari di combattenti si registrano avvistamenti
di carri tedeschi detti Tigre nel corso della battaglia per Salerno. Una circostanza ritenuta impossibile dall’a., per via del fatto che quel tipo di carro armato era entrato in servizio quello
stesso anno, ma sul fronte russo e nessuna divisione corazzata tedesca ne era al momento provvista sul fronte italiano. Lo stress da combattimento viene chiamato in causa per giustificare
la diffusissima convinzione di aver contrastato la micidiale e di lì a poco notissima arma tedesca. Ma, sarà stato un retaggio della cultura degli immigrati italiani negli Stati Uniti, di fatto
anche in America la paura fa novanta.
Rosario Mangiameli
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I LIBRI DEL 2007
Thomas Kroll, Kommunistische Intellektuelle in Westeuropa. Frankreich, Österreich, Italien
und Großbritannien im Vergleich (1945-1956), Köln-Weimar-Wien, Böhlau Verlag, 775 pp.,
€ 74,90
Nonostante le fitte pagine dell’introduzione siano dedicate alla costruzione di un modello interpretativo relativo all’impegno degli intellettuali comunisti sull’esile crinale fra «religione politica» e «fede», l’imponente lavoro comparativo di Kroll ha, alla fine, un contenuto fortemente descrittivo. Gli intellettuali comunisti di Francia, Austria, Italia e Gran Bretagna nell’età d’oro dello stalinismo sono analizzati e raggruppati per generazioni e per altre suddivisioni sociologiche schematizzate nelle tabelle da p. 643 a p. 651. Le cinque generazioni che
Kroll definisce sono la generazione della Grande guerra, quella «bolscevica», quella «antifascista», quella della Resistenza e quella della guerra fredda: gli equilibri e le differenze fra queste
generazioni (in Italia e in Francia, le generazioni della Resistenza sono ovviamente più rappresentative che non in Austria e in Gran Bretagna) costituiscono una parte della comparazione.
Rispetto alla copiosa letteratura sugli intellettuali e il comunismo in Francia e in Italia (si pensi soprattutto ai lavori di Nello Ajello e di Jeannine Verdès-Leroux) e a quella prodotta dalle
discussioni a volte narcisistiche degli intellettuali marxisti britannici, il lavoro di Kroll aggiunge in primo luogo lo studio dell’importante componente degli intellettuali comunisti austriaci e dei loro contraddittori rapporti con l’austromarxismo e in secondo luogo la visione d’insieme, che non viene mai meno nella descrizione delle varianti nazionali del problema. Seguiti nei loro percorsi biografici e di gruppo, gli intellettuali comunisti «impegnati» dei quattro
paesi europei sembrano costantemente ondeggiare fra l’utopia stalinista e la vocazione di «mosche cocchiere», lontani da ogni richiamo da parte della moralità politica (particolarmente
sensibile su questo tema, si veda il lavoro di Paul Hollander, The End of Commitment: Intellectuals, Revolutionaries, and Political Morality, Chicago, Ivan R. Dee, 2006). L’a. ha scelto la
cronologia canonica 1945-1956 che tuttavia è anche quella all’interno della quale le differenze appaiono meno rilevanti. Le particolarità nazionali risaltano con maggiore chiarezza dopo
il 1956, quando si esprimono linee di tendenza e rapporti fra gruppi di intellettuali impensabili nell’età dello stalinismo. Franz Marek, Ernesto Ragionieri, Eric Hobsbawm rinviano a un
network di intellettuali europei la cui esistenza risulterebbe imprevedibile partendo dal lavoro
di Kroll. Le pagine di Ragionieri su Ernst Fischer, l’impresa della Storia del marxismo Einaudi, la fortuna italiana della critica allo stalinismo di Franz Marek e la debolezza del côté comunista francese di quei rapporti avrebbero potuto rappresentare un utile punto di partenza per
Kroll. Che invece non ne tiene conto, come non tiene conto del vecchio bel saggio di Leonardo Paggi (Max Adler, Il socialismo e gli intellettuali, a cura e con un saggio introduttivo di Leonardo Paggi, Bari, De Donato, 1974), uno studioso che su intellettuali, gramscismo e austromarxismo ha scritto pagine notevoli.
Franco Andreucci
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I LIBRI DEL 2007
Nicola Labanca (a cura di), Fare il soldato. Storie del reclutamento militare in Italia, Unicopli, Milano, 221 pp., € 14,00
Il volume collettaneo curato da Nicola Labanca raccoglie gli interventi presentati ad un
seminario organizzato dal Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari e si colloca in un settore della storiografia italiana, quello relativo alla «histoire militaire in un’ottica
di superamento dell’histoire bataille» (p. 13), per cui «da noi è difficile parlare di una vera e
propria tradizione di studi storici» (p. 17), soprattutto a confronto di quanto si registra in altre tradizioni storiografiche come quella francese.
Esso rappresenta dunque il tentativo di offrire una prima risposta alla domanda con la
quale lo stesso curatore apre la propria Introduzione, quella circa il ruolo della coscrizione militare universale obbligatoria e dell’esercito di leva nella formazione e nel consolidamento della nazione italiana (p. 7).
Per l’ampiezza dei suggerimenti bibliografici, la precisione delle informazioni sullo stato
di conservazione e sull’effettiva disponibilità della documentazione ed anche per le ridotte dimensioni entro cui sono costretti da un volume che si presenta assai snello, più ancora che
porsi come ricerche compiute, i dodici contributi contenuti nel libro – peraltro estremamente eterogenei per arco cronologico e geografico coperto – sembrano rappresentare piuttosto
piccoli saggi delle notevoli potenzialità di fonti come la pubblicistica, le liste di coscrizione,
gli ego-documenti (diari e corrispondenza) e soprattutto i fogli matricolari (veri e propri dossiers personali dei soldati, a volte versati negli archivi di Stato competenti per territorio a volte ancora conservati nei distretti militari), invitando dunque quanti si occupano di storia sociale dell’Italia liberale, fascista e repubblicana a sfruttare questo patrimonio documentario in
maniera più intensa.
Attraverso le storie di garibaldini (Eva Cecchinato) ed alpini (Pier Luigi Scolé), dei valdostani impegnati nella Grande guerra (Giorgio Rochat e Stefania Tormena), dei comaschi
inviati Oltremare (Matteo Dominioni) e dei «volontari di Mussolini» (Giorgio Rochat), e ancora dell’evoluzione del sistema di reclutamento italiano (Filippo Cappellano) e del rapporto
tra coscrizione e modernizzazione del paese (Marco Mondini), oltreché attraverso una disamina di natura sostanzialmente quantitativa sui dati relativi alla coscrizione obbligatoria in età
repubblicana sino alla sua «sospensione» nel 2000 (Nicola Labanca e Fabrizio Battistelli), è infatti possibile, da un lato, osservare in una prospettiva nuova fenomeni tradizionalmente studiati ricorrendo ad altre fonti (l’emigrazione maschile, il progresso tecnologico, la «questione
romana», ecc.), e dall’altro indagare, magari in una prospettiva comparata, le dinamiche sociali, politiche e culturali che caratterizzano la peculiare via italiana alla costruzione dello Stato-nazione e del sentimento di appartenenza alla patria.
Marco Rovinello
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I LIBRI DEL 2007
Nicola Labanca, Luigi Tomassini (a cura di), Forze armate e beni culturali. Distruggere, costruire, valorizzare. Milano, Unicopli, 299 pp., € 16,00
Si tratta degli atti di un convegno, organizzato dal Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari insieme all’Università di Bologna, sede di Ravenna. Partecipano al volume studiosi di diritto, storici e militari impegnati in prima persona nell’opera di salvaguardia. Sarebbe stato utile aggiungere all’apparato le biografie degli aa. I saggi sono ordinati in
tre sezioni: la distruzione, cioè l’azione di tutela di beni culturali in teatri di guerra; la costruzione, cioè i monumenti di guerra con particolare attenzione a quelli del Risorgimento e della Grande guerra; infine la valorizzazione, quanto hanno fatto e fanno le forze armate, dall’azione della Guardia di finanza, alla riorganizzazione degli archivi storici militari, alle tecniche
del restauro.
L’argomento trattato è relativamente poco esplorato. Il volume è inevitabilmente disorganico, con ben diciannove saggi, fra loro diseguali. Suo merito è di delimitare alcuni campi
d’indagine, per i quali la collaborazione fra studiosi militari e civili si rivela fondamentale. Tra
i saggi migliori quelli, a sfondo giuridico, di Edoardo Greppi e Francesco Francioni, che passano in rassegna l’evoluzione del diritto internazionale umanitario, dalle Convenzioni dell’Aja
del 1907, all’attività dell’UNESCO, fino ai recenti deliberati dei Tribunali dell’Aja. Il patrimonio culturale non è più solo e tanto oggetto da tutelare con convenzioni e trattati, quanto
un bene pubblico extra-territoriale, soggetto, quindi, di obblighi erga omnes, protetti dal diritto internazionale, la cui contravvenzione configura violazione di diritti umani, nei casi più
gravi assimilabile al genocidio. Gianluca Fiocco mette a fuoco i problemi legati alla conservazione dei beni culturali in Italia durante le due guerre mondiali, evidenziando come il pericolo maggiore provenisse, già dal primo conflitto, dai bombardamenti aerei. Lo stesso tema è ripercorso, con qualche particolare in più sui servizi specializzati tedeschi e alleati, da Raffaella
Biscioni, che procede a un’interessante analisi, corredata di elementi di tecnica e storia della
fotografia, dell’uso dei materiali fotografici nella propaganda bellica. Il regime fascista, con l’Istituto Luce e i suoi giornali, si era posto all’avanguardia, presto superato dalla spregiudicatezza della propaganda nazista. Tutela e propaganda contro la barbarie del nemico andarono
di pari passo e filmati e fotografie dovevano fare la loro parte: gli Alleati erano in grado, tuttavia, di fare meglio con le loro unità di operatori cinematografici, che avanzavano insieme alle truppe. Adolfo Mignemi traccia un agile schizzo delle occupazioni militari italiane, da quella dell’Etiopia iniziata nel 1935, a quella della Grecia. Testimonianze e atti ufficiali (in particolare da parte della Grecia) ci dicono che furono dense di razzie e di spoliazioni, perpetrate
da singoli ufficiali e gerarchi. Non si dice niente, invece, delle eventuali strutture deputate alla tutela nei nostri eserciti di occupazione.
Ruggero Ranieri
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I LIBRI DEL 2007
Gianni La Bella (a cura di), Pedro Arrupe. Un uomo per gli altri, Bologna, il Mulino, 1.084
pp., € 55,00
Pedro Arrupe è stato un grande protagonista del cattolicesimo del XX secolo e delle trasformazioni che lo hanno attraversato nel contesto della crisi epocale dell’eurocentrismo. Religioso
dal tratto profetico, calato nella storia, il 28° successore di S. Ignazio di Loyola continua ad essere oggetto di giudizi assai discordanti, che lo storico è tenuto a problematizzare. Restituire in
modo equilibrato alla storia della Chiesa e del ’900 un personaggio come Arrupe, salvaguardandone la cifra spirituale e dottrinale, costituisce così un compito difficile. Frutto di un lavoro di
équipe, fondato su un ampio corpus di fonti, il volume curato da La Bella lo ha assolto brillantemente, facendo affiorare le radici più profonde dell’ethos conferito da Arrupe al governo della Compagnia di Gesù, a sua volta ampiamente trattato nel testo. Un governo volto a recuperare la fontalità del dettato ignaziano che si apre nel 1965, alle battute finali del Vaticano II, per
concludersi nel 1983 a causa del grave stato di salute del religioso dopo oltre un quindicennio
di impegno a favore di un’evangelizzazione all’altezza delle sfide globali poste alla Chiesa dalla
povertà del Terzo Mondo, dal multiculturalismo del mondo post-coloniale, dalla secolarizzazione liberale e comunista… Le scelte di Arrupe hanno scavato divisioni profonde nella Compagnia di Gesù, alimentando entusiasmi e dissensi. Lungi tuttavia dal configurarsi come la mera
espressione di una strategia legata alla congiuntura post-conciliare, gli orientamenti del preposito generale – si pensi alla visione dell’inculturazione come «incarnazione della fede nella cultura di un popolo», all’opzione per la povertà e la giustizia, all’enfasi sull’educazione, all’impegno pacifista – si riconnettono al contrario a un’esperienza ricchissima. Un’esperienza ben ricostruita nel volume che germina nella natia Spagna, si forgia nell’esilio in Belgio per maturare in
modo decisivo in Giappone, meta elettiva del missionario, che al compito si è preparato dopo
un soggiorno negli Stati Uniti, a loro volta base per la prima scoperta di quell’America latina alla quale, da preposito generale, Arrupe dedicherà una viva attenzione. Nel volume si insiste sulla centralità dell’esperienza giapponese nella formazione del progetto missionario del preposito
generale. Proprio attraverso la relazione con una realtà così potentemente «altra», il religioso, nel
solco di Francesco Saverio, è venuto affinando la sua sensibilità verso la dimensione interculturale dell’evangelizzazione e dell’educazione. «Trovandomi dianzi a una mentalità assolutamente nuova il mio compito era quello di scoprirla […]. Ho svolto il mio apprendistato che corrisponde in un certo modo, a mio avviso, all’inculturazione attraverso lo Zen» (p. 573) ricorda
in un passo riportato nel testo. Il Giappone travolto dal secondo conflitto mondiale e poi scosso da un tumultuoso processo di occidentalizzazione si è d’altra parte trasformato per Arrupe,
già testimone di Hiroshima, in un osservatorio privilegiato dei processi di decolonizzazione e
modernizzazione del mondo «post-1945». Processi verso i cui costi umani e spirituali egli si rivelerà così avvertito durante il suo mandato a capo dei Gesuiti.
Maria Matilde Benzoni
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I LIBRI DEL 2007
Luisa Lama, Giuseppe Dozza. Storia di un sindaco comunista, Reggio Emilia, Aliberti, 494
pp., € 19,00
La storia che Luisa Lama racconta nel suo ampio volume non è solo quella del leggendario sindaco di Bologna, rimasto ininterrottamente in carica per oltre vent’anni (dal 1945 al
1966). Infatti l’a., attraverso la figura di Giuseppe Dozza, ripercorre anche le vicende del Partito comunista italiano lungo un quarantennio: la lotta contro il fascismo negli anni ’20, l’esilio, il Comintern, il terrore staliniano, la Resistenza, il «partito nuovo», la ricerca di una «via
italiana al socialismo».
L’esperienza di Dozza nell’amministrazione bolognese e la contemporanea edificazione
del mito del «modello emiliano», ricostruiti dall’a. da una prospettiva molto interna al PCI,
evidenziano con chiarezza le possibilità e i limiti insiti nell’evoluzione di quel Partito, in grado di mettere in campo elaborazioni e pratiche attente ai temi delle autonomie, del regionalismo e della partecipazione popolare, ma impossibilitato a recidere i legami con la «casa madre» sovietica e con le rigide regole di derivazione leninista. Come aveva notato negli anni ’60
Giorgio Galli, citato nel libro a p. 412, «la struttura del partito è ancora staliniana: all’interno non c’è dibattito d’idee, non esistono contrasti che si esprimano in voti e decisioni».
Il parziale processo di rinnovamento, che si comincia ad attuare nel PCI all’inizio di quel
decennio, è propiziato a Bologna dallo stesso Dozza, il quale promuove l’inserimento negli organi dirigenti locali e nella giunta comunale di una nuova generazione di quadri comunisti.
Tuttavia questi giovani, pur interessati alle prospettive aperte dal centrosinistra e sensibili al
progetto della programmazione economica, si dimostrano anch’essi incapaci di uscire dalla visione «senza strappi» e «continuista» del Partito.
La progressiva affermazione di questa nuova leva (della quale facevano parte, tra gli altri,
i futuri sindaci Guido Fanti e Renato Zangheri) e i problemi di salute relegheranno Dozza,
negli ultimi anni del suo mandato, al ruolo di «sindaco-bandiera», simbolo della stagione gloriosa della lotta antifascista e del radicamento del PCI in Emilia. La sua presenza sfuma tra le
stesse pagine del libro, che si concentra invece sui dibattiti interni al Partito bolognese e sui
riflessi locali del confronto in atto tra Amendola e Ingrao.
Il volume cerca di condensare una lunga serie di vicende molto diverse, dai dibattiti in
seno alla Terza Internazionale a quelli sui bilanci comunali, dalla denuncia dello stalinismo al
tentativo di creare in Italia un «blocco storico» che comprendesse tutti i grandi partiti di massa; a tale scopo l’a. utilizza, oltre alle fonti documentarie del PCI emiliano e nazionale, quelle di provenienza sovietica e, naturalmente, gli atti del Consiglio comunale e la stampa locale e nazionale. Questa compenetrazione non sempre appare convincente, e ne risulta un quadro relativamente disorganico. Infine i lunghissimi incisi, con improvvisi salti in avanti e all’indietro nella scansione cronologica, appesantiscono non poco la narrazione.
Bruno Ziglioli
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I LIBRI DEL 2007
Giulia Lami (a cura di), 1905: l’altra rivoluzione russa, Milano, Cuem, 197 pp., € 14,00
Il volume propone gli atti di un convegno tenutosi a Porcari (Lucca) nel novembre del
2005 («La rivoluzione russa del 1905 e i suoi echi in Italia e nel mondo»), in collaborazione
tra le università di Milano e di Pisa e la Fondazione Lazzareschi. L’interesse dell’iniziativa è dato proprio dalla scelta, inconsueta, di aprire uno spazio di riflessione su di un evento il cui centenario ha suscitato scarsa attenzione in Russia (con la rilevante eccezione di un volume curato da A.P. Korelin e S.V. Tjutjukin nel 2005). L’incontro ha riunito studiosi italiani e russi che
si sono confrontati su problematiche piuttosto diverse. Da un lato, si è privilegiato l’aspetto
della ricezione degli accadimenti da parte della diplomazia occidentale (F. Guida), dell’opinione pubblica o del mondo politico italiani (G. Lami e E. Cacelli, B. Valota e M. Antonioli), della Chiesa ortodossa (G. Bensi) o di singoli esponenti dell’intellettualità (N. D’Elia su
Max Weber e S. Garzonio su Konstantin Bal’mont); senza trascurare i riflessi del biennio
1905-1907 sulla situazione dei rapporti russo-italiani (V. P. Ljubin). Dall’altro lato, si è dato
conto delle dinamiche interne delle agitazioni antigovernative. In quest’ultimo insieme di
contributi sono emerse alcune delle tematiche che più hanno condizionato l’evoluzione della
storiografia nell’ultimo decennio. Alle ripercussioni sulla questione nazionale – già al centro
di alcune recenti opere collettanee sul 1905, come quelle curate, rispettivamente, da J.D. Smele e A. Heywood (2005), e da J. Kusber e A. Frings (2007) – si sono richiamati i saggi di C.
Carpini sul Baltico e di A. Ferrari sulla Transcaucasia, che hanno messo in luce come le etnie
non russe abbiano largamente contributo alla destabilizzazione del sistema autocratico, procurando al tempo stesso un significativo rafforzamento dell’autocoscienza delle minoranze.
J.V. Leont’ev ha invece esaminato le radici sociali e il ruolo ideologico del partito socialista rivoluzionario, per lungo tempo svalutato nella storia politica russa, ma negli ultimi anni oggetto di un rinnovato interesse. V.V. Kondrašin – il cui lavoro s’inquadra in un ampio progetto di ricerca collettivo sulla «guerra contadina», ormai consolidatosi con la pubblicazione di
una lunga serie di raccolte documentarie e lavori monografici – ha infine delineato continuità
e differenze («generale e particolare») delle azioni di massa nelle campagne all’epoca della prima rivoluzione e nel periodo 1917-1922, leggendovi un processo unitario e storicamente consequenziale. Anche nel suo intervento, imperniato sul concetto di «rivoluzione dell’obščina»,
si è sottolineata l’importanza dei fattori regionali, nonché il carattere prevalentemente spontaneo delle rivolte.
Antonella Salomoni
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I LIBRI DEL 2007
David S. Landes, Dinastie. Fortune e sfortune delle grandi aziende famigliari, Milano, Garzanti, 423 pp., € 28,00 (ed. or. New York, 2006)
David Landes ha una capacità di fondere nella narrazione geografia, politica, società, cultura, economia, tecnologia, che ne fanno uno dei maestri della storiografia del ’900. Il punto
più alto della sua parabola è la pubblicazione alla fine degli anni ’60 del Prometeo liberato, storia di quella fondamentale vicenda umana che è la rivoluzione industriale che Landes mette a
fuoco in tutta la sua complessità, in una sintesi perfetta di «micro» e «macro».
Negli anni più recenti Landes si è convinto che il mestiere dello storiografo consista soprattutto nel raccontare «storie» dalle quali naturalmente estrarre un senso, per venire a significative generalizzazioni. Non è questo un compito agevole perché non è semplice stabilire la
rilevanza dei casi, la loro adeguatezza qualitativa e quantitativa rispetto alle tesi che si vogliono sostenere.
È il problema di questo Dinastie, una dozzina di storie di famiglie che per lunghi periodi – anche fino a tre secoli – hanno governato una ben identificabile attività economica. Landes le divide per tre settori: i Baring, i Rothschild, i Morgan nella banca; Ford, Agnelli, Toyoda, Peugeot (con pagine dedicate anche a Renault e Citroën) nell’automobile; Rockefeller,
Guggenheim, Schlumberger, Wendel nelle miniere e nell’industria estrattiva. Landes è scrittore di prim’ordine e le famiglie e i grandi personaggi – Nathan Rothschild, J.P. Morgan,
Henry Ford, John D. Rockefeller – passano di fronte a noi in un’affascinante trama, vivi e
concreti. Ma Landes non si limita ad offrirci una piacevole lettura, punta ad una nuova interpretazione delle dinamiche del capitalismo moderno sfidando le note tesi di Alfred Chandler
che, in lavori impressionanti per vastità di ricerca e capacità di generalizzazione, ha sostenuto
la necessità della grande impresa manageriale per lo sviluppo economico di un paese. Le posizioni di Chandler possono ovviamente essere poste in discussione, come hanno fatto con notevole efficacia autori quali Philip Scranton, Youssef Cassis, Leslie Hannah, ma con ben altra
consistenza empirica ed argomentativa. Ad un esangue capitalismo manageriale Landes vorrebbe sostituire quello delle famiglie dedite alla causa e custodi della tradizione. Ma gli stessi
casi esaminati gli giocano brutti scherzi, perché dimostrano la non eludibile equazione grande impresa-gerarchie manageriali, mentre spesso viene sottaciuta la criticità del nesso opportunità di crescita/volontà di controllo famigliare.
In realtà all’alba del XXI secolo sembra evidente che per il bene comune, l’impresa e, in
particolare, la grande impresa, vada affidata alle «mani adatte», senza escludere le famiglie ma
senza riguardo per tradizione e diritti dinastici. Individuare meccanismi e percorsi che portino a questo risultato è un compito fra i più degni ai quali lo storiografo, il giurista, l’economista, lo scienziato sociale possa applicarsi.
Franco Amatori
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I LIBRI DEL 2007
Enrico Landoni, Il laboratorio delle riforme. Milano dal centrismo al centro-sinistra, 19561961, Manduria, Lacaita, 535 pp., € 20,00
Quando nel maggio 1956 il PSI uscì di fatto vincitore dalle elezioni amministrative nel
capoluogo lombardo, si aprì una nuova stagione politica per Milano e per l’Italia, abilmente
ritratta da Enrico Landoni nel suo importante saggio.
L’a. ricorda come Milano, dal 1945 in poi, si fosse definita quale officina politica per il
paese. Nel capoluogo lombardo le giunte centriste, ma con sindaci progressisti, di Greppi
(1945-1951) e Ferrari (1951-1956), seppero favorire lo sviluppo economico della città senza
rinunciare all’assistenza e alla cultura, e badando al rispetto del bilancio, grazie a una politica
tributaria rigorosa e perequativa a tutela dei ceti più deboli. Furono la carica riformista e il rigore politico mostrati da Ferrari che spinsero, dopo le elezioni del 1956, il PSI milanese a valutare la possibilità di appoggiare la seconda giunta Ferrari (1956-1960). Se non si giunse allora a un accordo formale tra PSI e DC che inserisse i socialisti nella giunta di Palazzo Marino, fu per la netta contrarietà della Segreteria democristiana nazionale e delle resistenze di una
parte del mondo cattolico. Nonostante ciò, il confronto tra le forze politiche cittadine dimostrò come i programmi dei tre partiti fossero abbastanza simili. Grazie all’impegno di politici
come Mazzali (PSI, del quale più volte viene sottolineata la grande importanza nelle vicende),
Matteotti, Faravelli, Vigorelli (PSDI), Clerici e Porretti (ACLI e DC), le distanze tra le parti
diminuirono rapidamente. In particolare, decisiva fu la vittoria nella DC milanese dei favorevoli al dialogo con il PSI, uniti nella corrente de La Base a sua volta sostenuta dai periodici
cattolici progressisti e favorevoli al rinnovamento del paese («Il Ribelle», «Prospettive», etc.).
Altrettanto cruciale fu la decisione con cui il PSI milanese insistette affinché avesse fine rapidamente l’esperienza del frontismo in un momento nel quale il Partito a livello nazionale stava compiendo i primi passi in tale direzione.
Grazie a tutto ciò, si erano oramai poste le condizioni perché, nel momento in cui fossero emersi i requisiti per l’apertura a sinistra, il laboratorio di tale iniziativa potesse essere il capoluogo lombardo. Mano a mano che il dialogo tra i partiti si approfondiva, proprio a Milano DC, PSDI e PSI si accorgevano di condividere precisi obiettivi pratici e di poter dialogare su più fronti. Invero, più che una alleanza su basi ideologiche, si trattò di una intesa su un
comune impegno riformista. Grazie a essa, tra gli anni ’50 e ’60, Milano confermò il proprio
ruolo di capitale della modernizzazione politica, economica e sociale del paese, dimostrando
come l’incontro tra socialisti e cattolici avesse basi solide e potesse portare a una ricca stagione di riforme. Come ricorda l’a., in conclusione della sua serrata e ricca analisi, le vicende che
culminarono con la costituzione nel gennaio del 1961 della giunta Cassinis furono un importante modello di riferimento per tutto il paese, aprendo la strada a nuove prospettive che portarono, in capo a un paio di anni, alla nascita del primo governo di centro-sinistra di Moro.
Lucio Valent
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I LIBRI DEL 2007
Marco Lenzi, Moderatismo e amministrazione nel granducato di Toscana. La carriera di Luigi Serristori, Firenze, L.S. Olschki, XV-244 pp., € 28,00
Il volume, seguendo da vicino la carriera di Luigi Serristori all’interno dell’amministrazione pubblica toscana, si propone anche come occasione di studio della struttura amministrativa
del Granducato lorenese. In particolare due sono i campi di indagine in cui il lavoro si articola:
da un lato la ricostruzione, sempre supportata dall’uso di fonti di prima mano, della carriera di
Serristori, con le sue luci e le sue ombre; dall’altro l’analisi dell’amministrazione e dei rapporti
tra il governo centrale e i suoi funzionari in periferia quale fu appunto lo stesso Serristori.
Il progetto di fondo su cui riposa questo lavoro ci pare interessante così come importante
il contributo alle indagini sul processo di riconfigurazione degli Stati della penisola all’indomani della Restaurazione che potrebbe risultare da studi, come quello in oggetto, centrati sulla
biografia amministrativa dei singoli funzionari pubblici. Interessante, ma certo di non facile
svolgimento il compito che Lenzi, già allievo dell’allora Dottorato in Storia dei ceti dirigenti
dell’Università di Pisa e poi impegnatosi in un percorso formativo al di fuori di tale struttura,
si è assegnato. Non facile sia perché Serristori – che fu prima ufficiale dell’esercito russo, studioso statistico, poi governatore di Siena, di Pisa e infine governatore straordinario del Granduca, nell’aprile 1849 – non costituisce il «modello» di funzionario pubblico della Toscana
granducale, sia perché tutt’altro che semplice appare l’opera di una sua contestualizzazione nel
più ampio quadro amministrativo dello Stato. Da questo punto di vista il lavoro di Lenzi pare
mostrare qualche incertezza poiché ad una ricostruzione della struttura amministrativa talvolta imprecisa, descritta sulla scorta di fonti di seconda mano, si accompagnano una contestualizzazione politica e un inquadramento storiografico non sempre impeccabili che, pur soffermandosi a lungo sugli aspetti istituzionali, paiono non tener conto delle acquisizioni sul tema
offerte dalla storiografia toscana e nazionale degli ultimi anni. Frutto della rielaborazione della tesi di dottorato e probabilmente rimasto chiuso per diverso tempo nel cassetto dell’editore,
questo lavoro risulta al lettore di oggi già un po’ invecchiato. Ciò non tanto per l’assenza dall’apparato critico di opere recenti specificamente dedicate alla Toscana del Risorgimento quanto per la conseguente lontananza dall’attuale dibattito sugli Stati della penisola negli anni preunitari. Molte sono dunque le pagine dedicate alla natura della monarchia amministrativa toscana che l’a. – a differenza della recente storiografia con cui evidentemente non ha potuto dialogare – vede priva di elementi propulsivi e poco attenta alla sua dimensione strutturale.
Al di là di questi aspetti, solo in parte imputabili all’a., il lavoro offre comunque più di un
motivo d’interesse, primo tra tutti la lettura di ampi spezzoni delle memorie inedite di Serristori che, oltre ai numerosi riferimenti istituzionali e a una non comune attenzione per la riforma della pubblica amministrazione, consentono di analizzare «dall’interno» aspirazioni, progetti e frustrazioni dei quadri alti impiegati nell’amministrazione della Toscana preunitaria.
Antonio Chiavistelli
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27-08-2008
16:48
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I LIBRI DEL 2007
Serena Lenzotti, La ricerca di Zaira. Protoindustrie e strutture urbane a Parma tra primo e
secondo Ottocento, Introduzione di Antonio Parisella, Milano, FrancoAngeli, 174 pp. + CDRom, € 19,00
Come evidenzia Antonio Parisella nell’Introduzione al volume, il lavoro di Serena Lenzotti, ricercatrice presso l’Istituto storico di Modena e il Centro studi per la stagione dei movimenti di Parma, «merita attenzione e plauso» (p. 13) in quanto delinea una rappresentazione della realtà urbana, produttiva e sociale della città di Parma nel trentennio postunitario per
molti versi nuova e inedita. Il volume, rielaborazione della tesi di laurea dell’a., affronta le problematiche connesse a tale genere di ricerca con un approccio innovativo, che lo qualifica al
di là di una dimensione puramente localistica. La Parma di fine ’800 viene declinata nelle diverse e molteplici sfaccettature urbanistiche, architettoniche, economiche, sociali e istituzionali, attraverso una chiave di lettura che implica la conoscenza e l’acquisizione di metodologie proprie di discipline diverse, come l’archeologia industriale, la storia industriale e urbana.
L’a. realizza un approfondito lavoro di scavo e incrocio di fonti diverse, tradizionali e nuove,
dalla letteratura coeva a «carte topografiche, repertori statistici, cataloghi di esposizioni, risultanze d’inchieste, servizi giornalistici, stampe pubblicitarie, carte intestate, dipinti e fotografie, lapidi e iscrizioni» (p. 13). In questo modo la realtà urbana e sociale cittadina risulta interpretata nella sua globalità, in quanto substrato essenziale al fine di ricostruire la storia dello sviluppo industriale del territorio così come degli stessi luoghi di produzione, determinando l’acquisizione di elementi interessanti. Così, con riferimento al rapporto tra le attività produttive urbane e il contesto territoriale, sembra delinearsi sin dal periodo ducale un legame
molto stretto tra la città, delimitata dalla possente cerchia muraria, e le campagne circostanti, da cui un significativo flusso di mano d’opera veniva attratto dalle attività manifatturiere e
commerciali presenti nell’area urbana. La ricerca evidenzia inoltre il pieno inserimento di manifatture e opifici nel contesto urbano, con la creazione non di rado di qualcosa di molto simile alle moderne filiere (in settori quali la macellazione, la concia, calzoleria), segnate dal superamento di una dimensione di produzione puramente artigianale; infine, è possibile accertare come lo spazio urbano compreso all’interno delle mura cittadine, proprio come accade in
altre città, risultasse attraversato da canali primari e secondari, il cui ricordo permane nella toponomastica, essenziali per il trasporto di materiali ma, anche e soprattutto, per operazioni
quali lavaggi, raffreddamenti, produzione di energia mediante molini. In conclusione, il lavoro di Serena Lenzotti permette di evidenziare la compresenza nel tessuto produttivo e sociale
di Parma di elementi della tradizione e dell’innovazione, della campagna e della città, dell’artigianato e dell’industria, elementi la cui non adeguata individuazione aveva reso difficile la
comprensione del successivo sviluppo economico e industriale che coinvolgerà, a fasi alterne,
l’intera area parmense nel corso del XX secolo.
Angelo Bitti
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I LIBRI DEL 2007
Fabio Levi, In viaggio con Alex. La vita e gli incontri di Alexander Langer (1946-1995), Milano, Feltrinelli, 240 pp., € 14,00
La vita di Alex Langer fu un viaggio, uno «stare in cammino» – in senso proprio quanto
metaforico – come modo per incontrare, conoscere e far comunicare persone, luoghi e culture e dunque mettere in relazione idee e pratiche, bisogni e risposte. È quel viaggio che Levi ripercorre con scrittura lieve, ma sensibile e rispettosa, molto avvalendosi di quanto Alex consegnò a scritti molto spesso d’occasione, eppur sempre inseriti in un’ininterrotta riflessione.
Dal natio Tirolo a Firenze, da Francoforte a Bruxelles, da Tirana a Sarajevo per tornare un’ultima volta a Firenze, ove volle terminare il suo «viaggio» perché ormai insopportabile gli era
il peso che si era caricato sulle spalle, Langer visse attraversando una serie innumerevole di luoghi e di incontri, mosso da un’intelligenza acuta e da una passione tenace, da viva curiosità e
da profondo senso del dovere. Quel senso del dovere che a lui – come ad altri della sua generazione – venne da un’educazione cattolica che predicava fratellanza e carità, come capacità di
accogliere l’altro, e che tra don Milani e il 1968, tra l’angusto eppur fecondo microcosmo tirolese fino all’Europa in costruzione negli ultimi decenni del secolo, lo spinse a mettere in discussione gerarchie e identità, dapprima nell’universo cattolico e poi sempre più a tutto campo, via via che si coinvolse, animandole da protagonista, nell’esperienza di Lotta continua, poi
della sinistra alternativa e interetnica sud-tirolese, quindi in quelle dei verdi italiani ed europei e infine del movimento pacifista degli anni ’90. Esperienze che lo videro operare tanto nelle istituzioni locali e comunitarie – con una lunga ed intensa attività di parlamentare europeo
– quanto in una rete assai fitta di iniziative ed organismi di base, locali, nazionali e continentali, di cui fu talora partecipe, talora ispiratore o talora anche solo, ma prezioso, tramite.
Dal Sud Tirolo all’Europa, il filo comune di quella proposta, politica nel senso pieno della parola, fu il tentativo di andare oltre le barriere, le identità contrapposte, le distinzioni oppositive,
per creare invece ponti, linguaggi comuni, spazi di convivenza e di incontro. Lungo questa prospettiva, che Langer affrontò con sperimentalità fortemente anticipatrice e convinzione quasi profetica, maturarono iniziative di grande ricchezza e talora di indubbio rilievo politico, sui temi cruciali della convivenza multietnica, dell’ambientalismo, della costruzione dell’Europa dal basso e,
nei drammatici anni ’90, nel disperato sforzo di arginare la guerra e la violenza etnica nei Balcani.
Fu quella di Langer una personalità ed un’esperienza eccezionale, ma che appartenne pienamente alla sua generazione, a cominciare dal tentativo di fare del «partire da sé» il fondamento di un’etica e di una pratica politica nuove. Quel tentativo che lo porterà ad assumere
su di sé – fino a restarne tragicamente travolto – un carico di domande cui era umanamente
impossibile dare piena risposta. Il viaggio nella vita intensa di Alex Langer è dunque anche un
viaggio nella politica e nella storia recente della società europea, purtroppo, per molti versi, di
straordinaria attualità
Simone Neri Serneri
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I LIBRI DEL 2007
Charles Liblau, I Kapo di Auschwitz, Prefazione di Enzo Traverso, Edizione italiana a cura di Frediano Sessi, Torino, Einaudi, XX-156 pp., € 10,00 (ed. or. Paris, 2005)
Nella memorialistica sui campi di sterminio questa testimonianza si distingue non solo
per la personalità dell’a. – ebreo e militante comunista polacco, combattente in Spagna, resistente in Francia, dove fu arrestato e deportato ad Auschwitz, restandovi per tre anni e riuscendo a sopravvivere alle durissime condizioni di vita – ma anche per l’argomento, i kapo,
cioè quei detenuti che venivano prescelti dai nazisti per gestire l’ordine nel campo, e investiti
di un potere assoluto sugli altri detenuti. C’è il compagno comunista di Varsavia, ritrovato a
Birkenau a comandare settecento prigionieri di una baracca, «con la testa rasata, gli occhi stravolti pieni di odio, la bava alla bocca, il viso sproporzionatamente allungato» (p. 9); il kapo
Emile, un ladro «svaligiatore di gran classe», con un carattere «piuttosto mite», se confrontato con gli altri, e «senza pregiudizi razziali. Tutto per lui – tranne il furto e la morale ad esso
collegata – era Scheiße (merda)» (p. 26); il kapo Ignatz, già membro di un comitato regionale comunista prima dell’ascesa di Hitler, che non era mai riuscito a fare carriera da libero: ci
riuscì ad Auschwitz, diventando «il capo di tutti i capi», e mescolando «frammenti del programma comunista [a] slogan nazisti» (pp. 48-49). E così via, in una galleria di ritratti indimenticabili, che colpiscono dritti al cuore.
Si tratta di esponenti di quella «zona grigia» sulla quale Primo Levi ha scritto pagine magistrali in I sommersi e i salvati: ci troviamo indubbiamente davanti a vittime dei nazisti, rese
corresponsabili dell’annientamento dei loro compagni (ma anche del loro stesso, in termini
di umanità schiacciata) dalla struttura organizzativa del campo, cioè da un aspetto essenziale
del regime totalitario, ed Enzo Traverso, nella sua Prefazione, sottolinea che «il campo era concepito in modo che la violenza sembrasse l’opera dei detenuti stessi» (p. XV). D’altro canto,
per salvarsi, alcune di queste persone andarono oltre un certo livello di compromissione (anche se stabilire quale fosse un «normale» livello di compromissione in quel contesto, è particolarmente arduo), manifestando istinti sadici e collaborando «volonterosamente», per parafrasare il titolo di un noto libro di Daniel J. Goldhagen (I volenterosi carnefici di Hitler. I Tedeschi comuni e l’Olocausto, Milano, Mondadori, 1997), a portare a termine le finalità della
struttura oppressiva nella quale esse stesse erano state inserite a forza. Dimostrando tutte le
difficoltà di un giudizio, Primo Levi scriveva che avrebbe voluto «affidar[lo] soltanto a chi si
è trovato in circostanze simili», e ammetteva di non conoscere «tribunale umano cui delegar[e]
la misura [della colpa]»: ma scriveva anche che «la condizione di offeso non esclude la colpa
e spesso questa è obbiettivamente grave». Leggendo la testimonianza di Liblau, si viene trascinati nel centro di questo dilemma morale, ma credo sia opportuno, per il lettore, ascoltare,
sforzarsi di comprendere, ed astenersi da qualsiasi tentazione di giudicare le figure che Liblau
ci descrive con tanto pathos.
Paolo Pezzino
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I LIBRI DEL 2007
Sara Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace del 1947, Bologna, il Mulino, 218 pp., € 12,00
La ricerca ricostruisce le vicende che tra il 1943 e il 1947 portarono l’Italia dall’armistizio con gli Alleati alla firma del trattato di pace. Il racconto dei fatti è caratterizzato da un efficace intreccio fra piano internazionale e nazionale: le strategie delle potenze vincitrici della
guerra e le origini del conflitto Est-Ovest si combinano col quadro politico e culturale di un’Italia sconfitta e contemporaneamente cobelligerante.
La trattazione è divisa in quattro parti. La prima esamina le tappe finali della guerra e l’avvio dei negoziati di pace; la seconda racconta le diverse fasi della Conferenza di Parigi in rapporto alla questione italiana; la terza si sofferma sulle reazioni dell’opinione pubblica italiana
dopo la firma e sul dibattito che si svolse in occasione della ratifica parlamentare; la quarta ricostruisce gli sviluppi legati all’applicazione del trattato. In appendice è riportato il testo del
trattato. La narrazione è costruita su una pluralità di fonti – dalla memorialistica alle raccolte di documenti diplomatici, dalla stampa dell’epoca alla pubblicistica, dai documenti d’archivio a quelli cinematografici. Il rigore dell’impianto è accompagnato da uno stile di scrittura per un pubblico non di soli specialisti.
Il lavoro affronta aspetti di rilievo: si pensi a temi quali la cultura della classe dirigente dell’epoca, il tramonto delle ambizioni di potenza dell’Italia, le identità collettive del paese, i sentimenti e la visione del mondo di una opinione pubblica educata al nazionalismo e al tempo
stesso desiderosa di lasciarsi alle spalle la guerra e le sue conseguenze. Quest’ultimo impulso favorì il processo di rimozione che rapidamente fece calare il silenzio sul trattato: tanto acuto fu
il senso di umiliazione per il trattamento subito dall’Italia quanto veloce il suo accantonamento nel dibattito pubblico. A giudizio dell’a. tale oblio fu da un lato negativo, perché fece fallire il tentativo di avviare una riflessione sulle responsabilità nazionali che avevano condotto alla catastrofe bellica; per un altro verso, però, rappresentò un fatto positivo legato alla volontà
delle forze antifasciste di mettere da parte per sempre le nostalgie nazionaliste e gettare le basi
di una politica estera democratica. Un passaggio cruciale in cui emerse questo comune proposito fu il dibattito sulla ratifica dell’estate 1947, quando, pur nel contesto della fine traumatica dei governi di unità nazionale e del precipitare della guerra fredda, i comunisti non espressero voto contrario alla Costituente (si astennero) e Togliatti esortò a guardare ai nuovi rapporti di pace e cooperazione che l’Italia repubblicana avrebbe dovuto stabilire con i popoli vicini.
Nella narrazione la figura torreggiante è quella di De Gasperi, della cui azione Lorenzini
riconosce i meriti politici senza tuttavia nasconderne limiti e contraddizioni: esemplare in tal
senso la sua analisi del noto discorso tenuto a Parigi il 10 agosto 1946. Alla luce di questa ricostruzione possiamo comunque concludere che molte delle accuse mosse all’epoca contro De
Gasperi furono ingenerose e che atti come l’intesa da lui raggiunta con Gruber sull’Alto Adige rappresentarono davvero l’immagine di una nuova Italia sulla scena internazionale.
Gianluca Fiocco
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I LIBRI DEL 2007
Stefano Luconi, La faglia dell’antisemitismo: italiani ed ebrei negli Stati Uniti, 1920-1941,
Viterbo, Sette Città, 169 pp., € 25,00
Questa ricerca, pur inserendosi nel movimentato panorama storiografico sulla storia degli ebrei e dell’antisemitismo nel periodo compreso fra le due guerre mondiali, si propone di
affrontare un tema finora trascurato, ovvero «la reazione degli emigranti italiani sparsi per il
mondo e dei loro figli alla campagna contro gli ebrei lanciata dalla propria madrepatria» (p.
15). Purtroppo il volume è privo di indice dei nomi, il che ne rende la consultazione alquanto difficoltosa.
Il saggio introduttivo, intitolato Il mito del «bravo italiano» ovvero l’antisemitismo in patria e all’estero (pp. 9-32), è una rassegna che illustra la svolta storiografica che negli ultimi
vent’anni ha decostruito paradigmi interpretativi consolidati, fra cui il cosiddetto mito del
«bravo italiano». Luconi intende mettere alla prova questo paradigma anche per quanto riguarda i rapporti fra gli immigrati ebrei e gli immigrati italiani negli Stati Uniti. Lo fa principalmente attraverso la stampa, quotidiana e periodica.
Lascia perplessi l’uso della categoria di etnia per qualificare entrambe le minoranze in esame, senza alcuna preliminare precisazione o discussione del termine. Per quanto riguarda gli
immigrati ebrei, è evidente che provenivano da aree geografiche e linguistiche diverse, nonostante la generale prevalenza dell’Europa orientale, e che la qualifica di «ebreo» si presta a varie interpretazioni e attribuzioni di significato. Il caso di Fiorello La Guardia, sindaco di New
York dal 1934 al 1945, nato da un immigrato pugliese e da Irene Luzzatto Cohen, capace di
parlare — oltre ad inglese ed italiano — anche un po’ di yiddish e di mobilitare a suo favore
in varie occasioni i voti di entrambe le comunità, avrebbe potuto offrire elementi interessanti per analizzare la complessità delle dinamiche di appartenenza individuali e collettive, oltre
che per sondare gli spazi di sovrapposizione fra le due minoranze. L’approccio scelto dall’a. pare, su queste tematiche, più descrittivo che analitico.
La parte più interessante del volume è quella che riguarda l’interazione fra immigrati italiani ed ebrei sul mercato del lavoro, in particolare nel settore tessile. Un’interazione che molto spesso divenne competizione aspra, finendo talvolta per costituire un terreno fertile per la
diffusione di stereotipi antisemiti. Per quanto riguarda le reazioni alla promulgazione delle leggi razziali fasciste, la seconda metà del libro è molto ricca di citazioni di grande interesse che
mostrano la generale permeabilità della comunità italo-americana al discorso antisemita, ma
— conclude Luconi — «lungi dall’aver costituito un fenomeno esogeno scaturito dal riflesso
sull’altra sponda dell’Atlantico della politica razziale intrapresa da Mussolini in Italia, l’antisemitismo degli italo-americani ebbe una matrice prevalentemente endogena alla società statunitense» (p. 160).
Carlotta Ferrara degli Uberti
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I LIBRI DEL 2007
Raimondo Luraghi, La spada e le magnolie. Il Sud nella storia degli Stati Uniti, Roma,
Donzelli, IX-227 pp., € 29,00
Tra i padri fondatori degli studi americanistici in Italia e autore, oltre quarant’anni fa, di
una monumentale Storia della guerra civile, più volte ristampata, Luraghi offre qui «il bilancio di quasi mezzo secolo di studi sul Sud degli Stati Uniti». Lo fa con un brillante saggio,
scritto in punta di penna, sul filo di una formidabile erudizione e di una appassionata vis retorica e argomentativa. Nelle sue pagine vibrano gli «oltre quarant’anni» nei quali, dice l’a.,
«mi avvenne di percorrere in lungo e in largo il Sud, le sue città, i suoi villaggi, le sue strade,
i suoi sentieri più riposti e, naturalmente, i suoi campi di battaglia […] e di lavorare per ore,
giorni, per settimane e per mesi nei suoi archivi, compulsando e studiando migliaia di documenti» (p. VII).
Più che un libro di storia in senso stretto, il volume costituisce dunque «il concentrato di
tale esperienza, arricchita dalle meditazioni di tutti questi anni» (p. VII). Lo domina la visione della sezione meridionale come una «proteiforme, molteplice (e drammatica) realtà» (p. 3).
Un doppio macchiato dall’onta della schiavitù, dell’arretratezza e della sconfitta, sulle cui
«genti», dice Luraghi, «giornalisti, pubblicisti, scrittori, politici del resto degli Stati Uniti avevano gettato […] il proprio disprezzo senza curarsi di pensare che erano stati alcuni dei loro,
i marinai e gli armatori del Nord per esempio, a rovesciare migliaia e migliaia di infelici africani sulle coste sudiste mediante l’infame (e lucroso) commercio della tratta» (p. 6).
Scandito in undici densi capitoli più una Postfazione, il libro attraversa quattro secoli di
storia di un Sud sospeso tra la spada – sguainata durante la guerra di indipendenza e poi, in
preda a un moto «irrazionale» (p. 73), in occasione della Guerra civile – e le magnolie, che
punteggiano il paesaggio della società meridionale e ne hanno ispirato spesso la cultura. Quest’ultima è indagata nelle forme «alte», letterarie (da Poe a Faulkner) e architettoniche, e in
quelle popolari, dalla musica nera a Elvis Presley, in pagine di grande intensità.
Su diversi punti la storiografia ha raggiunto da tempo posizioni diverse da quelle sostenute da Luraghi. Pur riconoscendo l’importanza degli elementi irrazionali ed emotivi, essa
tende, più di quanto lui faccia, a sottolineare la centralità del tema della schiavitù, in tutta la
sua pregnanza politica e sociale, rispetto alla tragedia della Guerra civile (si veda da ultimo il
bel lavoro di Bruce Levine, Confederate Emancipation, Oxford, Oxford U.P., 2006). O dà del
«paternalismo» dei piantatori pre-Guerra civile e dei loro eredi (p. 116) interpretazioni più
complesse e meno «positive» di quelle offerte in questo libro (vedi l’acuto lavoro di Enrico Dal
Lago, Agrarian Elites, Baton Rouge, Louisiana U.P., 2005). Ma ciò non inficia la testimonianza di un sapere storiografico, a suo tempo pionieristico e tuttora felicemente dispiegato a beneficio di un grande pubblico, che il libro ci consegna.
Ferdinando Fasce
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I LIBRI DEL 2007
Stefano Lusa, La dissoluzione del potere. Il partito comunista sloveno ed il processo di democratizzazione della Repubblica, Udine, Kappa Vu, 363 pp., € 15,00
Nel suo lavoro, frutto di una tesi di dottorato sostenuta presso l’Università di Torino, Stefano Lusa analizza le premesse storiche e le tappe della nascita dello Stato sloveno indipendente e democratico, nel 1991-92. Come l’a. argomenta in modo convincente, si trattò nel caso
sloveno di una transizione graduale, innescata soprattutto dalla crisi economica dei primi anni ’80. Verso la fine del decennio, tuttavia, l’opzione indipendentista era maturata come unica scelta razionale in una élite, quella comunista slovena, nel cui orizzonte l’idea di guidare
una struttura politica e al tempo stesso una comunità etno-linguistica avevano sempre teso a
coincidere. La difesa dell’autonomia garantita da Tito, la crescente sfiducia nell’esercito «serbo», le polemiche di stampa nei confronti del centralismo belgradese, l’allarme sociale creato
dalla sempre più massiccia immigrazione dei «fratelli del Sud» (serbi, bosniaci, montenegrini,
macedoni) nella più prospera Repubblica jugoslava e, non da ultimo, l’adesione a un progetto di cooperazione economica regionale transnazionale quale Alpe-Adria: furono questi i tasselli che andarono a comporre, negli anni che seguirono la morte di Tito, il mosaico di pulsioni e motivazioni alla base della separazione della Slovenia dalla Jugoslavia. Sul piano interno, Lusa tratteggia con notevole efficacia il ritratto di un microcosmo sospeso fra ansie nazionali, tentazioni conservatrici legate alla memoria antifascista e i primi embrioni di opposizione, legati a matrici culturali e generazionali prima ancora che a un progetto politico (eccellenti le pagine dedicate alla nascita del movimento punk e della «Neue Slowenische Kunst»).
Confermando le analisi sulla «territorializzazione» ed etnicizzazione delle strutture di potere
nelle Repubbliche sovietiche negli ultimi decenni del regime comunista, Lusa mostra come
gli apparati di partito fornirono negli anni ’80 un potente ombrello al riparo del quale tutte
le élites nazionali jugoslave, seppur eredi dirette della vecchia nomenklatura fedele al titoismo,
furono in grado di coltivare con ampia libertà di manovra il proprio «progetto». La specificità
slovena si manifestò tuttavia in una precoce fiducia nell’integrazione europea e nella volontà,
evidente anche nel giugno 1991, al tempo del breve conflitto armato con l’esercito federale,
di mantenere il conflitto con Belgrado entro i confini della legalità. In un lavoro animato da
uno smaliziato approccio positivista e sorretto da un’imponente documentazione di prima
mano proveniente dagli archivi statali sloveni – accessibili senza limitazioni sino a tutto il 1990
– l’a. riesce a trasformare la cronaca di eventi a noi cronologicamente vicini in una vera narrazione storica.
Stefano Bottoni
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I LIBRI DEL 2007
Fiamma Lussana, In Russia prima del Gulag. Emigrati italiani a scuola di comunismo, Roma, Carocci, 223 pp., € 19,50
È un libro dall’andamento altalenante quello dedicato da Fiamma Lussana al tema della
presenza degli emigrati italiani nelle scuole ideologiche create, in Unione Sovietica, «prima del
Gulag», come recita il titolo, ovvero prima che il terrore di Stato sovietico si abbattesse, in varie forme, su tutte le comunità straniere presenti in URSS nel periodo 1935-1939. Perplessi
lascia per esempio la lettura del secondo capitolo, dedicato a una panoramica della presenza
antifascista in Unione Sovietica, dove, accanto a un uso ragionato della bibliografia esistente
sul tema, spuntano talvolta come funghi note in cui l’a. rimanda direttamente alle fonti di archivio, in particolar modo alla documentazione del Partito comunista italiano conservata
presso la Fondazione Istituto Gramsci (per esempio alla p. 38, nota 21) sembrando completamente ignorare che gli stessi autori, peraltro da lei citati in altri punti del volume, hanno a
lungo lavorato proprio su quella documentazione e che pertanto essa non è più inedita.
Interessanti, e in parte nuovi, sono invece i capitoli terzo, dal titolo Come si diventa «rivoluzionari di professione», e quarto A scuola di comunismo: chi sono gli allievi italiani. Nel primo dei due, in parte già pubblicato in due versioni parziali, l’a. (qui sulla base di documentazione inedita proveniente sia dalla Fondazione Istituto Gramsci che dall’Archivio Centrale di
Stato) ricostruisce il ruolo di Gramsci quale promotore della creazione di scuole per rivoluzionari e poi quello di Togliatti che, a partire dal 1926, si occupa con costanza prima del settore italiano dell’«Università comunista delle minoranze nazionali dell’Occidente», poi dell’invio e della partecipazione degli emigrati italiani nonché dell’organizzazione stessa dei corsi alla «Scuola leninista internazionale». Di rilievo le pagine in cui l’a. ricostruisce il tipo di vita che condussero dentro e fuori la scuola i circa 300 allievi italiani che la frequentarono, il
modo in cui essi si rapportarono alla realtà sovietica e al mito dell’URSS e come da questi furono forgiati, un dato, quest’ultimo, non da poco se si considera che, come l’a. osserva, alla
fine del 1945 più di un terzo del Comitato centrale eletto dal V Congresso del PCI era formato da ex allievi delle scuole di Mosca.
Fra i profili degli emigrati che Lussana sceglie di delineare con maggiore precisione spicca quello di Paolo Robotti, cognato di Togliatti, e della moglie Elena Montagnana, le cui lettere inedite da Mosca tra il 1932 e il 1935 vengono riportate in appendice. Anche qui però il
taglio adottato suscita qualche dubbio: Robotti fu sì vittima del sistema staliniano (nel 1938
fu arrestato per essere poi dopo alcuni mesi rilasciato), ma nello stesso tempo fu anche persecutore di molti degli antifascisti italiani che furono condannati o fucilati in quegli anni. Un
aspetto, quest’ultimo, che non viene nel volume assolutamente mai ricordato, neppure per inciso. Un libro dunque non privo di interesse, ma al quale sarebbe forse stato necessario dedicare più tempo.
Elena Dundovich
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I LIBRI DEL 2007
Michele Luzzati, Cristina Galasso (a cura di), Donne nella storia degli ebrei d’Italia, Firenze, Giuntina, 641 pp., € 40,00
Il volume raccoglie gli atti dell’ultimo dei convegni di «Italia Judaica» (il primo si era svolto nel 1981), realizzati dal Ministero per i Beni e le attività culturali italiano e da alcune università israeliane. Il convegno, scrivono i curatori nella Premessa, «aveva l’intento di coniugare, per la prima volta, storia degli ebrei d’Italia e gender history» (p. 7) – intento un po’ attenuato dal titolo: perché non dire, come nella Premessa, «storia delle ebree d’Italia»? Dei trenta saggi, diciannove riguardano i secoli dal ’400 al ’600, cinque l’800, quattro il ’900: cifre che
rispecchiano lo stato degli studi. Per l’età contemporanea, malgrado alcune ottime ricerche recenti, vale ancora quel che disse dieci anni fa Anna Foa, in un convegno a Reading su Le donne delle minoranze. Le ebree e le protestanti d’Italia (a cura di C. H. Honess e V. R. Jones, Torino, Claudiana, 1999): «La storia della donna ebrea in Italia è ancora un terreno oscuro, in cui
solo alcune porzioni sono illuminate da fari deboli e di raggio limitato» (p. 11). I saggi sull’età
moderna (alcuni dei quali riprendono temi già affrontati in ricerche più ampie dai rispettivi
aa.) riguardano la storia della famiglia, della sessualità, della religiosità femminile, delle comunità e dei loro rapporti con la società cristiana. Compaiono anche ritratti e profili biografici,
come quelli di Perla e Stella nel saggio di Michele Luzzati sugli ebrei a Lucca e di Allegrezza e
Dolcetta in quello di Micaela Procaccia sulle ebree romane. In quest’ultimo emerge il più interessante filo rosso che lega questa parte del volume: la ricerca di tracce di autonomia e potere femminili, in parte legati a norme dalla Halachà e talvolta maggiori per le donne ebree che
per quelle cristiane (tesi già formulata nelle opere di Cecil Roth e più tardi di Kenneth Stow).
Dalle analisi del lavoro femminile nei ghetti (Luciano Allegra) a quelle dei testamenti (Elisabeth Borgolotto e Emilia Garruto in Toscana, Alessandra Veronese a Treviso, Angela Scandaliato in Sicilia, Carla Boccato a Venezia) e dei processi (Rossella Rinaldi a Bologna, Anna Esposito e Diego Quaglioni per i tristemente famosi processi contro gli ebrei di Trento del 14751478), i margini di autonomia femminile si ampliano o si restringono in modi particolarmente interessanti nei periodi di crisi e di passaggio, come mostrano i due saggi, particolarmente
ricchi, legati in diverso modo alla questione delle conversioni, di Cristina Galasso sul ritorno
all’ebraismo dei cristiani nuovi di Livorno e Pisa e di Marina Caffiero sui diritti di patria potestà delle madri ebree e convertite a Roma. I cinque saggi sull’800 riguardano l’educazione
femminile (Maddalena Del Bianco Cotrozzi e Carlotta Ferrara degli Uberti) e la condizione
sociale, economica e culturale delle donne della borghesia ebraica (Tullia Catalan, Barbara Armani, Mirella Scardozzi). Tra i saggi sul ’900, quelli di Anna Bravo e Liliana Picciotto affrontano con taglio diverso ma ugualmente fecondo il tema tanto difficile quanto cruciale, divenuto solo di recente oggetto di attenzione storiografica, della specificità femminile nella Shoah.
Anna Rossi-Doria
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I LIBRI DEL 2007
Sergio Luzzatto, Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento, Torino, Einaudi,
VIII-419 pp., € 24,00
Questo libro ha una tesi di fondo: in un’ottica non agiografica, e quindi nella sua dimensione terrena, la vicenda di Francesco Forgione da Pietrelcina, il cappuccino padre Pio e oggi
veneratissimo san Pio, costituisce un punto d’osservazione privilegiato per l’intreccio di temi
e personaggi importanti del ’900 italiano. Fra i primi il bisogno popolare del sacro e del miracolo, il suo utilizzo politico e affaristico, l’affermarsi di un modello culturale clerico-fascista, le tensioni interne alla cultura e alla gerarchia cattolica, lo straordinario «indotto» secolare di un fenomeno di massa prima locale, poi nazionale e internazionale e quasi da subito, in
rapporto ai tempi, mediatico. Tra i secondi praticamente tutti i papi del secolo, ma di questi
più d’uno come Roncalli o Woityla hanno rapporti precedenti con padre Pio, e poi Gemelli
e Buonaiuti, D’Annunzio e Malaparte, Caradonna e De Bono, Papini e Mussolini, con innumerevoli altri attori di diversa caratura. Temi e personaggi che trovano una loro ragion d’essere, coerente e non di rado imprevista, in rapporto alla figura schiva e silente del protagonista, almeno apparentemente passivo, di questa straordinaria vicenda.
Luzzatto mette con ragione l’accento sull’importanza della fase iniziale della narrazione,
quella che dalla prima guerra mondiale si estende almeno a tutti gli anni ’20. Si tratta infatti
del periodo meno conosciuto, ma anche di quello in cui si fissano i caratteri di fondo del fenomeno sociale Padre Pio in rapporto a un paese stanco e diviso, insicuro e desideroso di capri espiatori come di tutele carismatiche. Su quella base la storia proseguirà attraverso l’Italia
fascista e poi repubblicana, sottolineandone naturalmente gli elementi di continuità da una
fase all’altra, anche se riproposti attraverso un continuo ed efficace aggiornamento.
La ricerca di Luzzatto, puntigliosa e lucidissima, è storia sociale a tutto tondo, in grado
di ricostruire percorsi e intrecci anche secondari senza mai perdere il filo del discorso, né il
senso di ogni singolo episodio. Un modo di procedere piuttosto raro nella contemporaneistica, in particolare quella novecentesca, e che non a caso fa frequente riferimento tematico e
metodologico alla storiografia di età precedenti. In questo modo anche questioni ben note, illuminate da una prospettiva apparentemente marginale, rivelano profili e chiaroscuri nuovi.
In verità sarebbe difficile immaginare una più decisa e preziosa valorizzazione storica di padre
Pio e di San Giovanni Rotondo. Chiunque rispetti la libera ricerca deve esserne, credo, riconoscente all’autore.
Giuseppe Civile
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I LIBRI DEL 2007
Patrizia Macchia, Il Bundesrat austriaco. Genesi e vicende della Seconda Camera di un federalismo debole, Torino, Giappichelli, XVII-187 pp., € 23,00
Il volume fornisce un quadro dei profili strutturali e delle competenze legislative del Bundesrat austriaco che svolge la funzione di Seconda Camera del Parlamento, con il compito primario di garantire la partecipazione dei nove Länder della Repubblica federale al potere legislativo del Bund. Pur trattandosi di un lavoro di carattere giuridico, il volume offre spunti di
riflessione anche ai non specialisti. L’a. non si limita infatti ad approfondire la struttura e le
competenze del Bundesrat nell’ambito dell’odierno federalismo, ma, partendo dall’evoluzione del sistema parlamentare della «vecchia Austria» nel 1848, evidenzia aspetti della genesi del
sistema bicamerale, accostandoli alle trasformazioni della forma di Stato e alle più ampie vicende storico-politiche austriache. Alla base di questa articolata analisi sta la giusta convinzione che nonostante la discontinuità giuridica tra lo Stato monarchico e la Repubblica e la diversa dimensione territoriale e demografica, il disegno dei «padri fondatori» della Repubblica
austriaca non può essere compreso senza conoscere l’ambiente storico-giuridico nel quale si
sono formati e sulle cui rovine è sorta la nuova realtà repubblicana. Dal volume emerge chiaramente come l’evoluzione storica della struttura costituzionale austriaca rappresenti un’anomalia: l’Austria si è sviluppata da Stato monarchico unitario decentralizzato a ovest del fiume
Leitha in Stato a struttura federale, in cui però continuano a coesistere anche forti elementi
unitari. Il federalismo austriaco, come dice il sottotitolo, è infatti un federalismo debole, nato in controtendenza a spinte centripete che continueranno a manifestarsi, e in cui un ruolo
preponderante è assicurato all’elemento centralistico del Nationalrat. Emerge dalla ricostruzione che la ricezione del nuovo modello federale su di un terreno espressione del passato è
avvenuta per gradi, passando attraverso la breve esperienza dell’Assemblea nazionale provvisoria della Repubblica austro-tedesca nel 1918-19, dove mancò la volontà di costituire un ente sovrano per mancanza di fiducia nella sua capacità di sopravvivenza economica e per l’intenzione di unirsi al Reich tedesco. Il trattato di pace nel 1919 previde il divieto dell’unione
alla Germania, ma ciò nonostante la questione dell’Anschluss rimase viva durante tutta la prima Repubblica e di essa risentì fortemente la Costituzione austriaca del 1920 che dovette assumere un carattere ad interim, con propensione per una struttura statale di tipo centralistico che avrebbe facilitato una successiva incorporazione nel Reich tedesco. Anche nello sviluppo costituzionale del secondo dopoguerra, caratterizzato dal rafforzarsi del rapporto di connessione fra sistema politico, forma di Stato e forma di governo, il federalismo austriaco rimase debole e il Bundesrat il rappresentante di tale debolezza, nonostante alcune riforme degli
anni ’80 tese a rafforzarlo. A conclusione del volume viene ricordato il progetto di una revisione totale della Costituzione federale affidato tra il 2003 e il 2005 all’Österreich-Kovent, ma
che non ha avuto applicazioni concrete.
Maddalena Guiotto
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I LIBRI DEL 2007
Stefania Magliani, Per la storia della pubblica incolumità. I piani di risanamento a Palermo
(1861-1900), Pisa-Roma, Serra, 292 pp., € 58,00
Il volume ricostruisce la genesi, i contenuti e l’iter amministrativo dei progetti di risanamento elaborati dal Comune di Palermo nel periodo compreso tra l’annessione al nuovo Stato italiano e la fine del XIX secolo. Lo sfondo è quello di una città priva di adeguate reti idriche e fognarie, in cui buona parte della popolazione viveva in tuguri malsani e sovraffollati addossati gli uni agli altri in angusti vicoli scarsamente illuminati e aerati, e che a più riprese venne colpita da epidemie di colera. I progetti di risanamento, e soprattutto l’ambizioso piano
elaborato dall’ingegnere Felice Giarrusso nel 1885, su cui il volume si concentra in modo particolare, nacquero sulla base dell’ideologia che individuava nell’igiene una forma essenziale di
tutela della popolazione, prescrivendo la creazione di ambienti urbani con abitazioni salubri
e aerate, strade ampie e rettilinee, acqua pulita e un efficace smaltimento dei rifiuti organici.
Approvato in via definitiva nel 1894, il piano si scontrò con numerosi ostacoli politici e burocratici, subendo la pressione di interessi particolari e finendo per essere applicato solo per
stralci, con interventi parziali slegati l’uno dall’altro che sfuggirono al controllo tecnico e finanziario.
Il lavoro è fondato su un’ampia base documentaria, comprendente le carte dell’Amministrazione comunale palermitana e quelle del governo centrale (ministeri dell’Interno e dei Lavori pubblici), come anche i verbali delle commissioni parlamentari che vagliarono il piano
di risanamento e le inchieste sul malgoverno e la corruzione dell’amministrazione locale promosse sul finire del secolo. Grazie all’intreccio di queste fonti, Magliani costruisce un dettagliato resoconto dei progetti di risanamento, mentre meno convincente appare l’impianto interpretativo del volume. Nella quarta di copertina, infatti, si afferma perentoriamente che «la
storia del piano di risanamento di Palermo non è la storia di un fallimento», poiché grazie alla nuova sensibilità per le condizioni igieniche e la salute pubblica e alle soluzioni innovative
in esso contenute «metteva radici quella che solo recentemente abbiamo cominciato a definire “cultura della protezione civile”». Nel volume, però, difetta una puntuale illustrazione degli effettivi punti di contatto e soprattutto dei passaggi storici che legano tra loro il piano di
risanamento e la nascita e lo sviluppo di tale cultura a partire dagli anni ’70 del ’900.
Il lettore è dunque lasciato di fronte alla cronaca dello scacco dei progetti di risanamento,
ben sintetizzato dalla relazione di una commissione d’inchiesta sull’amministrazione comunale, secondo cui i risultati conseguiti furono «troppo scarsi e sconfortanti» rispetto alle aspettative (p. 192). In conclusione, al di là del valore di testimonianza del piano di risanamento – il
tentativo di realizzare il quale l’a. interpreta come «una delle più belle battaglie per la civiltà,
combattuta con orgoglio da tanti cittadini e da tanti amministratori» (p. 15) – resta difficile
pensare che nei fatti quella ricostruita nel volume sia altro che la storia di un fallimento.
Bruno Bonomo
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I LIBRI DEL 2007
Vanessa Maher, Tenere le fila. Sarte, sartine e cambiamento sociale 1860-1960, Torino, Rosenberg & Sellier, 391 pp., € 32,00
Anticipato da alcuni articoli degli anni ’80, a riprova di un lungo lavoro di approfondimento, il bel libro di Vanessa Maher rivisita con uno sguardo antropologico il mondo delle
sarte torinesi, lungo un secolo. Affascinanti per la loro ambivalenza, le sarte si muovono fra
rottura dell’ordine e conformismo, creando al tempo stesso un gender trouble e un class trouble: scomode per il femminismo e la sinistra, queste figure sfuggono alle generalizzazioni correnti nella storia del lavoro. La sarta è infatti una «esperta rituale», che conosce il simbolismo
esoterico del «costume» e del «vestiario», del guardarsi e dell’essere guardate, e riafferma i fondamenti simbolici della «distinzione», nel senso in cui la intende Pierre Bourdieu, dislocando
la soglia della raffinatezza e del gusto a vantaggio delle strategie di chiusura sociale delle donne degli strati alti della società torinese. Esperte di «ciò che conviene», le sarte rivelano il legame fra la subalternità femminile e il conformismo sociale che alimenta il culto della moda,
sviluppandosi anzitutto nella società di corte di antico regime, ma anche nei regimi totalitari, poiché è espressione di un mondo gerarchico e centralizzato. La figura della sarta corrisponde inoltre alla creazione di un ordine normativo di genere che prevede un progressivo disciplinamento delle apprendiste adolescenti, garanzia di onorabilità e di sentimenti virtuosi.
Ma, con il suo stile di vita libero nelle relazioni sociali e sessuali, questa figura è anche
protagonista di uno spiazzamento delle aspettative di deferenza e di umiltà riposte sulle donne e sugli strati sociali inferiori: le sartine si accompagnano agli studenti; le sarte rivendicano
orgogliosamente il valore del lavoro fatto a casa contro il modello breadwinner; si confondono nelle feste con le donne delle classi alte a cui cuciono i vestiti. Sono affascinate dalla possibilità che gli abiti offrono alle cocottes, e alle stesse sarte, di esaltare la bellezza naturale, che,
ancora per Bourdieu, è il capitale dei poveri, risorsa per una mobilità sociale matrimoniale o
individuale.
Questa ci sembra la chiave di lettura intorno alla quale ruota il libro, che è interessante
anche perché utilizza il caso di Torino, per Gramsci e per tanti altri osservatori «città americana per eccellenza», ma lo integra in una diversa linea interpretativa, simile a quella «antifordista» portata avanti negli anni ’70 da una parte delle scienze sociali e della storiografia italiana, che si è tuttavia sviluppata guardando al lavoro a domicilio e alle piccole imprese della Terza Italia. Il mondo delle sarte torinesi resta vitale fino alla seconda guerra mondiale, quando
la lavorazione delle confezioni con modelli standardizzati sembra trovare, appunto, nella Terza Italia, un contesto più adatto, ma negli anni ’60 un flusso di donne, immigrate dal Sud, si
inserisce nel mercato dei vestiti su misura, prolungando e trasformando la storia della sartoria a Torino e a Milano.
Alessandra Pescarolo
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I LIBRI DEL 2007
Bruno Maida, Artigiani nella città dell’industria. La CNA a Torino (1946-2006), Prefazione di Giovanni De Luna, Torino, Edizioni SEB 27, 276 pp., € 12,50
Realizzato in occasione del 60° anniversario dalla fondazione della Associazione provinciale di Torino della Confederazione nazionale dell’artigianato, il libro di Bruno Maida ricostruisce in modo puntuale la storia dell’organizzazione, con frequenti richiami alle vicende del
tessuto associativo italiano, e si confronta con i problemi economici, sociali, politici e culturali vissuti dal mondo dell’artigianato locale e nazionale. Per affrontare i diversi livelli di analisi, l’a. intreccia in modo sapiente una pluralità di fonti: d’archivio, a stampa, dati statistici.
Il volume ripercorre quella che nella Prefazione Giovanni De Luna definisce «la lunga traversata della “terra di mezzo”» (p. 11), proprio a voler evidenziare la difficile caratterizzazione
sociale dell’artigiano, figura che sin dalle origini dell’età contemporanea si pone a metà strada tra i primi operai di mestiere e i fabbricanti; collocazione che muta gradualmente nel ’900,
quando l’identità artigiana resta compressa tra operai e imprenditori, specie a Torino, città
simbolo della grande fabbrica moderna. Per circa un secolo, dalla metà dell’800, quando compaiono le Società di mutuo soccorso, interclassiste e apolitiche, fino alla caduta del fascismo,
che pure prova a irreggimentare nello Stato totalitario la Federazione autonoma delle Comunità artigiane d’Italia, con il chiaro obiettivo di favorire la stabilità sociale e aumentare il consenso tra i ceti medi, gli artigiani sono relegati in una condizione marginale.
Nell’Italia repubblicana gli equilibri mutano gradualmente. La periodizzazione proposta
da Maida risulta convincente. Ricordato che la Costituzione affida alla legge e alle Regioni lo
sviluppo dell’artigianato, egli si sofferma sulla nascita nel dopoguerra delle prime organizzazioni rappresentative, in particolare CNA e Confartigianato (ben presto destinate a scontrarsi nel clima della guerra fredda), notando come il settore sia comunque confinato ai margini
della ricostruzione. Passa quindi agli anni del miracolo economico, preceduti nel comparto
da una significativa produzione legislativa (leggi sull’apprendistato, sulle imprese artigiane,
sull’assistenza sanitaria, sulla previdenza); sono gli anni in cui, se la società industriale accentua la polarizzazione tra operai e capitale, in tanti territori (anche a Torino, ma soprattutto
nella Terza Italia) si pongono le basi per la successiva crescita della piccola impresa: uno «sviluppo inatteso» (p. 165), sostenuto dalla legge-quadro del 1985, che inaugura una «nuova stagione» (p. 207), durante la quale l’artigianato si «libera» dalla grande impresa per ricoprire un
ruolo autonomo sempre più importante nell’economia italiana ed europea, nella politica e in
un sistema di relazioni sindacali che si avvia finalmente a maturazione. Sullo sfondo, tuttavia,
restano i problemi di sempre: i nodi dell’accesso al credito; i rapporti problematici col sistema fiscale, accentuatisi nell’ultimo ventennio; un sostegno legislativo, soprattutto regionale,
non sempre all’altezza; le condizioni economiche e normative più sofferte dei dipendenti dalle imprese artigiane.
Fabrizio Loreto
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I LIBRI DEL 2007
Germano Maifreda, La disciplina del lavoro. Operai, macchine e fabbriche nella storia italiana, Milano, Bruno Mondadori, 345 pp., € 27,00
Il libro di Maifreda propone una lunga e articolata analisi delle forme che la disciplina del
lavoro ha assunto dagli albori dell’industrializzazione italiana fino agli anni ’70 del ’900, quasi una sua storia culturale in cui lo studio delle pratiche è affiancato a quello dei discorsi: ne
emerge con evidenza che l’organizzazione disciplinare del lavoro, anche di quello di fabbrica,
ha radici lunghe e che «quasi nulla di quello che accadde nei dispositivi disciplinari di produzione del XX secolo fu una “scoperta” del Novecento» (p. 335). In effetti l’a., come dichiara
nell’Introduzione, vuole ricollocare la «disciplina di fabbrica nel cuore culturale della modernità occidentale, nel flusso di ridefinizione dei saperi teorici e tecnici di controllo e modificazione della vita umana distintivi dell’età contemporanea» (p. 31): così la pulizia, l’organizzazione degli spazi, la cura e il controllo del corpo, anche al di fuori dei luoghi del lavoro, e infine la regolazione dei movimenti diventano elementi che, pur caratteristici dell’organizzazione del lavoro di fabbrica, rimandano al controllo sociale del disordine tanto che, come scrive
l’a., «la fabbrica […] nella percezione sociale borghese parve […] sin da subito un dispositivo
in grado di restituire ordine, prevedibilità e soprattutto unitarietà sociale» (p. 64).
Maifreda si sforza di andare oltre le interpretazioni più diffuse dell’organizzazione del sistema di fabbrica evitando, da un lato, l’idea che esso fosse un strategia del ceto borghese per
accrescere il proprio potere sottraendo alle aristocrazie operaie un patrimonio di conoscenze
e, in definitiva, il controllo della produzione; e, dall’altro, l’ipotesi che l’organizzazione del lavoro sia il prodotto neutrale di una tecnica razionalizzatrice sempre più raffinata. Egli sottolinea invece, da una parte, la gradualità e la storicità del processo di costruzione del capitalismo industriale e, dall’altra, il carattere relazionale delle forme di potere che prendono corpo
nell’organizzazione industriale dove si instaurano «nuovi e numerosi punti di scambio, saturi
di relazioni di potere, tra le vite dei lavoratori e il sistema economico nel suo complesso» (pp.
24-25) e dove, superata l’esperienza dell’organizzazione tayloristica-fordista, riemerge con forza la ineliminabile soggettività del lavoratore.
Fortemente debitore agli insegnamenti di Foucault, ricco di rimandi alle lezioni di metodo di Bigazzi e Sapelli, interessante sia nei capitoli iniziali, dove vengono analizzate le radici
culturali delle forme in cui si esercita la disciplina in fabbrica, che in quelli finali, dove vengono esaminati i tentativi di andare oltre il sistema di produzione taylorfordista, il volume di
Maifreda sottolinea quanto il mondo del lavoro sia un terreno di studi ancora da dissodare,
ricco di prospettive di ricerca originali.
Andrea Sangiovanni
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I LIBRI DEL 2007
Miguel Andrés Malagreca, Queer Italy. Contexts, Antecedents and Representation, New
York, Peter Lang, 278 pp., € 25,40
Contributo originale germogliato nell’ambito dei queer studies, posti solitamente all’incrocio degli interessi di ricerca coltivati nei dipartimenti di letteratura e antropologia culturale, il saggio di Malagreca, ricercatore argentino e psicanalista lacaniano, affronta alcuni aspetti della storia politica e culturale del movimento gay nell’Italia contemporanea.
La ricerca prende le mosse dall’incontro della multiforme identità culturale e psicologica
dell’a. (argentino con avi europei, gay dichiarato e emigrato negli USA per motivi di studio e
lavoro, poi in Italia per motivi sentimentali) con le scottanti questioni suscitate in Italia dalla
lotta per le unioni civili a favore degli/le omosessuali e di gran parte di coloro che si situano
fuori dell’ambito dell’eterosessualità normativa e delle norme di genere maschile e femminile
dominanti: in una parola dei queer, vale a dire delle persone cosiddette «anormali».
Il saggio si sviluppa partendo da una sofisticata premessa metodologica, incentrata sul discutibile concetto psicanalitico di «desiderio»: il vissuto diventa qui parte indissolubile della
conoscenza scientifica e consente di scandagliare l’ambiguità e la mutevolezza dei costrutti culturali apparentemente più solidi, ossia quelli alla base dei sistemi identitari collettivi relativi a
sessualità e genere. Durante la lettura ci accompagna costantemente lo sguardo critico e compartecipe, finanche empatico, dell’a. Il che non inficia tuttavia la validità scientifica della ricerca. Inoltre, come l’a. più volte sottolinea, la sua condizione di straniero in Italia ha il merito di conferire all’analisi una prospettiva privilegiata sulle varie manifestazioni della queerness.
Segue una ricca ricostruzione di carattere diacronico che parte dal debutto della cultura
emancipazionista ad opera dalle prime personalità «omofile» italiane, le quali patrocinarono
una visione favorevole dell’omosessualità e del transessualismo. Vi è poi la cupa fase del fascismo, rischiarata dal contributo pionieristico ma isolato dello scienziato Aldo Mieli, animatore della rivista «Rassegna di studi sessuali» fino al suo esilio in Francia nel 1928. Nel secondo
dopoguerra innegabili sono state le intersezioni del discorso e delle pratiche politiche femministe sulla cultura del movimento italiano per i diritti di gay, lesbiche e transessuali. Ponendosi in parte sulla scia del femminismo, i collettivi omosessuali del principio degli anni ’70
sono stati autentici precursori di produzione culturale e pratica politica queer, indirizzando
una critica demolitrice verso tutti i modelli culturali e comportamentali a forte pretesa di naturalità. L’opera di Mario Mieli Elementi di critica omosessuale è esaminata come paradigma di
tale stagione. Si descrive infine la nascita di Arcigay negli anni ’80 in relazione al processo generale di «americanizzazione» degli omosessuali, sorta di omologazione strategica finalizzata
all’acquisizione di diritti sostanziali. Essa sfocia sull’odierna impasse tra richiesta di politiche
autenticamente progressiste del movimento gay e sordità delle forze politiche che avrebbero
dovuto farsene carico.
Alessandro Scurti
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I LIBRI DEL 2007
Michela Mancini, Immaginando Ivanhoe. Romanzi illustrati, balli e opere teatrali dell’Ottocento italiano, Milano, Bruno Mondadori, VII-133 pp., € 16,00
Il volume costituisce una sintetica ricostruzione della vasta e duratura diffusione in Europa,
e nella nostra penisola in particolare, di Ivanhoe, l’opera di Walter Scott pubblicata a Londra nel
1820, immediatamente riconosciuta come paradigma di quel genere, il romanzo storico, che
tanta e significativa fortuna – letteraria, civile, artistica, politica – avrà nel corso dell’800.
Nella convinzione che la circolazione del soggetto di Ivanhoe contribuisca a definire i connotati del nuovo pubblico di lettori, si ripercorrono, innanzitutto, le vicende editoriali del libro, autentico best seller dell’epoca, presto tradotto in tutte le lingue, non solo europee, e oggetto di numerose edizioni, spesso illustrate, e di molteplici adattamenti e riduzioni; si cerca
inoltre di individuare le tracce della divulgazione di motivi, storie, personaggi e ambienti del
romanzo di Scott, soprattutto nel repertorio delle fonti iconografiche (dipinti, litografie, incisioni, scenografie) e nel teatro musicale (libretti d’opera e balli); si dà conto, infine, di varianti e rielaborazioni di alcuni nuclei narrativi, per esempio quello che si dipana intorno all’amore infelice di Rebecca. L’a. non manca di sottolineare gli aspetti estetici, ideologici e culturali del fenomeno. Scott elabora una formula felice – che coniuga sfondo storico e finzione
narrativa, dimensione pubblica dei personaggi e vicende amorose, e prevede un ritmo incalzante, scandito da continui colpi di scena – destinata a un pubblico che cerca nella lettura
un’occasione di loisir e di immedesimazione. Ivanhoe, inoltre, contribuisce, insieme ad altre
testimonianze artistiche, ad alimentare l’interesse per il passato, così strettamente connesso al
risveglio del sentimento nazionale, e a diffondere un’immagine del Medioevo particolarmente consonante alla sensibilità romantica; il revival del Medioevo, a sua volta, si configura come strumento di rinnovamento politico, oltre che influenzare le trasformazioni del gusto e del
costume: del resto la storia, i personaggi, ma soprattutto la dovizia di descrizioni di luoghi,
paesaggi, ambienti, costumi, tipica della passione antiquaria di Scott, oltre che della sua abilità nel solleticare l’immaginazione dei lettori, forniscono una patente di realismo alla cornice storica e un repertorio ricchissimo di motivi, stilemi e modelli a cui attingere.
Non sempre efficace e perspicuo nella costruzione dell’impianto argomentativo e nella resa stilistica, più suggestivo che sistematico, più stimolante che esauriente, il saggio non manca, comunque, di spunti, ancorché non nuovi, di evidente interesse: particolarmente apprezzabile è l’attenzione per il carattere circolare e seriale che inizia a caratterizzare l’industria culturale dell’800, in cui testo narrativo, teatro, periodici illustrati, opere artistiche, pittura, stampa, moda tendono a creare un virtuoso meccanismo destinato ad alimentare il consumo presso strati significativamente più consistenti di pubblico, nonché l’insistenza sulla decisiva incidenza che l’immagine, effettiva per lo spettatore o ricostruita dalla fantasia per il lettore, riveste nella ricezione e nella fruizione del prodotto culturale di largo consumo.
Irene Piazzoni
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I LIBRI DEL 2007
Ugo Mancini, Il fascismo dallo Stato liberale al regime, Soveria Mannelli, Rubbettino, 340
pp., € 25,00
L’a. ha svolto una ricerca originale, in particolare presso l’Archivio Centrale dello Stato e
l’Archivio di Stato di Roma, relativa a Roma, ai Castelli romani e al Lazio, anche se l’opera non
si presenta come una storia locale. L’ambizione dichiarata anche nel titolo fin troppo generalizzante è quella di connotare la ricostruzione storica delle origini del fascismo e della prima stabilizzazione del regime, circoscritta agli anni ’20, con un più ampio riferimento alle tematiche
del consenso e alle interpretazioni generali del fascismo, che sono frequentemente discusse e
rielaborate con notevole impegno esegetico e interpretativo. L’avvento del fascismo in un’area
regionale dove le basi di massa conseguite dal movimento e poi dal Partito erano meno estese
che nella Valle Padana, in Emilia o in Toscana, comportò un rapido adattamento alle nuove e
fortunose circostanze della conquista del potere, che verteva su un accentuato centralismo e sull’esaltazione della funzione politica e amministrativa della capitale del governo e dello Stato. Il
potere fascista fu, però, molto più instabile di quanto la dittatura volesse far credere o cercasse
di mostrare pubblicamente. Nelle lotte intestine dei gruppi dirigenti locali e nel retroterra, per
così dire, del sottogoverno fascista riemergevano innumerevoli differenziazioni e policentrismi,
tanto che l’a. può coerentemente declinare sempre al plurale le categorie concettuali e i termini storiografici convenzionali: «consensi», «dissensi», «antifascismi». La sua insistenza su una
società frammentata, «sotterraneamente atomizzata» o addirittura «polverizzata» (p. 9) viene
proposta come chiave di analisi e di lettura, e dunque potenzialmente estensibile a tutto il ventennio. Le continuità amministrative, se non politiche, dell’operato di governo fascista con il
prefascismo resero meno brusca e «rivoluzionaria», ed anche meno incisiva, la trasformazione
dello Stato da liberale a totalitario. La restrizione sostanziale del tenore di vita della popolazione attiva in agricoltura e nell’industria, e gli insuccessi della modernizzazione, furono precondizioni ben poco promettenti per la ricerca di un vasto e autentico consenso popolare attivo da
parte del regime di Mussolini. I gerarchi di provincia non riuscirono a costituire, altro che per
brevi momenti, un vero e proprio gruppo dirigente regionale, tale da influenzare in modo sensibile e duraturo la composizione del governo fascista e dello stesso Municipio e, in seguito,
Governatorato di Roma, dove non di rado tendevano a presentarsi molti e ambiziosissimi candidati «forestieri». Gli antifascisti conservarono, anche se non sempre, una notevole capacità di
resistenza sotterranea, che l’a. documenta con ampi riscontri. L’impatto della dittatura sulla società e sul percorso storico dell’Italia contemporanea fu al tempo stesso notevole e differenziato, tutt’altro che univoco e monodirezionale: si trattò non tanto di un incontro quanto piuttosto di «incontri tra il fascismo e la società civile» (p. 7).
Marco Palla
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I LIBRI DEL 2007
Vincenzo Mantovani, Anarchici alla sbarra. La strage del Diana tra primo dopoguerra e fascismo, Milano, Il Saggiatore, 585 pp., € 14,50
Si tratta della riedizione di un lavoro analitico edito nel lontano 1979 (Rusconi) a cura
di un giornalista spinto a questa impresa dall’eco delle bombe di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. I quotidiani di quei giorni riesumavano le vicende del Diana alla ricerca di un
precedente atto terroristico di matrice anarchica mentre le indagini sulla strage alla Banca dell’Agricoltura non avevano ancora una direzione precisa.
L’attentato del Teatro Diana (Milano, 23 marzo 1921) con i suoi diciotto morti e quasi un
centinaio di feriti, equivaleva come conseguenze fisiche a quello appena accaduto. Come ben rileva l’a., i due eventi avevano un significato profondamente diverso. L’esplosione al Diana fu
«l’ultimo rantolo disperato e spaventoso della rivoluzione che moriva soffocata dalla reazione e
dai tradimenti» secondo Carlo Molaschi, anarchico attivissimo nell’infuocato dopoguerra milanese. La ricostruzione mette a fuoco l’ambiente sovversivo, e pure quello reazionario, della città
industriale lombarda: a livello elettorale dominavano i socialisti con una forte base operaia soprattutto periferica, nei movimenti di protesta si notava una dinamica presenza anarchica che
poteva contare anche sul quotidiano «Umanità Nova», nel centro cittadino si stava evolvendo
l’avventura politica di Benito Mussolini. Mantovani raccoglie molti materiali e contestualizza i
fatti del Diana evidenziando più di un lato oscuro. Resta tale – malgrado le interviste che lo stesso giornalista realizzò tra i vecchi anarchici milanesi nei primi anni ’70 –, la collocazione dell’esplosivo diretto contro il questore Giovanni Gasti, il responsabile materiale della montatura che
teneva in carcere da cinque mesi Errico Malatesta, Armando Borghi e Corrado Quaglino. I tre
detenuti erano in sciopero della fame per un obiettivo legalitario: la fissazione del processo nel
quale difendersi dall’accusa di cospirazione. Le loro condizioni di salute erano gravi e alcuni militanti, già abituati alla violenza nell’aspra lotta del «biennio rosso», ritennero necessario un colpo clamoroso contro il sistema poliziesco quale azione di solidarietà concreta. Senonché Gasti
non abitava da tempo nell’appartamento dell’Hotel Diana annesso al Teatro e la potente carica
di dinamite portata sul muro esterno dell’edificio mancò l’obiettivo. Peraltro gli effetti del Diana furono determinanti, anche secondo l’a., nella crisi dell’anarchismo. L’azione terroristica favorì l’ascesa al potere del fascismo: gli incendi immediati di «Umanità Nova» e de «L’Avanti!»
nonché del sindacato libertario USI, l’arresto di centinaia di anarchici, il potere esibito delle
squadre fasciste, con il tacito consenso del prefetto, sul centro di Milano e sullo stesso funerale
segnarono il trionfo di Mussolini. Egli si offrì alla borghesia intimorita come prezioso baluardo
contro il pericolo sovversivo. Particolare attenzione è riservata dall’a. all’atteggiamento della
stampa conservatrice, anche moderata, che appoggiò il salto di qualità del fascismo milanese.
Purtroppo questo volume, tuttora utile, non è stato aggiornato con l’analisi delle numerose opere storiche sull’anarchismo italiano edite negli ultimi decenni.
Claudio Venza
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I LIBRI DEL 2007
Jean-Jacques Marie, Kronštadt 1921. Il Soviet dei marinai contro il governo sovietico, Torino, Utet, VI-346 pp., € 23,00 (ed. or. Paris, 2005)
Il volume non è soltanto una meticolosa ricostruzione dell’insurrezione dei marinai di
Kronštadt del primo marzo 1921, soffocata nel sangue dal potere sovietico dopo diciassette
giorni. È anche un’utile rassegna delle numerose e disparate interpretazioni che l’accompagnarono e la seguirono: esplosione spontanea, sommossa controrivoluzionaria, «Termidoro contadino», protesta antiburocratica, «terza rivoluzione», operazione ordita da servizi segreti stranieri. Jean-Jacques Marie ha potuto avvalersi di solide raccolte documentarie pubblicate in
tempi recenti, frutto del proficuo lavoro di ricerca archivistica condotto in Russia dopo la riabilitazione ufficiale dei ribelli, voluta da Boris El’cin nel 1994. Ne propone una lettura oculata e filologicamente fondata, attento a cogliere le contraddizioni tra i diversi testi e senza
ignorare la dimensione ideologica di moltissimi enunciati. L’a. non trascura però i lavori di
chi in passato, pur nella ristrettezza delle fonti, era riuscito a fornire pregevoli cronache e a
raccogliere materiali essenziali (P. Avrich, I. Getzler, A. Skirda), così come si avvale delle testimonianze (personali o indirette) più celebri, non sempre affidabili – come sottolinea a più riprese – ma comunque rappresentative dell’impatto e uso politico dell’insurrezione (tra gli altri: A. Berkman, A. Ciliga, V. M. Eichenbaum (Volin), E. Goldman, I. Mett, V. Serge). Presenta la rivolta come un evento largamente prevedibile, ricostruendo il contesto e la natura
delle agitazioni nella regione di Pietrogrado all’inizio del 1921 (crisi dei combustibili, penuria alimentare e svalutazione monetaria, burocratizzazione degli apparati, crescita dei privilegi e invasività degli organi repressivi). Registra l’incapacità delle autorità bolsceviche – costrette in quei mesi a far fronte all’estendersi delle ribellioni nelle campagne e paralizzate da una
lacerante discussione all’interno del Partito – di riconoscere il malcontento crescente nelle fabbriche, nelle caserme, sulle navi. Inscrive poi i fatti di Kronštadt, sulla scorta della ultime ricerche sulle guerre contadine, nel solco tracciato dall’esercito di N. Machno in Ucraina e, ancor più, in quello delle grandi rivolte agrarie di Tambov e Tjumen’, così come di altre sollevazioni di minore portata (regioni di Voronež, medio Volga, Don e Kuban’). È infatti convinto
che, malgrado l’assenza di allusioni dirette a tali sommosse in risoluzioni e proclami (cfr. pp.
99-100, 102), il rifiuto della politica di requisizione sia una ragione maggiore dell’inquietudine dei marinai, che «si nutre della collera e della protesta delle loro famiglie al villaggio» e si
traduce in rivendicazioni, parole d’ordine, moventi «assai prossimi, se non identici» (p. 7). Pur
nell’esaustività della ricostruzione, l’a. suggerisce linee di ricerca originali, quando richiama la
continuità «ideale» tra la denuncia, in epoca sovietica, del complotto controrivoluzionario
(menscevico, socialista-rivoluzionario, anarchico o, più genericamente, piccolo-borghese) e
l’ossessione per la cospirazione giudeo-massonica dell’odierno nazionalismo russo.
Antonella Salomoni
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I LIBRI DEL 2007
Magda Martini, La cultura all’ombra del muro. Relazioni culturali tra Italia e DDR (19491989), Bologna, il Mulino, 463 pp., € 30,00
Il volume di Magda Martini si prefigge un obiettivo ambizioso: mettere in discussione,
contribuendo a smontarlo, un cliché storiografico diffusosi intorno alla Repubblica Democratica Tedesca (nell’acronimo tedesco DDR) come mondo introverso e fosco, dominato dalle reti di polizia. Per raggiungere il proprio scopo l’a. esamina un’ampia gamma di materiali, per lo
più inediti, riconducibili alla proiezione esterna dell’«altra Germania» nei suoi rapporti con il
mondo intellettuale italiano di orientamento comunista e, dal 1973, data dell’avvio dei rapporti diplomatici fra i due paesi, dei rapporti bilaterali italo-tedeschi. Negli anni ’50 e ’60 l’Italia
costituì per la DDR l’oggetto di un interesse, non sempre corrisposto, originato dalla presenza di un forte partito comunista la cui simpatia ideologica per la DDR era motivata più dal comune discorso antifascista (cui si univa un giudizio negativo sullo sviluppo postbellico della
Germania Occidentale) che dalla conoscenza della realtà tedesco-orientale. In assenza di qualunque iniziativa ufficiale italiana volta a stabilire rapporti culturali con la DDR, furono organizzazioni quali il Centro «Thomas Mann» di Roma o singole personalità quali il compositore Luigi Nono, il pittore Pietro Mucchi o – con maggiore indipendenza di giudizio – Lucio
Lombardo Radice e Cesare Cases a svolgere il ruolo di mediatori culturali fra il PCI e gli apparati culturali della DDR. Dalla metà degli anni ’70, tuttavia, il fenomeno del dissenso e la progressiva disillusione nei confronti del socialismo reale di molti protagonisti della vicenda narrata portarono ad ulteriori conflitti e incomprensioni (esemplare il caso Biermann), esasperati
dall’ipertrofia ideologica attraverso la quale la DDR leggeva tutta la storia e la cultura italiana.
Data la scarsità di materiale d’archivio soprattutto di parte italiana (le fonti diplomatiche
degli anni ’70 e ’80 sono inaccessibili, così come i rapporti degli organi di polizia relativi ai
soggiorni dei cittadini tedesco-orientali nel nostro paese e ai loro contatti con personalità italiane), l’a. ha fatto largo uso di materiale archivistico in Germania, scandagliando in particolare gli apparati culturali del Partito comunista tedesco-orientale. Nonostante l’ammirevole
sforzo di ricerca e una notevole capacità di rielaborazione narrativa del vasto materiale raccolto, il testo lascia nel lettore una sensazione di incompiutezza. Proprio le fonti citate dall’a. (tra
le quali mancano proprio gli archivi, liberamente accessibili, della Stasi, che della politica culturale della DDR – anche in proiezione esterna – fu il vero gestore) confermano infatti, invece che smentire, l’immagine di soffocante oppressione intellettuale emanata dal regime di Berlino Est. Per tentare di dimostrare la tesi di partenza, sarebbe stato piuttosto utile non limitarsi alla cultura comunista e allargare lo sguardo a quella cattolica progressista (per esempio
analizzando il caso dell’ex padre gesuita Alighiero Tondi, professore alla Pontificia Università
Gregoriana che negli anni ’50 si trasferì a Berlino Est per insegnare filosofia all’Università
Humboldt).
Stefano Bottoni
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Arturo Marzano, Marcella Simoni (a cura di), Quaranta anni dopo. Confini, barriere e limiti in Israele e Palestina, Bologna, Il Ponte, 126 pp., € 16,00
La periodizzazione per «eventi cesura» presuppone sempre una formalizzazione della narrazione e, dunque, una scelta epistemologica e metodologica di fondo. Ciò è proprio quanto
avviene in questo volume, che assume il 1967 come la frattura nella storia del conflitto arabo-israeliano-palestinese e, aggiungiamo noi, nella costruzione del simbolico collettivo e politico europeo. Il conflitto del 1967 ridefinì effettivamente non solo la percezione europea dello Stato di Israele, ma anche le diverse politiche mediorientali, ponendo al centro di ogni analisi geopolitica, nonché delle relazioni tra gli attori regionali/internazionali, la categoria di
«confine». Nel più geografico tra i conflitti, gli a. fanno ruotare giustamente, ed in modo originale, l’intera discussione sullo snodo della «Terra» e delle frontiere. Con un limite generale,
però, nell’impostazione: lo sguardo dei diversi saggi si posa, con qualche distinguo, più sulle
contraddizioni e le (eventuali) responsabilità di Israele, lasciando sullo sfondo quelle arabopalestinesi. Il libro, comunque, ha il merito di marcare gli aspetti strutturali e geo-storici che
emergono, ed insistono tuttora, dallo spartiacque 1967.
Il saggio di Pamela Priori analizza con ricchezza ed originalità di fonti i rapporti tra CEE
e Israele e fa riferimento, in particolare, al documento Schumann (13 maggio 1971), solitamente trascurato dalla letteratura, che richiese il ritorno di Israele entro i confini del 1967.
Esso va considerato come l’atto iniziale della critica europea alla politica israeliana e, parallelamente, come l’avvio del «dialogo euro-arabo», fondato sulla Politica globale mediterranea.
Mentre Benoîte Challand riflette su «come la Guerra dei Sei Giorni abbia rappresentato il
punto di partenza di una ridefinizione dei confini sociali e del potere politico nei Territori occupati Palestinesi fino al marzo 2007», l’argomentato saggio di Marcella Simoni sull’attivismo
congiunto israelo-palestinese ha il merito di riportare l’attenzione sul tema dell’associazionismo, generalmente escluso dalla narrative nazionali israeliane e palestinesi e che costituisce un
motivo di riflessione anche storiografico.
Il saggio conclusivo di Arturo Marzano si occupa dei confini di Gerusalemme, sui quali
si sono bloccati tutti i tentativi di pace dal 1993 ad oggi. La Guerra dei sei giorni determinò
anche la cosiddetta «riunificazione di Gerusalemme» e il passaggio da un confine netto «a una
situazione in cui quartieri israeliani e palestinesi si intrecciano e si mescolano, sebbene continui a esistere tra di essi una netta separazione» (p. 90). La barriera di separazione a partire dal
2003, secondo l’a., ha marcato ancor più la scelta del 1967. Analizzando nel dettaglio i sei
confini della Città Santa (municipale, giuridico, etnico-demografico, funzionale, psicologico
e fisico), Marzano sostiene che proprio la mancanza di unità di Gerusalemme rappresenta la
base per una soluzione negoziale del conflitto israelo-palestinese (p. 91).
Giovanni Codovini
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I LIBRI DEL 2007
Alessandro Marzo Magno (a cura di), Rapidi e invisibili. Storie di sommergibili, Milano,
il Saggiatore, 253 pp., € 17,00
In libreria la storia militare ha sempre venduto, vende, può vendere: anche in Italia, oltre
a quella per la formazione professionale degli ufficiali e per lo svago di un pubblico assai vario fatto di appassionati e di nostalgici, la novità degli ultimi decenni è stata rappresentata da
una qualificata produzione accademica. Questa premessa generale sulla tripartizione di base
della ricerca storico-militare (professionale, ricreativa, accademica) è necessaria per comprendere questo volume che va salutato con interesse, pur risultando di difficile inquadramento.
Il volume ospita otto pezzi brevi su episodi diversi ma tutti relativi alla storia della produzione e dell’utilizzo dei sommergibili in Italia. Tra questi sono state scelte vicende curiose e
«irregolari», più o meno note, del 1914 (una dimostrazione interventista), 1919 (Fiume),
1936-39 (guerra clandestina contro l’URSS e la Spagna repubblicana), 1943-45 (un progettato attacco a New York non realizzato da parte della X Mas, lo Scirè, i sommergibili italiani
in Estremo Oriente dal punto di vista di chi dopo l’8 settembre rimase a combattere col Giappone). Gli aa. (salvo Marco Cuzzi) non sono storici militari né storici professionali: Marzo
Magno è stato giornalista di «Diario» (aveva edito nel 2001, per la stessa casa editrice, un fortunato volume sulle crisi jugoslave: La guerra dei dieci anni), Spirito scrive su «Il piccolo» ecc.
I contributi in genere non si fondano su ricerche d’archivio ma su spigolature e riletture di testi editi. Il taglio dei pezzi è discorsivo: in quello firmato da Graziano Tonelli, l’a. con maggiore esperienza sul tema, troviamo parole rivelatrici come «vicenda», «narrare», «appassionante», «microcosmo».
Perché allora, ci si potrebbe chiedere, segnalare in questa sede il volume? Non tanto per ragioni di novità scientifiche, espressamente escluse dagli aa.; né per organicità dell’impresa, ché
il lettore chiudendo il libro non sa quasi niente della quantità, dell’armamento, del costo, del
ruolo strategico, dell’utilità, della vita quotidiana, dei miti ecc. dei sommergibili italiani nei decenni qui presi in esame (per questo sono ancora necessari i volumi tecnici dell’Ufficio storico
della Marina militare, quelli di storia economica di A. Casali o M. Cattaruzza, quelli divulgativi di G. Giorgerini, E. Cernuschi, E. Cernigoi, E. Bagnasco, G. Galuppini: per ciò che manca in termini di storia politica e militare – ed è molto – si attendono storici dedicati).
Il volume si segnala a nostro avviso per due motivi. Il primo consiste nel tentativo degli
aa., come avverte il sottotitolo, di scrivere storie, narrare episodi e personaggi, con stile piano
e cercando un pubblico più largo di quello degli specialisti. Il secondo e più importante invece è relativo alla sua sede editoriale: che un importante editore pubblichi volumi con queste
caratteristiche, appunto alla ricerca di un pubblico più largo, è un segno dei tempi.
Nicola Labanca
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I LIBRI DEL 2007
Luigi Masella, Laterza dopo Croce, Roma-Bari, Laterza, 150 pp., € 18,00
Per la collana «Percorsi», Luigi Masella ha scritto un libro breve ma ricco di interesse sugli orientamenti e il destino della casa Laterza tra la caduta del fascismo e la fine degli anni
’50. Un periodo cruciale per tutta l’editoria italiana, chiamata a rispondere alle sfide poste dalla costruzione della nuova Italia repubblicana, ma che per Laterza significò anche trovare una
nuova identità «dopo Croce», dove il «dopo» si può ben leggere come «oltre» quel Croce, che,
fin dal sodalizio del 1901 con Giovanni Laterza, aveva costituito l’anima della casa editrice
barese. E con la morte di Giovanni nel 1943, questo compito fu affidato ai giovani cugini
Franco e Vito, i quali perseguirono una politica di «rinnovamento nella continuità» (p. 109),
cercando anzitutto di raccogliere l’eredità crociana della religione della libertà, alla quale erano cresciuti, senza lasciarla cristallizzare, come invece andava facendo il senatore Croce, in una
visione politica di stampo conservatore (se non reazionario) poco permeabile alle diverse articolazioni della società post-bellica.
La nuova collana «Libri del tempo», di cui fanno parte Dieci anni dopo e I sindacati in Italia, è l’espressione manifesta della volontà di adeguarsi a un mondo in mutamento e di allestire gli strumenti analitici per comprenderlo. Ed è altresì significativo l’inserimento nella «Biblioteca di cultura moderna» di una serie dedicata al teatro e al cinema. Ma forse è proprio
nelle «vecchie» collane che si percepisce il tramonto dell’egemonia crociana (e il dato anagrafico della morte di Benedetto Croce non è il più significativo in questo senso): negli «Scrittori d’Italia», diretti fin dal 1937 da Luigi Russo (visto, anche nei suoi contrasti personali con
Croce, come il «traghettatore» della Laterza al dopo-Croce); nella «Collezione storica», affidata nel 1954 ad Armando Saitta che vi pubblicherà la sua Antologia di critica storica, in cui ribadisce la necessità di superare la storiografia etico-politica e aprirsi a un nuova storia sociale
(marxista e non), e che ospiterà la Storia d’Italia di Denis Mack Smith in ideale opposizione
alla Storia d’Italia di Croce; nella «Biblioteca di cultura moderna», diretta dal 1955 da Eugenio Garin, maestro di Vito Laterza a Firenze, che perfettamente interpreta il ruolo che è chiamato a impersonare in casa editrice: «La democrazia ha invaso il ruolo della cultura e oggi non
ci sono guide e capi sovrani quali fu il Croce» (p. 116). Le sue Cronache di filosofia italiana,
con la loro impostazione programmaticamente antiunitaria fanno pendant con l’Antologia di
critica storica e segnano la svolta. Sottolinea Masella che questo processo di «modernizzazione» fu diretto saldamente da Franco e Vito Laterza, che seppero coniugare le esigenze di un’impresa commerciale (aprirsi al mercato della cultura di massa, alla scuola e all’università, affrontare la concorrenza) con quelle di uomini di cultura chiamati a individuare le strade del rinnovamento civile dell’Italia senza pregiudizi ideologici e politici. In questo furono veri editori, come si può constatare leggendo soprattutto le note, che riportano ampi stralci della corrispondenza di Vito e Franco Laterza con gli autori e i curatori delle collane.
Luisa Azzolini
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I LIBRI DEL 2007
Marie-Anne Matard-Bonucci, L’Italie fasciste et la persécution des juifs, Paris, Perrin, 599
pp., € 24,50
È la prima volta che uno studioso francese pubblica un denso volume sulla storia della
persecuzione antiebraica dell’Italia fascista. Speriamo che l’esempio venga seguito.
Il libro è strutturato in varie parti; le principali sono intitolate «La genesi della decisione», «L’antisemitismo di Stato» e «La persecuzione nelle sue varie fasi». Quest’ultima contiene anche il capitolo concernente il periodo dell’occupazione tedesca e della RSI nei mesi del
1943-1945; esso impegna appena 29 pagine: a mio parere troppo poche, a fronte delle 400
precedenti dedicate alle premesse, al contesto e al quinquennio 1938-1943. Molti titoli di capitolo contengono un punto interrogativo e in generale la narrazione si pone spesso in modo
aperto e problematico. Matard-Bonucci esplicita di avere per scopo non tanto quello di ripercorrere la storia completa degli avvenimenti, quanto quello di «interrogarsi sulla natura e sulla funzione dell’antisemitismo di Stato in un regime totalitario» (p. 10). A suo parere, la decisione fascista di perseguitare la generalità degli ebrei va datata al 1937 (pp. 121-23, 152-53),
ebbe il carattere di «rottura» (p. 10), fu determinata essenzialmente da motivi e necessità congiunturali e strutturali concernenti la politica interna e specialmente la «vitalità» del fascismo
stesso (pp. 10-11, 139, 150-51). L’a. sostiene che la nuova politica del regime mirava a «mobilisér les élites» e non «les masses» (p. 11).
Di là dal consenso o dal dissenso su determinati punti (ad esempio, non concordo sulla
datazione della svolta), pare più importante evidenziare che Matard-Bonucci introduce riflessioni e (ri)costruzioni talora del tutto nuove per il molto asfittico dibattito nostrale su 1938/fascismo/antisemitismo. Ad esempio, occorre riconoscere che la sua considerazione sulle élites
e sulle masse, pur se ancora da vagliare con attenzione, risolve il quesito di molti di noi sul
perché la propaganda antisemita sui giornali, una volta varate le leggi, abbia cessato di essere
«massiva», e sul perché cinegiornali, film, manifesti e trasmissioni radio siano stati utilizzati
da Roma meno che da altre capitali europee antisemite.
I numerosi paragoni con la vicenda francese sono utili e interessanti. Riguardo allo sterminio, il libro mette in luce un dato assai rilevante: gli ebrei «nazionali» (ossia cittadini dello
Stato) furono vittima della deportazione molto più in Italia (quasi due terzi del totale) che in
Francia (un terzo); ciò per via delle differenze esistenti tra gli antisemiti e gli antisemitismi
«nazionali» (p. 423). Dispiace invece che il dato numerico degli ebrei uccisi nella penisola o
in deportazione (p. 432) non tenga conto della segnalazione di Liliana Picciotto di quasi un
migliaio di vittime «non identificate».
Le fonti archivistiche dichiarate sono estese e variegate. Anche la memorialistica consultata è abbondante.
Michele Sarfatti
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I LIBRI DEL 2007
Anna Matellicani, La «Sapienza» di Maria Montessori. Dagli studi universitari alla docenza 1890-1919, Presentazioni di Nicola Siciliani de Cumis, Furio Pesci e Marco Antonio D’Arcangeli, Postfazione di Giacomo Cives, Roma, Aracne, 357 pp., € 19,00
Si tratta della pubblicazione di una tesi di laurea in Filosofia (2001), insignita dall’Opera Nazionale Montessori del premio «Maria Jervolino». L’a. ripercorre le tappe della formazione di Maria Montessori: il percorso educativo e scolastico dall’infanzia al diploma tecnico
(1890); l’accesso alla facoltà di Scienze naturali e il passaggio a quella di Medicina, dove ottiene la laurea nel 1896; la libera docenza in Antropologia (ottenuta faticosamente nel 1904);
l’insegnamento di Igiene e antropologia presso l’Istituto di Magistero femminile di Roma tenuto sino al 1918. Nella parte finale del volume l’a. si sofferma sul «periodo maturo» della
Montessori: quello dell’elaborazione del metodo e dell’impegno nella campagna di sensibilizzazione verso i bisogni delle categorie sociali più deboli.
Le tre presentazioni che precedono l’Avvertenza e l’Introduzione, e la Postfazione sottolineano il carattere «attento e scrupoloso» (Pesci, p. 19) del lavoro svolto da Matellicani; la ricerca «attenta e meticolosa» (D’Arcangeli, p. 21) e «l’analisi estremamente accurata» (Cives,
p. 355), che hanno condotto l’a. a dare alle stampe un «informatissimo contributo» (Siciliani
de Cumis, p. 11). Da parte sua, l’a. dichiara di essersi mossa a partire «dal desiderio di arricchire una biografia già ampiamente esistente, per rafforzarla nella sua validità storica e scientifica» (p. 38).
L’intelaiatura del libro, infatti, è costituita dalla solida e nota bibliografia su Montessori,
sulla quale l’a. pone la documentazione che ha attinto soprattutto dall’Archivio generale studenti dell’Università «La Sapienza»; documenti, dice Matellicani, utili a individuare «nuovi
elementi per una proficua e futura discussione» (p. 43), che però sfuggono al lettore.
L’a., dunque, non sembra interessata a interrogare le fonti che offre, tanto meno lo è alla
ormai cospicua bibliografia sul rapporto tra donne e scienza, che indubbiamente le sarebbe
stata di aiuto.
Metà volume è composto da una corposa appendice nella quale si ricostruisce il percorso accademico della Montessori: i corsi frequentati e gli esami sostenuti, nonché la composizione della commissione d’esame, e le domande poste alla candidata sulla base delle quali l’a.
tenta la singolare operazione di individuare i testi utilizzati per la preparazione dell’esame e ne
trae occasione per fornire la lista delle pubblicazioni dei docenti, e la votazione finale; le biografie dei docenti dei corsi seguiti da Montessori; gli scritti giovanili di Montessori redatti dal
1896, anno della tesi di laurea, al 1907; segue la riproduzione dei documenti relativi ai titoli
scolastici e accademici; in ultimo una bibliografia degli scritti di Montessori e della letteratura di riferimento generale utilizzata.
Teresa Bertilotti
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I LIBRI DEL 2007
Paolo Mattera, Le radici del riformismo sindacale. Società di massa e proletariato alle origini della CGdL (1901-1914), Roma, Ediesse, 218 pp., € 12,00
Il libro di Mattera può a buon titolo essere inserito fra quei lavori che stanno dando nuova
linfa a una disciplina, la storia del sindacato, che è sembrata a lungo essere incanalata in percorsi troppo rigidi e che, per questo, aveva conosciuto un lungo ristagno. Esso, per usare le parole
dello stesso a., «si propone di offrire una rilettura del sindacalismo riformista e della CGdL secondo un preciso asse interpretativo: all’origine di scelte sovente discusse v’era una stretta interazione tra contesto ambientale, retroterra culturale, esigenze organizzative e opzioni ideologiche. Ed è questa interazione che si è cercato di cogliere e mettere in evidenza, per collocare l’esperienza del sindacalismo riformista all’interno di un’articolata rete di relazioni» (p. 20).
Va subito detto che il libro coglie il suo obiettivo: efficaci sono le pagine in cui descrive
il complesso contesto ambientale in cui si forma il gruppo riformista, mettendo a frutto le numerose ricerche di storia locale con l’efficace contrappunto delle relazioni prefettizie. Altrettanto interessante è l’analisi del milieu culturale dei riformisti, di matrice industrialista, che li
spinge ad immaginare un sindacato organizzato come un’impresa e basato su criteri di efficienza, con una politica modulata sui ritmi razionali e tecnici dell’economia: una «utopia razionalistica» (come l’ha definita Berta) che si scontrava con un paese in gran parte ancora preindustriale. Inoltre, contaminando la «storia soggettiva» del sindacato con alcune categorie interpretative della sociologia dell’organizzazione e dei partiti, Mattera propone una parziale –
e convincente – revisione del giudizio tradizionale sulla dirigenza riformista della CGdL, spesso considerata «burocratica e autoritaria, pronta con il proprio verticismo a contenere le spinte provenienti dal proletariato» (p. 132): questo atteggiamento, sostiene l’a., dovrebbe essere
considerato più un segnale di debolezza che una dimostrazione di forza poiché le scelte della
dirigenza furono il risultato di una serie di tensioni contrapposte in cui la sua cultura industrialista si scontrava sia con il panorama eterogeneo del proletariato italiano che con la capacità di mobilitazione del sindacalismo rivoluzionario, mentre la fragilità dell’organizzazione
centrale scontava la diffidenza di molte strutture territoriali.
Pur con questi pregi, tuttavia, in certi passaggi il libro pare scontare una eccessiva aderenza a una chiave di lettura attualizzante della vicenda che vi viene ricostruita. È pur vero che,
come sostiene l’a. sulla scorta di un’osservazione di Musso, la complessità del mondo del lavoro di inizio secolo rivela delle somiglianze con quello attuale, così come le sfide con cui si
deve confrontare il sindacato; e tuttavia l’affermazione che «il lascito più duraturo della
CGdL» fu «l’avvio di un processo riformatore, per porre l’Italia sulla strada di un progresso
graduale verso la modernità industriale, in armonia con le esigenze delle classi subalterne» (p.
212) lascia perplessi perché quel processo non si svolse, per la maggior parte del tempo, lungo queste coordinate.
Andrea Sangiovanni
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I LIBRI DEL 2007
Alberto Melloni (a cura di), Giuseppe Dossetti: la fede e la storia. Studi nel decennale della
morte, Bologna, il Mulino, 415 pp., € 29,00
I dieci anni dalla scomparsa di don Giuseppe Dossetti offrono l’occasione per mettere insieme diversi contributi maturati nel corso di un cammino di riflessioni e ricerche. Il curatore evidenzia nella Premessa il carattere di volume a più voci, di itinerario in fieri. Una tripartizione dei contributi: nodi, tappe e frammenti. Molti gli spunti che si potrebbero richiamare in una lettura di pagine dense, ricche di ricerca e documentazione, sul filo di una ricostruzione mai banale o scontata. I temi prevalenti mi sembrano attraversare le diverse componenti del volume e sono ben richiamati da Alberto Melloni nelle sue Conclusioni. In primo luogo, una risposta – alta e seria – alle tante strumentalizzazioni o campagne che hanno tentato
di ridimensionare o modificare la riflessione e la stessa figura di Dossetti. In secondo luogo,
l’impossibilità di costruire una gerarchia tra i tanti Dossetti che si incontrano nel volume. La
sua personalità rimane complessa e composita: la storia, il diritto, il cammino di fede, la sua
spiritualità intensa non sono utilizzabili per letture parziali o dettate dall’urgenza del momento. Molto è ancora da ricostruire, da studiare con fonti di disponibilità anche recente e con
nuovi interrogativi figli del tempo e delle sue sfide. Non mancano in tal senso nelle oltre 400
pagine piacevoli sorprese. Un insieme di relazioni e di problemi, uno sguardo su Dossetti che
è anche un’occasione per tornare su una serie di argomenti che hanno accompagnato la sua
esperienza di studioso, intellettuale, cristiano nel suo tempo. L’eterogeneità dei contributi ha
il pregio di aprire diverse possibili piste interpretative e vari ambiti che sarebbe complicato
riassumere in poche battute.
L’elemento più ricorrente e significativo può essere ritrovato nella difesa del Concilio Vaticano II. Più che una mossa esplicita o manifesta appare come un modo di essere e di guardare alla Chiesa e al mondo contemporaneo; una tensione continua e feconda. Il Concilio rimane un passaggio chiave, una svolta che non ha ancora sviluppato tutte le sue potenzialità e risorse. Vale la pena di ricordare le parole con le quali Giuseppe Alberigo, in una relazione che
cade poco prima della sua scomparsa, richiama il nesso tra Dossetti e il Vaticano II: «Sono stato sempre favorevole al concilio, ho sempre aspirato a che la chiesa si riunisse in un concilio
universale, come oggi può fare la chiesa, non limitato ad alcuni paesi d’Europa. E ho sempre
considerato che in questo atto ecclesiale ci sia il massimo di grazia» (p. 47). Un insieme eterogeneo di studi e riflessioni, un buon antidoto contro quella «erosione omologante della figura
di Dossetti: una figura ancora indigesta e rimossa, cancellata – in vari ambienti politici ed ecclesiali; ma soprattutto esposta al rischio d’essere ridotto […] in un santino piatto ed exculturato, facile da ricordare e da dimenticare nel frullatore d’una devozione insipida» (p. 383).
Umberto Gentiloni Silveri
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Piero Melograni, Toscanini. La vita, le passioni, la musica, Milano, Mondadori, 251 pp.,
€ 18,00
Del direttore d’orchestra forse più «raccontato» in assoluto questa è una biografia esauriente e minuziosa sia sul versante pubblico che su quello privato, che si vale anche di documenti inediti e di una già provata competenza dell’a. nel campo musicale (WAM. La vita e il
tempo di Wolfgang Amadeus Mozart, Roma-Bari, Laterza, 2003). Si tratta dunque di un lavoro rigoroso ma nello stesso tempo rivolto a un pubblico largo, del quale si ipotizza uno spiccato interesse per il personaggio e una approssimativa conoscenza del contesto, cui si rimanda con riferimenti costanti di carattere generale.
Tuttavia per longevità e per spessore la figura di Toscanini, anche in base a quanto ne racconta Melograni, presenta un particolare interesse sia in rapporto alla storia della cultura musicale, che alla storia tout court. Il maestro imponendo la fedeltà al testo e disciplinando cantanti e pubblico sancisce il rigore dell’esecuzione, ma crea nello stesso tempo la figura del direttore star, dispotico e capriccioso. La sua più incisiva azione di rinnovamento si colloca a cavallo fra i due secoli, ma la fama maggiore è tutta novecentesca, soprattutto dagli anni ’30 in
poi, e in crescita esponenziale negli ultimi vent’anni di vita. Contrario allo sperimentalismo
musicale, e di gusto sostanzialmente conservatore, è però un cultore entusiasta delle novità
tecniche: radio, dischi, televisione. Svolge in sostanza due ruoli diversi, nel primo e nel secondo ’900, che ne fanno un tramite straordinario, e contraddittorio, fra modi di intendere e fruire la musica colta assai lontani l’uno dall’altro.
Sul piano storico generale poi, dalla Grande guerra alla nascita del fascismo, dall’impegno contro i totalitarismi al disorientamento postbellico, Toscanini si presenta come un soggetto decisamente impolitico, i cui unici punti fermi sono l’amor di patria e la difesa energica della libertà, di tutti e del lavoro artistico in primo luogo, da ogni vincolo. Tuttavia, in forza dei tempi e di un carattere a dir poco impulsivo, figurerà come un anomalo intellettuale
engagé, indipendente di prestigio di volta in volta per Mussolini nel 1919, per Salvemini negli USA, e infine per la neonata Repubblica italiana. Di origini modeste, rigoroso e instancabile nel lavoro ma al tempo stesso geniale e imprevedibile, trasgressivo nel privato ma insieme
di un moralismo ottocentesco, politicamente indefinibile ma chiaramente inattaccabile sia dal
denaro che dal potere, Toscanini finisce con l’essere, nella seconda parte della sua vita, il perfetto testimonial, negli USA prima e alla fine anche in patria, di una italianità positiva che attraversa senza bruciarsi le terribili prove del fuoco della prima metà del secolo, un personaggio politicamente assai appetibile ma nello stesso tempo, per la sua intrinseca impoliticità, opportunamente al di sopra delle parti.
Spunti storicamente interessanti, questi ed altri, che la biografia offre alla riflessione del
lettore, pur senza tematizzarli in maniera esplicita.
Giuseppe Civile
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I LIBRI DEL 2007
Tito Menzani, La cooperazione in Emilia-Romagna. Dalla Resistenza alla svolta degli anni
settanta, Bologna, il Mulino, 443 pp., € 32,00
Il filone degli studi sulla cooperazione da anni si è rivelato molto proficuo e di grande
spessore. Questo contributo si inquadra perfettamente in questa tradizione; non a caso, appare nella collana «Storia e studi cooperativi» promossa dal Centro italiano di documentazione
sulla cooperazione e l’economia sociale di Bologna, che già allinea studi di autori come Zamagni, Battilani, Casali e vari altri.
L’ambizione del lavoro è quella di una visione a tutto tondo del movimento cooperativo
in Emilia-Romagna, nel quale confluiscono diversi settori di attività, in un arco temporale che
spazia dalla ricostruzione post-bellica agli anni ’70. E per far questo l’a. fonde la ricca storiografia esistente con una ricerca originale, basata soprattutto sui documenti di una quarantina
di cooperative (soprattutto agricole ed edili), in gran parte inediti.
Il lavoro si apre con un’ampia ricostruzione delle caratteristiche del «modello emiliano», percepito come esempio ideale di crescita equilibrata, basata su piccole e medie imprese competitive, su servizi efficienti e un’attenzione al territorio quasi unica nel panorama italiano. Su questa
costruzione, si innesta – anzi, ne è parte integrante – la storia delle cooperative che, però, vista
nel dettaglio, appare assai complessa e stratificata. Osserviamo qui le originali notazioni sulla
«costruzione» di un ruolo fondamentale delle cooperative nel movimento resistenziale (pp. 6770); la dialettica che si instaura tra centro e periferia (cioè tra l’impostazione delle associazioni
nazionali e la realtà regionale); il problematico rapporto tra cooperazione «rossa», «bianca» (quest’ultima quasi inesistente nel dopoguerra in Emilia-Romagna, ma in via di organizzazione) e
«riformista»; nonché – altro nodo poco dibattuto – l’azione del governo centrale e delle amministrazioni locali per ostacolare o favorire, secondo l’ispirazione politica, lo sviluppo delle cooperative (pp. 93-99). Gli anni ’60 e ’70 determinano una svolta significativa, che sostanzialmente consiste in due elementi: «il disancoramento dall’ideologia, e la ricerca di pacificazione dell’ambiente circostante, istituzionale e non» (p. 437). Vediamo così realizzarsi un superamento
della dimensione locale e dell’identità iniziale, che prende forme diverse: nel settore agricolo ci
si muove verso grandi consorzi, che assumono un carattere decisamente industriale e divengono talvolta leader del settore agroindustriale; nel settore edile, la spinta viene dalla realizzazione
di opere fuori dal territorio (quartieri popolari a Milano e Torino, opere nel Meridione – interessante l’osservazione sulla sottovalutazione del fenomeno mafioso, pp. 328-330), e così via.
Questo studio si presenta dunque come un ottimo contributo storiografico: non solo per
l’approfondito esame di fonti primarie, riguardanti settori ancora poco esplorati (ad esempio
quello edile), e per il puntale riferimento agli studi esistenti, ma perché l’a. mostra una notevole maturità di giudizio e una finezza di analisi che gli permettono di padroneggiare l’ampia
ricerca, fornendo un risultato molto convincente.
Emanuela Scarpellini
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27-08-2008
16:48
Pagina 400
I LIBRI DEL 2007
Catherine Merridale, I soldati di Stalin. Vita e morte nell’Armata Rossa, 1939-1945, Milano, Mondadori, 432 pp., € 20,00 (ed. or. London, 2005)
Per tre generazioni di russi, la guerra di liberazione anti-tedesca (1941-1945) è stato l’evento nazionale più importante dello scorso secolo, una matrice identitaria e l’unico contributo veramente indiscutibile da essi dato al progresso umano nel periodo comunista. Su questo dato psicologico ha speculato la tradizione ufficiale sovietica, formatasi sotto Stalin, rilanciata sotto Brežnev e, nella Russia attuale, da Putin. Essa ha ipostatizzato la guerra e la vittoria in un simbolo eterno di trionfo e di eroismo, di indicibili sofferenze per i soldati e per la
popolazione, patite per mano dell’invasore, di indissolubile legame tra i soldati e i civili protagonisti di quella vicenda e la gloria della Patria e dello Stato russi: un esempio estremo di
uso pubblico della storia, dove la dimensione esistenziale era annullata nell’epopea collettiva.
La tradizione ufficiale continua a nascondere intenzionalmente la natura reale di gran parte
di quelle sofferenze e di quell’eroismo e delle circostanze nelle quali ebbero luogo. Della «grande guerra patriottica» essa ha dato una versione edulcorata, politicamente corretta sui canoni
del «patriottismo socialista», sacralizzata dalla stessa spaventosa quantità dei sacrifici umani richiesti. Da essa era cancellata la sconcertante e, talvolta, non edificante quantità dei modi in
cui i soldati sovietici cercarono di sopravvivere e di vincere, e con essi le famiglie rimaste nelle retrovie; nonché la scarsa considerazione in cui il regime tenne i costi umani da pagare per
la resistenza e la vittoria sul nemico. Al procedere dello scavo di Merridale nella memorialistica, nei rapporti di intelligence sovietici e tedeschi, nella corrispondenza dei soldati, conservata negli archivi militari ex sovietici, la luce abbagliante dell’irrealistico affresco celebrativo ufficiale viene man mano offuscata dalle ombre che prendono a diffondersi a partire da punti
neri, a prima vista quasi invisibili sullo sfondo. Sono, in parte, le grandi ombre proprie dell’esperienza umana in ogni guerra ma ingrandite e ispessite dalla spaventosa dimensione di quel
particolare conflitto. Ombre si levano anche dalle particolari condizioni politiche, sociali e
propriamente militari create dal regime stalinista e dal contrasto tra l’ethos, l’ideologia e la
propaganda ufficiali e la reale esperienza che gli uomini e le donne russi fecero allora della vita, della morte e dei rapporti interpersonali, in un lungo periodo di acuta emergenza e di stress.
Dopo la lettura, la vicenda della formazione dei requisiti materiali e morali della vittoria dell’URSS appare ancora grandiosa ma anche singolarmente amara e, soprattutto, sconcertante.
Alla domanda del perché l’esercito russo all’inizio cedette dinanzi a Napoleone, e poi decise
di resistere, alla fine di Guerra e pace Tolstoj rispose, come è noto, accennando ai disegni imperscrutabili della Provvidenza. La risposta di Merridale è più sfaccettata e inquietante. Un libro notevole, scritto da una storica di grande sensibilità, «simpatia» e finezza di espressione.
Francesco Benvenuti
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I LIBRI DEL 2007
Adam Michnik, Il pogrom, Postfazione di Francesco Cataluccio, Torino, Bollati Boringhieri, 75 pp., € 7,00
Il 14 luglio 1946 una folla inferocita attaccò i sopravvissuti ebrei della cittadina polacca di
Kielce, vicino a Cracovia, uccidendone quarantadue e ferendone un centinaio. Questo saggio di
Michnik, storico di professione, dissidente di punta negli anni ’80 e redattore del quotidiano
«Gazeta Wyborcza», non è la ricostruzione degli eventi, affidata alla postfazione di Francesco Cataluccio. All’a. interessa confrontare le posizioni assunte, rispettivamente, dal vescovo di Kielce,
monsignor Czestaw Kaczmarek, e dal vescovo di Cze˛stochowa, Teodor Kubina. Nel rapporto
preparato da Kaczmarek e consegnato ad Athur Bliss-Lane, ambasciatore americano a Varsavia,
il pogrom di Kielce è interpretato come una risposta alla collaborazione degli ebrei con il regime
comunista, come effetto della credenza che gli ebrei compissero omicidi rituali su bambini non
ebrei e della convinzione che agli ebrei in Polonia «fosse permesso tutto, che potessero passarla
liscia». Contro questo documento, infarcito di stereotipi antisemiti, si levò la voce unica, e per
questo ancora più significativa, del vescovo Kubina che, nel suo appello alle comunità di Kielce
e di Cze˛stochowa, espresse compassione per le vittime, «cittadini polacchi di nazionalità ebraica», e orrore per un assassinio che calpestava la dignità umana e violava il comandamento che
ordina di «non uccidere». L’appello del vescovo Kubina, scrive giustamente Michnik, è una delle più belle testimonianze della Chiesa cattolica in Polonia, una condanna del crimine senza se
e senza ma. Eppure... Il testo si articola attraverso una serie di «eppure», con i quali l’a. introduce argomenti che mettono in dubbio quanto prima affermato e razionalizzano e giustificano il
comportamento delle gerarchie della Chiesa. Uno di questi è che i vescovi non potevano condannare ufficialmente l’antisemitismo, perché ciò li avrebbe resi complici di un regime, quello
comunista, che di quella accusa si serviva per screditare la resistenza anticomunista. Anche gli
ebrei, continua Michnik, ebbero la loro responsabilità: il rabbino Kahan, ad esempio, che pure
conosceva la realtà polacca, avrebbe dovuto fare appello alla comunità ebraica perché evitasse di
collaborare con i comunisti. Perché è vero, conclude l’a., che, seppure non tutti, molti ebrei compirono, in nome del comunismo, «ribalderie e crimini». Gli stessi crimini furono compiuti dai
comunisti polacchi, senza che ciò desse luogo a uno stereotipo paragonabile a quello del «giudeo-comunismo», né tanto meno a pogrom. Il testo di Michnik è importante perché riconosce e
svela in che modo la gerarchia cattolica polacca utilizzava nei suoi discorsi stilemi antisemiti. «Eppure» l’a. non riesce a liberarsi di una forma mentis che nel voler pesare i pro e i contro finisce
per riconfermare le posizioni giustificazioniste così diffuse in Polonia. Molto più efficace sarebbe una ricostruzione che, inserendo il pogrom nel contesto storico, si interrogasse sul perché, nell’atmosfera di generale violenza contro gli ebrei scoppiarono solo due pogrom e proprio a Kielce
e Cracovia, due città della Galizia orientale che, sotto l’occupazione nazista, furono soggette a
un regime meno brutale di quello di altre regioni e nelle quali la collaborazione fu più estesa.
Carla Tonini
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I LIBRI DEL 2007
Enrico Miletto, Istria allo specchio. Storia e voci di una terra di confine, Milano, FrancoAngeli, 292 pp., € 24,00
Dopo il primo libro, Con il mare negli occhi. Storie, luoghi e memorie dell’esodo istriano a
Torino (Milano, FrancoAngeli, 2005), Enrico Miletto torna ad affrontare il tema dell’esodo
istriano aggiungendo ulteriori elementi alla articolata e complessa vicenda del confine orientale. Il risultato è un lavoro maturo e soddisfacente, capace di offrire una panoramica complessiva della storia della penisola istriana nell’arco cronologico più ampio, che risale al primo
dopoguerra e all’affermarsi del fascismo di frontiera. La sua analisi parte dalle politiche di snazionalizzazione ed italianizzazione inflitte alla popolazione slovena e croata dal fascismo, ma
si sofferma anche sulle testimonianze degli italiani residenti nella Venezia Giulia che mettono
in luce l’esistenza di un forte razzismo antislavo che separa la popolazione italiana da quella
slava in «due mondi diversi, chiusi e separati l’uno dall’altro» (p. 31), di cui uno, quello italiano, è visto come «colto ed evoluto, portatore di una manifesta superiorità», mentre quello
slavo appare «rozzo, povero, rurale e, quasi fosse senz’anima, inferiore all’altro» (p. 32). Gli
anni di guerra, l’ondata di violenze sugli italiani dopo l’8 settembre del 1943, la feroce repressione tedesca e la creazione dell’Adriatisches Küstenland, i bombardamenti degli Alleati, sono
gli elementi che, nell’analisi di Miletto, inaspriscono ulteriormente i legami tra le due popolazioni, quella italiana e quella slava, nell’area giuliana. E poi la tanto attesa fine della guerra
e la liberazione, portata però non dai «gucciniani eroi giovani e belli» (p. 101), ma dai partigiani titini giudicati con disprezzo dagli italiani «brutti, sporchi e rozzi» (pp. 119-121), capaci solamente di ballare il kolo, danza tradizionale jugoslava. Il passo successivo è rappresentato dalla dificile scelta che irrompe nella vita degli italiani: rimanere nella nuova Jugoslavia socialista o prendere la via dell’esodo? Miletto racchiude il quadro intrecciando e confrontando
i due percorsi esistenziali, ma anche le due memorie, di coloro che partono e coloro che rimangono. Il difficile inserimento nelle città italiane, spesso caratterizzato da dinamiche di
esclusione e pregiudizio, la vita nei campi profughi, condizioni economiche precarie, sono solo alcuni degli elementi che descrivono l’Italia «matrigna» (p. 214) che accoglie gli esuli, ma
è incapace di comprendere a fondo la loro esperienza traumatica. Il libro si conclude con un’ode al cibo, visto come cultura trasnazionale e linguaggio privilegiato, simbolo di identità e di
nostalgia dei luoghi abbandonati, ma anche una finestra di apertura, di avvicinamento e di
scambio con il «mondo» jugoslavo. Nonostante l’analisi si concentri esclusivamente sul punto di vista italiano (e degli italiani), il libro appare convincente e ben strutturato, documentato sui fondi di alcune strutture comunali e provinciali che gestirono l’assistenza profughi e
soprattutto su una mole molto consistente di testimonianze che offrono al lettore una visione ricca ed articolata della complessa vicenda del confine orientale.
Mila Orlić
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I LIBRI DEL 2007
Nerina Milletti, Luisa Passerini (a cura di), Fuori della norma. Storie lesbiche nell’Italia della prima metà del Novecento, Torino, Rosenberg & Sellier, 241 pp., € 22,00
Fuori della norma è un libro che nasce da una forte e proficua interazione fra soggetto e
oggetto della ricerca, ovvero dalla passione e dalla partecipazione a un movimento di persone
e idee che «produce innovazioni che si ripercuotono anche sul metodo» (p. 9) come scrive Luisa Passerini nella Presentazione. Ciò è tanto più vero quando, come in questo caso, l’oggetto
della ricerca è particolarmente difficile e sfuggente, infatti ancora più che per l’omosessualità
maschile, la politica repressiva prima e durante il periodo fascista prese la forma della negazione, della mancata rappresentazione, oppure, «caratteristica specifica della repressione del
lesbismo», della riduzione all’irrilevanza e all’inconsistenza (p. 22). Di qui anche la difficoltà
da parte delle aa. a trovare testimoni disposte a raccontare la propria storia, per il disagio connesso al ricordo di un periodo segnato da violenta misoginia e omofobia, ma anche per l’abitudine inveterata a profittare del silenzio e del sottinteso per costruirsi comunque una vita fuori della norma in un contesto difficile. Oltre all’analisi di testimonianze, raccolte con il metodo della storia orale (Romano, Biagini), nel libro viene presa in esame la rappresentazione delle lesbiche nella stampa popolare e nella letteratura scientifica (Schettini), nei fascicoli delle
confinate di polizia (Milletti), nella rivista «La difesa della razza»; solo un saggio riguarda il
periodo precedente il fascismo (Cenni su Cordula Poletti).
Nel loro insieme i saggi fanno emergere «una più sottile comprensione del fascismo e dei
suoi meccanismi di dominio» (p. 17). È convincente l’analisi di Nicoletta Poidimani a proposito de «La difesa della razza», secondo cui l’esistenza delle lesbiche, apparentemente censurata, era in realtà presente in forma fantasmatica nella figura del meticcio, individuo degenere
per mescolanza non solo di razza ma anche di sesso. Dalle testimonianze emerge invece una
situazione ambigua che vedeva da una parte la repressione sino al ridicolo dei comportamenti «devianti» femminili, dall’altra le possibilità inedite che paradossalmente offrivano le adunate e gli sport caldeggiati dal regime.
Tutte le testimonianze sono comunque concordi nel negare la presenza di una socialità
lesbica: non esistevano in Italia luoghi d’incontro per donne, diversamente da quanto avveniva per gli uomini. Nel complesso, a causa della forte repressione della sessualità e della socialità che colpiva tutto il sesso femminile, la vita condotta dalle lesbiche era assai più simile a
quella delle altre donne rispetto a quella degli omosessuali uomini, che potevano contare su
risorse economiche e libertà di movimento incomparabilmente maggiori. Per questo, se da
una parte la messa a fuoco dell’amore fra donne costituisce per la storia di genere in Italia il
riconoscimento di un importante debito, soprattutto teorico, allo stesso tempo la storia delle
lesbiche, che al momento appare costruita principalmente in riferimento agli omosessuali, si
avvantaggerebbe di un rapporto più stretto con la storia delle donne.
Emma Schiavon
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I LIBRI DEL 2007
Giuseppe Millozzi, Prigionieri alleati: cattura, detenzione e fuga nelle Marche 1941-1944,
Prefazione di Ruggero Ranieri, Perugia, Uguccione Ranieri di Sorbello Foundation, 140 pp.,
€ 20,00
Colmare la lacuna storiografica sulla prigionia dei militari alleati in Italia è l’obiettivo del
lavoro di Millozzi che cerca di inquadrare le vicende dei tre campi marchigiani (Servigliano,
Monte Urano e Sforzacosta) nel contesto nazionale utilizzando archivi italiani (Ufficio storico dello SME), stranieri (PRO di Londra), diari, memorialistica e interviste a testimoni. Il solco nel quale si inserisce la ricerca è quello tracciato da Roger Absalom con il volume pubblicato da Olschki, ormai nel 1991: A strange alliance: aspects of escape and survival in Italy 194344. L’a. attribuisce il vuoto negli studi solo a ragioni tecniche, come le difficoltà di reperimento delle fonti, e non collega la questione al nodo problematico della storia della guerra fascista e del fare i conti con essa nell’Italia repubblicana.
Il volume inizia con il quadro del fenomeno ricavato dai prospetti allegati ai Diari storici,
che restituiscono il movimento dei prigionieri secondo l’andamento delle campagne militari: il
picco si raggiunge dopo il giugno del 1942 (vittoria di Rommel a Tobruk) e Millozzi ne ricava
la considerazione che la responsabilità di gestire i prigionieri ricadde sugli italiani visto che «i tedeschi giudicavano gli Alleati inetti per la conduzione della guerra» (p. 10). Anche da questo
punto di vista si segnalerebbe il riconoscimento della fine della guerra parallela e dell’impreparazione generale visto che anche il problema della detenzione di eventuali prigionieri non era
stato adeguatamente studiato. Si devono così urgentemente approntare nuovi campi che si aggiungono ai 17 iniziali, eredità della Grande guerra. Nella primavera del 1943 i campi in totale sono 57 e concentrano quasi 80.000 militari alleati (di cui circa 5.600 ufficiali). Viene analizzata anche la visita in Germania (ottobre 1942) di una delegazione dello Stato Maggiore per
studiare l’organizzazione dei campi prigionieri (la relazione presente in AUSSME è già stata al
centro della tesi di Samuele Santoni citata da Millozzi), e sulla base di questo confronto l’a. assume il giudizio dell’Italia come «ventre molle» dell’Asse espresso da Churchill (p. 13). Lo studio delle fonti accentua la ricostruzione del fenomeno dal punto di vista del prigioniero, fornendo lo sguardo degli stranieri sul mondo militare italiano, ma anche su quello civile, e contadino in particolare. Interessante anche la ricostruzione degli avvenimenti dopo l’8 settembre
(letta anche alla luce delle direttive emanate dopo l’armistizio) nei tre campi marchigiani, con
la descrizione della particolarità della situazione di Servigliano, caso che ha visto l’evacuazione
in massa dei prigionieri grazie ad un accordo tra ufficiali italiani ed alleati, in contrasto con
quanto avvenuto negli altri due campi dove invece si verificò la deportazione in massa (da Millozzi stimata in 12.000 unità) dei prigionieri verso la Germania. Rimane solo accennata invece
la comparazione dell’esperienza di prigionia tra i diversi detentori. La Prefazione al volume è di
Ruggero Ranieri, mentre in appendice sono disponibili statistiche ed inserto con cartine e foto.
Agostino Bistarelli
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I LIBRI DEL 2007
Michela Minesso (a cura di), Stato e infanzia nell’Italia contemporanea. Origini, sviluppo
e fine dell’Onmi 1925-1975, Bologna, il Mulino, 374 pp., € 28,00
Da molti anni la storiografia ha tentato senza successo una ricostruzione complessiva della storia dell’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia, in gran parte a
causa della «scomparsa» dell’archivio dell’ente dopo il suo scioglimento nel 1975. Sull’ONMI, basilare per interpretare il passaggio delle politiche sociali italiane dall’assistenza agli esordi dello stato sociale, esistono perciò buone ricerche, ma necessariamente parziali (soprattutto sul periodo fascista) o a carattere locale. È dunque benvenuto il volume curato da Michela Minesso, a. di un lungo saggio che traccia il percorso delle politiche sociali per la maternità
e l’infanzia dall’età liberale agli anni ’70. Di particolare interesse sono la parte sulla difficile
transizione tra fascismo e Repubblica e quella, assai meno conosciuta, sul secondo dopoguerra, da cui emergono tentativi di rinnovamento spesso parziali e inefficaci. Sullo sfondo, le battaglie politiche e la sostanziale inadeguatezza di un ente che non riesce a «rigenerarsi» fino al
momento del suo scioglimento.
Nella seconda parte del volume tre saggi dedicati a casi locali – Venezia, Roma, Napoli –
tracciano la storia soprattutto amministrativa e organizzativa dell’ente. In relazione al caso veneziano, Franca Cosmai descrive tra l’altro l’attività della «delegata provinciale» Maria Pezzè
Pascolato. Una storia significativa non soltanto perché donna alla guida di un ente – fatto insolito durante il fascismo – ma per il trasferimento delle sue innovative competenze in campo sociale ed educativo al servizio del fascismo, un fenomeno che avrebbe riguardato molte
altre protagoniste dell’assistenza in età liberale. Fortemente contestualizzato è anche il saggio
di Andrea Ricciardi sulla Federazione romana, che sottolinea il radicamento dell’ente nella capitale, i condizionamenti dovuti alle dinamiche clientelari e politiche, l’assenza di un progetto organico di assistenza e di un vero impegno rispetto alla creazione e al consolidamento di
un’idea forte di cittadinanza sociale. Una pratica innestata nel clima di notevole disagio sociale tipico della realtà napoletana emerge dal pezzo di Giuliana Arena su quella Federazione provinciale caratterizzata, a causa delle continue emergenze igienico-sanitarie, da un’attività assistenziale di carattere prevalentemente socio-sanitario e incapace di rinnovarsi, nel dopoguerra, di fronte ai compiti della ricostruzione.
Centrato principalmente sull’assistenza ai minori, il volume arricchisce per molti aspetti le
ricerche fin qui condotte sull’ONMI. L’intreccio di ambiti disciplinari diversi, che includano anche la storia di genere (professioni femminili, maternità, lavoro) e la storia sociale della cittadinanza, potranno in futuro rendere più completo un quadro ancora lacunoso. È dunque auspicabile che la curatrice espanda ulteriormente la ricerca puntando lo sguardo sul ruolo svolto dalle donne, sia come fruitrici che come operatrici professionalizzate di servizi, rafforzando in tal
modo gli studi sulla costruzione della cittadinanza femminile nel secondo dopoguerra.
Elisabetta Vezzosi
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I LIBRI DEL 2007
Simone Misiani, I numeri e la politica. Statistica, programmazione e Mezzogiorno nell’impegno di Alessandro Molinari, Bologna, il Mulino, 324 pp., € 24,00
Alessandro Molinari fu una figura centrale della statistica pubblica italiana dai primi anni ’20 alla nascita della programmazione economica. Direttore dell’Ufficio studi del Comune di Milano, nel 1929 venne nominato, benché privo della tessera del Partito fascista, direttore generale dell’ISTAT. Esautorato allo scoppio della guerra, subì poi la sospensione dall’Istituto in seguito al processo della Commissione per l’epurazione. Partecipò nel 1945 alla missione italiana dell’UNRRA e alla fine del 1948 arrivò alla SVIMEZ, di cui assunse la guida
negli anni ’50.
Il volume di Simone Misiani ripercorre i diversi momenti dell’attività di Molinari. Il risultato non è però una biografia in senso canonico quanto, piuttosto, la ricostruzione di un
frammento rilevante della storia della statistica pubblica italiana, della formulazione dell’intervento pubblico e del ruolo assunto dai tecnici nei complessi passaggi dal periodo liberale al
fascismo e poi all’Italia repubblicana. Il volume si inserisce quindi pienamente nel filone di
studi sulla storia della statistica italiana ed ha il merito di mettere in luce l’importanza del rapporto tra formazione e consolidamento della statistica pubblica e intervento statale nell’economia.
Soprattutto, la vicenda di Molinari chiama direttamente in causa il tema più generale del
ruolo dei tecnici nella storia dello Stato italiano. Ci offre infatti la possibilità di osservare dall’interno, da una visuale più defilata ma non per questo meno ricca e pregnante, il funzionamento concreto della macchina dello Stato fascista. La scelta compiuta dal regime, in questo
come in numerosi altri casi, di scegliere gli uomini in funzione delle competenze e delle qualità tecniche più che delle fedeltà politiche e ideologiche arricchisce e complica le analisi sulla messa in opera del progetto totalitario o sulla mancanza di una classe dirigente fascista.
La seconda parte del volume, sugli anni successivi alla Liberazione, ripercorre poi la lunga e travagliata uscita dal fascismo di Molinari e dell’amministrazione pubblica nel suo insieme. Anche in questo caso, la vicenda individuale sollecita letture e rimandi più generali: l’importanza dei giorni tra 8 settembre e 25 aprile nel definire scelte e prospettare un nuovo percorso politico e professionale, il faticoso e non sempre lineare operato della Commissione per
l’epurazione (Molinari venne epurato anche in base ad argomentazioni molto simili a quelle
usate nei primi anni di guerra per sostituirlo alla direzione del personale dell’ISTAT), l’importanza dei rapporti con gli americani e con gli organismi sovranazionali nel ridefinire prassi e
obiettivi dell’amministrazione e la possibilità, per Molinari e per molti degli uomini che animarono il nuovo meridionalismo e le realtà più avanzate dell’intervento pubblico, di attingere a esperienze, saperi tecnici e reticoli relazionali sedimentatisi negli anni precedenti il fascismo, in particolare nella stagione del socialismo riformista.
Alessio Gagliardi
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I LIBRI DEL 2007
Marco Mondini, Guri Schwarz, Dalla guerra alla pace. Retoriche e pratiche della smobilitazione nell’Italia del Novecento, Verona, Cierre, 237 pp., € 12,50
Questo libro è un’ulteriore testimonianza del rinnovato interesse che gli storici italiani (in
particolare i più giovani) manifestano da qualche tempo nei confronti dei due dopoguerra del
’900 italiano: sia del primo, che era stato a lungo trascurato dopo la fioritura di studi degli anni ’60-’70, sia del secondo, che è stato assai più battuto negli ultimi decenni ma conserva ancora non poche zone da esplorare. I due saggi di cui il libro si compone (di due distinti lavori in effetti si tratta, più che di due capitoli di un lavoro a quattro mani) analizzano i periodi
in questione con un taglio originale, non appiattito sugli aspetti politico-istituzionali (la crisi
dello Stato liberale nel primo caso, la nascita della Repubblica nel secondo) che in genere finiscono con l’occupare il centro della ricostruzione.
Il tema è quello del passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace, ovvero della smobilitazione, intesa non tanto nel suo senso tecnico (anzi il tema specifico poteva essere meglio
approfondito, soprattutto nei suoi dati quantitativi), quanto in un’accezione più ampia: dunque il reinserimento dei reduci, le politiche assistenziali, la memoria della guerra e i suoi molteplici usi politici, la ritualità e la difficile gestione delle ricorrenze ufficiali e non ufficiali. Si
tratta ovviamente di due storie molto diverse, non solo per quanto attiene alla condizione del
paese a guerra finita. Basti pensare al fatto che la Grande guerra produce in sostanza un’unica tipologia di ex combattente, pur in presenza di opzioni politiche distinte e spesso conflittuali; mentre dal secondo conflitto mondiale esce una molteplicità di figure di reduci, portatori di esperienze e di memorie radicalmente diverse: dai reduci dalla guerra fascista ai combattenti della guerra di liberazione, dai regolari agli ex partigiani, dai prigionieri degli Alleati
agli internati nei campi di concentramento nazisti. Molti però erano i problemi comuni. E si
possono individuare elementi di continuità sia nelle esperienze associative del combattentismo (di cui peraltro questo libro non si occupa nello specifico), sia in alcune soluzioni proposte, sia nelle persone di singoli uomini politici (Bonomi, Gasparotto) che si trovarono ad affrontare da ruoli di governo i problemi dell’uno e dell’altro dopoguerra. Il giudizio degli aa. è
piuttosto severo sulle scelte dei politici, di cui si mettono in rilievo soprattutto gli errori, le incomprensioni e le omissioni. Forse troppo severo, almeno nel caso del secondo dopoguerra,
vista la complessità dei problemi da affrontare, viste le condizioni economiche del paese e considerato il fatto che l’Italia del 1945 usciva non solo da una sconfitta ma anche da una guerra civile: in quelle condizioni individuare simboli e rituali unificanti era davvero impresa difficile. L’averne trovato qualcuno fu in fondo un successo non trascurabile per la classe dirigente repubblicana.
Giovanni Sabbatucci
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I LIBRI DEL 2007
Giancarlo Monina (a cura di), 1945-1946. Le origini della Repubblica, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2 voll., XXII-498 + XIV-658 pp., € 40,00
Il breve volgere di anni che va dal 1943 al 1948, cioè il passaggio dal regime fascista alla
democrazia repubblicana, è uno dei più studiati della storia italiana, et pour cause. Almeno dagli anni ’70 hanno cominciato ad accumularsi pubblicazioni di documenti, carteggi, studi, indagini in archivi nazionali e internazionali. La bibliografia su quella transizione politica è sterminata, imparagonabile a quella dedicata a qualsiasi altro evento della vicenda storica del paese. Abbiamo ormai una conoscenza minuta di moltissimi dati storici e fatti politici, economici e sociali. Eppure si continua a lavorare su quegli anni e, di più, questo lavoro dimostra come si possa continuare a farlo in modo tutto sommato proficuo e produttivo. I due volumi
raccolgono i materiali di una iniziativa di studio promossa da un Comitato nazionale istituito nel 2005, in occasione del sessantesimo anniversario della Liberazione, da parte del Ministero dei Beni culturali. Si tratta quindi di una iniziativa pubblica, che si è avvalsa di un comitato scientifico vasto e ampiamente rappresentativo, ha coinvolto un pool di istituzioni e
centri scientifici e culturali che hanno la disponibilità di materiali archivistici, e infine ha impegnato parecchi ricercatori attivi su questi campi. È stato effettuato un convegno nella Sala
della Lupa di Montecitorio e sono state affidate singole ricerche. Le più di mille pagine dei
due volumi raccolgono quindi i frutti di questo lavoro biennale. Si tratta di trentasei contributi che insistono – in alcuni casi con ricerche monografiche, a volte invece orientandosi all’inquadramento sintetico di alcuni problemi – attorno a quattro nodi tematici generali: il rapporto con il contesto internazionale, gli aspetti più rilevanti della transizione politica, la questione istituzionale e le origini della Repubblica, la strutturazione del sistema politico repubblicano. Come sempre succede in tali operazioni culturali, tra gli studi ce ne sono di più originali ed efficaci di altri, ma non è questo il punto fondamentale che si possa evidenziare in
queste brevi note.
Il risultato del lavoro appare interessante soprattutto laddove, nella trama di una consolidata esperienza di storia politica, emerge una documentazione ancora inedita su passaggi critici di quel biennio cruciale: sono diversi i saggi che se ne avvalgono (e si tratta soprattutto di
documentazione di origine partitica o privata, in piccola parte internazionale, mentre mi pare quasi assente, in materia di novità, una documentazione istituzionale già abbondantemente scavata per la parte disponibile, che non è amplissima). Su questo tronco si innestano alcuni contributi metodologicamente più originali, dedicati ad esempio ai linguaggi, al cinema,
all’amministrazione. Mi pare però difficile parlare complessivamente di innovazioni in materia storiografica: siamo di fronte al consolidamento e allo sviluppo di un discorso da anni avviato. Un mosaico che si completa, più che un quadro nuovo che si abbozza. Una fase critica
e decisiva della storia nazionale viene ulteriormente illuminata.
Guido Formigoni
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Barbara Montesi, Questo figlio a chi lo do? Minori, famiglie, istituzioni (1865-1914), Prefazione di Marcello Flores, Milano, FrancoAngeli, 192 pp., € 16,00
Volume nel quale si tratta di famiglia tra Risorgimento appena compiuto e primi del ’900;
ma non di famiglia con la «F» maiuscola all’interno di un canone nazionale, bensì di famiglie,
con un plurale che è retto, anzitutto, dall’uso di fonti archivistiche.
Di contro alla famiglia ben definita dei codici, che assumono a figura sociale di riferimento il maschio borghese proprietario, i ceti dirigenti dell’Italia unita si trovano a fronteggiare
una realtà sociale ben più complessa e variegata. Se la famiglia dei codici si presta perfettamente a fungere da anello intermedio tra individuo e Stato; a fare da rassicurante cuscinetto tra
pulsioni anomiche e ordine; e questo grazie al principio di autorità e di domestica giurisdizione che le viene mantenuto (un autentico cavallo di Troia dell’antico regime), il meccanismo
mostra invece drammaticamente la corda quando si tratta dei ceti popolari.
La questione sociale rende esplosiva la questione minorile. Che fare quando la ratio di un
istituto quale la facoltà paterna di far internare i figli discoli viene utilizzato come strumento
di welfare? (E questo, sia detto per inciso, all’interno di una continuità sia normativa sia nelle pratiche sociali che meritava forse di essere sottolineata più esplicitamente). E ancora: chi
garantisce per i figli quando i padri e le madri si collocano all’esterno dell’area di cittadinanza e non ci si fida di loro? Quando giustificare la decadenza della patria potestà?
La ricerca di Montesi ricostruisce pazientemente la trama dei dibattiti che su questi temi
animano gli anni a cavallo tra i due secoli. E ne dipana i fili in tre lunghi capitoli, nel primo
dei quali affronta il tema dei minori discoli, cui si è appena accennato (qui si concentra l’uso
di fonti archivistiche); nel secondo tratta delle discussioni sulla decadenza della patria potestà, mostrando efficacemente come sia proprio attraverso l’individuazione di un interesse pubblico alla difesa sociale che nascano anche i diritti dell’infanzia. Un fenomeno che non è soltanto italiano. E, infine, nel terzo capitolo l’a. tratta della delinquenza minorile e dell’inattuata riforma che avrebbe dovuto istituire un tribunale ad hoc.
Un «mezzo secolo senza riforme» definiva il periodo icastico Paolo Ungari. E tuttavia,
proprio in materia di diritto di famiglia, anni particolarmente densi di dibattiti, nei quali si
riconoscono le antinomie e le peculiari contraddizioni degli Stati liberali ottocenteschi.
Domenico Rizzo
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I LIBRI DEL 2007
Luciano Monzali, Italiani di Dalmazia. 1914-1924, Firenze, Le Lettere, 474 pp., € 28,50
Luciano Monzali prosegue l’opera inaugurata con il volume Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla Grande Guerra (stesso editore, cfr. «Annale», V/2004), circoscrivendo il breve
e intenso periodo della questione adriatica con un saggio più corposo del precedente, in cui
prevale ancora l’approccio di studioso delle relazioni internazionali, ma è pure attenta e approfondita l’analisi della politica sul piano locale. Monzali evidenzia le differenti posizioni dei
dalmati e il travaglio di fronte alle difficili scelte da compiere nel traumatico e a lungo incerto passaggio allo Stato nazionale (jugoslavo e, nel caso di Zara, italiano). Come notato dagli
stessi rappresentanti italiani (ad esempio a p. 327), la Dalmazia era formata da individui e
gruppi non chiaramente divisi in senso nazionale, e nelle città l’elemento italiano e quello
croato si confondevano e si mescolavano, con diverse scelte nazionali all’interno delle stesse
famiglie. La tribolata trattativa internazionale e bilaterale, l’occupazione e amministrazione
italiana delle aree rivendicate con il Trattato di Londra del 1915 e quella interalleata in regime di amministrazione jugoslava del resto della Dalmazia, crearono molta confusione e complicarono una possibile convivenza tra i dalmati. Gli italiani furono penalizzati dalla ondivaga politica dei governi di Roma, e poi dalla soluzione trovata dell’opzione per la cittadinanza
italiana, che permetteva loro di mantenere una residenza che divenne difficile, impraticabile
o assai sconveniente, e li spinse a un progressivo abbandono verso Zara, la Venezia Giulia o
altre regioni italiane. Ostacolarono ogni possibilità di accordo e di pacifica convivenza le reazioni jugoslave all’avventura fiumana e a quelle dei suoi seguaci ed emuli in Dalmazia, le occasionali violenze dei fascisti italiani e quelle più numerose dei «nazionalisti» «panserbi» e
«pancroati» (i locali «nazionalisti italiani» non erano aggressivi, secondo Monzali, che al tempo stesso non registra l’esistenza di nazionalisti «croati» e «serbi»). Monzali denuncia gli atteggiamenti anti-italiani del governo locale e di quello di Belgrado contro la popolazione e la presenza linguistica italiana (mentre il giudizio sull’esercito italiano e sull’ammiraglio Millo, pur
responsabile di aver sostenuto apertamente D’Annunzio, è più sfumato), ma sottolinea anche
come l’esodo degli italiani fu più forte a Sebenicco, dove la temporanea amministrazione italiana negò spazi di agibilità politica e culturale alla popolazione croata e il cambio di amministrazione fu più traumatico. Il lavoro di Monzali è basato su un’impressionante mole di materiale documentario, in cui prevalgono le carte del Ministero degli Affari esteri, con puntuali riferimenti alle storiografie italiana, jugoslava e croata, con cui però l’a. evita di confrontarsi direttamente. Leo Valiani e Paolo Alatri, per esempio, sono molto citati in nota, ma non sono discussi nel testo, in cui pure si esaminano posizioni diverse dei protagonisti politici e intellettuali del tempo. In definitiva, si tratta di un libro valido e interessante, che colma un vuoto, ma non quello di una storia della Dalmazia omnicomprensiva a partire da fonti e voci intrecciate della Dalmazia latina e slava, che ancora manca.
Vanni D’Alessio
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I LIBRI DEL 2007
Arianna Morabito, Quando il popolo iniziò a leggere. Biblioteche popolari a Genova dal
1850 al 1908 con cenni storici sulla Biblioteca Popolare «G. Mazzini», Prefazione di Luca Borzani, Postfazione di Dino Cofrancesco, Genova, Istituto Mazziniano, 230 pp., s.i.p.
Gli studi volti a ricostruire le vicende delle biblioteche popolari in Italia, dopo aver fatto
registrare una stagione feconda agli inizi degli anni ’90 del ’900, vivono un periodo di minore intensità. Fa dunque piacere segnalare il volume di Morabito sulle biblioteche popolari genovesi che, pur focalizzandosi su una realtà locale, offre numerosi elementi per una migliore
definizione del panorama complessivo delle biblioteche popolari italiane in virtù delle peculiarità del caso di studio e della capacità dall’a. di «leggere» e di organizzare informazioni e documenti reperiti.
Nella Postfazione, Cofrancesco sottolinea «la precocità con la quale [in Liguria] nascono
le biblioteche popolari […] che si spiega con il tasso di analfabetismo sempre alto ma decisamente inferiore a quello nazionale [e] con la dedizione non comune di democratici, liberali
progressisti, mazziniani alla “causa del popolo” che non può prescindere dalla sua alfabetizzazione» (pp. 149-150). Avendo sullo sfondo questo contesto, nella parte iniziale del volume l’a.
disegna il percorso tracciato dalle biblioteche popolari di Genova: fissa le tappe principali, dalla istituzione di un Gabinetto di lettura promosso dall’Associazione degli operai nel 1852 alla fondazione della Biblioteca popolare «G. Mazzini» del 1908; individua e pone nella giusta
evidenza le due correnti politiche (democratico-mazziniana e moderata) ispiratrici delle biblioteche popolari; fornisce notizie più circostanziate sugli istituti dei quali è riuscita a documentare l’esistenza.
La seconda parte della ricerca è opportunamente incentrata sulla biblioteca popolare più
importante, la «G. Mazzini». Illustrate le condizioni che hanno determinato la nascita e favorito il consolidarsi della Biblioteca, Morabito ne riepiloga diacronicamente le vicende evidenziando le fasi in cui è possibile suddividerne la parabola, dal grande successo dei primi anni
di vita, alla inesorabile decadenza dei decenni seguenti la seconda guerra mondiale, alla donazione al Comune di Genova nel 1993. Grazie a un attento uso delle fonti, l’a. riesce a offrire
dati dettagliati sui vari aspetti dell’attività dell’istituzione, indicazioni che permettono anche
al lettore non specialista di cogliere la funzione culturale e sociale a lungo svolta dalla Biblioteca nel contesto cittadino. Il lavoro della Morabito si connota proprio per essere stato condotto su un piano di difficile equilibrio, sul quale l’analisi biblioteconomica e l’indagine storica si integrano felicemente formando un’unica, efficace chiave interpretativa della vita culturale, sociale e politica di decenni nodali della storia di Genova.
Il volume è corredato di appendici documentarie riproducenti statuti e regolamenti di biblioteche, di un interessante Elenco dei giornali e delle riviste conservate nella «Biblioteca popolare
G. Mazzini», redatto da Nicoletta Durante e Claudia Spiga, e di un ricco inserto iconografico.
Giorgio Palmieri
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I LIBRI DEL 2007
Massimo Moraglio, Storia delle prime autostrade italiane (1922-1943). Modernizzazione,
affari e propaganda, Torino, Trauben, 259 pp., € 18,00
Quando nel settembre 1925 la prima autostrada italiana – la Milano-laghi – venne aperta, era «desolantemente vuota» (p. 66). Quella strada dove non passava nessuno, ma basata su
un concetto avveniristico – la destinazione al solo trasporto a motore – era lo specchio dell’Italia fascista. Il fascismo produsse un enorme sforzo in chiave di modernizzazione delle infrastrutture di trasporto, puntando tutto sui primati, stradale e ferroviario, che costituivano un
formidabile strumento di propaganda per un regime autoritario. Le prime autostrade da un
lato e dall’altro il non meno sbandierato primato di velocità ferroviaria, ottenuto nel luglio
1939, rappresentarono due conquiste ritenute straordinarie. La vicenda autostradale italiana
fra le due guerre, sviluppatasi in presenza di una motorizzazione stentata ed asfittica, può essere letta anche in modo da far prefigurare una sorta di anomalo intervento dello Stato nell’economia. È possibile tracciare una parabola che si muove da una chiara aspirazione imprenditoriale e che termina invece fra le braccia dello Stato, che finirà per riscattare i vari tratti entrati in esercizio. L’iniziativa privata fu alla lunga fallimentare sia per il mancato decollo dell’automobile sia per i troppo ottimistici piani finanziari delle varie società. La svolta sta, come per molti altri settori economici, negli anni ’30, quando si assiste ad un cambiamento di
scala dei progetti, che da locali o regionali cominciano ad assumere connotati nazionali e continentali. Numerosi furono i progetti autostradali elaborati nel corso del decennio, che interessarono l’intera Europa. Il grande piano autostradale studiato nel 1934, pur rimanendo sulla carta, costituirà la base del successivo sviluppo dell’epoca del boom. La storia delle prime
autostrade italiane è inscindibilmente legata ad un personaggio di grande caratura, che nel libro spicca come protagonista. Piero Puricelli svolse un ruolo decisivo per tutto l’arco del ventennio. Amico di Mussolini, possedeva il profilo tipico di tecnico portatore di cultura nazionalista e competenze, che il fascismo esaltò per potenziare il paese. Fu un ingegnere e un imprenditore visionario e spregiudicato, autore di una serie innumerevole di progetti, a partire
dalla Milano-laghi per giungere al disegno di una rete europea. In definitiva, come l’a. sottolinea e dimostra a più riprese, il capitolo autostradale italiano fu pieno di chiaroscuri. Si trattò
indiscutibilmente di un’esperienza pilota, di cui Moraglio coglie la piena validità, gravata però
da una fatale incoerenza fra le differenti iniziative, frammentarie e disorganiche, e dall’assenza di una valutazione complessiva di opportunità economica e funzionale. L’impostazione
confusa e l’arretratezza del contesto economico non riuscirono a conferire ai concetti di «automobilismo» e di «motorizzazione» uno spessore pienamente industriale e commerciale. Occorre riflettere però in che misura, probabilmente ampia come suggerisce lo stesso Moraglio,
contribuì a preparare la svolta autostradale del secondo dopoguerra, anticipando la nuova idea
di trasporto individuale.
Andrea Giuntini
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I LIBRI DEL 2007
Massimo Moraglio (a cura di), Effimeri entusiasmi, quotidiane sofferenze. La fondazione del
manicomio di Racconigi, Boves, Araba Fenice, 182 pp., € 14,00
Il volume inaugura la collana «Assistenza, medicina, società» destinata a ricostruire il passato e a interrogare il presente dell’assistenza psichiatrica nel Cuneese. Un progetto frutto della collaborazione tra il Dipartimento di Storia dell’Università di Torino e il Centro studi interdipartimentale in psichiatria dei DSM della Provincia di Cuneo. Questa prima pubblicazione, che sostanzialmente si presenta come una raccolta di fonti relative alla fondazione del
manicomio di Racconigi, è aperta da una corposa Introduzione in cui Alessandro Vallarino e
Giuseppe Gazzera (rispettivamente dirigente medico e direttore del Dipartimento di salute
mentale ASL 17) presentano al pubblico il progetto editoriale nel suo complesso, riservato alla storia locale della psichiatria. Diverse ragioni hanno reso auspicabile e poi fattibile questa
esperienza: «innanzitutto la scoperta di un ingente patrimonio bibliografico e archivistico da
salvaguardare e rendere fruibile» (p. 7), ma anche l’intenzione di migliorare l’assistenza psichiatrica odierna facendo tesoro pure degli errori o delle storture del passato. Secondo i due
aa. l’attuale predominio del paradigma bio-medico in psichiatria è infatti legato ad una più
generale ripresa delle concezioni del positivismo, vale a dire proprio di quella stagione delle
scienze sociali che nella seconda metà dell’800 legittimò la proliferazione dei manicomi. Ricostruire la storia dell’istituto di Racconigi, quindi, significa andare oltre il luogo fisico e rievocare, invece, il mondo di valori che regolava la relazione tra la società del tempo e la follia,
e i suoi scarti, per evitare che quel «sistema manicomio» che ha predominato in passato ispiri oggi la creazione di nuovi confini e nuove separazioni sociali.
All’Introduzione fa seguito la ricostruzione, firmata da Sergio Tesio e Alessandro Vallarino, del lungo processo che portò alla fondazione dell’istituto psichiatrico nel 1871. La storia
proposta al pubblico è quella di un edificio, profondamente legato alle vicende della città, che
attraverso le molteplici destinazioni d’uso a cui è stato sottoposto dal ’700 in poi (ricovero per
mendicanti e ammalati, ospedale di carità, collegio per i figli di militari) rappresenta efficacemente l’evoluzione dell’assistenza psichiatrica in Italia. La parte più corposa del volume curato da Moraglio, tuttavia, sono alcuni testi riprodotti integralmente che permettono di farsi
un’idea precisa di come l’istituto funzionasse nei minimi particolari (modalità di ammissione, compiti e tipologie del personale impiegato, diritti e doveri dei ricoverati, attività a cui erano destinati), ma anche e soprattutto di quale sistema di valori guidasse l’operato degli psichiatri e quali fossero le tipologie di persone internate nel manicomio. Si veda a questo proposito la Relazione sui 346 casi di pazzia curati nel manicomio (pp. 115-144) dove le statistiche relative ai ricoverati sono precocemente disaggregate per genere, età, stato civile, professione. Chiude il volume una breve Postfazione di Massimo Moraglio.
Laura Schettini
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I LIBRI DEL 2007
Maria Teresa Antonia Morelli (a cura di), Le donne della Costituente, Introduzione di Cecilia Dau Novelli, Roma-Bari, Laterza, LXXXVIII-294 pp. + CD-Rom, € 35,00
La serie «Voci dal Parlamento» ospita nel 60° del voto alle donne un corposo volume di
documenti sulle ventuno elette alla Costituente. L’Introduzione è affidata a una delle più
esperte studiose della presenza femminile in Parlamento, che ripercorre – servendosi della memorialistica e della stampa dell’epoca, nonché dei lavori «classici» di Rossi-Doria, Gaiotti de
Biase, Casalini ecc. – le immagini sedimentate nella memoria collettiva, volte a legittimare
l’accesso delle italiane alla cittadinanza «attiva» in termini di continuità sia con l’impegno nella Resistenza, sia con la tenuta dell’istituto familiare e dei ruoli di genere al di là delle cesure
istituzionali. Da qui l’insistenza, sottolineata da Dau Novelli, sull’icona dell’elettrice-madre
che si reca alle urne con i figli piccoli al seguito, nel segno di una «tradizione inventata» (ma
già sperimentata nel Risorgimento) secondo cui la conquista dei diritti preludeva alla riappropriazione consapevole di un «destino» – famiglia e maternità – chiamato a concorrere dalla
prima linea alla rinascita del paese. Una seconda nazionalizzazione, che l’a. colloca in ambigua continuità con quella operata per le più dal fascismo. Il percorso delle donne del PCI, le
più note anche in virtù della durevole identificazione della Repubblica con le forze che dagli
anni ’20 avevano agito nella clandestinità e nel fuoruscitismo, era stato diverso da quello delle democristiane, migliori rappresentanti, come la pur sintetica panoramica prosopografica ribadisce, di una generazione cresciuta sotto il regime che, ad onta della propaganda natalista,
aveva studiato per molti anni e sperimentato un nubilato prolungato, preso parte alle attività
della Gioventù del Littorio e al lavoro intellettuale, sociale e politico di Azione Cattolica, della FUCI e dell’Università di padre Gemelli, nonché «consumato» letture e film stranieri che
suggerivano nuove identità e modalità di affermazione personale.
Le costituenti formavano una élite: erano donne istruite, provenienti perlopiù dai ceti
medi, il cui contributo all’antifascismo era stato – quando si era manifestato prima dell’8 settembre – assai diseguale. Le schede biografiche che anticipano i testi degli interventi in Assemblea e nella «Commissione dei 75», curati da Morelli, aprono su una storia di lungo periodo di queste carriere politiche, evolute in molti casi in una presenza pluridecennale in Parlamento, dalle quali provennero le prime voci femminili nei ruoli di governo. Di tante delle
elette si attendono ricostruzioni biografiche che consentano di assumere questa piccola compagine portatrice di un elevatissimo status simbolico come osservatorio privilegiato per un’analisi a tutto tondo sul rapporto tra culture politiche femminili, appartenenze di partito e
identità nazionale, e per una declinazione di genere di nodi cruciali (il dibattito sul Piano Marshall, quelli sul Mezzogiorno e sull’Europa, la questione delle autonomie regionali, le culture
dell’amministrazione locale, la democratizzazione del welfare, la «riconversione» della cinematografia educativa ai nuovi valori) nella graduale costruzione della cittadinanza repubblicana.
Maria Pia Casalena
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I LIBRI DEL 2007
Benny Morris, La prima guerra di Israele. Dalla fondazione al conflitto con gli stati arabi,
Milano, Rizzoli, 650 pp., € 25,00
Nel 1988, a 40 anni dalla nascita di Israele, Morris sanciva con la sua opera prima, The
Birth of the Palestinian Refugee Problem, la nascita della cosiddetta «Nuova Storiografia» israeliana. Alla vigilia del sessantenario, egli torna a quel 1948 che vide la nascita d’Israele, l’entrata in guerra della Lega Araba e il culmine della «sciagura», la nakba palestinese. Vi torna apportandovi nuovi dati di archivio e le conclusioni raggiunte dai nuovi storici israeliani, ma anche da quelli palestinesi, mettendo a fuoco personaggi e fasi di una trama ormai nota e affinandone i dettagli: il governo britannico, ansioso di uscire dalla trappola palestinese, i leader
mondiali che sottovalutano una situazione esplosiva, l’Alto Comando ebraico che ne vede invece chiaramente i rischi e le opportunità, la discesa nella violenza durante la guerra civile del
1947-8, trainata dal terrorismo dell’Irgun e del Lehi, la conquista ebraica delle città costiere
e l’esodo della popolazione araba. La proclamazione di Israele, il 14 maggio 1948, sulle note
di Hatikva, istituisce uno Stato che non ha ancora confini, perché questi andranno conquistati con la forza militare. Gli Stati arabi entrano in guerra il giorno seguente, sull’onda della
domanda popolare e dell’opportunità. Pur sapendosi impreparati, confidano in una «guerra
politica» risolta dall’intervento internazionale, ma sono sconfitti rovinosamente, con l’eccezione della Giordania di re ‘Abdullah, che ottiene la Cisgiordania. Lo stile di Morris è, come
sempre, ruvido fino alla sciatteria, altamente leggibile e senza pretese di distacco; negativo è il
giudizio su tutti o quasi i protagonisti ufficiali e molti punti controversi sono regolati sommariamente nelle conclusioni. I massacri e le violenze dell’IDF contro i civili sono pienamente
riconosciuti, ma giudicati minori che in altri conflitti; dei due eserciti, quello israeliano si dimostra il più forte e motivato, sebbene entrambi abbiano poi ostentato debolezza per esaltare la vittoria o giustificare la sconfitta; l’élite palestinese è divisa e irresponsabile, e questo segna il fato della popolazione civile; la comunità internazionale interviene soprattutto in soccorso degli Stati arabi in difficoltà, ostacolando la vittoria israeliana; l’esodo forzato di
700.000 palestinesi è frutto della tendenza «espulsionista» presente, ma non connaturata, nella dirigenza sionista, e diffusa anche fra i capi arabi; l’esodo dei palestinesi è seguito da quello degli ebrei orientali che, espulsi o in fuga dai paesi arabi, ripopolano Israele. Tipica dell’ultima fase dell’a. è la lettura in chiave jihadista del conflitto, che contraddice la decifrazione dei
reali interessi in gioco nei capitoli precedenti. Nella situazione descritta, tutti gli attori sono
costretti a seguire un cammino fatale, accecati dalla reciproca incomprensione. Alcuni capi
sionisti, fra questi è Ben-Gurion, non si nascondono tuttavia le conseguenze dell’odio arabo
e del torto inflitto alla popolazione palestinese, e queste sono riconosciute tali da mettere ancora oggi in forse – è l’oscura profezia che chiude il libro – l’esistenza stessa di Israele.
Bruna Soravia
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I LIBRI DEL 2007
Luigi Musella, Craxi, Con un ricordo di Giulio Andreotti, Presentazione di Piero Craveri, Roma, Salerno Editrice, XVII-410 pp., € 25,00
Questo volume consta di trentadue capitoli cronologicamente ordinati. I primi riguardano il background familiare di Craxi, i suoi esordi nel movimento giovanile socialista milanese
e nell’UGI, l’organizzazione degli studenti «progressisti», le sue esperienze di funzionario di
partito nell’hinterland. La narrazione si fa più fitta con la sua assunzione al ruolo di leader nazionale, di segretario del PSI, di presidente del Consiglio dei ministri. Vengono ricostruite le
sue incursioni nel campo teorico, la sua versione del tema antico dell’autonomia, ovvero dell’identità socialista che non vuole essere fagocitata da quella comunista; così da privilegiare la
continuità del craxismo dalla battaglia interna tra le correnti socialiste degli anni ’50-’60 a
quella contro il berlinguerismo nei secondi anni ’70. Spazio adeguato ha la svolta strategica
che nei primi anni ’80 induce Craxi ad invocare le riforme istituzionali. La chiusura è per Tangentopoli, per la fine politica di Craxi così brusca e amara, per la sua morte prematura nell’esilio di Hammamet.
Musella è ben conscio dei problemi che comporta la carenza di una documentazione archivistica. Si affida in parte alla stampa del tempo, in parte alla ricostruzione ex post di esponenti politici fattisi memorialisti, più spesso scelti tra gli amici piuttosto che tra i nemici di
Craxi. Ci sono poi quelle che lui stesso definisce le «fonti più originali» del suo lavoro (p. 5):
tredici interviste da lui curate, dodici delle quali, peraltro, riguardano compagni di partito o
stretti collaboratori di Craxi. Devo dire però che queste fonti danno alla ricostruzione un tono da un lato simpatetico e dall’altro teleologico, tutte interne come sono al progetto craxiano nella sua fase alta, nella forma che assume a cavallo tra fine anni ’70 e primi anni ’80. Di
conseguenza, risultano sottovalutati i punti di vista degli altri attori in campo e le dure repliche che al progetto oppose la realtà storica.
Non che Musella indulga a toni agiografici; piuttosto adotta una strategia mimetica nei
confronti dei suoi personaggi e delle sue fonti. Certo, chi conosce i suoi studi precedenti sul
clientelismo nell’Italia liberale si sarebbe aspettato una ricostruzione del network che sta intorno a un capo-corrente prima e a un capo-partito poi, del meccanismo di funzionamento di
una macchina politica, avrebbe preferito uno stile meno narrativo, più analitico. Lo studioso
afferma in sede introduttiva e in senso generale che la storia del presente non comporta difficoltà; ma in pratica non sa o non vuole applicare a temi così recenti e scottanti la stessa metodologia da lui già applicata ad oggetti «freddi». D’altronde, egli ammette di aver sottoposto
la bozza del libro a Stefania Craxi, affida l’apertura del suo libro a due pagine di nessun interesse scritte da Andreotti, chiude con due lunghe citazioni di Cossiga e di Boselli quasi affidandosi ad esse per l’interpretazione «di fondo» che è restio a fornirci. Una maggiore autonomia dagli attori del dramma e dalle loro passioni non avrebbe nociuto al suo lavoro.
Salvatore Lupo
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I LIBRI DEL 2007
Lynn H. Nicholas, Bambini in guerra. I bambini europei nella rete nazista, Milano, Garzanti, 670 pp., € 34,00 (ed. or. New York, 2006)
I bambini furono vittime del nazismo sotto molti punti di vista. Lo furono innanzitutto
quelli tedeschi e «ariani» all’interno di un modello scolastico e pedagogico che il direttore della
Scuola americana a Berlino negli anni ’30 – autore di un fortunato reportage sul sistema scolastico nazista – definì «educazione alla morte». Una parte di essi, in quanto ritenuti inadeguati,
fu inoltre vittima di una radicale politica eugenetica (su 70 mila furono 5 mila i bambini uccisi
nella cosiddetta Operazione Eutanasia). Essenziale poi fu, nel disegno nazista, la più generale selezione razziale che significò, prima di tutto, espulsione e separazione. I bambini ebrei vennero
cacciati dalle scuole, colpiti da innumerevoli divieti che incisero in profondità nella loro vita quotidiana, marchiati con la stella di David. Dalla persecuzione dei diritti si passò alla persecuzione
delle vite. Quello che l’a., riprendendo la terminologia nazista, chiama «cattivo sangue» conobbe soprattutto i campi di sterminio, ma nel Nuovo Ordine di Hitler un posto non secondario
lo rivestì anche il «buon sangue», ossia l’applicazione di diffuse politiche di germanizzazione che
ebbero, nei confronti dei bambini, il vertice nell’Operazione Lebensborn.
Tuttavia Nicholas ci ricorda – nella parte più nuova e interessante del volume – che quello in cui vissero i bambini di tutta Europa durante la guerra fu, più in generale, un cruel world,
come recita il titolo originale del volume: costretti ad abbandonare la propria terra (come nel
caso della Spagna dopo la guerra civile) e a vivere in campi di internamento; sottoposti alla
dura quotidianità dei bombardamenti, della fame, dello sfollamento; feriti in profondità dalla perdita di punti di riferimento e spesso di quelli essenziali come i genitori. Se gran parte di
questi aspetti riguardò anche gli adulti, per i bambini essi costituirono i fattori di una formazione psicologica e materiale in quella che è la fase più delicata nella crescita di ogni persona,
condizionandone per sempre i caratteri e i comportamenti. Molti di essi dovettero vivere nascosti per mesi, a volte per anni, spesso abbandonati dai genitori o perché deportati essi stessi oppure come strategia per salvargli la vita. Questa second wound – cioè l’abbandono forzato dopo la prima ferita della persecuzione – li avrebbe segnati per sempre.
In questo libro – terribile nei contenuti ma che si legge con grande piacere, per la capacità dell’a. di coniugare i grandi quadri storici con le singole storie – dispiace solo che la prospettiva privilegiata sia stata quella degli adulti, delle scelte delle politiche naziste, dei colpevoli silenzi dei molti immobili spettatori, delle strategie dei salvatori (e questi furono tanti, come Nicholas ci ricorda, per esempio nel caso delle belle pagine dedicate ai Kindertrasporten
verso la Gran Bretagna). Non sono gli occhi dei bambini, il loro mondo, il loro punto di vista a dominare queste pagine, e in tal senso il volume risulta assai meno convincente del precedente libro di Nicholas Stargardt (La guerra del bambini. Infanzia e vita quotidiana durante il nazismo, Milano, Mondadori, 2006).
Bruno Maida
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I LIBRI DEL 2007
Gabriele Nissim, Una bambina contro Stalin, Milano, Mondadori, 277 pp., € 18,00
Nell’ottobre del 1937, a 35 anni, Gino De Marchi, regista cinematografico di documentari, viene arrestato a Mosca accusato di attività controrivoluzionaria. Da quel 1937, Luciana, la figlia allora tredicenne che Gino aveva avuto dalla moglie russa Vera, ha combattuto una
battaglia solitaria, prima per conoscere la verità sul destino del padre, poi per conservarne viva la memoria. Ed è la storia di Luciana, ancor più di quella di Gino, a essere al centro del libro di Nissim, saggista e giornalista che da anni si occupa in maniera seria e documentata,
benché con taglio divulgativo e non accademico, del tema della «resistenza morale» contro i
totalitarismi con particolare attenzione al mondo ebraico e alla Shoah. Qui egli si avvicina,
non per la prima volta, al mondo sovietico, al clima di sospetto e persecuzione che ferì quel
mondo dopo l’arrivo di Stalin al potere. Ma non è solo agli anni del Grande Terrore che l’a.
guarda bensì anche ai decenni seguenti ricostruendo con lucidità e tenerezza la vicenda di Luciana, della sua solitudine dinanzi al silenzio complice dei dirigenti del PCI che vivevano a
Mosca, dell’ostracismo che la colpì in quanto figlia di un nemico del popolo, abbandonata
persino dalla madre che quasi subito, per paura, decise di divorziare da Gino.
Fu nel 1956, diciannove anni dopo l’arresto, che, sulla base della prima legge di riabilitazione delle vittime dello stalinismo promulgata da Chruščëv, Luciana seppe che suo padre era
morto, ufficialmente di peritonite in un lager. Dovette attendere altri quarant’anni per scoprire, nel 1996, che invece era stato fucilato al poligono di tiro di Butovo, vicino a Mosca. E
i veri contorni di quella vicenda cominciarono a delinearsi solo nel 2001 quando poté accedere al fascicolo processuale di Gino. Però quei sessantatre anni non erano passati invano: da
quando nel 1968 era venuta per la prima volta in Italia per riannodare i fili con la sua famiglia paterna, Luciana aveva cercato di fare chiarezza sull’arresto che Gino, attivo militante della FGCI, aveva subito in Italia nel 1921, appena diciottenne, e durante il quale, impaurito,
aveva fatto i nomi di alcuni compagni a loro volta arrestati. Un gesto dalle gravi conseguenze: nella Russia bolscevica, dove il Partito lo aveva fatto espatriare clandestinamente in quello stesso 1921, sospettato di essere una spia Gino era stato subito arrestato e aveva scontato
un anno e mezzo di detenzione, conclusasi solo grazie all’intervento di Antonio Gramsci che
lo conosceva personalmente e con i cui figli Luciana ha da allora sempre avuto un’intensa amicizia. Un’iniziativa lodevole, quella di Gramsci, che si colloca però in un contesto diverso da
quello degli anni del Grande Terrore e sul cui valore politico il libro offre un’interpretazione
forzata.
La sua battaglia Luciana l’ha vinta, su tutti i fronti: nel 2004 a Fossano, dove il suo nome era pronunciato con imbarazzo, una strada è stata dedicata a Gino De Marchi. Il libro di
Nissim consegna alla storia del terzo millennio la vicenda di questa donna straordinaria e della sua battaglia per la memoria.
Elena Dundovich
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Leopoldo Nuti, La sfida nucleare. La politica estera italiana e le armi atomiche 1945-1991,
Bologna, il Mulino, 425 pp., € 32,00
C’è un passaggio dell’ultimo volume di Nuti che mi sembra emblematico. Si tratta di un
frammento d’archivio statunitense del 1961 che riporta un colloquio tra il chairman incaricato di valutare lo stato delle basi che ospitavano gli Jupiter in Europa ed un senatore. Da quel
breve resoconto emerge tutta la distanza prospettica che divideva, alle soglie della stagione kennedyana, i diversi attori. Da un lato era in atto un complesso processo di revisione della strategia nucleare statunitense (che, dopo la crisi cubana, avrebbe visto prevalere la linea della riduzione del rischio); dall’altro si muovevano gli interlocutori europei, con propri obiettivi, interessi e modalità d’azione. Qui si dipanavano i fili complessi (e mutevoli) che tenevano insieme
l’alleanza occidentale sul fronte della deterrenza, ma emergevano anche le diverse percezioni e
interpretazioni dell’arma atomica come strumento bellico e politico (si ripensi al motto «no annihilation without representation»). È da diversi anni che Nuti scava in questa direzione. In
questo volume la sua analisi sul contesto italiano si è fatta quanto mai fitta e intensa, alla ricerca di passaggi periodizzanti, lungo un arco cronologico che va dall’ingresso nell’era atomica alla chiusura della stagione bipolare. L’ampio raggio di fonti utilizzate (italiane e statunitensi, con
qualche puntata in archivi britannici e tedeschi) è il frutto di un work in progress e di una costante maturazione nella messa al vaglio dei documenti. Una critica che si può rivolgere al libro viene piuttosto da un certo squilibrio tra l’approfonditissima analisi degli anni ’50 e ’60,
rispetto alla più rapida riflessione dedicata ai due decenni successivi (salva la vicenda degli «euromissili»). Detto ciò, gli spunti di riflessione sono quanto mai preziosi. In primo luogo Nuti,
ricostruendo la genesi dei vari spostamenti strategici, dentro e fuori la NATO, ci offre uno spaccato degli elementi paradossali, ma anche di continuità, che segnarono la stagione della deterrenza, a cominciare dalla dimensione ristretta dei protagonisti delle scelte decisionali. Particolarmente interessante risulta l’analisi delle prese di posizione di De Gasperi, Taviani, Fanfani,
Moro e Craxi (con la costante comune di limitare al massimo la pubblicità al dispiegamento
delle testate nucleari sul suolo nazionale), così come del dinamismo di diplomatici quali Brosio, Quaroni o Gaja. Significativa è anche la riflessione sui limiti della mobilitazione antiatomica da parte del PCI e dei movimenti pacifisti. Nuti torna poi su argomenti poco noti, come
l’abortito progetto di bomba «europea» italo-franco-tedesco o l’oscura vicenda delle «mine atomiche». Soprattutto però rilegge le ambizioni italiane verso una politica estera dinamica, i tentativi di entrare nell’inner circle del nucleare, gli annosi dibattiti sul controllo e sulla dual-key,
fino a sfiorare la dimensione simbolica delle armi atomiche (con qualche puntata nel nucleare
civile): dal dispiegamento degli Honest John a Comiso e ai Cruise. Alla fine ci restano svariate
chiavi di lettura, utili anche a ridefinire l’intreccio tra politica interna ed estera, in relazione a
passaggi delicati come la nascita del centro-sinistra o del pentapartito.
Massimo De Giuseppe
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I LIBRI DEL 2007
Gianni Oliva, L’ombra nera. Le stragi nazifasciste che non ricordiamo più, Milano, Mondadori, 223 pp., € 18,00
L’a. ci consegna questo ennesimo libro di divulgazione storica (un genere che ha mostrato
in passato di padroneggiare con cura) perché «a forza di parlare dei fascisti uccisi “dopo” il 25
aprile, si stanno dimenticando tutti quelli che del fascismo e del nazismo sono stati vittime “prima” di quella data» (p. 5). Intenzione meritoria, ma dall’esito non pienamente riuscito. Il libro,
infatti, si rivela come una carrellata di cenni e brevi sintesi dei principali episodi di violenza
compiuti da tedeschi e fascisti nei mesi dell’occupazione, selezionati in virtù di scelte metodologiche e interpretative non sempre chiare. Così, fatta eccezione per le pagine dedicate alle violenze dello squadrismo fascista, l’impianto del volume risulta poco convincente.
Dopo la narrazione della strage di Cumiana (Torino, 3 aprile 1944) e una sintesi sulla nascita e l’articolazione interna del sistema di occupazione nazista, il terzo capitolo è il primo
dedicato alle stragi. Si prendono le mosse da Boves, si accenna ad alcuni stragi compiute nel
Sud Italia (trascurando però la Sicilia – la stessa cronologia in appendice al volume è piuttosto lacunosa), si spiega la violenza richiamandosi sia alla cultura militare tedesca e alle dottrine della controguerriglia, che a letture più psicologiche (il tema del tradimento e della rabbia
fascista verso il nemico interno, la società italiana permeata di una violenza che «entra nelle
coscienze individuali»). Quindi, a partire dai fatti del Lago Maggiore e dell’Hotel Meina, si
accenna alle violenze ai danni degli ebrei (mettendo assieme il rastrellamento del ghetto di Roma e la Risiera, alcune pagine di sintesi sulla politica antiebraica della RSI, e altro ancora), per
poi tornare a parlare di stragi, nel quinto capitolo, dedicato alle Fosse Ardeatine, a Sant’Anna
di Stazzema (per la quale tra l’altro si mutua una versione assai discutibile – un colpo fortuito di fucile avrebbe acceso la miccia della violenza tramutando un rastrellamento in una mattanza incontrollata – smentita dalle stesse testimonianze dei soldati tedeschi rese nel corso del
recente processo di La Spezia, che hanno confermato come l’azione sia stata sin dall’inizio finalizzata al massacro), a Marzabotto.
Oliva richiama correttamente il contesto repressivo definito dagli «ordini draconiani dell’estate-autunno 1944» (p. 129 – in realtà sono della primavera-estate), ma afferma più volte
come le stragi avvengono quasi senza un «perché», «sfuggono ad una sistemazione interpretativa esauriente» (p. 19), e addirittura «i luoghi degli eccidi sono in buona misura casuali, determinati dall’umore di un comandante, dalla reazione furiosa ad una condizione psicologica
di paura, dall’impotenza di fronte alla guerriglia, dalla pressione dell’avanzata angloamericana» (p. 136).
Insomma, dello sforzo interpretativo e di sistemazione operato dalla storiografia sulle stragi negli ultimi anni, ben poche tracce. Peccato. L’ombra è un qualcosa di apparentemente impalpabile, ma ha comunque una sua spiegazione.
Gianluca Fulvetti
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I LIBRI DEL 2007
Charles T. O’Reilly, The Jews of Italy, 1938-1945. An Analysis of Revisionist Histories, Jefferson NC-London, McFarland, 221 pp., £ 25,87
Il titolo del volume fuorvia il lettore: le sue pagine sono in realtà sostanzialmente dedicate al macrotema «papa e Shoah». Il sottotitolo non è ingannevole, ma non è pienamente comprensibile: se ho ben inteso, «revisionisti» sono coloro che trattano il suddetto macrotema con
accenti che O’Reilly giudica non fedeli alla realtà storica. Il libro contiene (pp. 179-90) la riproposizione della traduzione inglese di un articolo di P. Blet sugli archivi vaticani, pubblicato sulla «Civiltà Cattolica» nel 1998. Il volume passa in rassegna la storiografia – preferibilmente in lingua inglese – e contiene numerose citazioni; ogni tanto rivela lacune anche rilevanti: non conosce l’esistenza delle traduzioni inglesi dei volumi di Renzo De Felice e di chi
scrive sulla storia degli ebrei nel ventennio fascista (perché l’Annale Sissco non elenca le riedizioni aggiornate e le traduzioni dei volumi recensiti negli anni precedenti?).
Il primo breve capitolo, dedicato agli ebrei italiani, converge su un netto giudizio di Mussolini quale responsabile di una durissima legislazione antiebraica. Al suo termine l’a. contrappone la responsabilità personale del dittatore per gli ebrei italiani convertitisi, emigrati o uccisi a un grazie agli «ordinary Italians» che permisero la sopravvivenza della maggioranza degli ebrei (p. 12). Il secondo capitolo è dedicato all’Esercito Regio e agli ebrei. Al suo termine
O’Reilly evidenzia ancora una volta le responsabilità di Mussolini «for the Jews who suffered
under his regime both before and afyter September 8th, 1943» e gli contrappone il comportamento dei militari nei territori occupati (pp. 24-25). È interessante il fatto che entrambi i
capitoli si chiudono con la medesima citazione di L. Poliakov sul sabotaggio generalizzato di
tutta Italia alla politica antiebraica del dittatore. Nel secondo capitolo risalta l’assenza di dubbi, di verifiche sulle affermazioni di altri autori, di contestualizzazione.
Da pagina 27 in poi il volume è dedicato a Pio XII (con accenni a Pio XI). Qui l’a. richiama frequentemente la necessità di «constantly be aware of the context» (p. 33). Egli contesta in particolare le ricostruzioni sul «silenzio» papale e sull’assenza di un ordine scritto per
il soccorso agli ebrei. O’Reilly afferma che questo soccorso fu effettivamente programmato,
mentre «there is no evidence» che il successivo aiuto ai criminali in fuga fosse un «Vatican program» (p. 106). A suo parere i volumi «anti-Pio XII» sono troppo bene accolti dall’establishment culturale statunitense: quelli di S. Zuccotti e M. Phayer sono presenti in circa mille biblioteche accademiche, quelli in difesa del papa di M. Marchione e R. McInerney in meno
della metà (pp. 120-21).
In conclusione, il libro è un ottimo documento dell’aspra battaglia intrapresa in USA da
ambienti pro-Vaticano (di ieri e oggi) e specialmente anti-Zuccotti. Gli storici antipapisti e
quelli né-cosà-né-così faticheranno ad accettarne la profonda partigianeria e la mancanza di
equilibrio critico.
Michele Sarfatti
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I LIBRI DEL 2007
Michel Ostenc, Ciano. Un conservateur face à Hitler et Mussolini, Paris, Editions du Rocher, 319 pp., € 22,00
Quando studiosi stranieri si occupano dell’Italia e della sua storia è quasi una regola che
le loro opere siano magari brillanti ma quasi sempre (fatta eccezione per pochi veri specialisti) una collezione di errori: nella cronologia, nell’onomastica, nella percezione dei problemi.
Sebbene non sia possibile condividere tutte le tesi di Michel Ostenc è invece un piacere osservare che il suo lavoro si caratterizza per la precisione dei riferimenti e l’accuratezza del lavoro
su fonti italiane (salvo il maldestro intervento editoriale che, in copertina, colloca Ciano fra
Hitler e Mussoloni).
Per il lettore italiano la nuova biografia di Ciano non presenta molte novità, salvo che per
l’intelligente tentativo di cogliere a un tempo gli aspetti caratteriali e quelli relativi alle convinzioni politiche (più o meno consce) del genero di Mussolini. Perciò tutta la parte di storia
politica può essere, in Italia, trascurata poiché non propone elementi nuovi e, piuttosto, si presta a qualche annotazione critica. Molto più interessante è viceversa lo studio di Ciano come
personalità. Ostenc nutre nei suoi confronti un misto di simpatia e diffidenza che si traducono, nel complesso, in una sorta di apologia che forse rende Ciano più grande di quanto egli
fosse. Di lui mette in evidenza i complessi psicologici che lo rendevano subalterno sia al padre, il comandante Costanzo, sia al suocero, Mussolini. L’immagine è quella di un giovane
della buona borghesia romana, cresciuto senza una educazione particolare, dominato da sentimenti contraddittori (lealtà verso la famiglia ma anche avventurismo; indifferenza al fascismo ma anche prontezza a diventarne uno dei maggiori esponenti non appena il matrimonio
con la figlia del duce lo spinse in tale direzione). Sul piano dell’azione internazionale Ostenc
descrive l’avversione verso il nazismo ma anche la relativa passività, interrotta solo dai mesi di
delusione dell’estate 1939 e dall’esito fallimentare della guerra. Infine gli ultimi mesi: Ciano
come seguace dei cospiratori del 25 luglio e come vittima della propria coerenza, con il tragico finale. Una biografia equilibrata, dunque, e utile sia per i lettori francesi, sia, forse, anche
per controbilanciare in Italia certe prevenzioni.
Ennio Di Nolfo
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I LIBRI DEL 2007
Emanuele Pagano, Enti locali e Stato in Italia sotto Napoleone. Repubblica e Regno d’Italia
(1802-1814), Roma, Carocci, 325 pp., € 28,50
A più di un decennio dalla prima edizione del volume Il Comune di Milano nell’età napoleonica (1800-1814), datata 1994, l’a. riunisce in un’opera monografica alcuni saggi inediti
ad altri già pubblicati, ora rielaborati e aggiornati. Elemento unificante è lo studio degli enti
locali, di livello comunale e provinciale, e dei loro rapporti con le istituzioni statali, centrali e
periferiche, durante la Repubblica e il Regno d’Italia. Della precedente ricerca, dedicata alla
capitale ambrosiana, il nuovo sforzo investigativo recupera non solo la lettura istituzionale, in
una riuscita tensione dialettica tra dimensione locale e statale, ma anche il rigore metodologico, che attraverso il puntuale utilizzo di un’inedita documentazione archivistica consente di
ricostruire, oltre all’imprescindibile quadro normativo, l’effettiva pratica amministrativa di
enti territoriali «minori», in un proficuo scambio disciplinare tra storia delle istituzioni politiche, storia del diritto, storia economica e statistica.
Dopo aver compendiato il contesto costituzionale entro cui si snoda il processo di costruzione e di consolidamento degli apparati burocratici di uno Stato amministrativo esemplato
sul modello francese postrivoluzionario, l’attenzione si concentra su quegli organi del governo centrale cui, nell’ambito di un processo di razionalizzazione e di centralizzazione, furono
affidati i controlli amministrativi sugli enti locali e, in particolare, sull’organizzazione, l’attività e gli uomini di una delle camere componenti il Consiglio di Stato, il Consiglio degli uditori. La prima delle tre parti in cui è diviso il libro si chiude con la descrizione della nascita e
dell’evoluzione dell’istituto provinciale, quindi dell’introduzione delle circoscrizioni francesi,
i Dipartimenti. Alla politica fiscale e finanziaria delle città – tema di grande interesse, troppo
spesso trascurato dalla storiografia – è dedicata la seconda parte del lavoro, mentre la terza si
occupa della vita amministrativa nell’Italia rurale (in realtà ai soli casi di Abbiategrasso e Campione, rispettivamente Comuni di seconda e di terza classe).
L’insieme dei Comuni considerati non può, né probabilmente vuole, rappresentare un vero e proprio campione. È certo però che i casi trattati contribuiscono a offrirci un quadro dettagliato della vita amministrativa municipale nel periodo napoleonico. Quel che manca è semmai un tentativo di definire e caratterizzare una tipologia dell’ente locale italiano nel periodo
francese. Di ciò l’a. offre motivazioni non del tutto persuasive, richiamando, da un lato, la
presenza in tutto il testo di «quel tanto di spiegazione e di interpretazione che le fonti […] parevano consentire», dall’altro lato, «un tratto costitutivo della ricerca storica: quello di non
sopportare conclusioni definitive, esegesi ufficiali e perenni, che fatalmente si traducono in
vulgate di regime» (p. 14).
Elisabetta Colombo
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I LIBRI DEL 2007
Enzo Pagura, Condizioni di lavoro e sanità a Pordenone nella prima metà del XIX secolo,
Udine, Istituto friulano per la storia del movimento di Liberazione, 159 pp., € 15,00
Esito di una ricerca archivistica di oltre due anni, il volume di Enzo Pagura delinea in otto agili capitoli la storia della città nei suoi aspetti sociali, economici, demografici e sanitari.
La periodizzazione esamina una doppia scansione temporale. Gli ultimi anni dell’epopea napoleonica, con i perturbamenti giuridico-amministrativi riverberatisi in loco; ed il trentacinquennio del dominio austriaco compreso tra 1814 e 1848, «periodo di pace e di sviluppo» (p.
27) per Pordenone, ascesa in quegli anni a rilevante centro industriale grazie all’espansione
della produzione tessile e alla parallela crescita demografica.
L’indagine, compilativa e non strutturata organicamente da un filo rosso interpretativo,
ma ricca di dati e notizie, traccia, scrive l’a., «un’immagine inconsueta di Pordenone» (p. 5).
Degni di nota appaiono i capitoli centrali del volume. Il quinto, con la descrizione delle
condizioni di vita e lavoro dei poveri urbani – condizioni durissime, che l’a. tende ad associare ad una popolazione proto-operaia dipinta come eccessivamente disarmata di fronte alle logiche del profitto. E, soprattutto, il quarto, ragguaglio delle attività artigianali e industriali
sorte nell’800. Sono questi paragrafi a riconfermare il ruolo trainante per la vita locale dell’industria tessile, prosperata grazie alla particolare abbondanza delle fonti d’acqua. Dai 100/200
addetti in forza nel periodo pre-1839, si perverrà agli oltre mille operai dei decenni successivi, occupati in processi produttivi basati sull’utilizzo di scala dei macchinari. I cotonifici, osserva Pagura, «non erano solamente centri di produzione di beni commerciali, ma motore del
progresso sociale e civile del territorio» (p. 57). Scuole professionali, associazioni culturali, circoli di lettura, biblioteche circolanti, cooperative di consumo, istituzioni assistenziali, furono
l’effetto riflesso ma non secondario della distruzione creatrice del moderno capitalismo. La
nascente fabbrica fornì inoltre «alla collettività per oltre 50 anni tutta una serie di servizi che
l’Amministrazione comunale non era in grado di dare»: dal soccorso antincendio al tram, fino alla pubblica illuminazione (p. 57).
In piena scia weberiana le note dedicate ai fondatori dei nuovi opifici. Il capitale iniziale
dell’impresa fu precisamente fornito «da industriali di origine svizzera», luterani provenienti
da Trieste (p. 52); mentre «dirigenti e tecnici erano di confessione protestante» (p. 53), membri di una vivace comunità straniera installatasi nel quartiere Torre.
Punti forti del contributo di Pagura sono l’ampiezza dello scavo archivistico e la silloge di
testi in chiusura di volume. Alla documentazione in nota, l’appendice aggiunge materiale di
pregevole interesse, come la relazione del medico condotto Bearzi sull’epidemia di colera del
1836. Punto debole, probabilmente, il gusto per un’erudizione localistica prudente nel connettere i differenti piani descrittivi in una narrazione contestualizzante la storia della città entro le più ampie dinamiche europee.
Andrea Scartabellati
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I LIBRI DEL 2007
Abraham Pais, Oppenheimer. Dalla bomba atomica alla guerra fredda: la tragedia di uno
scienziato, Milano, Mondadori 431 pp., € 22,00 (ed. or. Oxford, 2006)
Pais è stato non solo un apprezzato storico della scienza, ma anche uno scienziato di fama
che ha dato contributi importanti alla moderna fisica delle particelle. In questo ruolo ebbe stretti contatti con Oppenheimer fra il 1946 e il 1967, lavorando con lui per sedici anni all’Institute for Advanced Studies di Princeton. Il libro, perciò, pur giovandosi di una base documentaria notevole (incentrata soprattutto sulle carte Oppenheimer, l’Archivio Niels Bohr e quello
dello stesso Institute) e dello spoglio di non meno di 23 riviste tecnico-scientifiche, oltre che
di buona parte della bibliografia più rilevante, ha valore specialmente come testimonianza di
un co-protagonista, al punto che gli anni a Los Alamos vengono solo accennati anche perché
non vissuti in prima persona dall’a. Il limite più consistente del libro è che l’attività di ricerca
svolta da Oppenheimer in California negli anni ’30 – e che costituisce il grosso della sua produzione scientifica – viene esaminata in appena 12 pagine, sebbene l’a. dichiari che proprio le
lacune a questo riguardo delle biografie già esistenti erano state una delle ragioni che lo avevano spinto ad affrontare l’argomento. Si comprendono, quindi, in modo piuttosto impressionistico i principali contributi (il processo Oppeheimer-Phillips, il limite Oppenheimer-Volkoff,
la descrizione dei sistemi elettrone-positrone, le precognizioni della fisica dei buchi neri), i limiti (gli errori di calcolo, la convinzione che l’elettrodinamica quantistica fosse inadeguata) e
il rapporto di collaborazione coi suoi studenti; tuttavia, manca un supporto che spieghi al lettore non specialista anche solo il significato dei concetti impiegati, nonché il loro ruolo e la loro evoluzione nella storia della fisica, che viene invece data per implicita.
Le parti migliori del libro, invece, sono quelle in cui si parla dell’uomo Oppenheimer e dell’azione svolta come direttore dell’Institute for Advanced Studies. Non che il ritratto che ne
emerge sia necessariamente sorprendente, ma la peculiare unione d’intelligenza e arroganza,
d’imprudenza e sicurezza di giudizio nei riguardi delle persone, di desiderio di svolgere un ruolo di primo piano nella politica atomica americana e incapacità di trovare appagamento nelle
proprie realizzazioni vengono delineate con grande sensibilità e con la sicura conoscenza diretta
dell’ambiente in cui Oppenheimer stesso agiva. La limpidezza della prosa di Pais, poi, riscatta
una certa frammentarietà data dalla quantità stessa di testimonianze che è stato in grado di raccogliere, anche grazie ad interviste fatte coi protagonisti, ormai morti da molto tempo, che si era
premurato di contattare già negli anni immediatamente seguenti la scomparsa di Oppenheimer.
Il testo di Pais si ferma – a causa della sua morte – con l’inizio del processo nel 1954, ma il curatore del libro, Robert Crease, ha potuto concludere la biografia impiegando gli appunti e il materiale lasciati dall’a. Questa parte, anche formalmente distinta dal resto, è per certi aspetti più organica ma anche più arida e meno stimolante nel mostrare un Oppenheimer che perde progressivamente la padronanza degli sviluppi della disciplina, trasformandosi in un «abile compendiatore».
Mauro Elli
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I LIBRI DEL 2007
Graziano Palamara, Pensiero e azione di un democratico meridionale. Giuseppe Ricciardi e
l’unità nazionale (1808-1882), Napoli, La Città del Sole, 225 pp., € 16,00
Dei numerosi storici che si sono interessati alla figura di Giuseppe Ricciardi, nessuno ha
delineato un quadro esaustivo del suo ruolo intellettuale e politico nel Risorgimento. L’a. si è
proposto di colmare questo vuoto, basandosi su un incrocio di fonti che vanno dalla stampa
periodica ai numerosi scritti dello stesso protagonista, dagli Atti parlamentari ai manoscritti
conservati presso l’Archivio di Stato e la Biblioteca Nazionale di Napoli. Nel patriota napoletano l’a. riconosce i tratti emblematici del movimento democratico meridionale: l’eredità di
una prestigiosa tradizione illuministica e rivoluzionaria, l’influenza del romanticismo e del
pensiero utopistico europeo, la militanza settaria e le esperienze insurrezionali, la centralità
della questione amministrativa. Nato da due repubblicani del ’99, Ricciardi si affaccia alla scena pubblica nel 1832, quando attorno alla rivista «Il Progresso» riunisce un’élite intellettuale
appartenente a quattro diverse generazioni e a differenti indirizzi politici. La sua attività di
giornalista, storico, saggista, poeta sarà da allora costante. Iscritto alla Giovine Italia nel 1833
e ben presto colpito dalla repressione borbonica, affronta da quell’epoca un lungo e variegato
esilio, che, salvo la breve parentesi del 1848 (che lo vede deputato a Napoli), terminerà solo
nel 1860. Deputato nel Parlamento italiano, dai banchi dell’Estrema critica duramente la politica meridionale della Destra. Si schiera a favore delle iniziative romane di Garibaldi, come
della guerra contro l’Austria per il Veneto. Nel 1870, deluso, abbandona la carica. Punti cardine del suo pensiero sono l’opzione repubblicana, l’avversione al centralismo sabaudo, l’istanza di riforme sociali radicali, ma rispettose del principio di proprietà privata, il laicismo –
che lo induce, nel 1869 ad organizzare l’Anticoncilio. I suoi scritti delineano una nazione inclusiva, fondata su scelte soggettive, oltre che su elementi ascrittivi come la stirpe e la lingua.
Nella pratica politica, prima e dopo il 1860, Ricciardi si mostra alieno da rigidità ideologiche
e aspira a costruire, su obiettivi condivisi, ampi fronti di lotta. La connotazione laica e anticlericale del suo pensiero, così come la sua autonomia d’iniziativa lo pongono più volte in contrasto con Mazzini, pur senza determinare mai un’aperta rottura.
È un peccato che il pur accurato profilo di Palamara non tenga conto di alcuni elementi
posti in evidenza da A. Russo nel suo recente volume «Nel desiderio delle tue care nuove». Scritture... (Milano, FrancoAngeli, 2006): mi riferisco ai rapporti di Ricciardi con il movimento
laicista del «libero pensiero» e col nascente femminismo napoletano postunitario – ricostruiti da Russo attraverso relazioni epistolari che lasciano intravedere la vivace «minoranza attiva»
che dopo il 1860 fa riferimento al deputato meridionale; e ai carteggi familiari, testimoni di
un’esistenza vissuta «in anticipo» sui tempi, del mondo soggettivo di un uomo ai margini della politica e della cultura dominanti dell’epoca, particolarmente vicino, invece, a temi e sensibilità propri della società attuale.
Laura Guidi
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I LIBRI DEL 2007
Pierluigi Pallante (a cura di), Foibe. Memoria e futuro, Presentazione di Oscar Luigi Scalfaro, Roma, Editori Riuniti, 316 pp., € 16,00
Il volume raccoglie gli atti dei convegni internazionali tenuti a Roma e a Rovigo nel febbraio e nel maggio 2007. La tempestiva proposta di tali materiali indica la persistenza di un
sovraccarico politico-mediatico sulle vicende del confine orientale, che ancora muove la pubblica opinione e gli storici, chiamati a puntualizzare, documentare, comparare. In questo caso si tratta di studiosi che sono molto addentro alle questioni e pertanto consapevoli della necessità di relazioni transnazionali, di lunghe periodizzazioni e di comuni punti di partenza,
come quella Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena. Rapporti italo sloveni
1880-1956 che compare in appendice al volume.
I tredici saggi proposti, introdotti dalla sintesi di Pallante – e da un toccante richiamo di
Scalfaro al rispetto del vero – spaziano dall’analisi delle identità comunitarie nell’Adriatico
nord-occidentale dal 1850 (Egidio Ivetić) alle nuove e auspicabili forme di riconciliazione e
di autocoscienza dell’Europa (Guido Crainz, Pedrag Matvejevič). L’analisi di M. Kacin
Wohinz parte dal 1918, dalla conclusione di quel processo «imperfetto» di unificazione nazionale italiana che inglobò circa mezzo milione di slavi della Venezia Giulia. Sei contributi,
provenienti da diverse narrazioni nazionali e varie metodologie, mettono a fuoco i costi specifici della seconda guerra mondiale al confine orientale e le peculiarità politiche del passaggio al dopoguerra e alla guerra fredda (Ravel Kodrič, Enzo Collotti, Antonio Varsori, Marco
Galeazzi, Boian Godeša e Tadeja Tominšek, Marino Manin). Ne risultano privilegiate le categorie di «nazionalizzazione»/«snazionalizzazione», «nazionalismo»/«internazionalismo», rispetto alle quali ci si interroga in modo trasversale sui tempi, sugli strumenti di repressione,
sui gradi di animosità e i salti di qualità, sulle relazioni esistenti tra spinte dal basso e violenza di Stato; in tale ambito Nevenka Troha valuta anche il peso della teoria leninista secondo
la quale negli Stati comunisti le questioni nazionali si sarebbero dissolte come neve al sole grazie alle virtù unificatrici dell’internazionalismo rivoluzionario.
In tale ricchezza di tematiche e approcci – comprensiva anche di un significativo repertorio di memorie di protagonisti – solo due interventi, quelli di Franco Ceccotti e Raoul Pupo, rileggono la specificità del tema foibe, distinguendo tra gli eccidi in Istria del 1943 e quelli nell’area triestina e goriziana del maggio-giugno 1945 e trattando anche la spinosissima questione delle quantificazioni. La sobrietà degli stili e la capacità di operare sintesi documentate segnano un passo ulteriore verso una storiografia critica che, attraverso il tema della frontiera, sempre più si rivela capace di affrontare un impopolare lavoro di demitizzazione.
Gloria Nemec
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I LIBRI DEL 2007
Paolo Paoletti, Cefalonia 1943. Una verità inimmaginabile, Milano, FrancoAngeli, 543
pp., € 32,00
Il generale Gandin non fu un eroe che resistette ai tedeschi, ma un vero e proprio «traditore»: questa la tesi di fondo del libro. Secondo l’a., Gandin ricevette inequivocabili ordini sull’atteggiamento da assumere verso i tedeschi già l’11 settembre. Tuttavia, a differenza di quanto gli era stato chiesto, e di quanto avveniva in altre isole del Mediterraneo, egli fece in modo
che l’esercito italiano non mantenesse le posizioni strategiche che già controllava perché il suo
obiettivo era consegnare truppe e armi ai tedeschi. Le trattative col Reich fallirono per un irrigidimento di entrambe le parti. Ma allora, si chiede Paoletti, perché gli italiani di Cefalonia
furono sterminati mentre altrove i loro commilitoni subirono destini meno crudeli? Il fatto è
che la Divisione Acqui non si limitò a cambiare fronte, ma si ammutinò e l’ammutinamento
era considerato dai tedeschi l’atto più disdicevole che un soldato potesse compiere. «Diventa
così evidente che l’efferatezza germanica dimostrata a Cefalonia non dipendeva più solo da un
fattore militare, ma, diciamo così, etico-morale» (p. 413). Infine, si ricostruisce il percorso che
ha portato, prima l’Ufficio storico dello SME, poi i politici e gli studiosi, a considerare erroneamente Gandin un eroe della Resistenza.
L’a. è molto critico verso gli storici che hanno scritto su Cefalonia «senza avere consultato i documenti e le fonti estere» (p. 23) e non come si fa nel presente testo, dove «per dimostrare il tradimento del gen. Gandin parleremo di fatti e useremo documenti» (p. 27). Il libro
è farcito di frasi tipo «gli storici devono prendere atto» o «è questo quello che gli storici […]
tacciono» (pp. 37-38). Per non parlare dei grossolani errori attribuiti a Rochat, che in varie
occasioni «dimostra di non aver letto» indispensabili documenti (passim). Questo atteggiamento molto (forse troppo) polemico nei confronti della storiografia poggia sulla convinzione che una cospicua ricerca archivistica, come quella effettivamente svolta dall’a., sia garanzia
di buoni risultati storiografici. Invece, in questo caso le fonti rischiano di schiacciare la ricostruzione con una dovizia di particolari eccessiva (un intero paragrafo ha il solo compito di
stabilire se sia vero o meno che Gandin ha scagliato la croce di ferro contro il plotone che lo
stava giustiziando). Anche per questo, mi sembra che restino più convincenti le ipotesi proposteci da coloro che, pur riconoscendo ai fatti di Cefalonia una grande rilevanza, li hanno
sempre interpretati secondo una visione sistemica, cioè alla luce dello sbando cui l’intero paese andò incontro. Leggere «i documenti per quello che dicono», come l’a. sostiene di aver fatto, può indurre a raccontare fin nei minimi dettagli la «verità» delle fonti, che raramente, però,
è utile se recepita senza alcuna scrematura interpretativa o se metabolizzata attraverso un troppo tenue richiamo alle principali problematiche generali. Specie per un libro che, recando il
termine «verità» nel titolo, dà per scontato che quanto scritto prima sull’argomento non valga granché e, soprattutto, che null’altro potrà mai aggiungersi.
Matteo Di Figlia
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I LIBRI DEL 2007
Federico Paolini, Storia sociale dell’automobile in Italia, Roma, Carocci, 154 pp., € 13,50
Lo sviluppo della motorizzazione in Italia non costituisce solo un indicatore della crescita economica, ma anche un parametro del tipo di sviluppo perseguito dall’Italia e di tali processi il volume offre una ricostruzione sintetica ma puntuale, ricostruzione che mette in luce
anche le implicazioni socioculturali della diffusione dell’auto. Gli albori della crescita della
motorizzazione conobbero una prima accelerazione con l’avvento del fascismo che vide nella
diffusione dell’auto un segno della potenza del regime. Fu sotto il fascismo che vennero avviate le primi grandi opere autostradali in risposta alle richieste che venivano dai produttori.
La promozione dell’auto per tutti, obiettivo ideologico perseguito anche dai nazionalsocialisti, si scontrò però con le limitate possibilità di consumo della popolazione pur segnando qualche passo avanti con l’introduzione della Topolino. Fu solo nel dopoguerra che si registrò lo
sviluppo della motorizzazione di massa. Il fenomeno ebbe però caratteristiche specifiche nel
caso italiano. Prima di tutto il tasso di motorizzazione fu più lento rispetto a quelli di altri paesi europei per poi conoscere un’accelerazione negli anni ’70 e ’80 quando l’indice di incremento delle vendite portò l’Italia in vetta alle classifiche. In secondo luogo il mercato italiano fu
segnato fino agli anni ’80 dal predominio delle marche italiane e in particolare della Fiat, una
peculiarità che venne progressivamente meno nel corso del decennio come conseguenza della messa in produzione di modelli di scarso successo e del prevalere di una strategia basata sulla finanziarizzazione anziché sulla progettazione industriale. La terza specificità della diffusione del mezzo automobilistico è stata la subordinazione delle scelte urbanistiche e di lavori pubblici al predominio dell’automobile, una politica che ha spesso incontrato il sostegno delle associazioni di categoria. Quest’ultimo aspetto ha prodotto uno squilibrio soprattutto nei grandi centri urbani tra uso del mezzo pubblico e uso del mezzo privato, senza riuscire a trovare
una soluzione anche per la resistenza dei cittadini divisi tra desiderio di minor traffico e minor inquinamento e la difesa dell’impiego del proprio mezzo a cui viene attribuito un elevato valore simbolico e sociale. Come ben ricostruisce Paolini, la diffusione della motorizzazione privata ha significato per i suoi utenti un ampliamento della sfera di libertà e un non marginale contributo all’aumento del senso di uguaglianza tra i cittadini. Le stesse persistenti limitazioni all’acquisto o all’uso della automobile da parte di alcune categorie (militari e religiosi) erano un chiaro indice del valore sociale che la popolazione attribuiva all’auto e al tempo stesso rispecchiavano anche il timore che settori della classe dirigente nutrivano verso la
sua diffusione incontrollata.
Scritto con un occhio rivolto al lettore non accademico, ma non per questo privo del necessario rigore scientifico, il volume di Paolini offre un’analisi del fenomeno precisa e utile e
al tempo stesso consapevole delle acquisizioni più recenti della storiografia sui consumi.
Stefano Cavazza
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I LIBRI DEL 2007
Marco Paolino, La Germania dopo la riunificazione, Viterbo, Sette Città, 177 pp., € 13,00
«Benedetto Croce ha scritto che “ogni vera storia è storia contemporanea”, nel senso che
le passioni e gli interessi che noi viviamo ci spingono sempre ad indagare il passato, anche
quello più recente [...]» (p. 11). Questo è l’assunto al quale Marco Paolino si richiama esplicitamente per giustificare la scelta di scrivere un libro su La Germania dopo la riunificazione.
Vi è però un’altra ragione, non meno importante, che spinge l’a. a ripercorrere la storia tedesca più recente ed è strettamente legata alla finalità di questo saggio. La si evince innanzitutto dall’articolazione del volume. Nell’Introduzione e negli otto capitoli che seguono Paolino
si propone, infatti, non tanto di fornire una cronistoria delle principali vicende politiche che
hanno segnato la Germania dalla Wende del 1989-1990 ai giorni nostri, quanto piuttosto di
individuare e di valutare in prospettiva storica la natura e la portata degli effetti fin qui prodotti dalla riunificazione. È convinzione dell’a., infatti, che «gli anni che sono trascorsi dalla
riunificazione [...] consentono non solo di fare un bilancio dei processi che si sono verificati
nella società e nel sistema politico tedesco, ma anche di avviare una riflessione storica su quello che è accaduto, utilizzando le ricerche che i politologi, gli economisti e i sociologi hanno
condotto in questi anni» (p. 16). Questo approccio multidisciplinare è, d’altra parte, indispensabile per affrontare un processo storico che, per molti aspetti, non si è ancora concluso nel
tempo. A tale riguardo, Paolino rifiuta esplicitamente quell’analisi molto diffusa tra i tedeschi
dell’Ovest, che invita a rileggere la transizione tedesca nel periodo post-unitario nei termini
di una mera «occidentalizzazione della DDR». Proprio la mancata realizzazione di questa dinamica e delle correlate previsioni ottimistiche di Helmut Kohl avrebbe grandemente influito sull’evoluzione del sistema politico tedesco: in particolare, sul risultato delle elezioni del
1998, che segnano una vera e propria svolta nella storia della democrazia tedesca, sull’affermazione elettorale della PDS (oggi confluita nella Linke insieme ai socialdemocratici delusi
della svolta liberale di Schröder), ma anche sulla decisione di affidare ad Angela Merkel, ad
una tedesca orientale, la Segreteria generale e successivamente la Presidenza della CDU. Allo
stesso tempo, Paolino rifugge dalla tentazione di accreditare interpretazioni deterministiche,
valorizzando l’importanza che la «libera scelta» evidentemente tuttora ha nella storia politica
tedesca. I successi e gli insuccessi, che hanno fin qui segnato l’evoluzione del sistema politico
tedesco e, in particolare, la transizione osservata nei cinque Länder orientali, nel contesto del
sistema universitario, della politica di tutela e di valorizzazione del patrimonio culturale, della famiglia, della stampa e della televisione sono, infatti, anche e soprattutto il frutto di alcune scelte puntuali che sono state compiute dai diversi attori della politica.
Gabriele D’Ottavio
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I LIBRI DEL 2007
Aldo Pardi, Il sintomo e la rivoluzione. Georges Politzer crocevia tra due epoche, Roma, manifestolibri, 206 pp., € 22,00
Non sempre all’acutezza del pensiero di un autore corrisponde una tradizione critica adeguata. È il caso di Georges Politzer. Sebbene il suo nome venga comunemente associato a quella straordinaria stagione culturale che attraversò la Francia tra le due guerre mondiali, Aldo
Pardi è uno dei primi studiosi ad affrontarne la produzione teorica, ripercorrendone le strette relazioni con un percorso biografico intenso, radicale, drammaticamente breve e indagandone con sistematicità il filone di maggiore originalità: le ricerche in ambito psicologico.
1903-1942: la data della nascita, all’estremo confine settentrionale dello Stato ungherese, e quella della morte a Mont-Valérien, dove venne fucilato in quanto membro della Resistenza francese. Nel mezzo, l’esilio, il trasferimento a Parigi, la formazione filosofica e la partecipazione al fermento intellettuale della capitale: il surrealismo, la fondazione della rivista
«Philosophies», la scoperta della psicoanalisi, la conversione al marxismo e la scelta dell’impegno nel Partito comunista, che finì con il determinare – negli anni del Rassemblement populaire e in quelli della drôle de guerre – tanto l’attività speculativa quanto i comportamenti politici del giovane militante. «La fretta, la perentorietà». Questo è il contesto entro cui presero
vita le differenti tappe in cui è invalso l’uso di articolare il tentativo polizteriano di fare della
psicologia una scienza del concreto: l’attacco all’approccio metafisico di Bergson; l’avvicinamento a Freud, in virtù della svolta impressa alla nozione di «soggetto» da un modello fondato «sulla unicità e storicità del sistema psichico» (p. 107); la presa di distanza dalla psicologia
classica, in nome di una concezione drammatica del vissuto tesa al superamento delle strettoie
funzionali del metodo analitico e alla ridefinizione dell’oggetto stesso della conoscenza psicologica, indirizzandola verso le «forme complesse della vita del soggetto agente e storicamente
situato» (p. 167). Non è questa la sede per addentrarsi nelle rigorose analisi infra ed extratestuali proposte nel volume; né per rendere conto della complessità e della portata epistemologica dei procedimenti argomentativi in esso esaminati. È forse utile, tuttavia, evocare l’ipotesi cui Pardi giunge a conclusione della sua indagine: Georges Politzer «scopritore della intenzionalità come categoria definitoria della soggettività psicologica, al pari di quel movimento di forte innovazione nelle scienze in generale, e nella psicologia in particolare, che prende
il nome di fenomenologia» (p. 17). Politzer e Husserl: un accostamento atto a rilanciare l’attualità del pensatore ungherese e a suggerire possibili ricerche future sui molteplici canali di
circolazione, nell’Europa entre-deux-guerres, di una cultura dell’intenzionalità che avrebbe
marcato in profondità sia l’evoluzione della psicologia e della psichiatria sia le teorie degli intellettuali marxisti, esistenzialisti e strutturalisti francesi in primis.
Maddalena Carli
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I LIBRI DEL 2007
Giuseppe Pardini, Roberto Farinacci, ovvero della rivoluzione fascista, Firenze, Le Lettere,
471 pp., € 28,50
La figura di Roberto Farinacci ha conosciuto nell’ultimo periodo una grande attenzione
da parte della storiografia. Dopo il volume di Matteo Di Figlia, uscito con l’editore Donzelli, è apparsa per Le Lettere di Firenze un’altra biografia dedicata al ras di Cremona, scritta da
Giuseppe Pardini, docente di Storia contemporanea presso l’Università del Molise.
Se il testo di Di Figlia si concentra sulla analisi della retorica pubblica farinacciana, quello di Pardini si caratterizza invece per una trattazione di tipo più tradizionale. Ricorrendo a
un’ampia mole documentaria, frutto di un ingente lavoro di ricerca archivistica, Pardini ripercorre con grande puntualità le varie fasi della vita politica di Roberto Farinacci. Chiamato a
proporre una lettura complessiva dell’esperienza politica del ras di Cremona, dalla conquista,
nel primo dopoguerra, del potere locale nella sua provincia, fino al ruolo di più importante
sostenitore dell’alleanza con la Germania nazista sul finire degli anni ’30, l’a. conferma l’immagine nota di un Farinacci campione dell’ala radicale del primo fascismo, legata al mito della «rivoluzione» da compiere contro i poteri forti e i tradizionali bastioni del conservatorismo,
Monarchia ed Esercito in primis. L’ampio network di personalità politiche ed economiche legate a Farinacci, presentato da Di Figlia come una delle tante strutture affaristiche createsi,
negli anni della dittatura, intorno ai vari gerarchi in permanente lotta tra di loro, a parere di
Pardini fu invece lo strumento di battaglia politica del leader dell’intransigentismo fascista.
Alla stessa esigenza avrebbe risposto poi la rete spionistica disseminata in ogni angolo d’Italia
dal ras di Cremona, la cui capacità di mantenere legami con i settori più radicali del fascismo
avrebbe condotto alla formazione di una vera e propria «corrente farinaccciana» nel PNF,
emarginata ma non sconfitta neppure dopo l’allontanamento, nel 1926, dalla Segreteria nazionale del suo ispiratore.
La presunta tensione moralizzatrice attribuita ai «farinacciani», motivo del grande consenso goduto presso la popolazione da questa anima del fascismo, ci sembra però risentire di
un’eccessiva ricezione dell’auto-rappresentazione proposta da Farinacci e dal suo entourage,
evidente anche nei giudizi giustificatori sul primo squadrismo fascista la cui violenza eversiva
è schematicamente presentata come una sorta di ineliminabile necessità per far uscire l’Italia
dalla crisi del 1919-21. Riducendo inoltre la forza di Farinacci al suo richiamo contro la corruzione e il malaffare si finisce forse per spiegare molto poco della sua capacità di rappresentare l’insieme delle pulsioni e degli stati d’animo di un pezzo importante della base del PNF.
L’anima intransigente e radicale del fascismo, di cui indubbiamente Farinacci fu espressione,
tanto da non poter mai essere completamente eliminato da Mussolini dalla scena pubblica,
non viene infatti indagata nel suo reale portato politico. Cosa sia stato il «fascismo-movimento» di defeliciana memoria rimane dunque una questione storiografica ancora aperta.
Tommaso Baris
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I LIBRI DEL 2007
Paolo Parlavecchia, Renato Guttuso. Un ritratto del XX secolo, Torino, Utet, VI-341 pp., €
22,00
«Ho sempre pensato che un pittore dovesse parlare direttamente agli uomini. Se dipingo
una barricata voglio che sia chiaro da che parte mi trovi di quella barricata», dice Guttuso nel
1960 (p. 115), rievocando la stagione più impegnata della sua pittura, in cui sacro e profano
si mescolano e il richiamo al mito è trasfigurazione dell’attualità. Fedele a tale assunto, Parlavecchia non perde occasione per lasciare risuonare i pensieri e le parole dell’artista, degli amici e dei critici, degli uomini politici e dei familiari, consegnando al lettore uno spaccato vivace dell’Italia, sia sotto il fascismo, sia nel secondo dopoguerra.
Alternando fonti e ricostruzioni del clima politico e culturale del momento, la narrazione segue il fluire cronologico con una prosa piacevole: caratteristiche che collocano di diritto
il testo tra le biografie storiche documentate, sempre gradite al vasto pubblico, che vi troverà
anche qualche elegante digressione nella cronaca rosa.
Più che il pittore, infatti, emerge un Guttuso impegnato nell’agone politico, attaccato dagli ambienti più tradizionalisti quando espone Crocifissione al Premio Bergamo del 1942, e
convinto sostenitore di un realismo appena passato al filtro del picassismo. Una scelta, quest’ultima, che non pare sofferta, dietro la quale non si sente la lacerazione del fronte modernista, coerentemente con il ritratto proposto da Parlavecchia: «Guernica [...] nella sua essenza è un’opera nuova, è un grido di rivolta e di vendetta [...] il grido formale si trasforma in tragedia e gloria [...]. Picasso mette se stesso e il suo genio al servizio della lotta comunista per
un mondo più bello più libero, più felice» sintetizza il protagonista (p. 231).
Altro snodo esistenziale e tassello importante di quella fase storica sono, dal 1952, i viaggi in Unione Sovietica, che Guttuso condivide idealmente con Corrado Alvaro, Italo Calvino, Carlo Levi, Pier Paolo Pasolini, Anna Maria Ortese e tanti altri, le cui impressioni qui accostate concorrono a tratteggiare un panorama sfaccettato di maturazioni politiche e umane.
L’idea che il lettore si fa è quella di una storia personale, emblematica ma non unica, forse anche per la scelta di non suscitare dubbi, di non porre interrogativi ai quali è difficile dare risposta.
Nel libro è evocato con efficacia il contesto storico in cui Guttuso si muove, ma si sente
l’assenza di una altrettanto puntuale ricostruzione dell’ambiente artistico, che è lo specifico milieu umano e professionale che interpreta l’attualità più spicciola così come i grandi eventi storici. È questo il tessuto vivo e palpitante che circonda l’artista, e solo in dialettica con esso si
possono comprendere a fondo scelte e dichiarazioni pubbliche e private. Parlavecchia, invece,
adotta un’ottica diversa, in cui le opere pittoriche sono certo momenti di svolta, ma restano documenti di un tragitto che si compie altrove e forse per questo non abbastanza rivelatore.
Francesca Gallo
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I LIBRI DEL 2007
Marco Patricelli, L’Italia sotto le bombe. Guerra aerea e vita civile, 1940-1945, Roma-Bari, Laterza, XII-363 pp., € 20,00
È una storia generale dei bombardamenti alleati sull’Italia. Nella Premessa l’a. esplicita i
propri intenti e il fuoco con cui intende condurre l’analisi: riportare il quadro «reale e drammatico della gente senza volto», rifiutandosi, però, di «perdersi nei rivoli del particolarismo…»
con evidente allusione critica a eventuali lavori micro. Ma, se non si interrogano i soggetti attraverso fonti documentarie appropriate, se non si ricostruiscono le reti dei rapporti locali, le
complesse vicende biografiche che si intrecciano con l’andamento della guerra, la gente senza
volto rimane senza volto, e, cosa importante per un lavoro scientifico che voglia mettere a fuoco la vita della popolazione civile, non se ne colgono motivazioni, sentimenti, idee, culture.
Il volume ha un prevalente e chiaro svolgimento narrativo costruito attraverso le cronache dei giornali dell’epoca e attraverso la documentazione dell’Archivio Centrale dello Stato.
Cosa che si deduce dalle fonti bibliografiche citate alla fine del testo, poiché il libro non contiene note né riferimenti espliciti ai testi e ai documenti utilizzati. La storia si dipana come un
racconto giornalistico. C’è il tentativo di ricreare l’atmosfera del tempo attraverso canzoni,
spettacoli, film del momento. Il diario di Ciano fa poi quasi da contrappunto alla cronaca delle vicende di guerra: viene utilizzato per svelare gli umori delle classi dirigenti e il progressivo
allontanamento della popolazione dal regime.
Il volume non si confronta con la vasta letteratura nazionale e internazionale prodottasi
in questi anni sul tema della violenza di guerra. Non vi si trova, da questo punto di vista, alcuna riflessione innovativa. Il lettore è inoltre posto nell’impossibilità di identificare le fonti
utilizzate. L’ambiziosa presentazione della copertina «ricerca documentaria inedita» lascia a
questo punto perplessi.
Gabriella Gribaudi
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I LIBRI DEL 2007
Claudio Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, VIII-236 pp.,
€ 10,00
Questo libro è molto più di una «prima lezione» ed è solo in parte un’introduzione alla storia contemporanea. Benché i suoi riferimenti e i suoi esempi attengano per lo più ai secoli XIX e
XX, infatti, Pavone tende sempre a risalire dalle considerazioni di metodo ad un livello teorico.
Specie alcuni dei sette capitoli dell’opera (1. Legittimità della storia contemporanea; 2. Libertà, causalità, casualità; 3. Memoria e storia contemporanea; 4. Fonti; 5. Scrivere storia contemporanea; 6.
Periodizzazione; 7. Ottocento e Novecento: un itinerario) sono densi saggi di teoria ed epistemologia della storia, il cui rilievo va oltre l’età contemporanea e investe i fondamenti della disciplina.
Penso in particolare ai capp. 1, 2 e 5, quest’ultimo in gran parte dedicato al rapporto fra
storia, politica e scienze sociali. Ne emerge una concezione della storia sorretta da un’alta tensione etica e civile, equilibrata e opposta a «qualsiasi forma di reductio ad unum» (p. VII). In
un paese in cui «spesso le teorie passano di moda prima di essere state messe alla prova in ricerche di lunga lena» (p. 124), Pavone si richiama a un canone che viene da lontano, condividendo con alcuni degli autori che più paiono essergli cari (da Bloch a Le Goff, da Pomian a
Koselleck) sia l’ancoraggio a una tradizione consolidata che la cura per il suo rinnovamento.
Tanto più necessario, questo, perché «il corso storico diventa sempre più rapido e complicato» ed è «come se la storiografia quasi non fosse più in grado di tenere il passo con la storia»
(L. von Stein, 1843, cit. a p. 6).
Che Pavone non abbia mai smesso di guardare avanti appare fra gli altri dal cap. 4, in cui alla sua eccezionale competenza si somma una notevole sensibilità per le nuove fonti del nostro
tempo. Lo conferma il cap. 6 con una riflessione sui concetti di modernità/contemporaneità e
storia moderna/contemporanea (due «coppie oppositive» in parte sovrapposte), che lo porta a «rimettere in discussione la tradizionale distinzione» fra le due età (p. 157). Ne scaturisce, scrive, un
intreccio disomogeneo di molteplici, mutevoli periodizzazioni e poiché il termine «moderno» ha
senso solo per contrasto, ciò conferisce «alla stessa contemporaneità storiografica un significato
difficile da trasformare in un preciso criterio di periodizzazione» (p. 158). Di questa visione complessa e aperta della storia contemporanea l’a. non trae però tutte le conseguenze, accogliendo infine l’opinione prevalente che colloca la storia contemporanea nei secoli XIX e XX.
Altro vi sarebbe da dire su questioni pure qualificanti, come quelle relative al rapporto tra
storia e memoria o ai temi dello Stato, della rappresentanza politica e dei diritti, lungo i quali Pavone traccia un suo «eurocentrico» itinerario attraverso i due secoli. Se del suo libro ho
sottolineato gli aspetti più generali, tuttavia, è perché esso ha il respiro di un «classico». L’a. lo
giudica un «tentativo di mediazione tra le domande stratificatesi nel corso di una ormai lunga vita» (p. VII) e quelle degli studenti: anche se si tratta di una «prima lezione» tutt’altro che
facile, c’è solo da augurarsi che il tentativo riesca.
Tommaso Detti
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I LIBRI DEL 2007
Gianfranco Peroncini, Il sillogismo imperfetto. La guerra d’Algeria e il «piano Pouget», un’alternativa dimenticata, Prefazione di Giorgio Galli, Milano, Mursia, 795 pp., € 26,00
Questo corposo volume, scritto da un giornalista milanese dai molteplici interessi e dalla buona penna, con Prefazione di Giorgio Galli, ripercorre con dovizia le tappe principali della crisi algerina, che travolse la Francia negli anni ’50 fino a diventare causa del crollo della IV
Repubblica nel 1958. Una vicenda che ha come protagonisti, oltre agli insorti del Fronte di
Liberazione Nazionale e il popolo algerino, la nutrita comunità di europei residenti in Algeria (i pied-noirs), un governo espressione di istituzioni in grave crisi e un esercito di reduci alla ricerca di un riscatto dopo le frustranti ritirate dal Vietnam e da Suez. A questi attori si aggiungeranno il generale De Gaulle e i gollisti, che approfitteranno della crisi per tornare al potere e riplasmare la Francia: il nuovo corso guiderà il disimpegno francese e l’indipendenza algerina del 1962. La storia qui raccontata è vista dalla prospettiva dei paras francesi, chiamati
a reprimere la rivolta del FLN da un sistema politico dal quale si sentono distanti e traditi. Il
libro illustra la lunga genesi della frattura tra ufficiali dell’esercito e governo con gran profusione di digressioni che, se aiutano a comprendere la complessità della questione, rischiano
tuttavia di favorire una dispersione nella presentazione degli eventi. Il filo conduttore dello
studio (che con abbondanza ricorre anche a fonti letterarie) è l’esistenza di un’altra opzione
praticabile per l’Algeria, diversa dalle ipotesi in campo di «Algeria francese» (sostenuta dai
pied-noirs) e di «Algeria indipendente» (chiesta dal FLN): il «piano Pouget» (dal nome di un
maggiore dei paracadutisti), ossia un’aspirazione maturata fra alcuni paras francesi nel maggio
1958 e fondata sull’idea di un’Algeria franco-musulmana associata alla Francia. Una fraterna
convergenza delle istanze degli insorti e dei pied-noirs, sotto gli auspici dell’esercito francese e
del FLN. L’ipotesi, sposata dall’a. che non nasconde ammirazione per le gesta e la tempra dei
paras (un esempio per la «gioventù di oggi, smarrita e senza fede», p. 718), accompagnata a
una forte critica al sistema politico e culturale francese dell’epoca, sarebbe fallita a causa degli
interessi molteplici presenti in campo. Più precisamente, per via di un «vasto complotto a cerchi concentrici» (p. 700), guidato in ultima analisi dai grandi potentati economico-finanziari francesi e internazionali. Una tesi, qui forzatamente semplificata, che non può non suscitare qualche perplessità per l’eccessivo ricorso, nella narrazione, al tema cospirativo come esegesi degli eventi storici di Francia e d’Algeria. Resta inoltre da chiarire la reale praticabilità e accettazione del cosiddetto «piano Pouget» presso la comunità musulmana: la fraternizzazione
e il rispetto reciproco tra alcuni leader del FLN e i paras e una riuscita manifestazione congiunta di europei e algerini, organizzata dall’esercito il 16 maggio 1958, non sono forse sufficienti a disegnare uno scenario di pacifica convivenza tra le comunità d’Algeria. In questo senso il volume è uno stimolante punto di partenza per lo sviluppo di questo aspetto della questione.
Enrico Palumbo
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I LIBRI DEL 2007
Marta Petricioli, Oltre il mito. L’Egitto degli italiani (1917-1947), Milano, Bruno Mondadori, IX-500 pp., € 35,00
Lo studio di Marta Petricioli ci restituisce un’immagine viva e articolata della presenza degli italiani in Egitto nei primi decenni del ’900. La studiosa, pur premettendo alcune notizie storiche circa l’origine della comunità italiana, fa partire la sua indagine dal 1917, anno in cui fu
effettuato il censimento generale della popolazione egiziana. Tale censimento è di estremo interesse per gli studiosi del paese del Nilo, poiché nella registrazione dei sudditi egiziani si tenne
conto di una serie di fattori etnici, confessionali, nazionali, che hanno permesso di ricostruire la
complessità e la estrema diversità nella composizione della popolazione residente in Egitto. Il
censimento fu realizzato nel momento in cui, dopo lo scoppio della Grande guerra, il paese fu
dichiarato protettorato britannico. Da allora, ogni dieci anni esso fu ripetuto, consentendo agli
studiosi di analizzare i mutamenti della popolazione nel corso del tempo, fino alla crisi del secondo dopoguerra. È ciò che fa Petricioli, non limitandosi però alla sola analisi dei pur essenziali dati forniti dall’Ufficio di Statistica egiziano, ma integrandoli con un’imponente mole di documentazione ricavata dallo spoglio degli archivi dei ministeri degli Esteri e di altre istituzioni
statali esterne al paese, come Francia, Inghilterra, Italia. Accanto a queste fonti, la studiosa ha
potuto avvalersi di archivi privati, non meno interessanti di quelli ufficiali per ricostruire il vissuto e restituire un’immagine della comunità italiana che attraverso quasi un secolo ci appare
molto viva e dinamica. Mi riferisco, in particolare, ai documenti ancora non pubblicati delle logge massoniche italiane cui aderivano molti connazionali, documenti che sono ancora in fase di
studio e attendono una correzione e una pubblicazione definitiva. Tale documentazione solo apparentemente costituisce un noioso elenco di nomi senza volti. Scorrendo con attenzione e pazienza le liste che la studiosa riporta per esteso si scopre, ad esempio, che alla Loggia cairota della «Cinque giornate» apparteneva quell’Enrico Insabato, appassionato conoscitore del mondo
islamico, che a inizio secolo si era prodigato per conquistare all’Italia l’amicizia di ambienti islamici egiziani in vista dell’impresa di Libia e che, per qualche tempo, era stato anche una sorta di
agente di Giolitti, finché la sede diplomatica italiana si attivò per farlo espellere dal paese.
È difficile rendere la ricchezza dell’affresco che Petricioli ci restituisce. Dal volume emerge un quadro d’insieme che vede affiancate diverse immagini della presenza italiana in Egitto: una presenza molto diversificata quanto a provenienza geografica, tipologia familiare, condizioni sociali, affiliazione politica. Difficile trarne una sintesi, tanto che, forse proprio per
questo, l’a. non premette un’introduzione, né appone una conclusione al suo studio. I tasselli di vario colore e dimensione che hanno costituito il mosaico della presenza italiana in Egitto sono osservati e descritti da vicino, incrociando le notizie provenienti da fonti diverse. A
lettura ultimata, sollevando lo sguardo e osservando a distanza la descrizione, ognuno potrà
intuire i contorni generali, le linee evolutive del disegno di tale presenza.
Paola Pizzo
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I LIBRI DEL 2007
Marta Petricioli, Donatella Cherubini (a cura di), Pour la paix en Europe - For Peace in
Europe. Institutions et société civile dans l’entre-deux-guerres - Institutions and Civil Society
between the World Wars, Bruxelles-Bern, Peter Lang, pp. 656, s.i.p.
Il volume raccoglie i risultati di una ricerca collettiva che ha studiato il vasto fronte politico e associativo di ispirazione pacifista nell’Europa fra le due guerre, con particolare attenzione agli anni ’20. Problemi nuovi, come la scoperta del problema delle minoranze in gran
parte dei nuovi Stati europei, la difficile ricostruzione di un sistema di liberi scambi commerciali, la necessità di una bilanciata riduzione degli armamenti, spingono l’opinione pubblica
più avvertita e i suoi rappresentanti politici a inventare risposte originali da contrapporre alla
tradizionale Realpolitik degli Stati europei, ma anche a superare il mito anteguerra della sola
via giurisdizionale alla composizione dei conflitti.
La Società delle Nazioni fa da catalizzatrice delle associazioni pacifiste, che su di essa fanno pressioni e si collegano, ma è anche una cornice istituzionale in cui le diplomazie europee
hanno modo di lavorare con una continuità mai conosciuta in precedenza. I 27 saggi del volume parlano di associazioni come il Bureau international de la paix o la Lega italiana dei diritti dell’uomo che, come sezione della Ligue des droits de l’homme, assiste i fuoriusciti italiani e svolge in mezza Europa opera di propaganda antifascista e pacifista. Altri trattano di alcune delle commissioni e agenzie tecniche della Società delle Nazioni che cercano, con molta buona volontà e alterni risultati, di costruire una trama di relazioni e procedure volte a comporre i conflitti ma anche a generare convergenze in campo economico, educativo, nella tutela dei diritti delle minoranze, delle donne e dei fanciulli. Con distacco e realismo è analizzata le genesi del patto Briand-Kellog del 1928, che bandiva la guerra dalle relazioni internazionali, mentre in altre parti si mettono giustamente in luce i limiti del progetto di una federazione degli Stati europei, che pure rappresentano i momenti in cui le menti politiche più
lungimiranti intravedono nuove strade politiche e istituzionali per uscire dalla logica del conflitto permanente fra gli Stati europei. Non mancano interventi dedicati ai film, alle pièces teatrali e agli scritti che promuovono le idee pacifiste. Alcuni saggi trattano del pacifismo di
ascendenza cattolica, la cui genesi è fatta risalire all’azione di papa Benedetto XV, un pacifismo fortemente contrastato a livello di opinione pubblica e clero intermedio.
Il volume dissoda un terreno di ricerca ben poco esplorato, portando a risultati rilevanti,
in primo luogo la rivalutazione della Società delle Nazioni, sottratta all’immagine ad una dimensione di impotente macchina politica nella mani di poche nazioni. Segnalare le molte rilevanti assenze, in primo luogo la mancanza di qualsiasi studio sulla Gran Bretagna, e le tracce poco approfondite dei rapporti fra movimenti pacifisti europei e Stati Uniti non vogliono
essere critiche al volume, ma rappresentano solo terreni di ricerca da esplorare, che proprio
questa opera ha permesso di mettere in luce.
Alessandro Polsi
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Irene Piazzoni, Valentino Bompiani. Un editore italiano tra fascismo e dopoguerra, Milano,
LED, 422 pp., € 37,00
Si tratta di un libro denso e imponente su Valentino Bompiani, dalla fondazione della casa editrice nel 1929 fino al 1972, quando Bompiani vendette all’IFI. Molto si è scritto su
Bompiani fra memorialistica, saggi e convegni (puntualmente citati, insieme alle fonti d’archivio), ma questo volume colpisce per il carattere «complessivo» sull’editore, sulla casa editrice – generalista –, sul clima culturale milanese e italiano fra le guerre e nel dopoguerra, sui
rapporti con la politica durante e dopo il fascismo. In questa sede non posso che limitarmi a
evidenziare alcuni aspetti a mio avviso di particolare rilievo. Un filo rosso è costituito dal teatro: Bompiani è stato autore teatrale, editore per il teatro (con le collane «Pantheon teatrale»,
«Pegaso» e la rivista «Sipario»), promotore della nascita del Piccolo di Milano e della cultura
teatrale in Italia e all’estero. E dal rapporto con il teatro, l’a. trae proprio lo stile editoriale di
Bompiani: «Siamo di fronte, in fondo, a un lettore di vasta e profonda cultura, per giunta aduso, come scrittore di teatro, alla laboriosa prassi maieutica in cui la scrittura consiste» (p. 335),
a cui si unisce la vocazione imprenditoriale, che si traduce nell’elaborazione di strategie di produzione e commercializzazione. Un altro aspetto consiste nell’equilibrio con cui viene trattato il rapporto con il regime che, dato l’insieme di autori e consulenti gravitanti attorno alla
Bompiani, si allarga con naturalezza a tratteggiare una parte di storia delle élites intellettuali
nel ventennio. Bompiani è un editore non ostile e «l’ambiente culturale e politico in cui si
muove [...] appare pienamente organico al fascismo» (p. 167). La svolta avviene con la sconfitta militare, che lo porta, nel biennio 1943-45 a rafforzare l’idea di un impegno civile messo al servizio dell’edificazione di una nuova società. Tuttavia, scrive l’a., essa è preparata negli
anni precedenti dall’opera corrosiva della censura che dal 1937 colpisce Bompiani sui due piani: quello dell’industriale che si vede bloccare l’uscita dei libri e quello del libero pensatore,
editore dei maggiori scrittori americani, inglesi e francesi, che oltre le ragioni della politica e
quelle della critica letteraria militante, ha sempre seguito nelle scelte editoriali la sua «preferenza personalissima» (p. 149). L’elenco di titoli fermati dalla censura che occupa senza soluzione di continuità una decina di pagine (pp. 177-185) con le relative motivazioni addotte,
ben lungi dall’essere per il lettore un arido accostamento di nomi, diventa uno strumento per
addentrarsi nelle ragioni di un dissenso non di matrice ideologica, ma culturale ed esistenziale che ha avuto un suo significato rilevante. Infine, collegandomi all’ultima osservazione: l’indice dei nomi contiene più di 1.700 lemmi, più di 1.300 sono le note, eppure questa non è
solo un’opera di paziente erudizione, ma una lettura avvincente, che ci inoltra nel dettaglio
dei rapporti fra editore ed autori e dei rispettivi ruoli, fa comprendere le ragioni della nascita
e della morte delle collane, ci immerge, pur nel distacco critico, in un’epoca conclusa della
storia dell’editoria.
Luisa Azzolini
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I LIBRI DEL 2007
Lara Piccardo, L’Europa del nuovo millennio. Storia del quinto ampliamento (1989-2007),
Bologna, Clueb, 168 pp., € 13,50
Muovendosi tra intento documentario ed esigenze di analisi storica, il volumetto ripercorre il cammino che ha condotto l’Unione Europea al «quinto ampliamento», con l’adesione nel 2004 di Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria e nel 2007 di Bulgaria e Romania. Si comprende facilmente, fin dall’enunciazione dell’oggetto d’indagine, la «singolarità» di quest’ultima estensione dell’integrazione europea rispetto ai precedenti quattro allargamenti del 1973, del 1981, del 1986 e del
1995 (occorre peraltro ricordare che a seguito del crollo del Muro di Berlino era stato stipulato il trattato sull’unificazione delle due Germanie dell’agosto 1990). L’a. si orienta con competenza nel percorso che sceglie per ricostruire in tre fasi l’itinerario compiuto, ben informata della documentazione ufficiale: partendo dalla fine della divisione bipolare del 1989, passa ad individuare i caratteri della nuova politica dell’allargamento del Consiglio europeo di
Copenhagen del 1993, fondata intorno al rispetto dei criteri politici, economici e legislativi;
infine, esamina la conclusione delle trattative di adesione, dopo il bivio imposto al Vertice di
Laeken del 2001 e del Consiglio europeo del 2002, quando si operò la distinzione del gruppo dei dieci paesi pronti all’adesione in una prima fase dalla Bulgaria e dalla Romania (ma anche dalla Turchia).
Lo studio dedicato a una problematica assai recente utilizza una letteratura prevalentemente politologica e le fonti informatiche utili alla narrazione. Se si eccettua qualche maggiore approfondimento su aspetti legati alla crisi del blocco sovietico (su cui emergono particolari conoscenze storiografiche) la sua lettura lascia, così, sospesi intorno alle questioni che pur
suscita nel mettere a tema la «singolarità» dell’avvenimento. Si consideri innanzitutto la dinamica stessa di un allargamento che per la prima volta viene realizzato in due fasi, considerato
come un fenomeno unitario per il suo punto d’avvio, seppur conclusosi in maniera differente da come si era inizialmente delineato nel tempo. Peraltro, di non minore rilievo sono certo le problematiche sollevate dalle singole adesioni di paesi assai differenti tra loro e, questione che domina tutte le altre, dal significato del «ritorno in Europa» (p. 15) degli Stati centroorientali del continente. Talora, si ha la percezione che la rivendicazione dell’ampia visione
inizialmente enunciata per affrontare l’argomento finisca gradualmente per ridimensionarsi
in una prospettiva definita, non solo e non tanto da un approccio europeo occidentale, ma da
un’esigenza di riordinamento delle iniziative avviate in ambito comunitario.
Andrea Ciampani
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I LIBRI DEL 2007
Vincenzo Pinto, Imparare a sparare. Vita di Vladimir Ze’ev Jabotinsky padre del sionismo di
destra, Torino, Utet, 370 pp., € 22,50
Questo libro analizza il pensiero di Vladimir Jabotinsky, nato a Odessa nel 1880, morto
a New York nel 1940, giornalista, scrittore, ideatore del sionismo di destra, leader della organizzazione militare ebraica clandestina Irgun. Basandosi sulle opere di Jabotinsky, gli articoli,
le novelle e i romanzi e gli interventi ai congressi sionisti, Pinto ricostruisce la parabola di questo ebreo russo assimilato, cosmopolita e plurilingue per nascita ma estraneo alla cultura ebraica e anzi italiano di adozione che, dall’adesione iniziale al sionismo moderato, approdò successivamente al nazionalismo integrale di matrice razzista. Negli anni ’30 Jabotinsky propose
infatti la liquidazione della diaspora ebraica e il suo trasferimento in Palestina, in quanto sosteneva che se una comunità non si isola a sufficienza e non possiede la costanza necessaria,
decade progressivamente e si dissolve nell’ambiente straniero, generalmente attraverso un matrimonio misto. L’a. ricostruisce in modo esaustivo e convincente la complessa personalità di
questo personaggio che scriveva su Tolstoj, Garibaldi, sul darwinismo sociale e sul ruolo dell’intellettuale, mescolando abilmente cinismo e idealismo, atmosfere decadenti ed esaltazione
dell’eroismo mascolino, difesa della democrazia e pregiudizi antisemiti. La trama biografica si
intreccia con la più generale storia collettiva del sionismo e del rapporto verso di esso delle potenze occidentali, in primo luogo dell’Italia fascista, il cui esperimento nazionalista integrale
attrasse molti ebrei della diaspora orientale. Più che della vita come annunciato nel titolo, questo libro si occupa quindi della politica e dell’ideologia di Vladimir Jabotinsky. A parte alcuni accenni iniziali al contesto familiare, veniamo informati soltanto del fatto che Jabotinsky
si sposò e andò a trovare la madre in Palestina. Per il resto nulla sappiamo del milieu culturale in cui si mosse, delle reti sociali e affettive che influenzarono il suo pensiero e la sua attività
politica. Si tratta di un modo di scrivere biografie molto diffuso in Italia, basato sull’idea che
le esperienze di vita e le opere dei personaggi viaggino su binari separati. Il difetto che rileviamo è anche dovuto alla non conoscenza da parte dell’a. della lingua russa, circostanza che preclude a Pinto l’accesso a gran parte della corrispondenza tra Jabotinsky e i suoi familiari e gli
stretti collaboratori. Ciò lo ha costretto a espungere dalla «vita» di Jabotinsky capitoli importanti come quelli riguardanti i viaggi in Lettonia, nella quale i suoi infuocati discorsi gli attrassero le simpatie della comunità ebraica di lingua russa. Manca totalmente, infine, il riferimento alla Polonia, nella quale il leader sionista soggiornò spesso e in cui strinse accordi con
il ministro degli Esteri Beck, fautore del piano di emigrazione dalla Polonia di circa un milione di ebrei. La Polonia era infatti la base principale di sostegno logistico, militare e, in parte,
finanziario, al piano di «evacuazione degli ebrei polacchi» che Jabotinsky lanciò nel 1936.
Carla Tonini
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I LIBRI DEL 2007
Gloria Pirzio Ammassari (a cura di), Le terre di mezzo. Ucraina e Bielorussia nella transizione postcomunista, Milano, FrancoAngeli, 234 pp., € 18,00
L’Introduzione definisce questa raccolta di saggi come la terza «di una serie di ricerche
sulle identità nazionali e sulla transizione alla democrazia nei paesi dell’Europa dell’Est» (p.
7), questa volta dedicata a Ucraina e Bielorussia.
Il primo contributo, L’identità ucraina e la sua immagine in Occidente di Arianna Montanari, evidenzia una scarsa conoscenza dell’argomento: accanto ad errori e approssimazioni (il
Holodomor è definito una purga, p. 62), compaiono ricorrenti strafalcioni nella grafia dei nomi (notevoli sono Dnpr e Hresrvs’kyi) e, in chiusura, un fallito tentativo di interpretazione di
un sondaggio sulla popolarità dei personaggi storici ucraini. La Montanari si stupisce che il
cosacco Chmel’nyc’kyj (eroe tanto nazionale che sovietico) sia più popolare di Bandera, nazionalista accusato di collaborare coi nazisti. Non è possibile trattare della nascita del nazionalismo ucraino senza citare Kostomarov, la Confraternita Cirillo-Metodiana o la Prosvita; né
si può affidare la descrizione della politica bolscevica delle nazionalità al solo commento di Il
marxismo e la questione nazionale di Stalin (1913), soprattutto dopo la pubblicazione del saggio di Terry Martin The Affirmative Action Empire, che non compare in bibliografia.
Il secondo saggio, a firma della curatrice, vorrebbe trattare in maniera più particolareggiata della transizione post-sovietica: sebbene contraddistinto da imprecisioni meno appariscenti,
mostra gravi lacune nella descrizione del quadro politico (neppure un accenno al secondo partito del paese, la Partija Rehioniv di Janukovič). Lo scritto non riesce a dare una linea interpretativa e ignora la quasi totalità della letteratura scientifica sull’argomento (e.g. Wilson, Kuzio,
Miller, l’italiano Cilento). La parte sulla Bielorussia è aperta da un saggio della Montanari, che
all’imperizia aggiunge un’acritica e sbrigativa adesione alle tesi di Anthony Smith sul tema della nazione e del nazionalismo (p. 112; Anderson, Gellner, Hroch e altri sono in realtà tutti presenti in bibliografia, ma le loro riflessioni non compaiono mai nel volume).
Il saggio di Maria Cristina Marchetti sulla «dittatura» lukašenkiana è piuttosto superficiale e pare avere come principali fonti un numero di «Limes» e qualche articolo di giornale.
Edmondo Perrone è autore di L’Ucraina nelle relazioni internazionali: Russia ed Unione Europea (sic, p. 151), che tratta invece della politica estera della Bielorussia. Nonostante la svista del
titolo, questo contributo è il più interessante e «scientifico» del volume, proponendo una non
banale descrizione della collocazione geopolitica della Bielorussia e delle strategie messe in atto
da Lukašenko. Purtroppo la scarsità delle note non permette di verificare le fonti, allontanando
lo scritto dall’ambito più propriamente saggistico verso quello giornalistico-divulgativo.
In coda al volume trovano spazio la trascrizione di sei brevi interviste a membri dell’Accademia Mohyliana e dell’OSCE e un’amplissima bibliografia, riportante testi di vario interesse (da Freud a Vattimo, da Croce a Tacito), spesso di scarsa attinenza con il tema del libro.
Simone A. Bellezza
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I LIBRI DEL 2007
Barbara Pisciotta, Alle origini dei partiti post-comunisti. La frattura di classe nell’Europa centro-orientale, Soveria Mannelli, Rubbettino, 162 pp., € 15,00
Al lettore post-comunista potrebbe avvenire di sobbalzare incontrando in queste pagine
locuzioni come «coscienza di classe» e «lotta di classe», senza che alcuna indicazione sul loro
possibile uso in un contesto scientifico venga fornita; e al lettore semplicemente ignorante dei
lessemi della politologia contemporanea, di impiegare qualche decina di pagine prima di capire che i cleavages di cui si parla sono (con parole del recensore) le grandi questioni attorno
alle quali, in un regime ragionevolmente rappresentativo, si formano i partiti, gli schieramenti di partiti e si determina il voto dell’elettorato: ma alla fine entrambi questi lettori saranno
grati all’a. per averli introdotti nell’ambiente politico originale dell’Europa dell’Est di dopo il
1989. Il problema è: quali sono le grandi caratteristiche generali dei sistemi partitici formatisi nei paesi europei ex comunisti? La risposta è sconcertante solo in apparenza: essi ricalcano
quelli stabilitisi prima della sovietizzazione dei rispettivi paesi. Se nella Repubblica ceca e in
Ungheria quei sistemi riproducono fondamentalmente il cleavage «destra/sinistra», proprio
dell’esperienza storico-politica della maggior parte dell’Europa occidentale (basata sulla contrapposizione capitale/lavoro), in Romania e Bulgaria gli schieramenti politici e partitici continuano a formarsi ancora, in modi diversi, attorno a una proteiforme istanza di «populismo»
in diverse varianti, verso le quali gli elettori sono sospinti da uno spregiudicato impulso al semplice miglioramento delle loro condizioni individuali e non di gruppo, classe, lobby. La Polonia e la Slovacchia rappresenterebbero sfumature intermedie tra i primi e i secondi. È questa
la conseguenza di una storia politica prebellica che in Bulgaria e Romania ha visto fare da padrone le istanze della contrapposizione città/campagna, Chiesa/Stato e infine, della questione nazionale ed etnica. Finito il comunismo, la prima non si è ripresentata (anche se ha fatto
capolino in Polonia) e la seconda e la terza hanno informato di sé importanti formazioni politiche (tra le quali i partiti comunisti riformati): come risultato, il processo politico si è finora svolto all’insegna di un fondamentale interclassismo. Nessuna di queste tre fenomenologie
sembra offrire un’automatica garanzia di piena affermazione, o di sicuro fallimento della democrazia. E l’a. si mantiene speranzosa, pur considerando anche le diverse variabili istituzionali in cui può declinarsi il sistema rappresentativo in questa regione: parlamentare, semi-presidenziale, presidenziale. Tuttavia, per uno storico, una delle osservazioni più rilevanti di Pisciotta, è che il periodo comunista non ha alterato in modo sostanziale le predisposizioni al
comportamento politico presenti tra le popolazioni e gli elettorati di questi paesi già tra le due
guerre mondiali. Il comunismo come episodio che non avrebbe inciso strutturalmente sui rispettivi body politics, allora? Conclusione degna di ulteriore riflessione, evidentemente. L’argomento dell’opera è condotto in modo ammirevolmente stringato e in un italiano eccellente.
Francesco Benvenuti
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I LIBRI DEL 2007
Konstantin Pleshakov, Il silenzio di Stalin. I primi tragici dieci giorni dell’Operazione Barbarossa, Milano, Corbaccio, 368 pp., € 24,00 (ed. or. Boston, 2005)
L’inaspettata débâcle dell’Armata Rossa nei primi giorni dell’attacco nazista e la conseguente
crisi dei vertici sovietici e dello stesso Stalin, che per alcune ore abbandonò il comando e si rifugiò nella sua dača fuori Mosca, sono fra i più intriganti e contestati temi della storia recente. Forse proprio per questo, Kostantin Pleshakov, storico russo espatriato in America, ha deciso di dedicarvi questa opera divulgativa, pubblicata nel 2005 e ora tradotta in italiano.
A partire dal 1996, Pleshakov ha aggiunto all’attività di ricerca quella di scrittore di romanzi, raggiungendo anche un discreto successo, e le sue abilità narrative sono dispiegate a
tutto raggio in questo libro che ricostruisce, con una ricchezza di particolari soverchiante, le
vicende dei primi quindici giorni della guerra contro l’URSS. I «personaggi» sono tutti introdotti da un ritratto biografico-caratteriale, mentre il racconto procede per episodi, spesso intercalati da avvenimenti curiosi o macabri, che strizzano l’occhio al grande pubblico. Ne risulta una storia di battaglie avvincente, basata principalmente sulla memorialistica sovietica.
Se indubbia è la riuscita editoriale, da un punto di vista scientifico l’operazione si presta a
più di una critica. È dubbio infatti che la giusta strada per la divulgazione sia rappresentata da
questa versione romanzata, che riduce la storia alla sua dimensione più événementielle. I temi più
scottanti e dibattuti degli ultimi anni, come la reazione della popolazione sovietica e le ragioni
effettive della tenuta del regime staliniano, il destino dei prigionieri di guerra, l’ideologizzazione del conflitto e il barbarization of warfare, sono solo accennati oppure mancano del tutto.
Inoltre, come ammette lo stesso a. nella nota finale sulle fonti, la ricostruzione precisa degli avvenimenti della guerra è resa assai difficoltosa da fonti incongruenti e spesso in contraddizione tra loro, tanto che persino stabilire il giorno in cui il generale Pavlov è stato destituito dal suo incarico di comandante è quasi impossibile. Non convince allora la decisione di
presentare al lettore inesperto un racconto infarcito dei pensieri reconditi e segreti dei suoi
protagonisti e di dialoghi diretti, la cui provenienza non è chiarita nelle scarse note.
Infine, se è vero che Pleshakov domina con un’impressionante abilità una grande quantità di informazioni, talvolta si ha l’impressione che le esigenze di una narrazione avvincente
abbiano preso il sopravvento su quella di problematizzare: temi come quello del ricorso alle
prostitute locali da parte dei soldati tedeschi o della mancata attuazione del Kommissarbefehl,
l’ordine di uccidere tutti i commissari politici sovietici, avrebbero potuto più fruttuosamente
essere usati per discutere del complesso rapporto tra gli occupanti nazisti, i loro comandanti
e gli occupati sovietici, invece che come semplici pezzi di colore.
È quindi insopprimibile una certa delusione per il fatto che uno storico abile come Pleshakov abbia rinunciato ad affrontare i temi certo più difficili, ma anche più interessanti, della guerra sul fronte orientale.
Simone A. Bellezza
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I LIBRI DEL 2007
Paolo Pombeni, Il primo De Gasperi. La formazione di un leader politico, Bologna, il Mulino, 305 pp, € 23,00
Questo volume segue il saggio introduttivo, Formazione ed esordi di un politico di professione, scritto da Paolo Pombeni per il primo volume degli Scritti e discorsi politici di A. De Gasperi (Alcide De Gasperi nel Trentino asburgico, Bologna, il Mulino, 2006, 2 tomi). Il percorso del «primo» De Gasperi, dal 1881 al 1918, viene qui ricostruito in modo più ampio, illustrandone la complessità ed alla luce di una prospettiva interpretativa d’insieme.
Il volume si inserisce all’interno di una ripresa del dibattito storiografico su De Gasperi – si
pensi al volume di Piero Craveri – che segue a distanza il lavoro pionieristico di Pietro Scoppola
del 1977, in una stagione culturale e politica completamente diversa. La proposta politica di De Gasperi (Bologna, il Mulino, 1977) ha rappresentato il primo tentativo di inserire questa figura nel dibattito sulla storia dell’Italia unita. In quel volume, Scoppola affrontava il tema in una chiave a lui
molto cara: il rapporto fra coscienza religiosa e democrazia. Anche questo volume di Pombeni tocca indirettamente tale tematica, ma al centro di questo libro c’è soprattutto la «vocazione politica»
di De Gasperi «la vera chiave per capire non solo il De Gasperi della giovinezza, ma il personaggio
nel suo complesso» (p. 11). Per un cristiano, nota Pombeni, la parola «vocazione» ha particolari risonanze, ma in questo libro l’accento cade sul significato del termine tedesco Beruf come «professione». È indubbiamente merito di Pombeni aver offerto una ricostruzione attenta del «primo De
Gasperi», così come lo è aver tentato di proiettare tale ricostruzione in avanti per capire tutto De
Gasperi, compreso il secondo dopoguerra. Il suo lavoro costituisce un importante riferimento per
lo sviluppo di un dibattito su questa figura destinato a proseguire ancora a lungo.
È auspicabile che, proprio per l’importanza di questo lavoro, si apra un’ampia discussione sulla tesi interpretativa di Pombeni. Indubbiamente, De Gasperi è stato un politico moderno, che ha
concepito e praticato la politica come professione, attingendone molti elementi dal contesto culturale, sociale e politico di lingua tedesca cui guardava negli stessi anni Max Weber. Anche altri,
però, hanno pensato e praticato la politica come professione e, da solo, questo elemento non esaurisce la questione della formazione e dell’affermazione di una figura della levatura di De Gasperi,
che qualcuno ha definito il «Cavour della Repubblica». In particolare, non mi sembra si possa prescindere dall’altro lato del Beruf degasperiano, e cioè dalla «vocazione» in senso cristiano: De Gasperi non avrebbe potuto svolgere il ruolo che ha svolto, ad esempio nell’abbattere «gli storici steccati tra guelfi e ghibellini», se non fosse stato in grado di conciliare pienamente e definitivamente
i cattolici italiani con lo Stato e con la democrazia. Ma un’opera di questo genere non poteva essere compiuta in modo strumentale e dall’esterno, ha avuto necessariamente bisogno di un interprete «interno» al mondo cattolico, pur pienamente immerso nella cultura della laicità. È quanto hanno sostenuto, sia pure in modo diverso, Scoppola e Craveri e mi pare che lo stesso libro di Pombeni faccia emergere diversi elementi che spingono in questo senso.
Agostino Giovagnoli
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I LIBRI DEL 2007
Silvio Pons, Robert Service (a cura di), Dizionario del comunismo nel XX secolo, vol. II, MZ, Torino, Einaudi, XXV-565 pp., € 75,00
Il secondo tomo del Dizionario del comunismo, uscito l’anno successivo al primo, segue
ovviamente la medesima impostazione metodologica del precedente, visto che la divisione in
due volumi è di ordine alfabetico (cfr. la recensione ne «Il mestiere di storico», VIII, 2007, p.
338). Come nel primo volume, anche qui, oltre alle voci biografiche viene riservato ampio
spazio alle istituzioni del comunismo e ai concetti della sua ideologia.
Nelle voci biografiche, non mancano spazi dedicati a chi ha descritto il comunismo combattendolo sul piano delle idee (ad esempio la voce George Orwell). Alla voce Partiti comunisti si susseguono numerose e utili micromonografie sulle organizzazioni internazionali dei
principali paesi. Tra gli estensori delle voci i principali studiosi italiani del comunismo: oltre
ai curatori, Vittorio Strada, Francesco Benvenuti, Aldo Agosti, Gian Piero Piretto, Fabio Bettanin, mentre nutrita è anche la schiera di studiosi stranieri.
Le voci, di dimensione varia a seconda dell’importanza del personaggio o dell’istituzione
presa in considerazione, sono una soddisfacente via di mezzo tra il lemma specialistico e quella per un più largo pubblico. Anche qui l’utilizzo delle fonti archivistiche sovietiche permette di rivedere tanti giudizi storiografici, per mostrare le caratteristiche planetarie di un movimento politico. La revisione non passa però solo attraverso la scoperta di nuove fonti. È tutto un intero paradigma ad essere cambiato per sempre, come dimostra una delle voci più importanti del secondo volume, quella su Palmiro Togliatti stesa da Silvio Pons, in cui appare un
Togliatti molto più legato all’URSS (anche dopo il ’56) di quanto la storiografia di orientamento comunista non abbia rilevato. Un Togliatti, scrive Pons, che nel cosiddetto testamento di Yalta non indica strade nuove percorribili; si limita a registrare una crisi di cui Togliatti
non conosceva le vie d’uscita. E non poteva conoscerle perché «conscio che l’URSS poteva
non rappresentare più soltanto una risorsa ma anche un limite per il comunismo occidentale, egli non indicava altra strada che non fosse quella del legame politico e identitario con essa» (p. 477). Un’«eredità molto difficile da gestire» che Togliatti lasciò ai suoi successori.
Marco Gervasoni
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I LIBRI DEL 2007
Alessandro Portelli, Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, Introduzione di Ronald Grele, Roma, Donzelli, XV-462 pp., € 25,00
Questa è la più completa raccolta italiana di scritti di Alessandro Portelli, uno dei principali studiosi di storia orale. Nell’Introduzione, Ronald Grele sottolinea la non stretta disciplinarietà di tale pratica storiografica, evidenziando al contrario come essa si fondi sul legame tra
storia ed esperienza (pp. XIII-XIV).
Il volume è suddiviso in cinque parti, le quali assolvono una funzione concettuale: la prima parte (Linguaggi) è quella più densamente teorica, e affronta le diverse dimensioni della narrazione ed il dialogo che si instaura tra narratore e ricercatore. La seconda parte (Guerra) raccoglie saggi su memoria ed esperienza della seconda guerra mondiale in Italia, un tema cruciale nella produzione dell’a. che viene ripreso – accostandovi l’esperienza operaia – nella parte
successiva, dedicata alle classi popolari della città di Terni (Terni, Italia). Questa parte introduce la dimensione «comunitaria» dell’approccio e degli interessi di Portelli, che si approfondisce
nella sezione successiva, dedicata alla contea di Harlan (Harlan County, Stati Uniti). Chiude il
volume la parte quinta (Fine secolo) che raccoglie una serie di saggi, piuttosto eterogenei, su
quanto eccede la storia delle classi subalterne: dai racconti dei reduci del Vietnam a quelli dei
giovani e meno giovani protagonisti delle contestazioni di Genova durante il G8.
Il metodo e la pratica di Portelli sono fondamentali contributi ad una storiografia cresciuta in stretto rapporto con il suo soggetto d’elezione – la classe operaia – e in dialogo con alcune discipline – linguistica, critica della letteratura, antropologia – capaci di accostarsi ai soggetti subalterni della piena modernità. Nella raccolta di saggi la pratica della storia orale si presenta come una storia dialogica, che interpreta il – e in qualche misura partecipa al – momento del significato della storia, e all’affermazione in esso della soggettività. Il tema della soggettività è quindi evocato, ma non fa parte del repertorio concettuale di Portelli, se non prevalentemente in una formulazione di classe e comunitaria, o individuale/esperienziale.
La parzialità di tale pratica è per molti versi il suo punto di forza, sebbene acquisti tratti problematici nell’accostarsi a memorie e history-telling (il «raccontare storia», p. 76) frutto di altri soggetti e di particolari «luoghi» del racconto (in particolare, gli articoli sul movimento della Pantera,
e sui giovani alterglobalisti protagonisti dei fatti di Genova 2001). Tali memorie e oralità non possono che proporre dimensioni interdiscorsive ed interculturali meno racchiuse che in passato nel
triangolo concettuale comunità-classe-storia nazionale, richiedendo anche altri interlocutori disciplinari. Resta ferma, ad ogni modo, la capacità delle storie orali qui proposte di rompere l’impressione di simultaneità «liquida» e atemporale che è a volte assegnata ai nuovi fenomeni e movimenti sociali nella globalizzazione (l’articolo su memoria e globalizzazione a Terni nel 2004, e lo stesso
saggio sull’esperienza di contestazione del G8). La storia orale rammenta che la collocazione del sé
della storia globale, ed il ruolo del memory work in essa, restano pur sempre fattori di agency.
Beppe De Sario
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I LIBRI DEL 2007
Andrea Possieri, Il peso della storia. Memoria, identità, rimozione dal Pci al Pds (19701991), Bologna, il Mulino, 300 pp., € 24,00
Se la storia e la sua narrazione rappresentano un terreno cruciale per la definizione di ogni
identità collettiva, nel PCI – secondo Andrea Possieri – ciò si esprimeva in termini estremamente esasperati, tanto da trasformare la memoria in un «peso», in un fardello impossibile da
rielaborare criticamente. Insomma, la riflessione storica dei comunisti strutturava un’identità
molto forte, densa di contenuti, ma (alla resa dei conti) fin troppo pesante e ingombrante per
essere superata senza rimozioni o disinvolte sofisticazioni. Il risultato era la nascita di un nuovo soggetto politico, il PDS di Occhetto, che mostrava una ancora molto forte continuità con
il passato. Infatti, continua Possieri, anche nel Partito democratico della sinistra ci si trovava
di fronte a «una caratteristica strutturale di tutta la costruzione identitaria del PCI, quasi come una sorta di peccato originale della sinistra italiana» (p. 15): il suo concepirsi e presentarsi
come un elemento fondante e ineliminabile del progresso sociale e politico del paese, con la
pretesa di far corrispondere la propria stessa esistenza alle leggi di un’ineluttabile necessità storica. Ne conseguiva una rinnovata e costante spinta alla rielaborazione della propria memoria, posta alla base di un legame comunitario e partitico che non poteva tollerare né incoerenze, né discontinuità, né deviazioni. Al contrario, farlo avrebbe comportato la messa in discussione non soltanto del passato, ma soprattutto della fede nel futuro, nella capacità del Partito
di predire un approdo salvifico e liberatorio, la conquista del paradiso secolare socialista (o
giustizialista, come nel caso specifico della formazione di Occhetto).
Scontata, però, la presenza di questi caratteri sacerdotali, tipici della tradizione politica
comunista (peraltro largamente indagati), resta l’impressione che l’a. riservi un’enfasi eccessiva al rapporto tra il PCI e la propria storia, giudicato come uno scandaloso paradigma che li
trasformava (addirittura) in un agente inquinante della democrazia italiana. Resterebbe da
spiegare perché il PCI è stato tra i primi ad aprire i propri archivi agli studiosi, con una liberalità e un’apertura alla critica, va ricordato, che non ha paragoni con il comportamento di altri soggetti politici italiani.
Forse la questione andrebbe capovolta nel suo assunto principale: non era tanto il PCI a fare della manipolazione della memoria un tratto distintivo, quanto la storia italiana repubblicana a contaminare pesantemente i comunisti, costringendoli a intrecciare il proprio destino con
quello della Costituzione antifascista, un programma fondamentale che li ancorava ai valori della democrazia e del pluralismo politico. Di modo che la costante rimodulazione identitaria che
impegnava i comunisti, pur nella finzione di un’assoluta continuità, non è stata altro che la presa d’atto politica – certo imperfetta, contraddittoria, densa di incongruenze – di questi progressivi e obbligati cambiamenti, fino alla trasformazione del PCI in un partito di fatto riformista,
benché incapace e di nominarsi tale e di comportarsi in maniera pienamente conseguente.
Giovanni Cerchia
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I LIBRI DEL 2007
Heather Pringle, Il piano occulto. La setta segreta delle SS e la ricerca della razza ariana, Torino, Lindau, 538 pp., € 29,00 (ed. or. New York, 2006)
Nonostante il titolo sensazionalistico, che strizza l’occhio alla moda del nazismo occultista ed esoterico e non ricalca affatto quello inglese di The Master Plan. Himmler’s Scholars and
the Holocaust, e nonostante l’a., studiosa e giornalista canadese, si sia occupata in precedenza
di ben altro e a parte alcuni limiti contenutistici e formali, questo libro ha un suo non irrilevante valore sul piano scientifico. Basato su una approfondita ricerca documentaria, anche sul
piano archivistico, rappresenta infatti nella sua traduzione, a parte ampi riferimenti ad alcuni testi in italiano su tematiche più vaste circa l’attività di promozione «scientifico-culturale»
di gerarchi nazisti, l’unico studio nella nostra lingua dedicato completamente all’Istituto di ricerca «Ahenenerbe», fondato nel 1935 dal capo delle SS Himmler, dal ministro nazista e teorico razzista del «sangue e suolo» Darré e dal discusso germanista Wirth, in base alla comune
passione per la preistoria germanica.
A più di trent’anni dalla monografia dello storico canadese Kater, l’a. ripercorre le vicende di questo organismo e dei suoi membri, delle loro discutibili ricerche e dei loro spesso incredibili viaggi studio in terre lontane con lo scopo di ricercare le presumibili tracce della «superiore» opera di civilizzazione della presunta razza nordico-germanica in varie parti dell’Europa e degli altri continenti, dal Tibet alla Svezia, dall’Iraq alla Finlandia, nell’ambito di un più
generale progetto di riscrittura della storia universale su base razziale. Quello dell’«Ahnenerbe»
è un pezzo della controversa storia della scienza e della cultura della Germania nazista, caratterizzata da ombre più o meno «brune», in cui emerge il coinvolgimento in operazioni pseudoculturali e pseudoscientifiche, gestite da importanti gerarchi di partito, da parte non solo di
esaltati germanofili ma anche di esponenti del «rispettabile» mondo accademico e scientifico.
Filologi classici come Altheim, orientalisti come Wüst, rettore dell’Università di Monaco, storici dell’antichità e archeologi, come Paulsen, Jankuhn, esperti di Tibet come Schäfer, patologi come Hirt, sono solo alcuni dei personaggi la cui vicenda biografica, tracciata da Pringle,
s’intreccia con l’attività dell’«Ahnenerbe». In particolare dopo lo scoppio della guerra questo
organismo fu sempre più implicato nelle azioni criminali delle SS, come l’uccisione mirata, su
progetto di Hirt, di ottanta deportati del campo di Natzweiler-Struthof per allestire una collezione di scheletri all’Università di Strasburgo. Il testo di Pringle, non privo di licenze giornalistiche rispetto ad un’impostazione propriamente scientifica e caratterizzato da piccole inesattezze ed alcuni errori nei nomi di qualche personaggio (il banchiere von Stauß, che diventa von
Strauss, p. 220), e mancante del confronto con altre iniziative «culturali» naziste concorrenti,
come l’Amt Rosenberg, o del riferimento alle non rare lotte di potere all’interno stesso dell’«Ahnenerbe», in particolare tra Darré e Himmler, e alla loro diversa opinione sui modi d’istruzione «storico-culturale» delle SS, conserva tuttavia una sua indiscutibile utilità storiografica.
Andrea D’Onofrio
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I LIBRI DEL 2007
James Procter, Stuart Hall e gli studi culturali, Milano, Cortina, XIX-177 pp., € 19,80
(ed. or. London-New York, 2004)
Non è facile scrivere una monografia su Stuart Hall senza tradirne il pensiero. Hall, infatti, ha sempre pensato la propria attività intellettuale in modo a-sistematico, come intervento nelle situazioni congiunturali del proprio tempo, come interrogazione sui modi della
(de)costruzione della cultura popolare all’interno dei quadri egemonici definiti dai rapporti
di potere che mutano in ogni momento storico. Procter riesce a restituire i passaggi dell’esperienza intellettuale di Hall rispettandone l’ispirazione più profonda, vale a dire presentando
alcune «idee chiave», attorno alle quali si è sviluppata la sua riflessione, mettendo in luce il
confronto con alcuni grandi autori che lo hanno influenzato, Bachtin, Gramsci, Foucault,
Althusser, Lacan, ma al tempo stesso andando oltre Hall per mostrare la fertilità dei suoi strumenti analitici per lo studio di nuovi eventi e fenomeni.
Le idee chiave si succedono lungo una linea approssimativamente cronologica, pur con ampie sovrapposizioni, collocando un’esperienza intellettuale singolare nei punti critici di un dibattito collettivo che ha animato la sinistra «culturalista» britannica del dopoguerra; dall’arrivo di
Hall in Inghilterra come giovane studente giamaicano borsista ad Oxford, fino alla costruzione
di un ambito globale del dibattito intellettuale reso possibile dalla svolta postcoloniale nelle scienze sociali di fine secolo della quale Hall è stato, di nuovo con tratti assolutamente peculiari, uno
dei protagonisti. L’emergere del tema del razzismo e dell’autoritarismo nella crisi britannica degli anni ’70 è stato uno dei punti alti della riflessione di Hall e gli ha consentito di individuare precocemente la novità culturale del thatcherismo, quel fenomeno di «modernizzazione regressiva»
che mutava profondamente i linguaggi della politica e avrebbe costretto la stessa sinistra a modificare i propri simboli, valori e modi della comunicazione. Una ricerca che negli anni ’80 ha spinto Hall a chiedere una politica per i «tempi nuovi» e ad avviare un controverso rapporto critico
con il New Labour di Tony Blair. È a partire da questa analisi dei processi culturali degli anni ’70
e ’80 che sono maturate le raffinate ricerche di Hall negli anni ’90 che lo hanno visto occupare
una posizione centrale nel dibattito postmoderno sulle identità non solo in ambito accademico,
ma con influenza diretta su alcuni filoni della produzione artistica britannica di fine secolo.
Si tratta di un bilancio sintetico di una complessa trama di rapporti, influenze, ed elaborazioni intellettuali che colloca Hall al crocevia tra i due paradigmi dei cultural studies, quello di ascendenza althusseriana che enfatizzava il primato delle strutture sulla capacità di autonoma espressione dei soggetti sociali e quello invece «umanista e culturalista» che ha avuto in
Thompson e Williams i propri maestri e che attribuiva al soggetto la piena capacità di dominio delle proprie espressioni culturali. Hall ha sempre cercato di occupare il campo di tensione che si crea tra questi due paradigmi e l’incontro con il pensiero di Gramsci negli anni ’70
gli ha fornito un riferimento fondamentale per elaborare produttivamente questa tensione.
Paolo Capuzzo
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I LIBRI DEL 2007
Gaetano Quagliariello, Gaetano Salvemini, Bologna, il Mulino, 313 pp., € 25,00
Titolo fuorviante, non ci si attenda una biografia, non è quello che l’a. annuncia nella
Prefazione (pp. 7-11). E neanche però solo una neutra raccolta di relazioni e contributi vari,
che attraversano gli anni ’90, segno di una sua perdurante attenzione a Salvemini. Non per
niente i testi rielaborati in sequenza li chiama capitoli, sette, aperti dalla Prefazione e chiusi
da un Epilogo su Salvemini neoempirista (pp. 283-303) e da un Epitaffio. Quest’ultimo, il lettore va subito a leggerselo; e fa bene, perché sono due lucide righe di Salvemini a Elie Halévy,
nel 1932: «…voi siete uno Storico puro, io ho la sfortuna di essere per metà uno storico e per
metà un politico». Se fosse concesso aggiungere una terza metà – scienziato della politica e
storico delle dottrine – avremmo Quagliarello, l’autore; dovendo accontentarci delle solite due
metà, salveremmo senz’altro il politico, sostituendo tuttavia lo «storico» con lo «scienziato della politica» e lo «storico delle dottrine politiche», interessato qui a additare in Salvemini un
antecedente della critica dei partiti e in particolare dei partiti di massa; e anche un teorico delle libere associazioni degli individui in «leghe» e associazioni e persino delle elezioni a tema e
non – già nel 1912, in vista delle prime elezioni a suffragio quasi universale – su «programmi
omnibus» (p. 42). Un precursore, già nel 1901 – si compiace Quagliarello – dell’«individualismo metodologico», un mezzo popperiano (p. 298). Questo sguardo lungo di Salvemini sul
divenire della politica, già fra ’800 e ’900 – negli anni di una militanza socialista qui giudicata solamente tattica e in contraddizione con le sue più genuine aspirazioni – aveva bisogno
per essere còlto dell’89 (quello tedesco, non il vetusto ’89 francese). Sino a quel punto la vulgata – che l’a. depreca e visibilmente ritiene di scalzare, in felice unisono con la nostra «epoca post-ideologica» (p. 18) – aveva continuato a sgridare Salvemini proprio per quelli che oggi finalmente si rivelano i suoi pregi: il diffidare dei partiti, l’aver abbandonato il Partito socialista per qualche cosa di meno e non per qualche cosa di più; e gli aveva anteposto qualcuno dei suoi allievi, in primis Gobetti. Anche i mancati entusiasmi per la Resistenza, gli stretti
vincoli con gli Stati Uniti, l’anticomunismo sono vizi che si capovolgono ora in anticipazioni
e virtù, grazie al nuovo e liberatorio punto di vista. Il capro espiatorio di questo rovesciamento della vulgata risulta Lelio Basso: titoli degli anni ’50, invero potenti se gli antidoti si sono
dovuti attendere trent’anni. Non si fanno molti altri nomi, prendendosela in solido con una
vulgata gramsciana degli «storici comunisti e dei loro compagni di strada» (p. 19). Meno spazio è concesso all’accantonamento della variante «minoritaria» della vulgata, «repubblicanoradicale», anche alla luce di un enfatizzato disdegno dello stesso Salvemini per Mazzini (p. 30).
Della Grande guerra non si parla proprio e questo vuoto – sorprendente – aiuta a destoricizzare l’approccio. Sul piano storiografico, i capitoli da segnalare sono il terzo, sugli ex-combattenti; e il quinto – Antifascista e anticomunista – che ricostruisce i cicli di conferenze negli
USA, usando come fonte i documenti consolari.
Mario Isnenghi
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I LIBRI DEL 2007
Didier Rance, Hanno voluto uccidere Dio. La persecuzione contro la Chiesa Cattolica in Albania (1944-1991), Prefazione di Ernesto Santucci, Roma, Avagliano, 268 pp., € 15,00 (ed.
or. Paris, 1996)
Il libro di Rance costituisce un’utile e preziosa aggiunta alla letteratura storica sulle confessioni religiose est-europee durante il periodo comunista. Pur essendo la presentazione editoriale reticente nel riconoscerlo, esso costituisce la traduzione dell’originale francese apparso nel 1996.
Rance è un diacono, direttore nazionale per la Francia dell’organizzazione «Aiuto alla Chiesa
che soffre». Un lettore sospettoso potrebbe aspettarsi un testo compilativo o di mera denuncia. Esso è invece equilibrato e assai informativo, e la sua unica pecca consiste nel non aver assunto una
veste editoriale scientifica. Il lettore può tuttavia ricostruire dal testo l’apparato bibliografico utilizzato, assieme alle testimonianze dei religiosi sopravvissuti al regime comunista. In passato non sono infatti mancati contributi sulla condizione religiosa dell’Albania comunista (ad esempio gli articoli di Peter Prifti, pubblicati negli anni della guerra fredda in genere sotto pseudonimo). Tra gli
studi più recenti menzioniamo quelli di Roberto Morozzo della Rocca (Nazione e religione in Albania, Bologna, il Mulino, 1990) e quelli, magistrali, dell’ottomanista francese Nathalie Clayer (Religion et nation chez les albanais, XIXe-XXe siècles, 2002 e Aux origines du nationalisme albanais. La
naissance d’une nation majoritairement musulmane en Europe, Istanbul, Les Éditions Isis, 2007).
I regimi comunisti miravano a neutralizzare le confessioni religiose, ricorrendo alla cooptazione, alla corruzione, alla repressione pura e semplice e, all’occasione, a forme di sterminio. L’abolizione della religione come tale non rientrò mai nei programmi comunisti perché quella era
vista come una deviazione anarchica, piccolo borghese; lo stesso laicismo era visto con sospetto,
per via delle sue presunte origini borghesi. La proclamazione dello Stato ateo nel 1967 da parte
dei comunisti albanesi non trova motivazione nel semplice dogmatismo e nell’esempio della rivoluzione culturale cinese, perché neanche in Cina fu mai adottata una politica di ateismo esplicito. È probabile che l’ateizzazione albanese derivasse dalla ricezione albanese del modello politico-culturale dei Giovani Turchi e di Atatürk piuttosto che dal modello staliniano. Nella svolta del
1967 la classe dirigente comunista esprimeva la sua volontà di sradicare sino in fondo l’osservanza delle tradizioni religiose (islamiche e cristiane) tra la popolazione, piuttosto che il proselitismo
dei religiosi. I cattolici furono oggetto di persecuzione fin dall’inizio del regime; gli ortodossi provenivano da una tradizione poco incline allo scontro diretto con lo Stato, e gli islamici erano troppo divisi tra le diverse correnti (sunniti, bektashi e altri) per poter costituire un vero pericolo.
L’a. presenta un’equilibrata introduzione storica all’Albania e alle vicende della Chiesa cattolica albanese nel periodo comunista, mentre nella seconda parte offre un ampio panorama delle
successive fasi della persecuzione, usando non solo le testimonianze dei perseguitati, ma anche le
stesse fonti comuniste albanesi e dimostrando che per fare buona storia non è sempre necessario
ricorrere ai documenti inediti.
Guido Franzinetti
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I LIBRI DEL 2007
Andrea Rapini, La nazionalizzazione a due ruote. Genesi e decollo di uno scooter italiano,
Bologna, il Mulino, 307 pp., € 22,00
Il saggio di Andrea Rapini, ricercatore presso l’Università di Modena e Reggio, ricostruisce le
vicende della Piaggio e del suo prodotto di maggior successo (la Vespa) dal 1884 ai primi anni ’50.
Per dirla in gergo motoristico, il volume gira bene quando si muove nel territorio della storia
d’impresa e delle relazioni industriali, mentre grippa tutte le volte che l’a. effettua qualche escursione fuoripista nei campi della storia dei consumi e degli studi culturali.
In primo luogo, Rapini dimostra di non trovarsi a proprio agio con la storiografia dedicata al
consumo dei veicoli a motore: cita alcuni titoli (i più adusati, fra l’altro) dell’ormai ricca bibliografia sui trasporti, ma ne tralascia molti altri che sarebbero stati assai più utili al suo discorso a partire dal seminale The Motor Car and Popular Culture in the 20th Century (Aldershot, Ashgate, 1998)
che contiene il bel saggio di S. Koerner 4 Wheels Good, 2 Wheels Bad.
Leggendo il libro, poi, si ha la sensazione che i paragrafi dedicati all’evoluzione del consumo
dei veicoli a motore siano posticci rispetto al corpo principale dell’opera consacrato a una storia
d’impresa di impianto tradizionale. L’a. si avventura, infatti, in alcune valutazioni che evidenziano
una scarsa dimestichezza con la storia della motorizzazione italiana. Un esempio: l’attenzione riservata alle vicende dell’auto popolare in Germania (pp. 78-80) senza una parola sul caso italiano (la
500A Topolino anticipò di due anni la VW Type I). Quanto alla campagna per la conquista del
motore, Tassinari (p. 77) la scoprì con almeno diciotto anni di ritardo. Restando alla cronologia, a
p. 217 si trovano due svarioni: le Fiat 600 e Nuova 500 non furono presentate nel 1953 e nel 1955,
bensì nel 1955 e nel 1957.
È assolutamente fuorviante, inoltre, parlare di «vespizzazione delle masse» (p. 233) per gli anni compresi fra il 1945 e il primo scorcio dei ’50 citando, come fa Rapini, le cifre assolute dei mezzi in circolazione (p. 217): è vero che i motocicli sopravanzavano le automobili, ma non si può parlare di massificazione poiché la densità (ovvero il rapporto fra veicoli circolanti e popolazione, che
l’a. sembra ignorare) mostra come solamente un’esigua minoranza di italiani potesse permettersi
l’acquisto di un mezzo a due ruote. Nel 1950, infatti, circolava un motoveicolo ogni 69 abitanti e
nel 1954 uno ogni 21. Anche da un punto di vista culturale, la «mitologia» della Vespa e dello scooter aveva appena raggiunto il suo stato embrionale: uno dei primi film dove questi sono protagonisti è del 1953 (Vacanze romane di W. Wyler) e ci vorrà un altro decennio prima che i mods e i loro epigoni italiani li rendano, in qualche maniera, oggetti di culto.
Ha un senso parlare di «scooterizzazione» della mobilità a motore, quindi, limitatamente agli
anni del miracolo (1958-1964) poiché di lì a breve gli italiani tradirono senza rimpianti le due ruote per abbracciare, finalmente, il loro grande amore: l’automobile. Lo dimostrano le cifre delle immatricolazioni dei motocicli fino a 200 cc: nel 1961 furono 373.168, nel 1964 326.095 e nel 1970
265.537. Nel 1964, le autovetture sopravanzarono i motoveicoli: la crescita dei redditi sancì, di fatto, la «sconfitta» delle due ruote.
Federico Paolini
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I LIBRI DEL 2007
Sonia Residori, Il Massacro del Grappa. Vittime e carnefici del rastrellamento (21-27 settembre 1944), Verona, Cierre, 280 pp., € 12,50
Il libro della Residori ricostruisce il massacro perpetrato dai nazifascisti nel corso del rastrellamento organizzato per annientare le formazioni partigiane operanti nella zona del monte Grappa, nel settembre 1944. Attraverso un uso attento delle fonti a disposizione, l’a. giunge ad una descrizione delle vicende e delle modalità relative alle uccisioni di partigiani e fiancheggiatori, o presunti tali, di ex prigionieri alleati, di ostaggi rastrellati nel corso delle operazioni. L’azione antipartigiana si rivolge in modo sistematico e premeditato contro i civili, colpevoli di fornire quegli appoggi senza i quali i partigiani non potrebbero resistere in montagna. Ma non si tratta di una violenza indiscriminata, che colpisce dall’esterno le comunità ai
piedi del Grappa. In molti casi la violenza segue una pista precisa, disegnata dai conflitti e dagli odi della guerra civile: sono infatti i fascisti locali, e in altri casi meschini delatori per denaro, che contribuiscono alla cattura dei fuggiaschi, anche con subdoli trucchi che utilizzano
i preesistenti legami all’interno delle comunità. Proprio a partire dal ruolo e dalle dirette responsabilità che fascisti locali e brigatisti neri ebbero nel massacro, la storia dell’eccidio del
Grappa si ricongiunge alle complesse vicende nazionali che portarono alla transizione dal fascismo alla Repubblica. La fine della guerra sembrò offrire ai parenti delle vittime l’opportunità di veder realizzata la punizione dei colpevoli dell’eccidio. Il CLN locale si adoperò per
raccogliere tutte le informazioni necessarie per cominciare i processi, attraverso lo strumento
delle Corti d’Assise straordinarie, ma ben presto tali istituzioni furono svuotate di ogni potere reale. Per contro il passaggio dei casi all’amministrazione giudiziaria ordinaria fu l’inizio di
un percorso accidentato e tortuoso, lungo un itinerario attraverso il quale gli orientamenti della magistratura giudicante si fanno sempre più sordi alle richieste di giustizia, e sempre più attenti alle esigenze di un discorso di pacificazione imposto dall’alto, e nella maggioranza dei
casi condiviso dalla magistratura stessa. Ed è qui che si assiste a un clamoroso capovolgimento, che utilizza alcuni degli elementi costitutivi del processo di ricostruzione dell’identità nazionale italiana. Le responsabilità dei fascisti vengono ridimensionate nel paragone con la ferocia tedesca; i repubblichini si spacciano, a volte con successo, per difensori della popolazione dalle angherie delle truppe germaniche. Ma c’è da dire che neanche la gran parte dei crimini di guerra compiuti dagli occupanti tedeschi contro i civili furono perseguiti, in base alle esigenze di una complessa strategia diplomatica maturata nel contesto dei nuovi equilibri
internazionali. E quando le responsabilità dei fascisti sono evidenti ci pensa l’indulgenza della corte a mitigare le condanne, fino all’amnistia di Togliatti, che di fatto allontana definitivamente ogni possibilità di giustizia. Forse l’interesse maggiore che suscita questo lavoro consiste proprio nel suo contributo alla riflessione storica sul tema della transizione nel dopoguerra che ancora necessita di una fase di approfondita ricerca.
Andrea De Santo
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I LIBRI DEL 2007
István Rév, Giustizia retroattiva. Preistoria del postcomunismo, Milano, Feltrinelli, 346 pp.,
€ 35,00 (ed. or. Stanford, 2005)
Storici chiamati a scrivere di «tempi tristi» (p. 13) in un’Europa centro-orientale dove «gli
assassini e le loro vittime, soprattutto gli assassini comunisti e le loro vittime comuniste» vivono per decenni «in una prossimità incestuosa» (p. 15): sin dall’Introduzione il libro di Rév
si presenta come un’esplorazione tutt’altro che convenzionale nello straordinario intreccio tra
passato e presente offerto dal postcomunismo ungherese, con il suo corteo di corpi seppelliti
e riesumati, funerali vietati o celebrati in forma privata e dopo il 1989 trasformati in pomposi eventi pubblici. Il direttore degli Open Society Archives, egli stesso figlio di questa storia
tragica e grottesca, partendo da una materia così densa – l’ossessione per il corpo umano e la
sua continua ritualizzazione – plasma un testo poliedrico, in cui la narrazione si spezza frequentemente in frammenti di psicanalisi, critica letteraria e semantica del linguaggio. I sette
capitoli, rielaborazione di materiale già pubblicato, sono accomunati dall’ossessiva ansia di
smontare e ricostruire i meccanismi di formazione della memoria ufficiale. Rév analizza dunque la genesi del pantheon del movimento operaio, un mausoleo situato all’interno del cimitero Kerepesi di Budapest; narra la trasmigrazione plurima nella memoria collettiva del corpo più «scandaloso» della storia ungherese del ’900, quello del comunista Imre Nagy, assassinato per volontà di un regime comunista e riabilitato, 31 anni dopo, dallo stesso sistema; indugia sulla sacralizzazione delle date assunte nei vari periodi storici a simbolo della storia nazionale (15 e 21 marzo, 4 aprile, 23 ottobre e 4 novembre); ritorna su un passaggio tuttora
controverso della storia ungherese recente, il linciaggio degli agenti della polizia politica da
parte dei rivoluzionari, il 30 ottobre 1956; decostruisce la cronaca settantennale del processo
a carico di un membro delle formazioni paramilitari responsabili delle violenze antisemite dell’autunno 1919 (l’istruttoria avviata nel 1921 viene bloccata dall’amnistia concessa dall’ammiraglio Horthy, ma il caso riprende vita 25 anni più tardi, con una condanna a morte in contumacia, e nuovamente nel 1957, quando il «colpevole» viene finalmente scovato e condannato a morte nell’ambito della campagna di repressione post-1956. Interpellata dalla famiglia
del condannato, nel 1994 la Corte Suprema ungherese confermerà che tutti gli atti originati
nel corso di 73 anni sono da considerarsi giuridicamente validi e inappellabili).
Il capitolo più stimolante resta il secondo (Il necronomico), dedicato all’ultimo discorso
pronunciato da János Kádár il 12 aprile 1989 di fronte a un attonito Comitato centrale. L’ormai moribondo ex primo segretario rivela l’angoscia e il senso di colpa legato a quel nome,
Imre Nagy, mai pronunciato neppure in privato per oltre trent’anni. Come dimostra tuttavia
anche il sesto capitolo sulla fallita costruzione della metropolitana di Budapest, modellata su
quella moscovita, nei primi anni ’50, l’a. riporta in superficie e restituisce una fisicità intensa,
talora deforme, alla «storia sotterranea» di un pezzo di Europa.
Stefano Bottoni
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I LIBRI DEL 2007
Lucy Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, Roma-Bari, Laterza, XXXIV-608 pp., €
28,00 (ed. or. New Haven, 2007)
Immediata traduzione dall’inglese di un volume di ricerca importante, che contribuisce
a dare sostanza al bicentenario di Garibaldi. Parte del senso del lavoro si gioca sulla parola «invention-invenzione» – come già con i fortunati studi di Hobsbawm e Ranger sulla «invenzione della tradizione». Per centinaia di pagine laboriose, simpatetiche – e di godibile lettura –
Lucy Riall raduna un ampio campionario sulla fortuna di Garibaldi in Italia, in Europa e nel
mondo. Fatti e rappresentazioni, costruzione progettuale ovvero uso pubblico del personaggio e innamoramenti di donne, uomini e folle, tutto appare in persuasivo equilibrio. Solo al
termine del capitolo IX – Nascita degli eroi italiani – l’a. sente il bisogno di differenziare la
propria posizione da George M. Trevelyan, un capostipite della illustre schiera di risorgimentisti otto e novecenteschi di lingua inglese, di cui lei stessa è erede. Per lui, infatti, «la “leggenda garibaldina” era vera». Per lei invece «la “leggenda” non può essere considerata “vera”»: «il
culto di Garibaldi fu in realtà concepito, costruito e divulgato con cura, e il suo scopo fu di
sostenere, promuovere e giustificare un processo di violento e rapido mutamento di regime»
(p. 324). Qualcosa forse ci sfugge di questo distinguo, che sembra schematizzare in forma di
dualismo uno straordinario e riuscitissimo intreccio di spontaneità e costruzione. Nessun dubbio, peraltro, che questa vi sia: che già prima del ’48 Mazzini investa sulle potenzialità di questo personaggio; che Garibaldi ne sia consapevole; che Dumas père e una schiera di giornalisti e romanzieri si impadroniscano di lui e delle sue gesta producendo un efficacissimo impasto di cronache avventurose e romanzate per un pubblico interclassista allargato. Una moltitudine di biografie improvvisate entra in circolazione, assieme a stampe, quadri, foto, inni e
canti. Qui intervengono i nuovi mezzi della cultura di massa – decisivo il telegrafo – rispetto
a cui il «prodotto» Garibaldi ha la fortuna di presentarsi al momento buono e di prestarsi con
compiacenza a recitare la parte dell’Eroe: bello e buono, audacissimo e saggio, idealista e innamorato; un compendio di virtù che neanche D’Artagnan e i nuovi personaggi dei romanzi
d’appendice, che accompagnano il decollo della stampa popolare. Con la prerogativa, in più,
che i Moschettieri e gli altri eroi da romanzo te li devi sognare, e questo è un eroe vivente, lo
puoi incontrare, molti testimoni raccontano di avere parlato con lui e sentito quanto è affabile; e non mancano, come in Inghilterra nel 1864, i raduni di centinaia di migliaia di persone per dar corpo alla vivente leggenda. Il repertorio è capillare, Riall non si ferma al senso complessivo dell’ondata, offre ragguagli analitici e li incastona in un efficace racconto del racconto. L’estasi dei corrispondenti del «Times» – al seguito della seguitissima e spettacolarizzata
guerra del ’59: non vanno in scena solo i protagonisti più scontati, i Mille – giunge a segnalare che Garibaldi ha «una sana carnagione inglese» (p. 228); e che in «quel nobile volto […]
non vi è traccia di ferocia o di una natura selvaggia» (p. 229).
Mario Isnenghi
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I LIBRI DEL 2007
Andrea Ricciardi, Leo Valiani. Gli anni della formazione. Tra socialismo, comunismo e rivoluzione democratica, Milano, FrancoAngeli, 313 pp., € 22,00
L’antifascismo italiano in esilio è un campo tutt’altro che poco esplorato. Ma che sia ancora in parte un continente vergine è dimostrato dall’assenza di studi specifici su personaggi
anche di primo piano. È il caso di Leo Valiani, che fino a questo studio biografico di Ricciardi si presentava sempre come una figura un po’ misteriosa. E si capisce perché. Nato a Fiume
nel 1909, immerso nell’atmosfera di una Mitteleuropa politica in disfacimento, Valiani si avvicinò prima ai socialisti per poi aderire al comunismo nel 1928. All’interno del PCd’I clandestino rimase fino al 1939, quando poi passò a Giustizia e Libertà. Il volume si ferma qui,
come del resto è esplicito dal titolo. Come ogni Bildung, però, anche quella di Valiani, secondo Ricciardi, darà senso e definirà buona parte della sua attività politica posteriore, nel Partito d’Azione. Tale giovinezza coincide infatti con l’adesione di Valiani all’idea rivoluzionaria
che lo portò prima a trovare nel comunismo l’incarnazione di questo ideale, poi a sostituire
l’idea di una rivoluzione internazionale con quella, propria di GL e del Partito d’Azione, di
«rivoluzione italiana».
Al di là della discussione sulla continuità tra il Valiani giovane e quello maturo (e speriamo che Ricciardi voglia continuare il percorso biografico), l’importanza del volume sta anche
nella capacità di far emergere, attraverso Valiani, un mondo antifascista di grande complessità. Lo stesso comunismo di Valiani, convinto quant’altri mai, è una fede politica che si arricchisce delle sue esperienze ungheresi e che restituisce complessità al comunismo clandestino. Ricciardi mostra come Valiani fosse del tutto allineato alla cultura dei comunisti italiani
(con la specificità mitteleuropea di cui si è detto); ma a noi pare invece che lo sguardo del comunista fiumano fosse più laico, più attento alla novità, maggiormente dettato dalla ricerca
dell’empiria. Proprio questa curiosità fa sì che le esperienze francesi e poi quella della guerra
di Spagna aprissero a Valiani uno spettro di interrogativi che invece tutto il gruppo dirigente
comunista italiano non si pose, né si sarebbe posto in futuro. Valiani uscì dal PCd’I nel ’39
ma la rottura fu preparata dalla intensa frequentazione dei giellisti, in esilio in Francia, Franco Venturi e Aldo Garosci (che forse trasmisero a Valiani anche l’amore per la storia, e Valiani fu certo anche un grande storico) per sfociare poi nell’incontro con Arthur Koestler. Alla
vigilia della sua fuga in Messico, nel dicembre 1941, Valiani era pronto a impegnarsi in una
nuova battaglia. Anche questa, tuttavia, qualche anno dopo, si sarebbe rivelata deludente facendolo uscire dalla politica attiva.
Marco Gervasoni
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I LIBRI DEL 2007
Klara Rieder, Silvio Flor. Autonomie und Klassenkampf. Die Biografie eines südtiroler Kommunisten, Bozen, Edition Raetia, 243 pp., € 15,00
Il volume ricostruisce la biografia politico-esistenziale del meranese Silvio Flor jun.
(1903-1974), figura di spicco del movimento operaio sudtirolese: antifascista, sindacalista,
cofondatore nel 1921 del Partito comunista italiano nel Sudtirolo, da cui uscì nel 1946 per
protesta contro la scarsa attenzione prestata alla questione sudtirolese, sostenitore dell’autonomia del Sudtirolo, candidato nel 1952 per la lista di lingua tedesca «Selbstverwaltung und
Gerechtigkeit», membro fondatore nel 1972 assieme ad Hans Dietl della Sozialdemokratische
Partei Südtirol.
Interpretare questo studio servendosi come chiave di lettura del rapporto internazionalismo/questione nazionale – un problema di fatto ineludibile per il movimento operaio internazionalista, sia nella sua versione socialdemocratica che in quella comunista – può rivelarsi
particolarmente stimolante, dal momento che Flor matura negli ambienti del comunismo internazionalista (nel 1933 frequentò la Scuola Lenin di Mosca) una traiettoria che poi andrà a
concludersi, dopo un sofferto percorso interiore, in un contesto nazional-conservatore. Sin
dai primi capitoli il lettore realizza di trovarsi di fronte ad una «biografia storica» ben costruita e documentata (archivi di Bolzano, Mosca, Roma, Vienna) che si avvale dell’esperienza di
Flor non solo per ripercorrere la storia delle regioni germanofone del Sudtirolo, ma per aprirsi ad una riflessione più generale sul punto di incontro fra tradizione austromarxista, ideologia comunista e movimento operaio. Nodo che più volte ha trovato riscontro, con esiti diversi, nella storia di quei territori un tempo afferenti alla compagine statuale plurinazionale della Monarchia asburgica – così il Sudtirolo, ma anche ad es. la regione dell’Adriatico nordorientale, la Slovenia.
Pur scegliendo l’opzione comunista, anche Flor come altri dirigenti comunisti di formazione «asburgica» – il caso più emblematico è forse quello dello sloveno Edvard Kardelj, braccio destro di Tito, che garantì alla Slovenia nell’ambito del sistema autogestionario jugoslavo
spazi di autonomia territoriale sempre maggiori – rimase profondamente influenzato da alcuni modelli teorici della socialdemocrazia austriaca, quale fu ad esempio «il concetto di nazione» substatuale e subpolitico, teorizzato da Karl Renner e Otto Bauer per cercare di contemperare l’organizzazione politica del proletariato con il riconoscimento delle rivendicazioni nazionali dei diversi popoli della Monarchia asburgica.
In conclusione, questo libro ha numerosi pregi evidenti, non da ultimo quello di restituire la ricchezza e la complessità del cammino percorso dagli studi su un tema che ha iniziato
solo di recente ad assumere un rilievo significativo nel dibattito storiografico in lingua italiana (Aga Rossi, Cattaruzza), in relazione a come socialisti e comunisti si posero rispetto al concetto di «nazione».
Monica Rebeschini
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I LIBRI DEL 2007
Linda Risso, Divided We Stand: The French and Italian Political Parties and the Rearmament
of West Germany, 1949-1955, Newcastle, Cambridge Scholars Publishing, 298 pp., £ 39,99
Riprendendo un tema non nuovo, il lavoro di dottorato che Linda Risso, ora lecturer in
Modern European History all’Università di Reading, ha condotto fra l’Inghilterra, Bruxelles,
Parigi, Fiesole e Roma, propone ha nella sua chiara struttura l’obiettivo di vagliare le conoscenze consolidate e di offrire un proprio apporto innovativo. La prima sezione contiene la
narrazione, fermamente inscritta nel contesto della guerra fredda, di come il progetto di esercito europeo si affermò, contro l’iniziale opposizione della maggioranza delle nazioni atlantiche, come soluzione in grado di coniugare il riarmo della Germania con un avanzamento significativo dell’integrazione politica dell’Europa occidentale; del negoziato attraverso il quale sei paesi giunsero a sottoscrivere il Trattato di Parigi per la Comunità Europea di Difesa, e
di come l’Assemblea ad hoc mise a punto un progetto costituzionale di Comunità Politica Europa di forte e rivoluzionaria caratterizzazione federale. Si tratta di una ricostruzione di impianto multilaterale, basata principalmente sulla letteratura esistente, attenta a comprendere
le scelte «europee» in una cornice ampia e a rinvenirne gli antecedenti e, più interessante forse, i lasciti per il futuro.
Nella seconda sezione Risso sviluppa la parte più innovativa della ricerca, l’analisi comparata delle posizioni dei partiti politici italiani e francesi che occupavano la scena politica dei
rispettivi paesi durante i lunghi e travagliati processi di ratifica dei quali i due trattati rimasero per due anni ostaggio, per poi caderne vittime. Nonostante la superficiale somiglianza fra
le due «Repubbliche dei partiti», l’analisi descrive due realtà nazionali lontane e scarsamente
comparabili, anche nel caso di partiti appartenenti alla stessa «famiglia» come quelli democristiani o socialisti, e ricostruisce dibattiti di impianto strettamente nazionale. Un capitolo dedicato ai militari dei due paesi restituisce a questi importanti protagonisti della querelle il loro ruolo: apprezzabile la ricerca della posizione dei militari italiani, raramente oggetto di ricerca, soprattutto al di fuori del nostro paese; più complesso e in parte conosciuto il caso francese, che il capitolo traccia nelle linee essenziali. La terza parte è dedicata all’inutile ricerca di
un compromesso in extremis, alla bocciatura francese, alla ricerca di una soluzione di ricambio e all’approvazione dei trattati di Londra.
Il volume si segnala per la chiarezza espositiva, per la capacità di sintetizzare con efficacia
e acutezza gli snodi essenziali di una fase decisiva del processo di integrazione, che lasciò importanti eredità, per l’intento di porre al centro dell’attenzione attori non governativi il cui
apporto raramente viene studiato sistematicamente, e infine per un approccio comparato che
è certamente una delle piste che la storiografia dell’integrazione europea, e non solo, dovrebbe seguire con maggiore attenzione.
Elena Calandri
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I LIBRI DEL 2007
Adele Robbiati Bianchi (a cura di), L’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e di Lettere
(secoli XIX-XX), vol. I, Storia istituzionale, Milano, Istituto Lombardo Accademia di Scienze
e Lettere-Scheiwiller, XVI-721 pp., € 69,00
Vera storia istituzionale, come ben indica il sottotitolo, il volume contribuisce alla ricostruzione dei rapporti tra potere politico e cultura a Milano e in Lombardia negli ultimi due
secoli. Grazie al ricco saggio di Franco Della Peruta sul periodo 1796-1860 – libro nel libro
frutto di un paziente spoglio di materiale archivistico mai prima valorizzato – si apprezzano
nascita e sviluppo dell’Istituto come efficaci spettri di lettura dell’organizzazione del sapere,
nel passaggio dalla cultura accademica di antico regime all’attività di consulenza per il governo, nel solco del pragmatismo e del decisionismo napoleonico che caratterizza gli esordi dell’Istituto e la raggiunta visibilità politica dei «possessori di lumi» di certificata condotta. Dalle tensioni tra l’anima bolognese e quella milanese del notabilato italiano per la scelta della sede – «Non può negarsi che se l’Istituto ha un oggetto reale politico deve essere collocato presso il Governo», osservava Melzi d’Eril (pp. 59-60) – alla progettualità celebrativa fatta di medaglie e monumenti, tra adulazione e conformismo di regime, l’archivio dell’Istituto testimonia anche la valenza modernizzatrice della consulenza tecnica per il potere. I concorsi indetti
e i relativi premi documentano come l’indagine scientifica risponda sempre più alle sfide della vita pratica in una società in via di industrializzazione: le «arti» e «le macchine» sono protagoniste di un’operosità lombarda che spazia tra agricoltura, manifatture, lavori pubblici,
promozione culturale, istruzione pubblica, sino alla nuova sensibilità per la tutela del lavoro
manuale. Sorta di brain trust governativo, scienziati e umanisti si confrontano così anche con
la società materiale, pur continuando a percepirsi come una élite di «custodi del vero sapere».
Dall’«intermezzo del 1848» – causa di qualche epurazione – alle avances distensive di Massimiliano d’Asburgo, l’autorevolezza del Lombardo passa indenne nell’Italia liberale, oggetto
del contributo di Giorgio Rumi. «Darsi la mano la scienza e la patria» è il nuovo obiettivo di
Nation building secondo Giulio Carcano (p. 511), ma le attività dell’Istituto finiscono per polverizzarsi, documentando il ripiegamento culturale e valoriale di fine secolo: «La legittimazione offerta dal Risorgimento non è più assoluta ed incontrovertibile» (p. 544). Anche il saggio
di Edoardo Bressan sul periodo dalla Grande guerra ad oggi conferma le potenzialità della storia del Lombardo come cartina di tornasole delle tensioni che attraversano la società esterna,
soprattutto nell’intreccio tra politica e cultura durante il fascismo, parzialmente mediato per
l’Istituto dalla figura di Arrigo Solmi. Storia di traumi – l’applicazione delle leggi razziali e i
bombardamenti dell’agosto ’43 – quella dell’Istituto può servire anche come storia di «rinascita», avviata negli anni ’50 e proseguita recuperando in piena autonomia culturale e nel contesto di respiro europeo la propria vocazione interdisciplinare, «da Volta a Manzoni».
Arianna Arisi Rota
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I LIBRI DEL 2007
Cinzia Rognoni Vercelli, Luciano Bolis dall’Italia all’Europa, Bologna, il Mulino, 525 pp.,
€ 35,00
Il volume è una documentata e dettagliata biografia di Luciano Bolis, figura minore ma
significativa dell’antifascismo democratico e del federalismo europeo. Figlio di una famiglia
della media borghesia milanese, Bolis si conformò ai dettami dell’ideologia fascista, prima di
avviare una lenta ma radicale conversione ai principi liberal-democratici tra la fine degli anni
’30 e l’inizio degli anni ’40. Scontata una condanna per attività cospirativa, si rifugiò in Svizzera, dove entrò in contatto con gli ambienti del fuoriuscitismo italiano e, in particolare, con
i principali esponenti del neonato Partito d’Azione e del neonato Movimento Federalista Europeo. Rientrato in Italia, raggiunse le Brigate di Giustizia e Libertà attive in Liguria, per poi
essere nuovamente arrestato e incarcerato. Finita la guerra, proseguì il proprio impegno politico, ricoprendo ruoli di dirigente nazionale, regionale e locale nel Partito d’Azione. Dopo lo
scioglimento di questa formazione politica, partecipò ai vari tentativi di creare un socialismo
autonomo sia rispetto alla Democrazia Cristiana sia rispetto al Partito Comunista e, soprattutto, cominciò a legarsi alle attività e alle iniziative federaliste promosse da Ernesto Rossi e
da Altiero Spinelli. In questo ambito, tra la fine degli anni ’40 e la fine degli anni ’50, affiancò
Spinelli alla guida del Movimento Federalista Europeo, occupandosi prevalentemente di questioni organizzative. Dopo un breve intermezzo come corrispondente da Parigi per la RAI, ricevette un impiego di alto funzionario presso il Consiglio d’Europa, per poi concludere la propria carriera all’inizio degli anni ’90 in ruoli di dirigenza e di prestigio nelle principali organizzazioni federaliste italiane e europee.
Grazie a un abile e scrupoloso utilizzo di un’impressionante mole di fonti primarie e secondarie, l’a. riesce a ripercorrere la vicenda umana e politica di Luciano Bolis collocandola
opportunamente all’interno della più generale vicenda nazionale e internazionale. Tuttavia,
essa non riesce a evitare, o forse non vuole, un approccio eccessivamente partecipe e militante all’oggetto della sua ricerca. Il risultato è un racconto agiografico, un’esaltazione delle doti
umane e delle posizioni politiche di Bolis più che un equilibrato bilancio storiografico del suo
pensiero e della sua attività. Altrettanto discutibile appare la scelta di privilegiare la dimensione psicologico-intimistica rispetto agli elementi più propriamente politici, sociali e culturali.
Questa stortura, probabilmente indotta da un ricorso eccessivo e non sempre avveduto alle
autobiografie, ai diari e alle interviste ai protagonisti, fa apparire il volume più un romanzo di
formazione che una vera e propria biografia storica. Infine, nonostante uno stile asciutto e a
tratti persino avvincente, la leggibilità e la coerenza narrativa del volume risultano compromesse dalla sua stessa struttura. Si presenta infatti scarsamente giustificabile la scelta di dilungarsi per 457 pagine sui primi trentacinque anni di vita per poi liquidare gli ultimi trentanove in sole 19 pagine.
Simone Paoli
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I LIBRI DEL 2007
Lisa Roscioni, Lo smemorato di Collegno. Storia italiana di un’identità contesa, Torino, Einaudi, XXII-294 pp., € 26,50
Il libro di Roscioni, dedicato a uno dei fatti di cronaca più noti del ’900 italiano, offre
uno spaccato di notevole interesse sul rapporto tra opinione pubblica, istituzioni e società negli anni del consolidamento del regime fascista. Il fuoco della ricerca non è teso a svelare la vera storia del ricoverato n. 44.170 del manicomio di Collegno, reclamato da una famiglia, che
credeva di vedere in lui il professore Giulio Canella, disperso durante la Grande guerra e colpito da amnesia per i traumi subiti, contro l’opinione di poliziotti, psichiatri, magistrati e di
moltissimi testimoni, convinti di essere di fronte a Mario Bruneri, un tipografo, considerato
un abile simulatore, determinato a occultare un passato di truffe ed espedienti. Ad interessare l’a. sono piuttosto le sfaccettature della suggestione collettiva che trasformò un’identità biologica «in quell’immagine ambigua e discussa, in quell’identità altra, costruita giorno per giorno nel dibattito pubblico e nei ricordi contrastanti di coloro che credevano di riconoscerlo»
(p. XII). Come una valanga partita da un sassolino, il caso dilagò sui giornali e divise gli italiani scatenando infinite polemiche, al punto da preoccupare il regime, che aprì tre o quattro
dossier su una vicenda in apparenza molto personale e assai poco politica e arrivò a proibire
ai giornali di parlarne. Ad allarmare Mussolini furono le voci di possibili interessi da parte di
alcune congregazioni religiose sull’eredità del professor Canella e la netta presa di posizione
dei giornali cattolici e di un personaggio di primo piano come padre Gemelli a sfavore dello
smemorato, che invece aveva come avvocato difensore Farinacci, il cui estremismo rischiava
di compromettere il processo di normalizzazione della dittatura e le trattative con la Santa Sede. Eppure la vicenda turbava e appassionava enormemente gli italiani, né poteva essere diversamente, vista la carica emozionale di cui era dotata: il ritrovamento del disperso significava l’avverarsi di un evento miracoloso atteso inutilmente da migliaia di famiglie i cui cari erano scomparsi nella fornace della guerra; la simulazione chiamava in causa l’onore della moglie di Canella, che aveva avuto tre figli dallo smemorato nel corso della lunga vertenza e abbatteva le distanze sociali tra il coltissimo professore e il tipografo anarcoide e spregiudicato.
Ed è proprio in questi risvolti che il racconto di Roscioni ottiene i risultati migliori, anche grazie all’attenzione con cui evita di assumere posizioni troppo definite per poter cogliere pienamente le sottili implicazioni psicologiche degli attori in campo, oltre i cliché dello scambio di
persona e dell’impostura smascherata. C’è però un ultimo aspetto che va segnalato. Questo
lavoro ha potuto avvalersi della documentazione conservata presso l’archivio del manicomio
di Collegno, che riunendo anche i documenti dell’antica Congregazione del SS. Sudario costituisce un bene culturale di straordinaria importanza e di cui, fino ad oggi, i dirigenti dell’ASL 5 del Piemonte (ora TO3) hanno fatto un uso a dir poco discrezionale, impedendone
o limitandone l’accesso ad altri studiosi, compresi tesisti e dottorandi.
Silvano Montaldo
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I LIBRI DEL 2007
Gianni Scipione Rossi, Il razzismo totalitario. Evola e la leggenda dell’antisemitismo spirituale, Soveria Mannelli, Rubbettino, 126 pp., € 9,00
La storiografia più recente ha contribuito ad approfondire la dimensione del razzismo e
dell’antisemitismo di Julius Evola, contrapponendosi all’impostazione defeliciana che ne accentuava i tratti spiritualistici nell’intento di dimostrare la distanza del razzismo fascista dal
modello nazionalsocialista.
In realtà, Evola, negli anni ’30 e ’40, non ha mai parlato di razzismo «spirituale», quanto
piuttosto di razzismo «totalitario» o «tradizionale». La sua concezione di un razzismo articolato
su tre livelli (del corpo, dell’anima e dello spirito) presupponeva un processo di razzizzazione ben
più rigoroso e discriminante di quello concepito dal razzismo biologico. Evola, in estrema sintesi, non sottovalutava il dato biologico, ma lo potenziava, affiancandogli la «psicantropologia»
e il «razzismo dello spirito». L’etichetta di razzismo «spirituale», ancora piuttosto diffusa nei saggi dedicati al pensiero evoliano, si rivela, pertanto, storiograficamente inadeguata, poiché con essa si finisce per accettare passivamente una definizione restrittiva, elaborata dallo stesso Evola, in
chiave difensiva e autorappresentativa, negli scritti del secondo dopoguerra.
Come si capisce fin dal titolo (e dal sottotitolo), il maggior contributo del libro di Rossi
risiede nell’aver costruito una breve presentazione divulgativa e giornalistica di questa acquisizione storiografica, pur inserendola in un contesto che non tiene conto dei numerosi studi sulla dimensione plurale, dinamica e conflittuale del razzismo fascista. Molto più problematica
appare, tuttavia, la seconda parte del volume, nella quale si tenta di offrire l’immagine di un
Evola la cui influenza sugli ambienti del radicalismo di destra, nel secondo dopoguerra, si sarebbe limitata «alla sfera culturale e sentimentale» (p. 85). In realtà, un aspetto importante e,
per certi versi, paradossale, del tradizionalismo evoliano consiste proprio nella compresenza, da
un lato, della prospettiva metafisica e metastorica e, dall’altro, di un costante interventismo
ideologico-politico, nell’oscillazione tra l’inattualità metafisica e l’impegno nell’attualità storico-politica, tra il pessimismo, legato all’idea guénoniana e spengleriana della decadenza del
mondo moderno, e l’ottimismo eroico connesso a una volontà di restaurazione della grandezza perduta delle origini. È questo atteggiamento ideologico-politico a spiegare la posizione interna/esterna mantenuta da Evola nei confronti dei fascismi, concepiti come primo passo di
una konservative Revolution, il cui esito ultimo doveva essere l’approdo nel metastorico mondo
della «Tradizione». Ed è sempre in una logica di interventismo politico che vanno interpretati
alcuni passaggi chiave del percorso evoliano del secondo dopoguerra, quali l’insistenza costante sul concetto di «Ordine», le strategie golpiste degli anni ’50 e ’60, il «realismo eroico» jüngeriano, la tantrica «via della Mano Sinistra» come via tradizionalistica alla violenza.
Evola, dunque, cattivo maestro? Indubbiamente sì, ma non così «impolitico» come pare
sostenere Rossi.
Francesco Cassata
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I LIBRI DEL 2007
Anna Rossi-Doria, Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Roma, Viella, XIX-320 pp., € 27,00
Gli scritti qui raccolti parlano di una lunga stagione di riflessioni e di studi legati a filo
doppio a una «scelta di vita» maturata nelle esperienze pratiche e teoriche del movimento neofemminista (qui rievocato con puntiglioso orgoglio attraverso un’ampia riconsiderazione del
2005: pp. 243-265), di cui si ha un chiaro esempio nei cinque brevi interventi della seconda
parte, che mettono in scena l’emergere delle domande sul carattere sessuato del tempo e dell’individuo, della politica e della moderna democrazia che da allora hanno nutrito le ricerche
dell’a. su L’altra metà della storia (come suona il titolo della breve sezione, pp. 267-309): quella che – riscattando le donne dal silenzio «antico, profondo, tenace» (p. XI) che da sempre le
avvolge e nasconde – spinge anche a «cambiare le domande» poste alla storia, e in prospettiva a infrangere il non detto su cui si è strutturata, a evidenziarne la strenua parzialità.
Mi è cara un’idea di uguaglianza, scriveva l’a. nel 1987 per segnalare le sue perplessità rispetto alle elaborazioni della Libreria delle Donne di Milano (p. 301). E quanto questo sia vero lo conferma l’ostinazione con cui essa ha continuato a lavorare intorno a quel concetto-cardine, emblematico delle paure e delle aspettative che hanno scandito il processo di modernizzazione e che inquietano il nostro presente. Compatibilità e contenuti del binomio uguaglianza/differenza sono fin dal titolo al centro del saggio del 1983 sulle tappe della legislazione protettiva del lavoro delle donne nell’Inghilterra vittoriana (Uguali o diverse?), ma costituiscono
anche l’evidente sottofondo dei saggi su Le idee del suffragismo (1990), sulla difficoltà delle
donne a percepirsi e ad essere percepite come «capaci di rappresentanza universale» (Rappresentare un corpo, 1994), fino all’accurata ricostruzione dei percorsi de Le donne sulla scena politica italiana agli inizi della Repubblica (1994), per rifrangersi nelle problematicità che sono
al centro del saggio su Diritti delle donne e diritti umani (2006), ovvero sulle crescenti difficoltà di accesso delle donne a diritti riconosciuti come universali per effetto della contrapposizione fra la tutela (complessiva) dei diritti delle minoranze etniche (o meglio del loro patrimonio culturale tradizionale) e i diritti (individuali) delle donne che ne fanno parte: difficoltà
che ripropongono il problematico «intreccio tra universalismo e particolarità» (p. 308) che ha
connotato tutta la battaglia per l’accesso delle donne ai diritti individuali e di cittadinanza degli ultimi due secoli.
Attenti a legare gli interrogativi teorici alla ricerca concreta, i fatti e i linguaggi, le «narrazioni» e gli eventi, e proprio per questo singolarmente ricchi di indicazioni e suggestioni di lettura,
questi saggi si segnalano per la capacità di articolare la ricerca intorno a un’idea forza senza restarne prigionieri e senza pretendere di ingabbiarla in formule precostituite. Tanto che per valutare la sostanza e i meriti del volume in cui essi hanno preso nuova vita viene fatto di dire – come fa l’a. per il suffragismo – che «il percorso conta quanto e forse più del risultato» (p. 108).
Simonetta Soldani
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I LIBRI DEL 2007
Daniela Rossini (a cura di), La propaganda grande guerra tra nazionalismi e internazionalismi, Milano, Unicopli, 228 pp., € 14,00
Questo libro raccoglie le relazioni presentate in un convegno tenutosi presso l’Università
di Roma Tre nel dicembre 2005 e promosso dal Dipartimento di Studi Storici, Geografici e
Antropologici al quale, con felice convergenza e affinità di interessi, afferiscono sette dei nove autori del volume. Come molti altri atti di convegno, anche questo nasce dall’occasione di
un anniversario – i novant’anni dall’entrata in guerra dell’Italia – e ripropone, nella dimensione del saggio breve, temi e questioni già affrontate dagli stessi aa. in altri momenti. A curarlo è Daniela Rossini, un’esperta di prima guerra mondiale che ha scritto sul mito americano in Italia durante la Grande guerra e su Wilson e il wilsonismo. Il volume si articola in due
parti – Internazionalismi e Nazionalismi –, e il tema – la propaganda – è di quelli che fanno
tremare le vene ai polsi data la smisurata mole di saggi, volumi, articoli di riviste usciti negli
ultimi anni sull’argomento.
Con l’eccezione del saggio di Biancamaria Tedeschini Lalli su femminismo, modernismo e
pacifismo visti attraverso le discussioni che si svolgono in un salotto americano a Parigi, il fuoco di tutti i contributi è sull’Italia, sia da un punto di vista tematico che, in generale, della bibliografia utilizzata. Nella sezione Internazionalismi, Fabio Fabbri si occupa, più che della propaganda, del dibattito interno al socialismo italiano sulla guerra e sulla pace e del suo rapporto
con gli altri partiti facenti parte dell’Internazionale socialista; Daniela Rossini, in un contributo
corredato dalle immagini di alcuni manifesti italiani e americani che servono a sostenere l’argomentazione, parla della propaganda di guerra americana in Italia; Stefano Picciaredda scrive sull’internazionalismo della Chiesa cattolica esaminando le scelte e la condotta di Benedetto XV.
La sezione Nazionalismi contiene cinque saggi che affrontano il tema della propaganda
guardando a singoli segmenti del cosiddetto «fronte interno», per lo più organizzati in associazioni: Giancarlo Monina si occupa dei linguaggi, delle tecniche e delle attività di propaganda, dalla guerra di Libia al primo conflitto mondiale, della Lega navale italiana, un’associazione nata nel 1899; Adriano Roccucci analizza il ruolo egemone esercitato dagli intellettuali nazionalisti italiani tra guerra e immediato dopoguerra; Catia Papa si concentra sull’associazionismo patriottico studentesco; Andrea Fava, nel saggio più corposo del volume, ripercorre il
dibattito storiografico sul tema del fronte interno e guarda alle molteplici facce della mobilitazione; Paolo Mattera analizza la campagna elettorale del 1919, soffermandosi soprattutto
sul problema della delegittimazione degli schieramenti politici.
L’interesse degli aa. del volume è per la mobilitazione, l’attività delle associazioni nazionaliste, le tecniche e i linguaggi della propaganda, mentre restano decisamente in secondo piano, ma questo è un problema più generale della ricerca italiana sul fronte interno nella Grande guerra, l’impatto sulla popolazione e le dinamiche sociali nuove che la guerra alimenta.
Daniela Luigia Caglioti
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I LIBRI DEL 2007
Antonella Salomoni, L’Unione sovietica e la Shoah. Genocidio, resistenza, rimozione, Bologna, il Mulino, 356 pp., € 24,00
Lo sterminio degli ebrei in Europa orientale è stato oggetto, negli ultimi anni, di un’ampia
rivisitazione, soprattutto alla luce delle fonti d’archivio sovietiche finalmente accessibili. Ben pochi hanno studiato il regime, la società e la cultura sovietiche di fronte alla Shoah. Da questo punto di vista, il libro di Antonella Salomoni colma una lacuna storiografica e sicuramente costituisce un testo di riferimento obbligato.
Alle soglie della seconda guerra mondiale, l’URSS contava poco più di tre milioni di ebrei,
ai quali se ne aggiungevano quasi altri due in seguito alle annessioni concordate con il patto Ribbentrop-Molotov. Le vittime della Shoah in URSS sono valutate fra i due milioni e mezzo e i tre
milioni, la metà delle quali eliminate nel corso della sua prima fase, prima dell’entrata in funzione dei campi di sterminio. Mezzo milione di ebrei combattono in seno all’Armata Rossa e duecentomila cadono lottando come partigiani. Com’è potuto avvenire che un fenomeno di queste
dimensioni sia stato non solo ignorato dalla storiografia ma soprattutto occultato e rimosso in seno alla società e alla cultura sovietiche? A queste domande risponde il libro della Salomoni, prendendo in esame un insieme di fattori. Innanzi tutto vi è il carattere della guerra sul fronte orientale, che ha fatto oltre venti milioni di vittime in seno alla popolazione sovietica diluendo così il
genocidio degli ebrei in una più ampia ondata di violenze. Gli ebrei erano una piccola parte di un
progetto di colonizzazione e sterminio il cui bersaglio erano gli slavi nel loro insieme. Lo sterminio degli ebrei s’intrecciava profondamente con gli altri obiettivi della guerra tedesca: distruggere
l’URSS e conquistare lo «spazio vitale». Il massacro di Babij Jar del settembre 1941, sottolinea Salomoni, è preceduto da manifesti che annunciano l’eliminazione di «ebrei, comunisti, commissari e partigiani» (p. 17). La rimozione della Shoah dalla coscienza storica sovietica è tuttavia legata anche ad altri fattori. In primo luogo la volontà, al fine di riconciliare le nazionalità sovietiche
dopo la guerra, di occultare o minimizzare il fenomeno della collaborazione, soprattutto in Ucraina. L’antisemitismo diffuso in seno al mondo slavo non solo spiega l’apparizione, del vecchio stereotipo dell’ebreo «imboscato» e «profittatore», ma spinge molti, soprattutto nelle campagne, a
coadiuvare l’azione sterminatrice.
Vi è stato tuttavia, durante la guerra e negli anni seguenti, un tentativo di mobilitare gli ebrei
e l’opinione pubblica internazionale contro il genocidio nazista in URSS. Un capitolo assai interessante si sofferma sugli attori di questa campagna, avviata nell’autunno del 1941 con la creazione del Comitato antifascista ebraico e segnata dall’intervento di Il’ja Erenburg e Vasilij Grossman.
Questa attenzione per la questione ebraica spingerà l’URSS, nel novembre 1947, a promuovere
all’ONU la nascita d’Israele in nome delle sofferenze subite dagli ebrei durante la guerra. In quegli anni prende forma il progetto di un Libro nero sullo sterminio degli ebrei sovietici, che sarà infine censurato quando, ormai entrata nella guerra fredda, l’URSS conosce una nuova ondata di
antisemitismo.
Enzo Traverso
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I LIBRI DEL 2007
George Sanford, Katyn e l’eccidio sovietico del 1940. Verità, giustizia e memoria, Torino,
Utet, XIII-321 pp., € 24,50 (ed. or. London, 2005)
Il libro del noto polonista britannico rappresenta il più dettagliato e aggiornato studio del
massacro di Katyn. Nonostante infatti rappresenti un punto di vista prevalentemente polacco, l’a. non si limita all’analisi dell’eccidio del 1940 degli ufficiali polacchi, prigionieri di una
guerra non dichiarata, ma esplora in profondità la situazione sia all’interno dell’Unione Sovietica che nella zona della Polonia occupata dai sovietici dopo il patto Ribbentrop-Molotov.
Ai tempi del Grande Terrore (1937-1939) Stalin e tutta la leadership sovietica vedevano i cittadini sovietici di origine polacca come una potenziale «quinta colonna». Questo sospetto
toccò, oltre i polacchi, altri gruppi nazionali come coreani, greci e turchi, che avevano la sfortuna di abitare vicino al confine tra l’URSS e i loro Stati nazionali. La sorte dei polacchi fu la
peggiore: circa il 23 per cento di appartenenti a tale gruppo vennero arrestati e 110.000 di essi giustiziati: la più alta percentuale rispetto alle nazionalità perseguitate. I polacchi dell’URSS
divennero così il primo importante gruppo a subire la «pulizia etnica» e non «di classe», ovvero una repressione collettiva attuata in base alla nazionalità.
Della «pulizia di classe» furono invece vittime gli ufficiali polacchi rimasti prigionieri di
guerra dopo che all’attacco nazista si era aggiunto quello sovietico del 17 settembre 1939, concordato con il governo tedesco. Gli ufficiali polacchi, in maggioranza riservisti mobilitati dopo l’aggressione nazista, erano dottori, insegnanti, professori universitari, liberi professionisti
i quali appartenevano all’intellighenzia polacca, un ceto odiato intensamente da entrambi i regimi in quanto potenziale protagonista di un movimento di liberazione nazionale. La fucilazione dei 25.000 ufficiali e di altri detenuti polacchi in base al decreto del Politburo del 5 marzo 1940, la deportazione di decine di loro famigliari e le successive ondate di deportazione di
centinaia di migliaia di cittadini polacchi in parti remote dell’Unione Sovietica rappresentano uno dei peggiori crimini dello stalinismo.
Dopo la guerra il governo sovietico tentò di addossare la responsabilità del crimine ai nazisti. Il massacro di Katyn è diventato così oggetto di una lunga battaglia storiografica. Sanford
analizza in dettaglio le complicità dei governi occidentali nell’opera di occultamento per motivi politici della verità su Katyn. Secondo Sanford i rapporti russo-polacchi non verranno mai
normalizzati finché una nuova generazione di russi non farà i conti con il passato stalinista e
non riconoscerà la responsabilità storica per i suoi crimini. Purtroppo l’inchiesta sul massacro
di Katyn, aperta dalla Procura militare di Mosca nel 1989, è stata archiviata nel 2004 e due
terzi dell’ampia documentazione raccolta sono stati dichiarati «segreto di Stato». Nonostante
il ricorso presentato alla Corte europea di Strasburgo dall’associazione di storici russi «Memorial» per costringere il governo russo a riaprire la documentazione, la storia definitiva di Katyn
resta ancora da scrivere.
Viktor Zaslavsky
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I LIBRI DEL 2007
Silvia Santagata, Gli opinionmaker liberali inglesi, il fascismo e la Società della Nazioni, a
cura di Gian Mario Bravo, Milano, FrancoAngeli, 384 pp., € 28,00
Il volume ricostruisce i giudizi sul fascismo espressi in alcune delle principali riviste inglesi fra le due guerre, come «The Economist», il «New Statemen», «The Economic Journal»,
il «Manchester Guardian» e il quotidiano «Times». Alle già note oscillazioni ed ambiguità di
giudizio, quando non aperte simpatie negli anni ’20, l’a. affianca un’originale ricostruzione
del network di relazioni fra gli ambienti giornalistici messo in movimento da Luigi Sturzo durante il suo lungo esilio londinese. Rispettato, ascoltato, ma alla fine incapace di influenzare
in maniera incisiva l’opinione prevalente dei maggiori commentatori.
Si conferma dagli articoli citati l’ambiguità che la politica estera del fascismo, per i suoi
aspetti di moderazione e collaborazione con l’Inghilterra, soprattutto durante il periodo in cui
Dino Grandi fu ministro degli Esteri, generò nella percezione del regime, considerato illiberale all’interno, ma in qualche misura necessario rimedio ai mali d’Italia. Anche più abbagliante l’equivoco del corporativismo, considerato benevolmente e talora con entusiasmo, nonostante le riviste inglesi ospitassero regolari interventi di oppositori e critici italiani. La svolta
nell’opinione pubblica è determinata dalla guerra d’Etiopia. Santagata documenta come la
Gran Bretagna degli anni ’30, preoccupata dalla crisi economica e dai primi inquietanti segnali di sgretolamento del castello della sicurezza collettiva provenienti dall’Estremo Oriente
e dalla Germania, si fosse fortemente aggrappata all’idea della Società delle Nazioni come strumento per mantenere la pace internazionale. La guerra d’Abissinia ferì l’opinione pubblica in
quanto sembrò un tradimento della Società delle Nazioni e un’irrisione dello spirito pacifista
dominante in Gran Bretagna.
L’impatto negativo per l’immagine del nostro paese portato dalla guerra d’Etiopia fu enorme, tanto da chiedersi se proprio quell’episodio, considerato dai commentatori inglesi l’inizio della fine della Società, non sia all’origine di quell’onda lunga di un forte sentimento anti italiano dominante in Gran Bretagna nella classe politica, che avrà modo di manifestarsi a
conclusione della guerra mondiale, in sede di trattative di pace.
Per quanto appesantito da ripetizioni e numerose inesattezze, derivate dalla prematura
morte dell’a., che non ha potuto portare a termine il proprio lavoro, pubblicato postumo, il libro risulta di sicuro interesse, ma purtroppo presenta un grave difetto. Un curatore poco attento, nell’utilizzare un programma di correzione automatica, ha uniformato i termini League of
Nations e League of Nations Union, tradotti sempre con il nome di Società delle Nazioni. Questo rende il testo incomprensibile in molte sue parti per l’inestricabile confusione fra l’organizzazione ginevrina e la potente associazione di supporto alla sua azione presente in Gran Bretagna. Dispiace veramente che l’omaggio a una valente ricercatrice sia incappato in questo infortunio, finendo per non rendere piena giustizia del valore della studiosa scomparsa.
Alessandro Polsi
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I LIBRI DEL 2007
Vincenzo Santangelo, Le Muse del popolo. Storia dell’Arci a Torino. 1957-1967, Prefazione di Giovanni De Luna, Milano, FrancoAngeli, 285 pp., € 21,00
La capacità di associare gli individui anche al di fuori del luogo di lavoro, offrendo strutture e occasioni in grado di accoglierne gli interessi, ha costituito una delle più importanti risorse a disposizione della politica novecentesca. Ciò vale soprattutto per gli esordi dell’Italia
repubblicana, periodo durante il quale, proprio grazie all’opera e alla sensibilità dei partiti politici, fu dispiegata un’imponente opera di alfabetizzazione degli italiani alle regole della democrazia. Merito di quella stagione politica fu anche il riuscire a traghettare nella società moderna, profondamente modificata dalla guerra e in procinto di essere travolta da nuovi modelli socio-culturali, le gloriose esperienze del passato. Il patrimonio di valori, tradizioni e strumenti del «lungo Ottocento» in tal modo non si disperse. Anzi, fu anche grazie alla sua preservazione che si poté impostare il successivo processo di modernizzazione delle ideologie, delle strutture politiche e delle coscienze dei militanti. L’importanza dell’associazionismo politico è da tempo riconosciuta, al pari della sua formidabile ricchezza di esperienze e delle innumerevoli forme d’organizzazione. Anche per questo motivo lo studio di Santangelo appare
molto utile; non solo perché permette di ricostruire le scelte compiute dai comunisti della
grande città operaia nel campo dell’offerta culturale e ricreativa, ma in quanto consente di seguire le dinamiche attraverso cui i «frivoli» gusti della società civile penetrarono all’interno del
tetragono e autocompiaciuto mondo comunista. Per limiti di documentazione archivistica lo
studio purtroppo non affronta gli anni ’70, periodo cruciale durante il quale maturò la crisi
delle forme organizzative messe a punto dai partiti di massa negli anni ’50. Ciò nonostante
l’a. ha il merito di riconoscere come i primi segnali di quella crisi fossero evidenti fin dalla
metà degli anni ’60; fu proprio in quel periodo infatti che s’approfondì il fossato che divideva cultura di massa, sempre più segnata dall’influenza della televisione, e cultura superiore. A
questo proposito il discorso potrebbe (e dovrebbe…) essere più complesso, dal momento che
occorrerebbe riflettere con maggiore attenzione sui motivi dell’improvviso sovvertimento dei
confini tra cultura popolare e cultura d’élite. Improvvisamente, infatti, ciò che fin lì aveva rappresentato un modello di divertimento popolare – come la musica classica od operistica, per
esempio – si ritrovò relegato negli angusti e non troppo comodi spazi della cultura elitaria. Da
questo punto di vista l’esperienza dell’Arci di Torino, che tanto aveva puntato sulla promozione della cultura musicale colta (tramite il Circolo Toscanini), avrebbe potuto costituire un
ottimo terreno di analisi per riflessioni forse più approfondite. Ciò nonostante, lo studio ci
mostra come il problema sia stato lucidamente colto dai dirigenti dell’epoca. Numerosi furono infatti i convegni e i momenti di riflessione per comprendere le forme e i motivi delle trasformazioni che stavano imponendosi. Come giustamente ha osservato l’a. a quel punto però
stava iniziando una storia del tutto nuova per l’Arci, a Torino e nel resto del paese.
Andrea Baravelli
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I LIBRI DEL 2007
Giulio Sapelli, Davide Cadeddu, Adriano Olivetti. Lo Spirito nell’impresa, Trento, Il Margine, 119 pp., € 13,00
Pochi imprenditori italiani hanno catturato l’interesse degli storici come Adriano Olivetti, personaggio anomalo e dotato di grande fascino dai tanti volti e attività, portatore di intuizioni lungimiranti, e ancora valide oggi, nel panorama della storia economica nazionale del
’900. Al tempo stesso innovatore dalla cultura vasta, Olivetti è stato in grado di lasciare una
forte impronta di sé in più settori. La storiografia, che è andata sviluppandosi nel corso degli
ultimi anni, non ha mancato di mettere in evidenza il profilo del tutto originale del personaggio. Solo Enrico Mattei, il massimo rappresentante del capitalismo di Stato che l’Italia annovera, conta un numero ancora più alto di lavori biografici e uno scavo ancora più approfondito. Questo piccolo volume – con la utile introduzione di parole chiave in calce a ciascuna
pagina, che mettono a disposizione in pratica un indice parallelo ipertestuale – viene pubblicato da una giovane casa editrice trentina attiva nel prolifico mare magnum del cattolicesimo
democratico italiano, per il quale Olivetti rappresenta legittimamente uno dei riferimenti più
alti in ambito imprenditoriale. La sua esigenza di far convivere giustizia sociale e competizione economica rappresenta ancora oggi un punto di riferimento irrinunciabile soprattutto alla luce delle profonde distorsioni prodotte dall’economia globale. Il volume raccoglie alcuni
scritti del vulcanico Giulio Sapelli, che dell’utopia olivettiana ha sempre subito il fascino, dedicando numerosi e appassionati lavori a uno dei più illuminati riformatori sociali dell’Italia
del XX secolo. Una parte degli scritti di Sapelli, già pubblicati, vengono ora riproposti, senza
perdere di attualità e di interesse scientifico. Il più giovane Davide Cadeddu, dal canto suo,
ma con mano altrettanto ferma, si ritaglia il compito di presentare un ampio e organico profilo di Olivetti, dunque assai impegnativo, in cui viene evidenziato il tentativo di fondare una
cultura d’impresa alternativa a quella che dominava nel capitalismo arrembante del miracolo
economico italiano della sua epoca. Si comprende, leggendo le dense pagine del libro, la congruità di quel termine – lo «Spirito» – che appare nel titolo, per nulla fuorviante rispetto all’impostazione data al lavoro e all’interpretazione del pensiero olivettiano. Il libro costituisce
una sintesi utile per i tanti che del geniale imprenditore di Ivrea, morto troppo presto, non
hanno mai sentito parlare, soprattutto i giovani cui vengono sottoposti oggi modelli imprenditoriali spesso unicamente e interamente modellati sulla spasmodica ricerca del profitto e come tali purtroppo decisamente distanti da quello del fondatore di Comunità.
Andrea Giuntini
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I LIBRI DEL 2007
Giovanni Sbordone, Il filo rosso. Breve storia della Cgil nel Veneto bianco, Portogruaro,
Nuovadimensione, 285 pp., € 18,00
Nelle recenti vicende economico-politiche del Veneto si riscontrano con immediatezza le
sue specificità: piccola-media impresa, tassi produttivi tra i più alti d’Europa, identità territoriale rivendicata dalla Lega con il suo antifiscalismo. Un modello, quello veneto, la cui alterità rispetto al resto del paese è oggetto della volontà di rappresentanza (frustrata) della sinistra. Oggi come ieri l’alterità del Veneto continua a rappresentare per la sinistra un oggetto da
conquistare e, prima ancora, da studiare e capire. Il libro di Sbordone si pone in questa linea
di analisi delle peculiarità/alterità del Veneto rispetto agli orizzonti, storici e presenti, della sinistra italiana. Già nello stesso titolo sono indicati i riferimenti e le aporie: il rosso del filo che
lega la storia del movimento sindacale e il bianco di un’area moderata e radicata nel cattolicesimo militante.
Il filo rosso si dipana dalle associazioni operaie e dalle Camere del Lavoro unendo l’esperienza sindacale dei lavoratori veneti (della campagna, dell’industria e di entrambe) lungo tutto il ’900: paternalismo industriale, biennio rosso, squadrismo fascista e trame padronali, afascismo operaio e nascita di Marghera, il ciclo di lotte del secondo dopoguerra, il metalmezzadro e la fine del Veneto contadino, le discriminazioni in fabbrica e lo sfruttamento degli anni
’50, il ’68 e le successive difficoltà per la CGIL di radicarsi nella realtà della piccola-media impresa. Si tratta pertanto di un lungo, robusto filo rosso che abbraccia i destini collettivi dei lavoratori seguendo la geografia rossa della regione: le città e le campagne (realtà a lungo sorde le
une alle altre); e tra queste ultime il filo lambisce le terre del Veneto centrale (modello dell’immagine cattolico-conservatrice) e si dipana nella bassa pianura, patria delle lotte bracciantili del
primo e del secondo dopoguerra. E infine c’è il polo di Marghera a segnare il dilagare del rosso, specie nel ciclo di lotta degli anni ’60 e ’70, indicando ulteriormente l’alterità della regione
con le sue peculiarità, ma anche i suoi luoghi comuni e stereotipi. E spesso, come suggerisce
Sbordone, anziché negare i luoghi comuni risulta più utile, per l’analisi storica, riconoscerli come tali, individuarne le origini, le subculture in cui sono radicati, le continuità e discontinuità.
Allo stesso modo in cui il Veneto postunitario è parte integrante della storia dell’Italia
contemporanea, la storia del sindacato veneto disegnata dall’a. s’intreccia con quella della
CGIL, con un rimando tra vicende locali e quadro nazionale, una ricostruzione scevra da apologie e un linguaggio asciutto che non lesina la viva voce dei protagonisti. Alla fine, più che
la storia della CGIL nel Veneto è la storia del movimento operaio, fatta di scioperi, lotte sociali e sindacali, delle contraddizioni latenti e palesi fra spinte progressiste e riformatrici ed
universo moderato intriso dei principi del cattolicesimo e dell’autoritarismo padronale. Un
mondo, o un modello, il cui policentrismo (economico-sociale e politico-culturale) rimane la
caratteristica storica di fondo di una terra e della sua società.
Roberto Bruno
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I LIBRI DEL 2007
Emanuela Scarpellini, La spesa è uguale per tutti. L’avventura dei supermercati in Italia, Venezia, Marsilio, 109 pp., € 12,00
Il volume, diversamente da quanto indicato nel titolo, non racconta la storia dei supermercati in Italia, ma quella della Esselunga, dalla sua nascita, avvenuta nel 1957 con il nome
di Supermarkets Italiani, ad opera della società americana IBEC di Rockfeller, alla cessione
nel 1961 alla famiglia Caprotti, che sin dalla fondazione aveva partecipato all’operazione con
un 18 per cento del capitale azionario. L’obiettivo, di chiara natura divulgativa (una divulgazione, si badi bene, di qualità), è di rendere disponibile in un formato snello e di piacevole lettura le vicende in parte già raccontate nel libro Comprare all’americana. Le origini della rivoluzione commerciale italiana, 1945-1971 (Bologna, il Mulino, 2001) e nell’articolo Shopping
American Style: The Arrival of the Supermarkets in Postwar Italy pubblicato in «Enterprise and
Society» (5, 4, 2004), come correttamente l’a. sottolinea nelle prime pagine.
Calandosi perfettamente nel ricco dibattito storiografico sull’americanizzazione, il volume ripercorre le motivazioni che spinsero Rockfeller ad introdurre la formula del supermercato in Italia e le reazioni dell’economia e della società italiana nei confronti di un investimento che non solo rompeva alcune radicate consuetudini sociali ma violava anche il tabù del piacere di comperare. Di questo sono ben consapevoli i dirigenti della Supermarkets Italiani, che
infatti modificheranno il modello originario proprio per tenere conto della minore capacità
di spesa delle famiglie, di un rapporto con i consumi più sobrio e della scarsa diffusione delle automobili.
Scarpellini presta particolare attenzione ai problemi della formazione del capitale umano, sottolineando più volte l’origine americana di tutti i dirigenti della società e l’impegno da
essi profuso per addestrare il personale e per procurarsi i prodotti confezionati da offrire ai
consumatori.
L’aspetto che resta più in ombra è la reazione del mondo economico a questa innovazione, perché nel volume appaiono solamente rapidi accenni al mutevole atteggiamento delle associazioni dei commercianti, che pur partendo da una condivisione del processo di modernizzazione del settore arriveranno su posizioni di esclusiva difesa dell’esistente, vale a dire del negozio tradizionale; mentre non si fa alcun accenno al processo di conversione dei punti vendita tradizionali in supermercati da parte della cooperazione di consumo, che darà i suoi risultati negli anni ’70 con la conquista della leadership sul mercato. Ma d’altra parte il volume
finisce proprio dove questa nuova storia comincia e, quindi, rinuncia in partenza a spiegarci
perché il first mover, la Esselunga, non abbia saputo conservare il primato e sia stata nei decenni successivi superata, per quote di mercato nel comparto della grande distribuzione, dalla Coop consumatori e dal Conad.
Patrizia Battilani
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I LIBRI DEL 2007
Marco Scavino, Il socialismo nell’Italia liberale. Idee, percorsi, protagonisti, Milano, Unicopli, 172 pp., € 12,00
Questa raccolta di saggi, scritti nell’arco di oltre un decennio, ritorna su un argomento
ormai da tempo trascurato, vale a dire l’origine e la prima fase di sviluppo del movimento socialista nella difficile congiuntura della crisi di fine secolo in Italia.
Occuparsi oggi di un tema del genere risponde, come fa osservare l’a., ad una duplice esigenza: da un lato quella generale di metodo che induce a correggere l’ottica di una ricerca contemporaneista sempre più schiacciata sullo studio del passato più recente, della fenomenologia «secolo breve»; dall’altro, poi, quella più specifica di smarcare la storia del socialismo dai
limiti che ne hanno costituito, forse, anche la condanna alla marginalità: una sorta di tendenza alla narrazione autoreferenziale unita alla rigidità dell’interpretazione della storiografia
marxista.
Il tentativo dell’a. è dunque quello di ricontestualizzare la storia del socialismo italiano tra
’800 e ’900 nel quadro più generale di rapporti ed influenze – se non addirittura di condizionamenti – di un momento complicato ma vivace come l’età liberale in Italia. In questo senso,
per quanto la ricostruzione del dibattito politico-ideologico delle origini presentata nel primo
saggio (La scienza e l’organizzazione) sia senza dubbio argomento noto, l’accostamento di militanti di medio calibro o di figure non provenienti dal mondo socialista agli indiscussi protagonisti del confronto teorico di quegli anni, la narrazione di esperienze precise e circoscritte che
restituiscono il fervore della discussione nel momento fondativo del socialismo, ma anche la
semplice risistemazione in una nuova ottica della sconfinata ma datata bibliografia sul tema, lasciano intuire che per quanto riguarda l’Italia e quell’«eclettismo ideologico e culturale» (p. 50)
che aveva caratterizzato l’intellettualità del movimento, c’è ancora molto da scoprire.
E, forse, la principale, la più originale delle riscoperte è quell’emergenza dei toni «grigi»,
di quelle influenze osmotiche tra il movimento e il suo contesto che mitiga una lettura della
storia socialista troppo netta, fatta di posizioni inconciliabili, di principi ineludibili. Non a caso è questo il filo rosso che attraversa tutto il libro e che si impone con particolare forza nei
saggi su Loria, Nitti, Einaudi che sembrano rappresentarne il cuore. Qui, il tema del legame
tra il socialismo e il mondo colto liberale assume un’importanza determinante tale da costituire una nuova ottica di osservazione che, sebbene con le dovute differenze dei personaggi
acutamente tratteggiati, contribuisce a rinnovare la lettura non solo dal punto di vista della
storia delle idee ma anche sotto il profilo organizzativo e delle scelte di fondo dell’azione politica socialista.
Numerosi spunti di riflessione, dunque, che, difficili da riassumere in poche righe, suggeriscono la necessità di una riscoperta più sistematica di questo tema importante e ricco che,
speriamo, l’a. vorrà presto offrirci.
Francesca Canale Cama
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I LIBRI DEL 2007
Irme Schaber, Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria nella Guerra civile spagnola, Prefazione di Elisabetta Bini, Roma, DeriveApprodi, 263 pp., € 18,00 (ed. or. Marburg, 1994)
Traduzione tardiva – ma meritoria – di un volume pubblicato in Germania nel 1994, questo libro presenta i risultati di un’accurata ricerca, che attraverso fonti di diversa natura (documenti di archivio, interviste, memorialistica, stampa) ricostruisce la biografia di Gerda Taro (nome d’arte di Gerta Pohorylle). Sebbene un’attenzione particolare sia dedicata all’attività
di fotoreporter che Taro svolse in Spagna nel ’36-37, l’opera di Schaber prende le mosse dall’infanzia della fotografa e intreccia efficacemente la sua storia individuale con quella dell’Europa negli anni tra le due guerre. Figlia di commercianti ebrei della Galizia orientale, trasferitisi in Germania agli inizi del ’900, Gerda cresce tra Stoccarda e Lipsia: l’educazione che riceve, gli interessi e le frequentazioni della sua adolescenza riflettono le aspirazioni e lo stile di vita di un mondo borghese in cerca della propria affermazione nella Repubblica di Weimar.
La sempre maggiore popolarità del nazionalsocialismo e la violenza antisemita di cui si
nutre spingono la studentessa Gerta Pohorylle verso l’attivismo politico e la frequentazione –
da simpatizzante, ma non da iscritta – delle associazioni giovanili della sinistra tedesca. Subito dopo la vittoria di Hitler alle elezioni del ’33 la militanza antinazista prima conduce Gerta in prigione e poi la spinge a emigrare a Parigi, mentre la sua famiglia resta in Germania. Le
pagine dedicate da Schaber agli anni trascorsi dalla giovane Pohorylle nella capitale francese
ricostruiscono l’ambiente dell’emigrazione antifascista, descrivendone le attività politiche e
culturali, le difficoltà di sopravvivenza, le amicizie e le reti di solidarietà. In questo contesto si
collocano le relazioni amicali e amorose di Gerta, così come il suo incontro con André Friedmann, fotografo ungherese rifugiatosi a Parigi per le sue opinioni politiche. Questo incontro
non segna l’inizio soltanto di una importante relazione d’amore, ma anche di un sodalizio professionale attraverso il quale Gerta Pohorylle e André Friedmann diventano Gerda Taro e Robert Capa, sperimentano un percorso originale nel giornalismo fotografico degli anni ’30 e
condividono gli ideali politici a cui si ispira la loro attività di reporter. È questa condivisione
a condurli insieme nella Spagna dilaniata dalla guerra civile, dove tuttavia Gerda compie un
percorso indipendente per la sua affermazione come fotoreporter, imponendosi come figura
d’eccezione nell’ambito di una professione prevalentemente maschile.
Il volume non si conclude con la morte della ventisettenne Gerda Taro, ma segue l’oblio
e le costruzioni della memoria di cui la sua vita è stata oggetto. Infatti da un lato il suo profilo ha finito per essere oscurato dalla fama di Robert Capa (nel cui archivio personale si sono
«perse» le foto della compagna), dall’altro si è tradotto in un’icona deformata dell’antifascismo celebrato dalla Repubblica Democratica Tedesca. La ricerca di Schaber contribuisce significativamente a sottrarre il profilo di Taro all’ombra e alle deformazioni, per restituirlo alla storia.
Silvia Salvatici
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I LIBRI DEL 2007
Giambattista Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum (1965-1974), Milano, Bruno Mondadori, XI-210 pp., € 19,00
L’a. definisce le vicende relative alla questione del divorzio in Italia, fra la fine degli anni
’60 e i primi anni ’70, «uno dei più importanti momenti di cesura nella storia dell’Italia repubblicana» (p. VII). La ricerca si concentra sulle relazioni fra le principali forze politiche, e
in particolare fra DC e PCI, con una attenzione speciale ai variegati posizionamenti all’interno del mondo cattolico (e in ciò consiste la principale differenza di questo volume dalla precedente opera analoga di Diana De Vigili, La battaglia sul divorzio. Dalla Costituente al referendum, Milano, FrancoAngeli, 2000). Di qui muove naturalmente la scelta delle fonti, documenti d’archivio e stampa, principalmente riconducibili ai partiti e alle varie componenti
della Chiesa cattolica, attraverso cui si restituisce – con un ordine strettamente cronologico –
una cronaca spesso minuziosa della questione fra il 1965, anno della presentazione del progetto Fortuna, e il 1974, anno del referendum caparbiamente voluto, e clamorosamente perduto, dal fronte antidivorzista.
Nonostante l’a. riconosca ripetutamente il ruolo fondamentale svolto da soggetti come i
movimenti femministi o i radicali, e ammetta l’importanza che in tali vicende rivestono i vasti mutamenti sociali e culturali di quegli anni, l’attenzione è quindi concentrata pressoché
esclusivamente sulle posizioni, le contrapposizioni, le trattative – soprattutto – fra cattolici e
comunisti. I quali proprio di fronte all’annunciato referendum, agli albori del decennio, iniziavano a tessere quel «dialogo» politico che avrebbe così profondamente segnato gli eventi
degli anni successivi. È nota l’ambivalente posizione in proposito del PCI, «disposto a una
trattativa che portasse al miglioramento della legge, per evitare al paese il rischio di una nuova e drammatica lacerazione tra laici e cattolici» (p. 100).
Emerge un quadro irriducibile a una contrapposizione secca fra divorzisti e antidivorzisti, ed è questo certamente uno dei meriti del volume; avrebbe tuttavia giovato una trattazione meno rapida di questioni che pure Scirè stesso definisce intimamente legate, o comunque
strettamente contigue, alla posta in gioco nella battaglia sul divorzio. E che, infatti, giustamente non dimentica di citare in sede introduttiva: il conflitto fra morale conservatrice e processi di modernizzazione, ad esempio, la discriminazione omofobica, o ancora – e non certo
secondariamente – quello che l’a. definisce «l’annoso problema della condizione della donna»
(p. 165). Ma si tratta di questioni in merito alle quali non è sempre possibile contare su ampie ricerche preesistenti, e ciò avrà pesato sulla necessità di limitare il recinto tematico della
ricerca. È un testo che comunque, meritoriamente, traccia uno scenario indispensabile da conoscere per avviare successive ricerche in direzione dei tanti, e ancora sostanzialmente inesplorati, risvolti importantissimi che la questione del divorzio assume nella storia della società italiana di quegli anni.
Sandro Bellassai
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I LIBRI DEL 2007
Adolfo Scotto di Luzio, La scuola degli italiani, Bologna, il Mulino, 423 pp., € 25,00
Mi trovo nella singolare posizione di voler dire bene di un libro che ho sinceramente apprezzato, ma del quale – sul piano interpretativo di merito – non condivido molto. L’ho ammirato perché si tratta di un libro intelligente (pur con qualche ermetismo) e coraggioso (con
qualche temerarietà). È poi scritto benissimo, pur con una certa adiposità, forse indice di fatica interpretativa (per esempio nelle pagine su Gonella). Del resto si tratta di un lavoro spiccatamente «letterario» e il frequente ricorso a un linguaggio da sociologo della cultura non deve ingannare (non è quello il suo registro metodologico).
Si articola in tre parti che sembrerebbero corrispondere, all’ingrosso, ciascuna ad un cinquantennio: dal 1848 a fine ’800; la prima metà del ’900; la seconda metà. Il diverso peso delle tre parti (rispettivamente di 100, 200, 40 pagine) ci dice già che non siamo di fronte ad una
ricostruzione complessiva e di sintesi della storia della scuola italiana. Troppe cose mancherebbero altrimenti: l’illustrazione ordinata dell’evoluzione degli ordinamenti; quadri statistici continui e omogenei; politiche scolastiche di governi e ministri; scuole dell’infanzia; scuole normali e formazione dei maestri; Gabelli e Baccelli; Giolitti e Orlando; Croce e Sturzo; le Agazzi e
la Montessori; Washburne e Biggini; Ciari e Malaguzzi; il tempo pieno e le 150 ore; ecc.
Per capire cos’è questo libro, il titolo andrebbe precisato così: la scuola degli italiani dal
punto di vista della riforma Gentile (intesa come primato della selezione e dell’istruzione classica). Vi sono perciò due processi storici che scorrono parallelamente e sono in biunivoca tensione: le vicende della scuola italiana, come premessa, svolgimento, crisi e distruzione della
riforma Gentile, ma, insomma, come divergenza dalla riforma Gentile; e una sinottica storia
controfattuale di come tali vicende avrebbero potuto meglio svolgersi se fossero state in convergenza con la riforma Gentile. Una sorta di stimolante e provocatoria pedagogia comparata, fondata su un paragone ellittico. Il libro perciò con ostentazione di autosufficienza ermeneutica (giustificata, dato il taglio così compattamente interpretativo) non tiene quasi conto
degli storici della scuola e dei loro libri.
In fin dei conti l’avvincente intelligenza che traspare dal libro, la scaltrita e brillante maestria della composizione narrativa e perfino la bellezza letteraria di molte pagine derivano dal
fatto che non siamo di fronte a un libro di storia, ma (gentilianamente) di filosofia della storia della scuola. E i nessi reali con la minuta, empirica, contraddittoria realtà storica nel suo
complesso non sono evidenti, perché in effetti non ci sono, se non come rimandi interni dell’impianto retorico e del relativo organamento testuale. E l’a., per usare le sue parole, «prim’ancora degli affanni di un laureato in filosofia, esibisce i segni della bravura dello scrittore che
prende ironicamente le distanze dalla realtà» (p. 154).
Fulvio De Giorgi
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I LIBRI DEL 2007
Jacques Sémelin, Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi, Torino, Einaudi, XXIV-511 pp., € 22,00 (ed. or. Paris, 2005)
Occorre precisare da subito che questo di Sémelin non è un libro di storia in senso stretto, quanto piuttosto un’opera da collocare nel filone dei genocide studies. Gli «usi politici dei
massacri e dei genocidi» menzionati nel sottotitolo rappresentano però un importante oggetto di indagine anche per gli storici, che quindi potranno interessarsi alle conclusioni raggiunte in merito da uno studioso indicato come una «autorità mondiale» nel campo delle «questioni legate a violenze estreme e omicidi di massa».
Sémelin dedica particolare attenzione agli aspetti più difficili da affrontare tramite la ricostruzione storiografica basata su documenti d’archivio – come «Gli immaginari della distruttività sociale» (cap. I) e il passaggio «dal discorso incendiario alla violenza sacrificale» (cap.
II). I capitoli successivi affrontano inoltre i problemi legati al contesto internazionale (cap.
III), alle dinamiche del massacro (cap. IV) e alle «vertigini dell’impunità» (cap. V). Essi vengono discussi facendo riferimento a una casistica tratta dalla storia della Shoah e da quella delle guerre di secessione jugoslava e del genocidio ruandese: solo occasionalmente l’a. fa riferimento ad altri casi (come quelli armeno e cambogiano). Questo è senza dubbio l’aspetto maggiormente criticabile di un’opera che, basandosi prevalentemente su letteratura secondaria,
avrebbe tratto sicuro giovamento dalla maggiore apertura possibile alla comparazione.
Infine, l’ultimo capitolo riguarda l’argomento enunciato nel sottotitolo, discutendo ampiamente la categoria «genocidio» e i non pochi problemi ad essa collegati. Sémelin propone
di allontanarsi da definizioni che affondano le proprie radici in espressione giuridiche e, piuttosto, di fare «ricorso alla nozione di “massacro” come unità lessicale di riferimento» (p. 400),
interpretandola come esito più spettacolare di quello che viene definito come «processo organizzato di distruzione di civili, mirante al contempo alle persone e ai loro beni» (p. 403). Egli
indaga quindi la logica politica dei massacri, distinti a seconda che il loro obiettivo sia la sottomissione, lo sradicamento o l’insurrezione. In conclusione, viene anticipata la creazione di
una «enciclopedia elettronica dei massacri e dei genocidi» (www.massviolence.org).
Sémelin sostiene che «se il massacro procede innanzitutto da un processo mentale, è bene cominciare a occuparsi del “quadro intellettuale” che conferisce senso alla violenza di massa ancor prima che essa si manifesti» (p. 62). È chiaro che la condivisione o meno di quest’ipotesi influenza notevolmente il grado d’interesse che il libro può rivestire per i lettori, anche
se questo non vale per la discussione dell’ormai controversa categoria di «genocidio», che è sicuramente la parte più interessante dell’opera.
Antonio Ferrara
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I LIBRI DEL 2007
Stefano Sepe (a cura di), I prefetti in età repubblicana, 1946-2002, Prefazione di Carlo
Mosca, Bologna, il Mulino, 372 pp., € 27,00
Introdotta da una Prefazione di Carlo Mosca, attuale prefetto di Roma e per molti anni
direttore della Scuola superiore dell’amministrazione dell’Interno (che questa ricerca ha commissionato), il libro curato da Stefano Sepe analizza la composizione e il ruolo del corpo prefettizio, basandosi principalmente sull’analisi dei dati presenti nei fogli matricolari dei 1.204
prefetti che hanno esercitato la funzione dal 1946 al 2004. Nonostante che la ricerca abbia
anche un chiaro intento autocelebrativo, al fine di ovviare a quella «identificazione frammentata» e a quell’«identità smarrita», caratteristica di tutta l’amministrazione statale a partire dagli anni ’70, ed esplicitamente richiamata da Sepe nel suo ampio saggio di apertura, il volume rappresenta nondimeno la prima ricerca prosopografica a largo raggio sull’istituto prefettizio nella storia italiana.
L’elaborazione dei dati quantitativi (relativi a provenienza geografica, titolo di studio, percorsi di carriera, nomine e movimenti per governi e per ministri) sostanziano soprattutto i due
saggi centrali scritti da Laura Mazzone e da Giovanni Vetritto. Mazzone si concentra in misura prevalente sui dati relativi alla carriera (età media di nomina dei prefetti, tempi medi di
carriera, distribuzione degli incarichi tra sedi provinciali, amministrazione centrale e uffici
esterni, concentrazione delle nomine e degli spostamenti all’interno dei diversi governi). Vetritto, invece, analizza i dati più propriamente anagrafici, fornendo un profilo sociologico del
funzionario prefettizio. Entrambi offrono al lettore spunti importanti di riflessione sia in merito al funzionamento interno della pubblica amministrazione sia riguardo alla composizione
della dirigenza amministrativa. Mi limito a segnalarne due. Il primo riguarda l’incremento del
numero di nomine dei prefetti nel decennio della regionalizzazione (1971-1980), quasi doppio rispetto al decennio precedente, da leggere in concomitanza con l’abbassamento degli anni in carica prima dell’uscita dalla carriera e con l’aumento degli incarichi conferiti presso altre amministrazioni. Il secondo invece riguarda l’identikit prevalente del prefetto in età repubblicana (maschio, meridionale, laureato in Giurisprudenza, proveniente dai ruoli dell’Interno), che risulta solo lievemente più mosso a partire dagli ultimi decenni (dove il centro assiste ad una rimonta, anche a motivo dell’entrata delle donne nella carriera).
Oltre ai saggi citati e una ricca appendice statistica, il volume comprende anche un estroso contributo metodologico relativo all’elaborazione dei dati quantitativi di Michele Fianco,
che ne ha assunto la cura, e dieci interviste a prefetti in servizio e a riposo, che, nonostante alcune reticenze, costituiscono un’utile testimonianza sulla cultura e sulla mentalità della dirigenza amministrativa.
Francesca Sofia
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I LIBRI DEL 2007
Frediano Sessi, Foibe rosse. Vita di Norma Cossetto uccisa in Istria nel ’43, Venezia, Marsilio, 149 pp., € 12,00
Gli eccidi degli italiani nell’autunno del ’43, subito dopo l’armistizio dell’8 settembre, le
cosiddette «foibe istriane», nei territori dell’Istria dove era attivo il movimento di liberazione
croato furono perpetrati «non solo per motivi etnici e sociali, ma anche per colpire in primo
luogo la locale classe dirigente, e spinsero gran parte degli italiani della regione a temere per
la loro sopravvivenza nazionale e per la loro stessa incolumità» (Commissione storico-culturale italo-slovena). Norma Cossetto, medaglia d’oro al valor civile nel 2005, è una di quelle
217 vittime – tante le salme recuperate, ma il numero degli scomparsi fu certo superiore e alcune fonti lo indicano in circa 500 persone. Era figlia del podestà, nonché segretario politico
del Fascio e commissario governativo delle Casse rurali istriane, presso la località di Visinada.
Di nazionalità italiana, militava nelle organizzazioni fasciste universitarie e, in più, era figlia
di un proprietario terriero. Ma sono i suoi 23 anni a rendere questa storia particolarmente agghiacciante. Agghiaccianti sono le modalità attraverso cui fu torturata e rimase vittima di uno
stupro collettivo presso il comando partigiano di Parenzo. Agghiacciante la sua fine, quando
fu gettata ancora viva nella foiba di Villa Surani (135 m di profondità, presso Antignana) tra
il 4 e il 5 ottobre ’43. Il forte impatto emotivo di questa lettura si deve all’abile penna dello
studioso e traduttore Frediano Sessi, che è riuscito a ricucire in una narrazione sospesa tra
realtà storica ed immaginazione numerose testimonianze. Egli è noto oltre che per aver portato in Italia l’edizione definitiva del Diario di Anna Frank e il monumentale saggio di R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei in Europa, anche per alcune fortunate ricerche sugli effetti che
la violenza totalitaria (nazista e comunista) ha prodotto sugli uomini e sulle donne che ne sono stati vittime. E a quest’ottica «psicologica» guarda anche il presente volume, nel denunciare ancora una volta gli eccessi di violenza e terrore che si manifestano quando «la centralità
della vita umana [è] sostituita dalla ragion politica e di Stato» (p. 141), ma pure nel cercare di
sottrarre la figura della Cossetto alla strumentalizzazione politica che fino agli anni ’90 l’ha
voluta esclusivamente martire della destra nazionale.
Crediamo che si tratti di un volume ben costruito e di gran pregio per due ragioni: perché mantiene ben separato l’ambito della storia da quello della politica nell’affrontare un tema così delicato quali sono le foibe, diventato troppo spesso strumento di legittimazione; inoltre, perché la categoria della violenza ci sembra particolarmente adatta a narrare attraverso una
prospettiva super partes la storia del confine orientale – lacerato da nazionalismi e utopie politiche – dove le vittime e i carnefici si sono spesso scambiati i ruoli e dove anche grazie al sacrificio di Norma e di quanti subirono ugual sorte, «si può continuare a credere che l’uomo
meriti di rimanere lo scopo dell’uomo, persino in condizioni estreme» (p. 132).
Monica Rebeschini
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I LIBRI DEL 2007
Marco Severini, Nenni il sovversivo. L’esperienza a Jesi e nelle Marche (1912-1915), Venezia, Marsilio, 128 pp., € 15,00
Severini è sempre stato attento a inserire la storia della sua terra d’origine, le Marche, nelle vicende della storia dell’Italia contemporanea, dalla metà dell’800 sino ai giorni nostri. Ci
riesce pienamente anche in questa sua ultima fatica, dedicata al soggiorno marchigiano (e alla
formazione politica) di Pietro Nenni, dal novembre 1912 al maggio 1915. Sono mesi decisivi
per il movimento repubblicano (cui aderisce Nenni) e socialista, divisi tra di loro (e al proprio
interno) da aspri contrasti, che il giovane Nenni vive in prima persona, alla direzione di tre periodici («La Voce» di Jesi, «La Sveglia democratica» di Pesaro e il «Lucifero» di Ancona: in appendice, alle pp. 119-127, sono riprodotti i testi di alcuni articoli), fino alla sua partenza come volontario nella Grande guerra. È, per usare le stesse parole dell’a., la descrizione della «giovinezza di un agitatore», di umili origini e autodidatta (Mazzini, Victor Hugo, Carducci, Zola le sue letture preferite) che, nell’ideale del riscatto sociale dell’uomo e nella sua fiducia nella libertà, matura la sua adesione al repubblicanesimo, in quella Romagna che aveva visto la
predicazione dell’ex triumviro Aurelio Saffi e in cui conosce Mussolini, nella comune lotta contro il giolittismo, il riformismo e la guerra di Libia e nelle condivise letture soreliane. Quando
arriva a Jesi, nel settembre 1912, per collaborare con il leader repubblicano locale, l’avv. Paletti, Nenni è quindi un esponente politico noto, a dispetto dei suoi 21 anni, schierato con l’ala
intransigente del PRI, guidata da Giovanni Conti e Oliviero Zuccarini. Nei due anni e mezzo di permanenza nelle Marche confermerà la sua natura di «uomo d’azione con specifiche capacità organizzative» (p. 38), attraverso un’enorme attività propagandistica e agitatoria, che lo
portò a più riprese in carcere e che Severini ricostruisce dettagliatamente attraverso le fonti di
polizia e lo studio della stampa locale. Questo attivismo troverà il suo culmine nella partecipazione da protagonista ai moti antimilitaristi della «settimana rossa» (7-13 giugno 1914) che
avranno nella Romagna e nelle Marche il loro epicentro e che gli costarono un nuovo arresto.
In carcere Nenni riprese lo studio di Mazzini e maturò gradualmente la scelta interventista, vedendo nella prima guerra mondiale l’ultima guerra del Risorgimento e, contemporaneamente, la possibilità di un’azione rivoluzionaria: partirà per il fronte nel giugno 1915 e vi resterà
per sedici mesi, tornando con la convinzione che la guerra fosse, diversamente da quello che
aveva creduto, lo scontro tra imperialismi «eguali e contrari» (Lo spettro del comunismo, Milano, 1921, pp. 35-36). Severini individua giustamente nella «coerenza di fondo del politico militante» il filo rosso che percorre questa e altre svolte della vita di Nenni. Meno convincente e
per certi versi contraddittoria, se mi è permesso un solo appunto, mi sembra invece la conclusione secondo cui il sovversivismo di Nenni «si rivelò tutt’altro che velleitario, in particolare di
fronte alla prova del giugno 1914, e rimase ancorato alla realtà degli eventi, in attesa di quel
“momento opportuno” all’azione che non riuscì a concretizzarsi» (p. 114).
Giovanni Scirocco
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I LIBRI DEL 2007
Sun Shuyun, La lunga marcia. 1934-1936 la nascita della Cina moderna, Milano, Mondadori, 304 pp., € 19,00 (ed. or. London, 2006)
Mito fondatore della Repubblica Popolare Cinese, la Lunga Marcia, compiuta dagli organi direttivi del PCC e dall’Esercito Rosso abbandonando il Soviet del Jiangxi nell’ottobre
1934 per arrivare un anno dopo nel Nord-Ovest, fu una ritirata disastrosa dal punto di vista
militare, ma venne in seguito celebrata come un’epopea eroica e un punto di svolta determinante per l’affermazione del PCC e di Mao. In questo libro Sun Shuyun, documentarista laureata a Pechino e specializzatasi in storia a Oxford, ripercorre il tragitto della Marcia con l’ambizione di ricostruire la verità dei fatti al di là del racconto della propaganda ufficiale. Alle testimonianze delle poche decine di sopravvissuti, che rappresentano per l’a. la fonte principale, aggiunge le memorie, pubblicate o inedite, di dirigenti o militari, e documenti e informazioni dalla storiografia locale cinese. Il risultato è una prospettiva dal basso sull’esperienza della Lunga Marcia; al tempo stesso il libro è una presa di coscienza personale del carattere mitico e strumentale della narrazione ufficiale.
Il lavoro è incentrato sugli episodi più noti della Marcia, fra cui la battaglia sul fiume
Xiang, dove secondo le fonti ufficiali morirono cinquantamila soldati, la Conferenza di Zunyi,
che riportò Mao ai vertici del PCC e l’eroica traversata del fiume Dadu sul ponte sospeso di
Luding, episodio celeberrimo riprodotto in tanti film di propaganda. Ogni tappa del viaggio
è l’occasione per affrontare i lati oscuri della storia della Marcia: le purghe interne al PCC, le
diserzioni, la coscrizione coatta, i sequestri di stranieri e di ricchi a scopo estorsivo, la violenza subita dalle donne, gli errori strategici o le scelte opportunistiche di Mao che portarono alla morte di decine di migliaia di soldati, le difficoltà delle relazioni interetniche.
Dal punto di vista storiografico, l’apporto del libro di Sun è limitato. Da tempo, soprattutto al di fuori della Cina, l’analisi degli specialisti sulla storia del PCC prima del 1949 sta
offrendo una comprensione più articolata di quegli anni mettendo in luce gli aspetti più ambigui e contraddittori delle relazioni fra PCC e popolazione a livello locale e ridimensionando il ruolo rivestito da Mao. Il lavoro di Sun è un esempio dell’attuale pubblicistica revisionista, spesso a carattere divulgativo, che ha come protagonisti intellettuali cinesi residenti in Occidente motivati dalla necessità di fare i conti con la storia recente del proprio paese. Nella
prospettiva di Sun l’epica del resoconto ufficiale della Marcia, costruita sul silenzio a proposito delle reali cause dell’abbandono della base nel Jiangxi e sulla manipolazione propagandistica di molti eventi, diventa uno dei peccati originari alla base di molte tragedie della Cina
socialista. Demolendone la veridicità, tuttavia, Sun non rinuncia a costruire una mitologia inversa, incentrata sull’eroismo non scevro da debolezze, paure ed egoismi, dei protagonisti più
umili, traditi poi nella loro fede e nelle loro aspettative di giustizia dallo stesso partito che avevano servito.
Laura De Giorgi
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I LIBRI DEL 2007
Mario Siragusa, Napoleone Colajanni. I Florio e i notabili della «profonda Sicilia» (18971913), Prefazione di Giuseppe Carlo Marino, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 200 pp., € 15,00
Segmento della tesi di dottorato dell’a., le centosettantacinque pagine che Mario Siragusa
dedica ad una analisi delle vicende elettorali in tre collegi siciliani (Petralia e Cefalù nelle Madonie e Castrogiovanni nell’interno) si propongono di far luce sull’ambigua dialettica tra la piccola politica, con le sue coorti di «galoppini e maneggioni» di gramsciana memoria, e la politica grande, di respiro nazionale, che vide proprio a Castrogiovanni (oggi Enna) un esponente
di spicco nel deputato, studioso e pubblicista Napoleone Colajanni. Del quale sono ben note
le battaglie parlamentari e la celebrata oratoria contro corrotti e corruttori, i lucidi contributi
al dibattito sul federalismo a fianco di Salvemini e Ciccotti, la polemica contro la supposta inferiorità morale dei meridionali «razza maledetta», le analisi sulla mafia; mentre nulla o quasi
nulla si sapeva del tessuto politico locale sul quale fu basata una così brillante e lunga carriera.
Tutta la prima parte del lavoro di Siragusa ruota intorno all’enigma (che forse enigma non
è) di un Napoleone Colajanni radicale ed «estremo»; ma sostenuto in maniera corale nella sua
Castrogiovanni, di cui per più di un ventennio risulta il rappresentante quasi senza competitori, nel ruolo di paterno e illuminato mediatore tra le istanze del mondo degli zolfatari e quelle dei proprietari e conduttori di miniere. Tuttavia è la Palermo dei primi anni del secolo –
nutrita di rancore e frustrazione per i nuovi equilibri politici che rischiano di penalizzarla anche economicamente, percossa dall’incredibile eco dell’assassinio di Notarbartolo (l’affaire
Dreyfus alla rovescia che offrì il carburante della vittimizzazione per la ripresa del sicilianismo
in grande stile) – il luogo dov’è possibile trovare l’altro ingrediente mediante cui l’a. si sforza
di collegare la periferia col «centro». Aggiungendo l’influenza indiretta di un gruppo imprenditoriale di una certa consistenza – quello dei Florio – il menu è completo: «la riscoperta dei
legami tra politica e affari». Al classico (o recentissimo?) tema dei «comitati d’affari» sarà così
possibile imputare «il moderatismo di certi leaders e parlamentari radicali e socialisti e la mancata costituzione di un polo popolare politicamente alternativo agli interessi forti nella Sicilia
dell’età liberale» (p. 22).
La dimensione locale di questa ricerca è molto faticosa, e faticosa riesce a tratti anche la
lettura. Colpisce lo sforzo di una ricostruzione molto dettagliata, ma anche la straordinaria
uniformità: una politica immobile, schiacciata sugli interessi del «blocco agrario». La costante ripetizione di termini molto approssimativi, quanto netti e perentori – blocco agrario, blocco agrario-industriale – rischia di riportare la minuziosa indagine microanalitica a spiegazioni precostituite e piuttosto indeterminate ed a categorie che non trovano adeguato riscontro
nella corrente letteratura storica e sociologica. Il gioco simbolico dei brokers politici fu tutto
riducibile agli interessi economici e alla «scommessa» dei gruppi imprenditoriali?
Luciano Granozzi
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I LIBRI DEL 2007
Giovanni Sole, Berretti frigi e alberi della libertà. Intendenza della Calabria Citeriore
(1806-1815), Arcavacata di Rende, Università della Calabria-Centro editoriale librario, 65
pp., s.i.p.
Il bicentenario del Decennio francese (1806-1815) ha dato e sta dando luogo a numerose manifestazioni per ricordare un momento di profonda trasformazione dello Stato e della
società meridionali: il riformismo che ha modernizzato le istituzioni e introdotto nuovi modelli comportamentali continua a essere visto con una valutazione positiva, nonostante le sofferenze, le resistenze, che le popolazioni espressero verso la imposizione di leggi ispirate da un
mondo straniero.
Assumono l’aspetto di celebrazioni le iniziative delle Amministrazioni provinciali, nate
nel 1806 e in seguito trasformate, grazie ad interventi legislativi che definirono le articolazioni territoriali periferiche. L’operazione ha anche un valore politico nel voler ribadire l’utilità
di un ente del quale, negli ultimi decenni, soprattutto dopo la creazione delle Regioni, si dibatte nell’ottica della soppressione.
Nel caso di Calabria Citra l’Amministrazione provinciale di Cosenza ha finanziato la pubblicazione di questo volumetto che ha un evidente scopo divulgativo preso il pubblico dei non
addetti ai lavori: le pp. 5-32 sono un rapido excursus sulle vicende calabresi del 1799 e del Decennio francese con abbondante uso di documenti, riportati integralmente, per illustrare
aspetti antropologici della realtà calabrese di fronte a rivoluzioni, guerre, vendette, brigantaggio; le pp. 33-40 riportano il censimento della popolazione nel 1816, rilevata dalla legge 1
maggio 1816 per la coscrizione nella Provincia; le pp. 41-65 sono tratte dalla sceneggiatura
che l’a. ha preparato per La roche de Gal gal, film sull’assedio di Amantea, cioè su uno degli
episodi più noti e tragici della resistenza all’occupazione francese. Arricchiscono il testo molte immagini, prive purtroppo di didascalie.
Lo storico si troverà di fronte quindi a un testo volutamente sommario, che mira a dare
al cittadino il senso delle contraddizioni sia del periodo che della società di questa zona della
Calabria. Esso, tuttavia, non risponde, se non in poche righe riassuntive e nell’indicazione succinta dell’opera degli intendenti (V. Palumbo, S. Colonna De Leca, J. Briot, M. Galdi, L. Flach) a ciò che ci si attenderebbe dal sottotitolo: un’illustrazione dell’azione delle intendenze che
ebbero un ruolo nevralgico nei rapporti centro-periferia.
La parte più apprezzabile rimane alla fine la sceneggiatura del film, che ci riporta alla quotidianità del tragico assedio, fatto non solo di attacchi e battaglie, «ma anche di lunghi ozi durante i quali la gente parla e pensa» e i protagonisti sono molti, vari, espressione ognuno della complessità del momento.
Renata De Lorenzo
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I LIBRI DEL 2007
Catia Sonetti, Condizione operaia e Resistenza. Il caso della Toscana, Roma, Ediesse, 136
pp., € 8,00
Il volume di Catia Sonetti, studiosa attenta ai temi del mondo del lavoro e della memoria nella realtà regionale toscana, si muove nel solco della storiografia più avvertita rispetto alla necessità
di superare rappresentazioni della classe operaia tese ad esaltarne la coesione e la capacità di essere
soggetto centrale di ogni processo di trasformazione sociale. Questo rischio è ben presente quando si tratta di affrontare la questione degli scioperi operai del 1943-1944, che hanno alimentato
per lungo tempo una retorica resistenziale che ne faceva il punto centrale della mobilitazione della classe operaia (guidata «ovviamente» dal Partito comunista) nella lotta al nazi-fascismo.
Anche i casi di studio analizzati dalla Sonetti, che costituiscono altrettanti capitoli del libro (le aree metallurgiche di Pistoia e Livorno, quelle tessili di Arezzo e Prato, le vetrerie di
Empoli), confermano la centralità degli scioperi nel sancire la spaccatura tra il regime fascista
e il paese, ma ci forniscono anche utili indicazioni sul rapporto non sempre univoco e mai
scontato tra le pulsioni di protesta e di disagio dei lavoratori e la capacità dei militanti consapevoli e delle organizzazioni antifasciste di dare senso e prospettiva a queste tensioni.
La possibilità di analizzare questa «classe operaia periferica» (per usare la felice espressione utilizzata da Pier Paolo D’Attorre) consente di mettere in luce la complessità dei «mondi
operai» analizzati, a partire dal rapporto tra le fabbriche e il territorio rurale circostante. Emergono con forza il ruolo e il protagonismo delle donne, l’instabilità lavorativa e la pluriattività,
il rapporto tra lavoro specializzato e tradizioni artigianali, i percorsi di formazione e scambio
politico tra operai giovani e vecchi.
Le storie di lotta e di resistenza civile raccontate nel volume rendono conto dei percorsi
non lineari e non scontati che portano parti importanti del mondo del lavoro a partecipare
alla lotta antifascista. Basti pensare al ruolo di «sobillatori» di alcuni operai ebrei a Livorno
(nel 1943!), o a quello che vede protagonista il basso clero nella provincia di Arezzo; alle forme di lotta e al rapporto con le organizzazioni resistenziali nelle fabbriche della zona di San
Marcello Pistoiese e nelle miniere di Castelnuovo dei Sabbioni; alle azioni repressive e di deportazione nei casi della «valle rossa» (la val Bisenzio sopra Prato) e ad Empoli, dove la lotta
operaia si salda con quella dei contadini.
La qualità dei casi analizzati nel volume aumenta il rammarico per il fatto che la ricerca
non ha potuto prendere in esame tutto il territorio regionale. Il progetto originario, sostenuto dal Coordinamento femminile regionale dei pensionati della CGIL, prevedeva una ricerca
sulla partecipazione femminile agli scioperi del 1943-1944 nell’intera regione: ma questo non
si è potuto realizzare per la mancanza di testimonianze e per la rinuncia dell’altra ricercatrice
coinvolta. Unica traccia delle intenzioni originarie sono due storie di vita di operaie diventate partigiane, che chiudono il volume.
Claudio Silingardi
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I LIBRI DEL 2007
Catia Sonetti, Una morte irriverente. La Società di Cremazione e l’anticlericalismo a Livorno, Bologna, il Mulino, 190 pp., € 22,00
La storia di una città – una città molto particolare – riflessa nella vita di un’associazione
– il più antico sodalizio culturale e politico oggi esistente a Livorno – attraverso il ricorso a
un’ampia gamma di fonti, comprese centinaia di lapidi cinerarie, dai significati a volte ironici, spesso militanti. È questo l’impianto del pregevole lavoro di Sonetti, insegnante e dottoranda con all’attivo alcuni lavori sulla storia dei partiti e dei movimenti politici in Toscana,
che arricchisce la serie degli studi apparsi negli ultimi anni sull’associazionismo cremazionista
in Italia analizzando la vita dalla Società di Cremazione livornese. L’a. passa al vaglio, dal 1882
agli anni ’60 del ’900, i componenti del nucleo dirigente, dalla consueta, spiccata presenza
massonica iniziale, poi diluita da innesti di matrice repubblicana, socialista, radicale e infine
comunista; le svolte interne, con i conflitti che portarono alla rottura e allo sdoppiamento del
sodalizio; la variegata ritualità a cui esso diede origine, come la questua pubblica, curioso rovesciamento del significato simbolico di un’antica pratica cristiana; il numero e la tipologia
dei cremati, dalla netta e atipica caratterizzazione proletaria, tra cui spiccano i lavoratori portuali. La forte identità di gruppo e i radicati comportamenti sovversivi di questi ultimi spiegano in parte la loro scelta di aderire in massa all’esperienza cremazionista e, per contro, anche la ridotta presenza di quei ceti medi illuminati che nelle altre città italiane costituirono lo
zoccolo duro di questa pratica, ma che a Livorno preferirono non confondersi con individui
socialmente inferiori e politicamente pericolosi. Ed è proprio l’inconsueto tratto non elitario
a rendere particolarmente interessante la vicenda della Socrem, non solo per l’intreccio con
altre forme organizzative e per il significato libertario e persino ribellistico dell’adozione di
una ritualità funebre anticonformista, ma anche per le componenti ideologiche e i riferimenti culturali che la ricerca di Sonetti permette di intravedere nella vita di individui solitamente senza storia, il cui orientamento politico trova invece testimonianza grazie alla decisione di
manifestare nell’estremo passaggio la propria «diversità», variamente connotata. Se in epoca
liberale le esequie dei soci erano l’occasione per mettere in scena un altro cerimoniale rispetto a quello proposto dallo Stato e dalla Chiesa e compiere un’azione di propaganda laica e anticlericale, durante il ventennio fascista le cerimonie dell’estremo saluto rappresentarono la rara possibilità di esprimere un’opposizione «esistenziale» al regime, di fatto una vera e propria
manifestazione politica che venne difesa strenuamente dagli aderenti al sodalizio.
Silvano Montaldo
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I LIBRI DEL 2007
Carlo Spagnolo, Sul Memoriale di Yalta. Togliatti e la crisi del movimento comunista internazionale (1956-1964), Roma, Carocci, 271 pp., € 22,50
L’intento dichiarato che Spagnolo si pone con questa sua ultima fatica è quello di dare
una risposta, in termini storici, ai motivi della crisi del comunismo italiano e, più in generale della «nazione democratica antifascista». Lo fa attraverso un’analisi approfondita (densa di
spiegazioni e, talvolta, di giustificazioni, ma anche lontana dalla agiografia) delle origini, del
contenuto e delle finalità del Memoriale, basata su fonti archivistiche italiane e straniere (in
particolare provenienti dagli archivi della ex DDR) e sulla ricostruzione delle relazioni tra il
PCI (e il suo leader, Palmiro Togliatti), l’URSS e il movimento comunista internazionale dal
1956 al 1964. È un libro complesso, ricco di spunti (per la descrizione dei contrasti tra i vari
partiti comunisti e all’interno dello stesso PCI, oltre che del gioco di strategie reciproche), ma
anche, a mio parere, non esente da contraddizioni (insite nello stesso soggetto del libro) a cui
potrò, in questa sede, solo brevemente fare cenno. La tesi di fondo è che l’appartenenza del
PCI al movimento comunista avrebbe creato «una tensione irrisolta e crescente tra l’identità
nazionale e quella internazionale [...]. La politica di Togliatti non si comprende se non come
ambizioso tentativo di contribuire alla strategia generale dell’intero movimento comunista,
pur essendo al di fuori del campo socialista» (p. 16), ma sentendosi partecipe della «comunità
immaginata» del comunismo internazionale, anche dopo la crisi del ’56 e l’inizio dei contrasti tra sovietici e cinesi: una sorta di «unità nella diversità», in cui il paragone più spontaneo
è quello del modello della Chiesa cattolica (p. 60). In questo senso, secondo Spagnolo, il rapporto tra Togliatti e il movimento comunista internazionale offre un esempio «della specificità del comunismo italiano, che è stato un comunismo occidentale, democratico e riformatore» (p. 19). Il corsivo è nel testo e Spagnolo sottolinea giustamente le contraddizioni insite
nel riformismo del PCI, anche se il vero problema risiede nelle ambiguità dell’idea togliattiana di democrazia, come ammette lo stesso Spagnolo scrivendo che Togliatti, pur avendo «consumato le certezze assolute sul futuro del socialismo», non si era liberato del tutto «di una deterministica sovrapposizione tra gli interessi del socialismo e quelli dell’URSS» (p. 65). Risulta così abbastanza sorprendente l’interpretazione data dall’a. all’atteggiamento di Togliatti di
fronte ai fatti d’Ungheria (pp. 136, 168-169), quando è proprio questa ambiguità che si riflette sulle posizioni prese nei confronti del centro-sinistra, cui il Memoriale accenna nell’ultimo paragrafo: «Togliatti elude la questione, cerca una soluzione il più possibile indolore, spera sino all’ultimo che il PCI non debba scegliere tra la propria appartenenza al movimento e
un ruolo di governo nel paese» (pp. 66-99). Come ammette Spagnolo «sciogliere la doppiezza per Togliatti significa stare sul terreno della Costituzione e abbandonare l’ipotesi della scorciatoia crollista, riconoscere l’improponibilità di una crisi del tipo di quella del 1917» (p. 147),
il che, per un leninista convinto quale Togliatti, non era evidentemente possibile.
Giovanni Scirocco
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I LIBRI DEL 2007
Davide Sparti, Musica in nero. Il campo discorsivo del jazz, Torino, Bollati Boringhieri, 223
pp., € 17,00
Non una storia del jazz, ma una storia culturale del jazz; non una disamina dei jazzisti
(con i loro tic e le loro manìe), né una traccia dei percorsi musicali, ma l’insieme di concezioni, discorsi, racconti che hanno delineato il fenomeno culturale che chiamiamo jazz. Analizzando la messa in discorso che concerne tale fatto culturale, l’a. individua quattro orizzonti in
cui si condensano le principali retoriche del jazz: esse hanno a che fare ora con «il primitivo»,
ora con «il moderno», ed ancora con «il politico» e con «lo sperimentale».
Il discorso primitivista si fonda sull’idea che la cultura nera resta irriducibilmente estranea alla civilizzazione europea e dunque il jazz rimane un’espressione musicale inferiore, selvaggia, istintuale, ma anche esotica e dalle sonorità altre. L’investimento del corpo, come corpo vibrante e produttore di suoni – argomento che l’a. sviluppa in un lavoro immediatamente successivo (Il corpo sonoro, Bologna, il Mulino, 2007) – costituisce un altro pilastro della
costruzione del jazz come genere musicale primitivo.
Il discorso modernista coglie un processo di trasformazione che ha visto il jazz divenire
in parte anche un prodotto condizionato dall’industria musicale e quindi dalle regole del mercato e del consumo, a cui – però – i musicisti afro-americani hanno reagito rielaborando creativamente ciò che via via fu loro imposto. La musica afro-americana risponde, infatti, con la
pratica del signifying: i motivi imposti dall’industria musicale vengono sì acquisiti, ma poi riadattati, sbeffeggiati, dunque ricreati.
Il discorso politico ci rimanda ad una relazione complessa tra l’emergere del free jazz, e
dunque l’affermarsi – in termini nuovi – di una certa libertà dalle convenzioni musicali, e i movimenti per i diritti civili degli anni ’60: in gioco sono le diverse concezioni della libertà che riguardano non tanto la critica alla disciplina imposta, quanto le possibilità che talune regole possano offrire per sperimentare più ampie forme di creatività e più compiute libertà politiche.
Il discorso sperimentalista rinvia, infine, alle relazioni tra il jazz e le più diversificate pratiche collettive di avanguardia culturale: sono infatti alquanto radicati, e databili almeno a partire dagli anni ’20 del ’900, i nessi tra le tecniche di improvvisazione musicale con le sperimentazioni visive surrealiste ed ancora con le avanguardie letterarie.
Filo rosso dell’intero volume è l’attivazione di un processo identitario per gli afro-americani che ruota proprio attorno all’esperienza del jazz: esso è infatti profondamente legato alla
storia della deportazione nelle Americhe, ma soprattutto all’incontro di etnie diverse che le
migrazioni stesse mettono in contatto; non un’identità escludente, omogenea, connessa a profili etnici definiti, ma aperta a continue ibridazioni e contaminazioni.
Un bellissimo e compiutissimo esempio di storia culturale, firmato da uno studioso valente e poliedrico.
Vinzia Fiorino
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I LIBRI DEL 2007
Giuseppe Speciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, Torino, Giappichelli, 296 pp., €
25,00
Il saggio ricostruisce una delle vicende nodali dell’Italia contemporanea, l’introduzione nel
1938 delle leggi antiebraiche. Focus della ricerca è la giurisprudenza, stretta tra le contingenze
politiche del fascismo e un’eredità intellettuale spesso legata a concezioni liberali. L’oggetto privilegiato non sono gli ebrei, i discriminati, parte lesa del razzismo di regime, quanto i giudici,
costretti ad applicare le norme razziali per «ragioni d’ufficio», al di là di una convinzione intima.
E questo mi sembra un secondo tratto originale e di pregio del volume, quello di rappresentare
uno sforzo di indagine sulla «coscienza di ceto» dei magistrati, sulla riflessione che obtorto collo,
pressati dal contingente dover scegliere (il modo in cui le leggi infami erano interpretate e applicate era tutt’altro che vicenda meramente tecnica), i magistrati svolsero su loro stessi: «l’ebreo, il
discriminato, il perseguitato, il diverso da espellere [...] finisce, al di là di ogni sua intenzione,
per costituire e incarnare l’elemento scandaloso che costringe l’altro, il non ebreo, il giudice a riflettere, prima di tutto su se stesso, sulla propria storia, sulla propria identità» (p. 4).
In una prima parte di carattere introduttivo Speciale si sofferma sui tratti e l’origine delle leggi del ’38, ribadendo, come ormai vuole la gran parte degli storici, l’assurdità di posizioni autoassolutorie che ridurrebbero l’antisemitismo a un «tributo» che l’Italia dovette pagare
all’alleato nazista. Appare un razzismo coerente con l’eugenetica del regime, con la politica coloniale, soprattutto coerente con una certa idea di romanità, così come si volle presentare da
parte degli studiosi «di regime» nello scorcio degli anni ’30. L’antisemitismo di Stato è, insomma, un portato del nazionalismo e del fanatismo intollerante del fascismo.
La parte seguente, la più notevole, riporta «voci dalle sentenze», una chiara e ben presentata disanima della giurisprudenza prodotta tra il ’38 e il ’43 (il periodo repubblichino non è
esaminato in considerazione del mutamento della cornice politico-istituzionale). Emergono
qui grandi figure di giuristi, quali Alessandro Galante Garrone, Riccardo Peretti Griva, Piero
Calamandrei, Arturo Carlo Jemolo e altri, autori di quel «generoso tradimento», come lo definisce l’a., dei reali intendimenti delle leggi, ma fatto in nome della legge stessa, di una sua
concezione ancora ferma ai principi di stretta legalità, di eguaglianza formale dei cittadini. Ne
risultò un’interpretazione delle leggi tutta volta a tradirne lo spirito e limitarne al minimo l’applicazione e il danno per gli ebrei. Il saggio si spinge fino all’analisi della giurisprudenza sulla
legislazione risarcitoria del dopoguerra, rivelando come si sia a volte passati a una «ingenerosa fedeltà» alla legge, ostacolando l’assegnazione dei dovuti sussidi con atteggiamenti legalistici, ma in contrasto con i principi repubblicani.
Si tratta di un libro importante, una ricerca condotta con serietà che apre uno squarcio
su un aspetto fondamentale (quello storico-giuridico) poco indagato dalla storiografia, per lo
più incentrata sugli aspetti storico-politici o storico-sociali.
Olindo De Napoli
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I LIBRI DEL 2007
Joachim Staron, Fosse Ardeatine e Marzabotto. Storia e memoria di due stragi tedesche, Bologna, il Mulino, XVIII-545 pp., € 28,00 (ed. or. Paderborn, 2002)
La memoria menzionata nel sottotitolo dell’edizione italiana non c’entra niente: nel libro infatti non vi è traccia di un’analisi storiografica della memoria delle due stragi, non sono utilizzate fonti orali e, correttamente, il sottotitolo dell’originale è Deutsche Kriegsverbrechen und Resistenza; Geschichte und nationale Mythenbildung in Deutschland und Italien. Il libro utilizza una
documentazione archivistica varia (archivi giudiziari, diplomatici, ecc.) e, soprattutto nel capitolo terzo, la stampa. Rispetto al titolo, risulta deludente nella ricostruzione storica dei due eventi
dei quali si parla, sbrigativa e non priva di imprecisioni, che non arreca alcun apporto originale.
Più interessante la parte dedicata alla ricezione delle condanne di criminali di guerra tedeschi nei due paesi, che occupa circa metà del volume. Tuttavia non ci si aspetti quell’analisi dei meccanismi di costruzione di mitologie nazionali che viene enunciata nel sottotitolo dell’edizione tedesca: i due miti, dei quali l’a. ci parla, sottolineando un presunto simmetrismo
fra le due situazioni nazionali, sono quello della Resistenza per l’Italia, e quello di una Wehrmacht non toccata da comportamenti criminali e uscita dal conflitto sconfitta sì, ma con l’onore intatto. Questi due miti avrebbero consentito agli italiani di evitare di fare i conti con i
crimini commessi dal proprio esercito fino al 1943, ed in ultima analisi con il consenso al regime fascista, e ai tedeschi di rimuovere il profondo coinvolgimento delle loro forze armate
regolari nella guerra «nazista». Questi due miti sono dati per presupposti da Staron, che non
li analizza né nel loro formarsi, né nell’incidenza che hanno avuto nell’evoluzione delle due
società nazionali (per l’Italia, il riferimento principale è ad una tesi di dottorato inedita, di
Carlo Campani, discussa a Francoforte sul Meno nel 1993): in realtà, come lo stesso a. ammette, «oggetto della presente ricerca sono esclusivamente le relazioni italo-tedesche» (p. 284),
più che l’analisi dei caratteri delle religioni civili dei due paesi. Su questo terreno l’a. scrive pagine apprezzabili, mostrando i tentativi di chiudere definitivamente non tanto la stagione dei
processi per crimini di guerra (di fatto già esauritasi alla fine degli anni ’40), quanto l’eredità,
ingombrante per entrambi i governi, dell’unico criminale tedesco condannato all’ergastolo, il
tedesco Kappler (oltre all’austriaco Reder).
Quando Staron può unire all’analisi della stampa quella delle fonti diplomatiche dei due paesi ci restituisce un quadro interessante e notizie di prima mano sulle lunghe, e spesso inconcludenti, trattative per trovare una soluzione soddisfacente per entrambi i governi. Purtroppo, a partire dalle vicende degli anni ’60, questa fonte non è più disponibile, evidentemente per i limiti
di legge posti alla consultazione della documentazione, ed il volume ripercorre le varie vicende
che portarono alla fuga di Kappler, alla liberazione di Reder, e al processo a Priebke negli anni
’90, fondandosi soprattutto sulla stampa. La ricostruzione che ne esce è non priva di utilità per
lo studioso, ma di tono più cronachistico che analitico, oltre che eccessivamente prolissa.
Paolo Pezzino
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I LIBRI DEL 2007
Giulietta Stefani, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Introduzione di Luisa Passerini, Verona, Ombre Corte, 202 pp., € 18,00
Il libro affronta in modo originale due tematiche assai importanti e tradizionalmente poco frequentate dalla storiografia italiana: si tratta dello studio della vicenda coloniale attraverso quello sulla mascolinità, ossia sui modelli, le rappresentazioni e autorappresentazioni maschili nazionali. È proprio l’intreccio tra queste due prospettive, il soggettivo e l’oggettivo, per
dirla con Luisa Passerini che introduce il volume, a restituire un’immagine articolata dell’espansione italiana nell’Oltremare, in specie durante gli anni ’30 e la guerra d’Etiopia.
Stefani si fa carico di quanto elaborato negli ultimi anni dagli studi sulle implicazioni di
genere presenti nella realtà dei grandi imperi coloniali, che tramite questa dimensione hanno
saputo cogliere i complessi rapporti tra colonizzatori e colonizzati, tra politiche della madrepatria e contesti socio-culturali della colonia, tra processi di costruzione dell’identità nazionale (ma anche imperiale) e pratiche di discriminazione razzizzante del colonizzato.
Nello specifico, indagando ed esplicitando «i nessi tra mascolinità e colonialismo» colti a
partire dalla constatazione «del carattere implicitamente e prevalentemente maschile dell’esperienza degli italiani in Africa» (p. 27), l’a. ha fatto luce sull’effetto «rivirilizzante» della partecipazione alla conquista coloniale, che infatti funzionò per il fascismo da «terapia della mascolinità», ossia da fattore essenziale per la rigenerazione maschile degli italiani.
Mettendo al lavoro i due concetti di razza e genere, Stefani, soprattutto nel capitolo Relazioni pericolose, svela le gerarchie sociali createsi in colonia, tra militari e civili dominatori e
popolazione locale, tra ufficiali italiani e ascari, tra donne nere e uomini bianchi. Ad esempio
in tema di rapporti tra uomini, vi è, attraverso una comparazione con la colonizzazione dell’India, l’importante acquisizione delle modalità di relazione e percezione degli ascari da parte degli italiani: a differenza di quanto avvenne nell’Impero inglese nel quale si ebbe una femminilizzazione degli indigeni, in Etiopia questi ultimi furono ritratti in termini per lo più maschili, e quando vennero associati al mondo infantile ciò spesso fu non solo per l’atteggiamento paternalistico del bianco civilizzatore, ma anche per la realtà dei rapporti omoerotici e omosessuali presenti tra italiani e giovani africani. Di interesse sono poi le pagine sul madamato e
la prostituzione, sulle relazioni, proibite perché «contro natura», tra le donne europee e i nativi, e sul meticciato. Anche a questo proposito l’a. mette in luce le contraddizioni tra la realtà
complessa dei sentimenti umani dei padri colonizzatori e quella delle disposizioni legislative,
dei dettami propri del razzismo biologico e della retorica ufficiale del regime.
Se dunque i piani di analisi sono molteplici, al fine di esplorare la complessità dei contatti tra italiani e uomini e donne della società locale, anche le fonti utilizzate sono di diverso tipo: dalla letteratura coloniale, ad articoli a stampa, alla diaristica e memorialistica, ai documenti tratti dagli archivi coloniali.
Chiara Giorgi
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Lea Steger, Die Literatur der italienischen Resistenza. Die literarische Verarbeitung des
bewaffneten Widerstands in Italien, Frankfurt am Main, Peter Lang, 176 pp., s.i.p.
Il libro è il 57° volume della collana di «Studi e documentazione sulla storia della letteratura romanza» pubblicato dalla casa editrice Peter Lang e non tradisce il carattere di tale collana occupandosi essenzialmente di letteratura italiana inerente alla Resistenza nel nostro paese; «letteratura» in senso ampio del termine, cioè non solo, anche se in prevalenza, relativa alla narrativa, ma anche alla memorialistica e alla storiografia. Dalle poche note a nostra disposizione appare che l’a. ha completato i suoi studi in Romanistica all’Università di Salisburgo
ed è ora traduttrice, e quindi deduco dall’impianto del libro che si tratti originariamente del
testo di una tesi di dottorato completata attorno al 2002 e poi messa a punto per la sua pubblicazione, con un aggiornamento rapido ma non approfondito degli ultimi dibattiti e soprattutto dell’ultima letteratura apparsi attorno alle celebrazioni per il sessantennale della Liberazione. Ad esempio, nel libro si tratta in maniera estesa di Giaime Pintor, ma si accenna solo
rapidamente e in maniera incompleta al dibattito anche aspro intercorso tra il 2002 e il 2007
tra le due principali studiose di Pintor: Mirella Serri e Maria Cecilia Calabri. Anche il dibattito scatenato dai libri di Pansa appare nel libro una parte posticcia. Un altro esempio: l’a. si
attiene agli studi sulla letteratura partigiana di Giovanni Falaschi apparsi tra il 1976 e il 1984
e solo alla fine cita, essenzialmente come fonte (quindi come raccolta di brani) e non come
importante studio, il libro di Gabriele Pedullà apparso nel 2005. Come è totalmente assente
la bella sintesi di Santo Peli sulla Resistenza in Italia pubblicata anch’essa nel 2005, mentre
Steger fa riferimento alle ristampe di Battaglia e naturalmente segnala la svolta degli studi e
delle riflessioni sulla Resistenza dovuta all’uscita del libro di Claudio Pavone nel 1991, ma poi
utilizza essenzialmente le voci del Dizionario di storia della Resistenza curato da Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi nel 2001-02. Ci pare necessario segnalare questi limiti non
tanto per demolire il lavoro di una studiosa che pensiamo alla prima opera quanto per sollecitare coloro che curano collane come questa ad essere più rigorosi, eventualmente utilizzando esperti esterni come referees.
Scritto questo, ci pare altrettanto importante segnalare questo lavoro a insegnanti di lingua, letteratura e cultura italiana che operano nel mondo universitario di lingua tedesca perché esso è ricco di informazioni, di suggerimenti alla lettura, di brevi ricostruzioni biografiche di autori protagonisti della stagione resistenziale, ed anche di ricostruzioni di fasi storiche
e di ambienti letterari. Ed è anche interessante per lo studioso italiano in grado di leggere il
tedesco, perché riporta una letteratura meno conosciuta e soprattutto ci illustra come e quanto di questa letteratura narrativa e storiografica sia penetrata, conosciuta e tradotta nel mondo di lingua tedesca.
Patrizia Dogliani
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I LIBRI DEL 2007
Irene Stolzi, L’ordine corporativo. Poteri organizzati e organizzazione del potere nella riflessione giuridica dell’Italia fascista, Milano, Giuffrè, 463 pp., € 46,00
Il corposo volume di Irene Stolzi, storica del diritto, si inscrive all’interno della recente ripresa d’attenzione per il corporativismo fascista (nella sua dimensione legislativa e, soprattutto, culturale e ideologica, mentre continua a mancare un esame ravvicinato del suo funzionamento concreto), e al tempo stesso riempie un vuoto. Presenta infatti la prima lettura d’insieme del pensiero giuridico in tema corporativo, rimasto per lo più in ombra, al contrario di
quello degli economisti o del dibattito propriamente politico.
L’esperimento corporativo sollecitò i giuristi a ripensare il proprio ruolo e i contenuti della disciplina: da un lato in direzione di uno svecchiamento della scienza del diritto, ancora largamente votata al culto ottocentesco dei testi normativi, e, dall’altro, verso un superamento della tradizionale distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, tra diritto, politica ed economia, e quindi verso la tematizzazione del protagonismo sociale dello Stato. Rappresentò dunque, per la disciplina, una sfida ambiziosa e rischiosa, che in molti decisero di raccogliere.
Tuttavia, come rimarca Stolzi, il panorama degli scienziati del diritto degli anni ’20 e ’30
non è riducibile alla contrapposizione tra giuristi di regime, fedeli al fascismo e partecipi alla
costruzione dello «Stato nuovo», e giuristi della tradizione, ancorati al modello individualistico di convivenza e a uno statuto disciplinare formalistico. Tra la nutrita schiera dei primi (Rocco, Bottai, Panunzio, Volpicelli) e dei secondi (Del Vecchio, Carnelutti, Ranelletti, Filippo
Vassalli, Chiarelli, Asquini) si segnalò infatti un gruppo di autori che, pur respingendo la proposta totalitaria, vide nel corporativismo la possibilità di salvare alcuni elementi irrinunciabili del passato senza sposare completamente le soluzioni liberali, di ribadire la strutturale limitatezza del potere statuale, di porre il tema della presenza pubblica nel gioco economico-sociale e, infine, di liberare il giurista dall’obbligo esclusivo dell’esegesi (fu il caso, tra gli altri, di
Mossa, Cesarini Sforza, Finzi, Greco, Grechi, Capograssi).
Stolzi incentra la ricostruzione, documentatissima e tecnicamente rigorosa, sugli autori
più originali e teoricamente più attrezzati, sui punti alti del dibattito assai più che sulla diffusione dei temi nella periferia del mondo scientifico e nel dibattito politico e culturale. La scelta di privilegiare l’originalità e la densità del pensiero piuttosto che la tipicità (si può spiegare
così la ridotta attenzione a figure emblematiche e politicamente centrali nel periodo, come
Carlo Costamagna), la rilevanza accordata all’evoluzione dello statuto epistemologico della disciplina e il sistematico ricorso alla concettualizzazione propria della scienza del diritto inscrivono il volume all’interno della storia del pensiero giuridico classicamente intesa. Gli spunti
e le suggestioni che ne derivano, però, costituiscono un contributo di indubbio interesse anche per gli storici dell’ideologia e della politica fascista.
Alessio Gagliardi
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I LIBRI DEL 2007
Vittorio Strada, La rivoluzione svelata. Una lettura nuova dell’Ottobre 1917, Roma, Liberal edizioni, 166 pp., € 18,00
La Rivoluzione russa è stata per molti decenni raccontata secondo i canoni narrativi e interpretativi patrocinati e imposti dai vincitori, cioè dai bolscevichi. Si trattava di un canone che aveva trovato ascolto internazionale nei giorni immediatamente a ridosso dell’Ottobre e che, con la
forza di un mito che si imponeva con eccessiva facilità in un’Europa ancora immersa nella Grande guerra, sembrò poter essere messo in discussione soltanto a livello politico. Ancora nel secondo dopoguerra, malgrado fossero più numerosi i documenti e le memorie che criticavano e sfidavano la vulgata bolscevica, era certamente una minoranza quella che conosceva e, ancor più, prendeva sul serio le posizioni assimilabili a quelle dei menscevichi, dei socialisti rivoluzionari, degli
anarchici, dei liberali.
Già messa profondamente in crisi dalla storiografia internazionale degli anni ’70 e ’80, la narrazione bolscevica della Rivoluzione russa conosce il suo definitivo tramonto dopo il crollo del
Muro di Berlino e del comunismo in URSS, ad opera di una nuova storiografia che può usare per
la prima volta una ricchezza documentaria e memorialistica crescente.
Il libro di Strada è un racconto parziale ma originale degli otto mesi della Rivoluzione russa
compiuto con l’ausilio della narrazione e interpretazione degli sconfitti, degli intellettuali e politici che parteciparono al risveglio rivoluzionario del 1917 ma vennero poi emarginati e brutalmente costretti al silenzio o all’esilio dalla conquista bolscevica del potere. Dal diario del deputato liberale Andrei Singarëv, arrestato nel novembre 1917 e ucciso il 7 gennaio 1918 al libro collettivo Iz glubiny (De profundis), in cui una decina di storici, giuristi e filosofi di cultura democratico-liberale, coordinati da Pëtr Struve, interpretano con pessimismo tragico la vittoria bolscevica e il destino della Rivoluzione russa; dalle due opere storiche sulla rivoluzione di Pavel Miljukov,
la prima dedicata al Febbraio ed edita a Sofia nel 1924, la seconda all’Ottobre e pubblicata a Parigi nel 1927, al saggio di Lev Sestov Che cos’è il bolscevismo russo del 1920, pubblicato in Russia
solo nel 1991; per finire con I pensieri intempestivi di Gor’kij pubblicati dal marzo 1917 al luglio
1918, quando il suo giornale «Novaja zizn’» venne proibito dai bolscevichi: questi i principali testi attorno a cui, con altri documenti ugualmente significativi, Strada illumina il lettore di una luce insolita, che fa fatica ad attraversare i luoghi comuni e la memoria storica consolidata che si è
costruita attorno alla Rivoluzione russa ma permette, in modo semplice ma significativo, di rientrare nell’orizzonte della storia con maggiore conoscenza e lucidità.
Le pagine che Strada dedica a Plechanov e Martov, i due diversamente grandi protagonisti
del marxismo russo, riprendono il dibattito teorico dell’epoca sulla «inattualità» storica (e socioeconomica) del comunismo, mostrando la lungimiranza di molte delle loro riflessioni e giudizi.
Tra esse particolarmente attuale quella che Martov dedica alla pena di morte, per denunciare il
decreto del 21 febbraio 1918 con cui Lenin e Trockij legittimavano le condanne senza sanzione
giuridica e le fucilazioni di massa.
Marcello Flores
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27-08-2008
16:49
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I LIBRI DEL 2007
Ranieri Tallarigo (a cura di), L’Italia all’ONU. 1993-1999. Gli anni con Paolo Fulci: quando la diplomazia fa gioco di squadra, Soveria Mannelli, Rubbettino, 210 pp., € 19,00
Il volume ricostruisce l’azione diplomatica spiegata negli anni ’90 dall’ambasciatore italiano alle Nazioni Unite, Paolo Fulci, per contrastare la proposta di riforma del Consiglio di
Sicurezza che prevedeva il riconoscimento dello status di membro permanente a Germania e
Giappone. L’eventuale successo di tale operazione avrebbe significato una emarginazione dell’Italia e di altri paesi medi, confinati nel grande calderone dei membri presenti a rotazione
nel Consiglio, con un peso a quel punto ancora meno rilevante a causa dall’ampliamento della platea dei membri permanenti.
Il libro ricostruisce, attraverso le testimonianze dei più importanti membri dello staff diplomatico a New York, le strategie messe in atto, le astuzie diplomatiche, e descrive con efficacia il mondo variopinto della comunità internazionale riunita nel Palazzo di vetro. Una delle conclusioni cui giungono gli aa. è che il nostro paese, media potenza con debole capacità
di iniziativa in politica estera, riesce ad incidere sulla scena internazionale in maniera almeno
proporzionata alle proprie ambizioni, solo quando si verifica un coordinamento ed una unità
di intenti tra i vari attori politici ed istituzionali coinvolti, sia a New York che a Roma, evento abbastanza raro nella storia degli ultimi decenni. Dimostrazione di un soft power di un certo livello, certamente superiore a quello di più blasonate nazioni, ma che il nostro paese fa fatica a sfruttare in maniera adeguata.
Va ricordato che questa battaglia ben condotta si è svolta lontano dall’attenzione dell’opinione pubblica e del mondo politico (per fortuna?) ed ha impegnato soprattutto ambasciatori e funzionari del Ministero degli Affari esteri, lasciati abbastanza liberi di giocare la loro
partita.
Su questa vicenda era uscito un altro libro tre anni fa (P. Mastrolilli, Lo specchio del mondo. Le ragioni della crisi dell’ONU, Roma-Bari, Laterza 2005) ed è difficile sottrarsi all’impressione di una sorta di compiacimento della pubblicistica per un episodio che ha visto il nostro
paese mettere in scacco diplomazie e sistemi politici ben più potenti e agguerriti. Resta da considerare che si è trattato di una operazione di interdizione, volta a non mutare le cose, compito relativamente facile come ben sa chi si occupa di organizzazioni internazionali. Alla fine
questo genere di operazione editoriale rischia paradossalmente di mettere in ombra, agli occhi dello storico, quella parte propositiva che il nostro paese, sempre ad opera dei medesimi
attori, ha svolto negli ultimi anni in sede di Nazioni Unite, e che meriterebbe almeno altrettanta attenzione.
Alessandro Polsi
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27-08-2008
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I LIBRI DEL 2007
Francesco Tamburini, L’internazionalizzazione di Tangeri nella politica estera italiana
(1919-1956), Genova, ECIG, IX-254 pp., € 25,00
Questa meticolosa ricostruzione della politica dell’Italia nel regime di Tangeri fra anni ’20
e anni ’50 attinge a una vasta base documentaria: diverse serie dell’Archivio storico-diplomatico del Ministero degli Esteri, dell’Ufficio storico della Marina militare e dell’Archivio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, i Documenti Diplomatici Italiani, le FRUS e una lunga lista di periodici in prevalenza italiani e marocchini in lingua francese. Dalla genesi dell’internazionalizzazione alla definizione dello Statuto del 1923, alla sua revisione del 1928 fino a
metà anni ’30, Tamburini sottoscrive l’idea di una sostanziale continuità di intenti dall’Italia
liberale al fascismo: l’obiettivo è migliorare lo status del paese nel regime internazionale, non
per tutelare reali interessi economici o politico-strategici o una comunità sempre poco numerosa, bensì come merce di scambio per ottenere concessioni in altre aree del Mediterraneo e
dell’Africa, anche quando il fascismo diviene più sensibile all’idea dell’Italia «grande potenza
mediterranea»: ma questa Italia non riesce a insinuarsi nelle rivalità fra le potenze maggiori. I
diplomatici italiani a Tangeri, della cui corrispondenza il volume è fittamente intessuto, interloquiscono con una Roma volubile, pronta a infiammarsi di ambiziosi propositi, ma discontinua nell’attuarli – come nell’esemplare caso della ristrutturazione dell’ex residenza del
sultano Mulay Hafid in cui vengono concentrate le istituzioni italiane, scuole, uffici, assistenza sanitaria, incapaci di rivaleggiare, per la natura strutturalmente «seconda» dell’Italia, con
quelle delle nazioni dominanti che determinano la sorte del microcosmo tangerino, sorte di
declino in cui si riflette un po’ tutta la storia del Mediterraneo coloniale. Dallo scoppio della
guerra civile spagnola, Tangeri divenne punto d’appoggio per l’intervento italiano, mentre la
politica italiana esprime sempre più chiaramente gli obiettivi di guerra del fascismo: agli anni 1943-45 e al confronto fra le «due Italie» Tamburini dedica un’attenta e interessante ricostruzione. Nel dopoguerra, l’Italia è ridotta a spettatrice dei nuovi accordi che sanciscono il
ridimensionamento dei dominatori tradizionali, fino alla fine del regime internazionale: l’Italia repubblicana appare capace di intuire l’affermarsi della sovranità dei popoli dipendenti,
mentre assiste con scarso rimpianto alla fine di un sistema di cui era rimasta suo malgrado ai
margini. Storia politico-diplomatica minuziosa, ricca di citazioni e testimonianze d’epoca,
quest’opera rievoca un sistema di potenza e rivalità mentre raccoglie gli echi delle vicende
maggiori della crisi europea fra le due guerre.
Elena Calandri
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I LIBRI DEL 2007
Fabio Targhetta, La capitale dell’impero di carta. Editori per la scuola a Torino nella prima
metà del Novecento, Torino, SEI, XIV-274 pp., € 16,00
La ricerca di Fabio Targhetta è una ulteriore conferma del mutamento di prospettiva degli storici della pedagogia e dell’educazione che in questi ultimi anni, come evidenziano gli
studi coordinati da Giorgio Chiosso a cominciare dall’imponente repertorio TESEO. Tipografi e editori scolastico-educativi dell’Ottocento, hanno meritoriamente rivolto la loro attenzione
ad un’attenta ricostruzione delle problematiche connesse con l’editoria scolastica e i libri di
testo per le scuole tra ’800 e ’900 in Italia.
In questo quadro, Targhetta prende in esame la realtà di Torino dove, nella seconda metà
del secolo XIX, nascono e si sviluppano alcune tra le più importanti case editrici scolastiche
– Paravia, SEI, Lattes, Loescher – che fanno dell’antica città sabauda la capitale della produzione di libri e materiali per la scuola dall’unificazione alla seconda guerra mondiale. Come
risulta infatti da una indagine promossa dalla Federazione fascista degli industriali editori relativa ai testi adottati dagli istituti scolastici nel 1941-42, «i torinesi erano capaci di provvedere al 40% dell’intero mercato scolastico, mentre Milano e Firenze, rispettivamente con il 20%
e il 10%, non riuscivano neppure unendo le forze ad avvicinare la presenza subalpina» (p. IX).
Sulla base di una accurata indagine condotta soprattutto presso le istituzioni archivistiche,
dato che purtroppo la gran parte degli archivi degli editori sono stati danneggiati dai bombardamenti dell’ultima guerra, e dello spoglio delle riviste specializzate come il «Giornale della Libreria», Targhetta ricostruisce attentamente le strategie editoriali per la conquista del nuovo mercato per la scuola, i rapporti con il mondo della finanza per garantirsi uno stabile accesso al credito e soprattutto i legami con gli ambienti ministeriali che assicurano le adozioni dei libri di testo.
In questa ricostruzione emergono alcune tappe significative, in primo luogo la riforma
Gentile del 1923 che se penalizza Paravia rendendo necessario un rinnovamento radicale del
catalogo, viene al contrario vista come un’opportunità dalla SEI, casa editrice cattolica nata
nell’alveo delle iniziative salesiane, che ne approfitta per una espansione nel settore delle scuole private e del libro di religione; o ancora, la nascita del libro unico di stato per le scuole elementari, che costringe le imprese a penalizzanti riconversioni.
Condivisibile appare anche il giudizio sul comportamento delle case editrici durante il fascismo. Al di là di facili semplificazioni su pressioni e censure da parte del PNF, Targhetta fa
notare come sin dai primi anni vi fu dalla gran parte delle imprese editoriali, in particolare Paravia SEI e Utet, un progressivo allineamento alle posizioni del regime, che approdò nella seconda metà degli anni ’30 ad una sorta di «autobonifica», con la eliminazione sia di autori
contrari al regime che di scrittori ebrei. Paga invece un prezzo pesante la casa editrice fondata da Simone Lattes che, per effetto delle leggi razziali, è costretta a rivedere gran parte del suo
catalogo e ad assumere nel 1939 una nuova denominazione.
Maria Iolanda Palazzolo
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I LIBRI DEL 2007
Paolo Tedeschi, Luigi Trezzi, L’opera condivisa. La città delle fabbriche. Sesto San Giovanni 1903-1952. La società, Milano, FrancoAngeli, 256 pp., € 20,00
Si tratta del secondo volume sulla storia di Sesto San Giovanni pubblicato nella collana
«Geostoria del territorio» dalla casa editrice FrancoAngeli. Se il primo libro, ad opera di Valerio Varini, era dedicato alla nascita e all’evoluzione del sistema industriale della città, con
particolare attenzione alla storia delle singole imprese, oggetto dell’analisi di questo volume
sono, invece, le variazioni intervenute nella società e nell’economia di Sesto San Giovanni per
effetto del suo rapido sviluppo industriale che, nella prima metà del ’900, trasforma questo
insediamento da borgo agricolo a moderna «città delle fabbriche».
Gli autori del volume, Paolo Tedeschi e Luigi Trezzi, rispettivamente ricercatore e professore di Storia economica presso il Dipartimento di Economia politica dell’Università di Milano-Bicocca, passano in rassegna, in modo chiaro, puntuale e completo, tutti i possibili aspetti della «grande trasformazione». Il primo dato ad essere analizzato è la forte crescita demografica della città, alimentata da un flusso migratorio che, nell’arco di cinquant’anni, consente alla popolazione sestese di aumentare di oltre sette volte rispetto al valore iniziale. Si delinea, così, un modello di città industriale caratterizzato da profondi conflitti sociali e da tutti
quei problemi, come la carenza di abitazioni operaie, tipici dei processi di urbanizzazione particolarmente rapidi e sconvolgenti. I due capitoli successivi sono dedicati, invece, ai salari, all’occupazione, ai consumi e al risparmio. Gli aa. riescono a dimostrare come le dinamiche occupazionali e la crescita di stipendi e salari consentano, nel periodo di tempo preso in esame,
un incremento complessivo dei redditi, tale da incidere, in maniera positiva, sulle condizioni
di vita dei lavoratori. Ne sono una prova i consumi, in grado di svilupparsi e crescere, in modo significativo, oltre i beni di prima necessità.
Gli ultimi capitoli del libro sono dedicati alla gestione dell’evoluzione sociale ed urbana
della città, nell’ambito della quale un ruolo di primo piano, in termini di servizi, istituzioni e
infrastrutture, è svolto dall’Amministrazione comunale, insieme agli altri enti, al ceto imprenditoriale ed alle organizzazioni ed associazioni, come le cooperative e le società di mutuo soccorso, presenti nel territorio. È a questo pluralismo di soggetti, animato da interessi diversi e
contrapposti, che si deve la creazione di strutture assistenziali pubbliche e private, di case popolari, di forme previdenziali ed assicurative, ma anche la realizzazione di luoghi educativi o
di aggregazione sociale, come scuole, circoli ricreativi e dopolavoro aziendali. In questa prospettiva, l’intera evoluzione di Sesto San Giovanni, sia sul piano produttivo, sia dal punto di
vista urbanistico, dell’integrazione e della partecipazione alla vita collettiva, scaturisce da una
forte interazione, la quale spiega anche il senso del titolo dato al volume, cioè la «costruzione» di una «città delle fabbriche», per molti aspetti unica nel suo genere, come il felice risultato di un’opera condivisa.
Augusto Ciuffetti
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I LIBRI DEL 2007
Jutta Toelle, Oper als Geschäft. Impresari an italienischen Opernhäusern 1860-1900, Kassel, Bärenreiter, 269 pp., € 34,95
L’opera come business. Impresari nei teatri d’opera italiani 1860-1900: così può essere tradotto il titolo del bel volume di Jutta Toelle, scritto purtroppo in una lingua, il tedesco, che non
permetterà a molti dei potenziali lettori di accedervi. Il libro, alla cui base stanno la tesi di dottorato dell’a. e un lungo lavoro di ricerca svolto in Italia, è frutto maturo della recente fioritura
degli studi sulla storia del teatro musicale, letto non più e non solo come fenomeno strettamente musicologico, bensì anche come interrelazione di fatti culturali, sociologici ed economici.
Sugli impresari in quanto produttori del melodramma italiano del XIX secolo la ricerca
è dal 1985 ferma al pionieristico L’impresario d’opera. Arte e affari nel teatro musicale italiano
dell’Ottocento di John Rosselli. Da qui prendendo le mosse, ma presto segnalandosi per originalità, l’a. delinea profilo sociale, funzioni, diritti e doveri, spese e ricavi dell’impresario-tipo,
seguendone le sorti attraverso la crisi dell’industria lirica. Quest’ultima è indagata a fondo nei
fattori scatenanti – che originano nella decisione del nuovo Stato di trasferire le competenze
amministrative e finanziarie sui teatri dal demanio alle municipalità e nella rinuncia a esercitare una politica teatrale centrale –, nelle implicazioni e nelle conseguenze che ebbe sui due
fronti degli impresari e dei teatri, allorché il finanziamento della più costosa e complessa di
tutte le forme artistiche divenne questione scottante.
Gli impresari assistono a un ineluttabile ridursi del proprio spazio di azione e, vittime designate, sono ingoiati nell’abisso che sempre più ampio si spalanca per l’attrazione esercitata
in due direzioni opposte dai poli dell’arte e del denaro. Cinque casi di impresari di successo
(Piontelli e i fratelli Marzi e Corti) mettono in luce come, nella seconda metà del secolo, essi
debbano fronteggiare un aumento dei costi di produzione e della complessità del sistema lirico (aggravato dallo strapotere degli editori musicali e dall’accesa rivalità tra Ricordi e Sonzogno), senza che sia loro possibile esercitare valide misure di riduzione del rischio.
I tre casi settentrionali Milano/Scala, Parma/Regio, Venezia/Fenice dimostrano invece
che, nonostante le peculiarità locali, la sopravvivenza alla crisi di fine secolo da parte dei grandi teatri lirici fu resa possibile da una strategia comune, riassumibile nell’identificazione tra
teatro e città e nel ricorso al finanziamento cittadino (pubblico e privato) – strategia che sfocerà nel profilarsi dei teatri d’opera come luoghi simbolo dell’orgoglio locale, sganciati da logiche commerciali, assurti a musei e a strumenti della politica cittadina.
A tali conclusioni l’a. arriva attraverso uno scavo capillare all’interno degli archivi dei teatri studiati, affiancato da sagaci prelievi in altre istituzioni conservative, da molte pubblicazioni coeve e da una letteratura ampia e aggiornata: la pazienza nella ricerca d’archivio si salda
mirabilmente all’abilità nel fare parlare di arte, soldi e politica documenti amministrativi e
contabili non sempre di immediata interpretazione.
Livia Cavaglieri
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I LIBRI DEL 2007
Massimo Tornabene, La guerra dei matti. Il manicomio di Racconigi tra fascismo e Liberazione, Boves, Araba Fenice, 172 pp., € 14,00
Secondo appuntamento per la collana «Assistenza, medicina, società» dedicata al passato
e al presente dell’assistenza psichiatrica nella Provincia di Cuneo. Come molti dei più recenti volumi dedicati alla storia della psichiatria e delle istituzioni manicomiali, anche il lavoro
di Massimo Tornabene si colloca, quindi, nel solco della storia locale, lasciandosi alle spalle le
ricostruzioni e tutto tondo e decisamente più imbevute di passione civile che avevano dominato questo campo di studi negli anni ’70 e ’80 del ’900.
La guerra dei matti, tuttavia, come già lascia intuire il titolo, non è una ricerca ascrivibile solo alla storia della psichiatria: raccontando infatti la storia del manicomio dal 1938 al
1947 il libro offre stimoli nuovi e originali anche per la ricostruzione dell’impatto avuto dalla seconda guerra mondiale sulla società civile. La prima impressione, infatti, che si ricava dalla lettura dei numerosi stralci di cartelle cliniche che l’a. ha usato come voce narrante del volume, è che il manicomio di Racconigi (al pari degli altri sparsi per la penisola, come ci insegna la storiografia) è un altro dei luoghi possibili – e forse per la sua stessa natura, uno dei più
idonei – da cui osservare il modo in cui il fascismo prima e la guerra dopo hanno influenzato e, in molti casi, fatto deragliare la vita di uomini e donne.
Il volume si apre con alcuni capitoli dedicati alla ricostruzione della meccanica degli internamenti in tempo di pace: quale la legge e le autorità che li governavano, ma anche quali concrete dinamiche sociali li favorivano (come ad esempio la miseria, l’assenza di una rete familiare forte, l’inabilità al lavoro del soggetto). A questi elementi se ne aggiunsero numerosi altri con
l’instaurazione del fascismo e l’irrompere della seconda guerra mondiale, lasso di tempo segnato anche da un decisivo aumento delle ammissioni manicomiali (p. 32). Per questi anni l’a. parla per un primo momento dell’esistenza di una «“follia di mezzo” [diversa sia da quella dei tempi di pace che di guerra, n.d.r.], segnata dalla presenza, confusa e disordinata, delle parole d’ordine, dei valori e dell’ideologia del fascismo. Ma anche del suo volto autoritario» (p. 77). In un
secondo momento, con lo scoppio della guerra, la gamma delle ragioni e dei sentimenti che spingono uomini e donne tra le mura manicomiali si amplia enormemente e l’a. conia l’espressione
«follia straordinaria»: accrescono la miseria quotidiana e le preoccupazioni rispetto al futuro,
esplodono gli stress causati dai bombardamenti e dai combattimenti. La guerra si fa pressante
non solo nei deliri dei ricoverati, ma anche nel sistema degli internamenti, a questo punto auspicati dalle famiglie incapaci di prendersi cura dei propri membri più deboli.
In chiusura de La guerra dei matti, Massimo Tornabene si sofferma sui primi anni di pace, sul ritorno alla «normalità» della società italiana, che per il «Neuro» corrispondono con un
lento affievolirsi dell’eco della guerra e del fascismo nelle vicende raccolte dalle cartelle cliniche e con la ricomparsa, quindi, della «follia ordinaria».
Laura Schettini
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I LIBRI DEL 2007
Emilia Toscanelli Peruzzi, Diario (16 maggio 1854-1 novembre 1858), a cura di Elisabetta Benucci, Firenze, SEI, CLX-314 pp., € 25,00
Elisabetta Benucci ci avverte che «leggendo le pagine del diario qui trascritto, non si riconoscerà l’Emilia del diario a stampa», cioè l’Emilia di Vita di me, pubblicato nel 1934 dalla nipote Angiolina Toscanelli Altoviti Avila. Nella vecchia edizione si era intervenuto pesantemente sui manoscritti, espungendo i riferimenti al privato o alla quotidianità; questa invece è un’edizione integrale, filologicamente corretta, di una parte del diario. L’immagine di
Emilia che ne risulta è sicuramente più ricca, perché queste pagine sono un esempio straordinario di «scrittura dell’io», del lavorio quotidiano di costruzione di sé. Gli spunti sono tanto
numerosi, che è impossibile condensarli in poche righe. Un tema centrale è l’intensità del rapporto affettivo con il marito: i molti brani a lui dedicati, integrati dalle riflessioni su casi di
«matrimoni male assortiti», sono una testimonianza di prim’ordine sul modello coniugale ottocentesco; «noi sposi moderni», scrive Emilia. Priva di figli e non attratta dalla maternità, la
Peruzzi realizza se stessa nel ruolo di moglie: «Come donna sono un essere incompletissimo.
Non do cittadini alla patria non ho missione da compiere [...] ma come moglie raggiungo l’apice della felicità per la felicità che do e ricevo» (p. 77). Una frase da manuale, a p. 75: «Il sorriso e la gioia della sua donna sono la festa d’ogni uomo che torna a casa». Ma Ubaldino era
«un uomo nato per gli affari e per le agitazioni della vita pubblica», annota con orgoglio, e al
suo fianco lei poteva dare sfogo a quella «passione per la politica» che l’aveva animata fin da
ragazza. Al riguardo scrive, e si noti la presenza di tre sinonimi nel periodo: «I miei gusti sono piuttosto quelli degli uomini che delle donne. Le cose patrie, gli studii, le occupazioni tutte, esclusi i lavori donneschi – i viaggi, l’operosità, la politica, la vita pubblica sono le mie passioni, le cose a cui mi dedico con trasporto» (p. 76). L’altro grande tema del diario è la «conversazione», diretta oppure a distanza, ossia nella forma epistolare. Il diario enumera una
quantità enorme di visite fatte e ricevute, ne tiene quasi la contabilità, così come sono contate giorno per giorno le lettere ricevute o inviate. Sulle centinaia di nomi citati la Benucci ha
fatto un utilissimo lavoro di ricerca biografica, ma l’analisi effettiva delle reti di relazione rimane da compiere. Nell’aristocrazia fiorentina, per esempio, i Peruzzi si muovono evidentemente come in famiglia, eppure non sembra calzare a quest’ambiente l’immagine «cetuale»
proposta da T. Kroll (La rivolta del patriziato. Il liberalismo della nobiltà nella Toscana del Risorgimento, Firenze, Olschki, 2005). Colpisce, ancora, tra le frequentazioni dei Peruzzi, la consistenza e il livello della presenza piemontese: un riflesso del loro orientamento politico filosabaudo (cfr. nel diario le pagine sulla guerra di Crimea) e probabilmente la premessa per l’imminente ripresa della carriera politica di Ubaldino, con l’Unità. Un elenco telegrafico, infine,
di altri temi interessanti: le letture di Emilia e il teatro; i suoi rapporti con la famiglia d’origine; la consuetudine dei bagni a Livorno; il colera del 1854-55.
Mirella Scardozzi
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I LIBRI DEL 2007
Mario Toscano (a cura di), Ebraismo, sionismo e antisemitismo nella stampa socialista italiana: dalla fine dell’Ottocento agli anni Sessanta, Venezia, Marsilio, 241 pp., € 20,00
Il volume pubblica la ricerca coordinata da Mario Toscano, docente all’Università di Roma La Sapienza e uno dei maggiori conoscitori della storia dell’ebraismo e dell’antisemitismo
italiano, promossa dalla Fondazione «Giuseppe e Vera Modigliani», per iniziativa del compianto presidente Gaetano Arfé. Si tratta di un lavoro meritevole non solo per l’ingente numero di informazioni e suggestioni che sono offerti al lettore su un tema non ancora del tutto approfondito, ma anche per il lavoro di équipe condotto tanto nella discussione dell’impianto metodologico quanto nella elaborazione dei risultati.
Il gruppo di ricerca guidato da Toscano (Filomena del Regno, Luca La Rovere, Alessandra Tarquini) si è dedicato all’analisi dell’immagine dell’ebraismo, dell’antisemitismo e del sionismo nel socialismo italiano, attraverso la disamina dei principali organi della stampa socialista («Avanti!», «Critica Sociale», «Mondo Operaio»). Il periodo di indagine parte dalla fine
dell’800, con le ripercussioni in Italia dell’affare Dreyfus, fino agli anni ’60, arrestandosi prima della Guerra dei Sei giorni, e consacrando uno spazio adeguato al periodo repubblicano;
come scrive il curatore in una densa Introduzione, questa scelta tematica ha offerto la possibilità di «analizzare i rapporti tra socialismo (soprattutto attraverso l’esperienza del partito socialista italiano) ed ebraismo in un periodo di storia segnato da eventi che hanno modificato
radicalmente la realtà e l’immagine della condizione ebraica nel mondo contemporaneo e inciso profondamente sul socialismo internazionale e italiano, con dibattiti, lacerazioni, ed esperienze, che costituiscono capitoli rilievanti della sua storia» (p. 4).
Dalle analisi puntuali della stampa emergono numerosi temi: innanzitutto, a partire dalla fine del XIX secolo, risulta confermata l’assenza nel socialismo italiano di un dibattito teorico sulla «questione ebraica» che invece è centrale all’interno della Seconda internazionale
nell’area austro-tedesca. Nondimeno, si registra una grande attenzione nei confronti dell’antisemitismo in occasione dell’affare Dreyfus, come mostra bene il saggio di del Regno, anche
se non viene meno, talvolta, la persistenza di stereotipi della tradizione socialista che identificano l’ebraismo con il capitalismo finanziario. L’altro filone tematico del volume è rappresentato dalle riflessioni del socialismo italiano sulle persecuzioni antiebraiche del fascismo, sulla
Shoah, e poi dalla complessa evoluzione del rapporto con Israele, nonché dalla trasformazione dell’antisionismo, ricostruite nei saggi di La Rovere e Tarquini, con una doverosa sottolineatura della «realtà composita del socialismo italiano e la convivenza di posizioni spesso fortemente contrastanti all’interno dello stesso partito» (Toscano, p. 23).
Chiude il volume una nota sul database che contiene lo spoglio sistematico delle testate esaminate dal gruppo di ricerca dal primo numero di ogni foglio fino al 1992, un materiale certamente assai utile per poter avviare altri approfondimenti tematici stimolati da questa ricerca.
Valeria Galimi
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I LIBRI DEL 2007
Carlo Tosco, Il paesaggio come storia, Bologna, il Mulino, 135 pp., € 11,50
Negli ultimi anni il dibattito sulla natura come costruzione culturale ha investito la storia dell’ambiente, specie quella nord americana, ma anche altre discipline come la geografia,
l’antropologia e la political ecology. La storiografia ambientale si è dedicata all’analisi del rapporto tra paesaggio e identità nazionale, riuscendo, in vari casi, a superare la dicotomia tra storia culturale e storia ambientale; ed il paesaggio si è prestato bene ad una riflessione sui contenuti culturali della natura, in altre parole sulla reciproca costruzione di natura e cultura.
Nel caso del libro di Tosco non siamo in presenza di una monografia sul paesaggio italiano; come si legge nell’Introduzione, l’a. intende ricostruire la storia di un’idea, proponendo
una nozione di paesaggio come «sedimento di storia e spazio della ricerca storiografica» (p. 9).
Pur includendo riferimenti alla pittura e ad alcuni aspetti delle politiche di conservazione, il
volume sembra essenzialmente dedicato alla fortuna disciplinare del paesaggio, ovvero ai diversi modi nei quali questo concetto/oggetto è stato adoperato/analizzato nella ricerca scientifica. Tosco ripercorre le molte riscoperte e reinvenzioni del paesaggio, collocandole tanto
dentro ampi contesti culturali, quanto dentro specifiche esperienze di ricerca. Nel suo libro
trovano spazio la reinvenzione romantica della natura «nazionale» e il determinismo di Ratzel; il possibilismo delle «Annales» e i loro larghi quadri geo-storici, la microstoria e la landscape ecology; il rifiuto del paesaggio proprio delle letture strutturali, la rivincita dell’estetica e
la cultural geography.
Come l’a. sottolinea, quello del paesaggio è evidentemente un tema sul quale molte discipline hanno sedimentato saperi e metodologie. L’a. riesce a fornire un utile strumento di
sintesi, spaziando dall’architettura alla geografia, dalla storia all’archeologia. Il carattere agile
del volume, che lo rende un efficace strumento didattico, forse sconta qualche semplificazione, come quando affronta il tema territorio vs paesaggio (p. 118) o il rapporto tra artificiale e
naturale (p. 117). Nelle conclusioni Tosco collega esplicitamente questo volume all’esigenza
di costruire un progetto formativo in grado di fornire strumenti operativi e d’analisi per capire e gestire il paesaggio (p. 125-126). Il progetto è di grandissimo interesse, specie a fronte del
ritardo dell’accademia italiana nell’integrazione tra saperi scientifici ed umanistici. L’assenza
nelle università italiane della storia dell’ambiente come disciplina è esemplare di questa situazione e il libro di Tosco contribuisce a riproporre la questione.
I paesaggi disciplinari non sono così diversi da quelli naturali; e come spesso accade l’osservatore cerca in essi quello che già conosce o quello che si aspetta di trovare. Anch’io ho cercato in questo libro i riferimenti alla storia dell’ambiente che mi sono familiari e sarei stato felice di trovarne di più numerosi. Tuttavia, cercare quello che già si conosce non è sempre un
buon esercizio per imparare qualcosa di nuovo. Ed il libro di Tosco è una buona occasione per
non rimanere prigionieri dell’unico paesaggio che si conosce.
Marco Armiero
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I LIBRI DEL 2007
Domenico Tosini, Terrorismo e antiterrorismo nel XXI secolo, Roma-Bari, Laterza, XIV-192
pp., € 12,00
Negli ultimi decenni il terrorismo è divenuto un problema centrale dell’epoca contemporanea, e sono ormai migliaia le pubblicazioni al riguardo. Argomento a dir poco incandescente da un lato, esso è assai impegnativo da analizzare dall’altro, poiché implica prendere in
considerazione questioni di carattere assai vario – da quelle di natura squisitamente politica,
ad altre di ordine etico, storico, religioso, mediatico, sociologico, militare, filosofico, economico, letterario, e altro ancora. Volendo scrivere su questo tema un libro di carattere divulgativo, non è semplice individuare il genere e le tipologie a cui ispirarsi: intervento polemico su
un tema di attualità, strumento di agile consultazione, o testo scorrevole da adottare per un
modulo di laurea triennale? Nel lavoro di Tosini tutte e tre queste opzioni si alternano, con risultati diseguali.
Una formazione sociologica poco incline all’interdisciplinarità porta l’a. a trascurare importanti contributi sul terrorismo che vengono da altri ambiti di ricerca per favorire l’applicazione un po’ meccanica di modelli esplicativi sulle cause. Così accade per la parte storica,
circa un terzo del totale, povera di riferimenti essenziali (neanche menzionati gli studi di Hobsbawm e di altri storici che hanno molto scritto e studiato al riguardo). Ma altrettanto si potrebbe dire dei pochi accenni a questioni di natura filosofica o relative al piano della comunicazione e rappresentazione, come noto di importanza cruciale per analizzare i problemi che
riguardano la diffusione del terrorismo.
Sebbene l’eccessivo interesse per il contesto internazionale fa sì che il quadro italiano sia
fin troppo sacrificato – ed è chiaro che un maggiore approfondimento delle vicende locali
avrebbe forse portato a raggiungere qualche risultato in più sul piano globale, visto l’ormai ovvio collegamento tra l’uno e l’altro ambito – le pagine più convincenti sono quelle relative ai
profondi cambiamenti sul piano dei diritti umani in seguito all’attentato dell’11 settembre
2001 e all’inizio della guerra in Iraq, e i limiti giuridici e strategici dell’antiterrorismo, in particolare nel periodo dell’amministrazione Bush e della scalata di episodi violenti, a Oriente come a Occidente.
Una appendice cronologica, qualche scheda riassuntiva di gruppi e protagonisti più noti, un elenco dei giornali e siti web; in poche parole, un apparato con dati informativi di base, facilmente consultabile e bene organizzato anche se di dimensioni ridotte, avrebbe aiutato chi legge a districarsi ormai tra le centinaia di sigle esistenti, molte delle quali in lingue non
occidentali.
Paola Di Cori
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I LIBRI DEL 2007
Francesco Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna, il Mulino, 344 pp., € 26,00
Questo di Traniello potrebbe innanzitutto essere definito un libro utile, se il giudizio non
fosse riduttivo. Utile rispetto alle polemiche in corso sulla storia dell’Italia unita e in particolare del Risorgimento nazionale da parte sopratutto di alcuni segmenti significativi del mondo cattolico. Riduttivo perché Traniello, raccogliendo e legando insieme una serie di suoi saggi, con un’ampia Introduzione, dà luogo ad un’interpretazione profonda e originale del cattolicesimo italiano nel suo rapporto con lo Stato nazionale.
Chiesa e mondo cattolico italiano non si sono presentati all’appuntamento dell’Unità in
modo univoco. Poiché Traniello percorre un lungo arco di avvenimenti storici, dalla Restaurazione al secondo dopoguerra, l’atteggiamento della Chiesa è stato anch’esso ondivago, ma
con alcune costanti di fondo che permangono fino ad oggi. Il mondo cattolico si presenta diviso fin dagli anni ’20 dell’800, segnato dal diverso orientamento di un De Maistre e di un
Manzoni. Ma quello che non si può dire è che il mondo cattolico non partecipi al processo
unitario. Lo snodo decisivo è costituito naturalmente dal ’48. Traniello, per la sua formazione di storico, conosce a menadito questo percorso. Rosmini e Gioberti risaltano nei suoi saggi in tutto il loro contributo pregnante al «paradigma risorgimentale». La polemica tra Gioberti e Taparelli d’Azeglio diviene poi la premessa della divaricazione interna al neoguelfismo,
nella sua componente clericale e in quella cattolico-liberale.
Diverso percorso quello del cattolicesimo politico, quale nasce dalle aperture del magistero leonino. In esso non c’è solo il tema del rapporto tra «nazione» e «popolo cattolico» a segnare la sua storia, ma quello del rapporto di autonomia che nasce dall’operare all’interno di istituzioni costituzionali liberali, in cui anzi il problema diventa quello di allargarne la funzione
dello spazio democratico in modo sempre più ampio, il che comporta il confronto, e con esso
il riconoscimento di altre forze costitutive della dinamica politica popolare e nazionale. Su quest’ultimo tema l’ultimo saggio su De Gasperi è davvero magistrale per finezza di analisi.
Altra linea interpretativa concerne invece il ruolo della Chiesa verso il nuovo Stato nazionale. Da Pio IX a Pio XII si intravede un’ambivalenza costante, costituita dall’oscillazione tra
un’accettazione del dato storico e l’affermazione continuamente riproposta d’un primato dello spirituale sul temporale. Ambivalenza che genera un’illusione che si replica a danno dell’influenza della Chiesa e che è segnata da due eventi pregnanti: l’alleanza perseguita da Pio XI
col fascismo, assieme all’illusione iniziale di poter con esso ristabilire il timbro di una «nazione cattolica»; poi l’avvento del dirompente processo di secolarizzazione sotto il governo di un
partito cattolico, che diventa contraddizione sofferta e irrisolta del pontificato di Pio XII.
Piero Craveri
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I LIBRI DEL 2007
Maria Antonietta Trasforini, Nel segno delle artiste. Donne, professioni d’arte e modernità,
Bologna, il Mulino, 204 pp., € 15,00
Riprendendo una nota provocazione lanciata da Linda Nochlin negli anni ’70 – «Perché
non ci sono grandi artiste?» –, Maria Antonietta Trasforini ripercorre la questione del genere
nella creazione artistica e nei mondi dell’arte a partire da una serie di domande formulate e discusse nell’ambito della cosiddetta «nuova storia dell’arte»: perché e in che modo le artiste sono state rimosse dalla storia? Cosa hanno prodotto nei secoli e come hanno espresso il proprio
talento? Quali condizioni materiali, sociali e culturali ne hanno limitato il percorso? Quali forme del potere hanno loro impedito la strada del professionismo? E, ancora: quanto il genere ha
determinato, oltre alla loro vicenda, quella più complessa del sapere disciplinare che va sotto il
nome di Storia dell’arte? Grazie alle sollecitazioni degli studi culturali e dei feminist studies, negli ultimi trent’anni queste domande sono state al centro di un dibattito volto non solo a recuperare le artiste alla storia, indicandone talento e produttività, ma anche a decostruire il canone di quella disciplina (la storia dell’arte, appunto) che nel tempo ha definito l’arte, le gerarchie artistiche, l’«essenza» dell’artista, la categoria del genio, la distinzione tra dilettantismo e
professionismo ecc. Tutte nozioni declinate al maschile o improntate ad una severa e rigida differenza di genere. La tensione a ricercare ragioni e modalità dell’esclusione delle donne dai
mondi dell’arte ha mostrato come discorsi e pratiche abbiano nei secoli creato molti ostacoli
alla partecipazione delle donne alla creazione artistica, e come l’arte abbia costituito uno spazio sociale, un campo simbolico e disciplinare prettamente e perentoriamente maschile.
Sociologa da anni impegnata nell’indagine del genere nell’arte, Trasforini riannoda i fili
del dibattito con quelli di una letteratura ricca e ormai consolidata (nel mondo anglofono)
sull’800, secolo che più di altri vide il crescere del numero delle donne impegnate nell’arte e
la loro contemporanea, progressiva marginalizzazione. Fu infatti allora che le donne reclamarono riconoscimento e visibilità per il proprio lavoro, relegato ad attività secondaria, amatoriale, non degna dell’attenzione degli artisti professionisti, né di quelle nuove figure che attraversavano, dominandolo, il settore: il gallerista e il critico d’arte. L’accesso a scuole e accademie, l’apertura di nuovi atelier, la possibilità di fruire dell’insegnamento del nudo e di partecipare a gare e competizioni, più in generale, la parità nelle condizione di promozione del talento divennero la richiesta principale che molte inoltrarono con la mediazione del femminismo, utile a conquistare una «stanza per sé» in un mondo che spingeva molte al travestitismo,
al separatismo, alla mobilità geografica per poter esercitare la propria professione. I risultati
della richiesta furono pochi se anche a Berthe Morisot, figura centrale nella nascita dell’impressionismo, venne disconosciuta la natura della propria professione una volta morta.
Chiara e stimolante panoramica degli studi, il libro offre spunti e idee a chi volesse cimentarsi con un tema che la storiografia italiana continua ad ignorare.
Simona Troilo
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I LIBRI DEL 2007
Enzo Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1944-1945, Bologna, il Mulino,
296 pp., € 12,00
A ferro e fuoco ripercorre il periodo 1914-45 rileggendolo alla luce di una categoria contrastata e ampiamente dibattuta negli ultimi anni, quale quella di guerra civile. Il percorso
scelto da Traverso si vuole all’incrocio di diversi metodi e chiavi di interpretazione, tra storia
sociale, storia culturale e teoria politica. La tensione analitica non basta però a spiegare le motivazioni di questo libro, come l’a.: Traverso racconta infatti sia pur brevemente nell’introduzione quale sia la storia – la sua storia, tra Gavi in Piemonte e le sue scelte politiche nell’Italia
degli anni ’70 – che lo ha portato a scrivere di queste vicende e allo stesso tempo si giustifica
per aver scelto di parlare anche degli orrori e delle violenze di cui anche antifascisti, repubblicani spagnoli, partigiani si sono macchiati, senza per questo volerli in qualche modo equiparare con altri orrori ed altre violenze di quegli anni. Una scelta che fa apparire questo libro un
punto di arrivo etico-politico per l’a. e un tentativo di fare i conti con una vicenda che è anche propria.
Il libro si snoda attraverso otto capitoli, nei quali trovano spazio in particolare la ricostruzione delle forme e delle pratiche della violenza parallelamente alla questione degli immaginari e delle culture che aprono la strada alla violenza. Questa scelta corrisponde all’enfasi, già
enunciata in apertura, di non voler costruire un libro dalla parte delle vittime – categoria diventata centrale soprattutto nel dopo guerra fredda – ma soprattutto sugli attori, a prescindere dalle loro posizioni politiche, ma analizzando le loro pratiche politiche, le motivazioni e le
culture che li accompagnano. In qualche modo questa scelta, che pure avviene in un contesto
in cui l’a. rifiuta una lettura del ‘900 come secolo dell’orrore o della violenza, mette però al
centro della narrazione proprio questi temi, pur contestualizzandoli. Culture, memorie, fantasie, pratiche appaiono legate assieme e fanno parte di un universo nel quale però sono gli
intellettuali prima ancora che i politici i protagonisti della narrazione.
L’enfasi sui meccanismi della violenza – siano essi culturali o tecnici – fa di questo libro
quasi un prolungamento di un altro libro di Traverso, La violenza del nazismo (Bologna, il Mulino, 2002), che rappresenta uno dei punti di riferimento obbligati per chi, in questi anni, si
voglia avvicinare al problema della violenza nell’Europa – e non solo nella Germania – degli
anni ’20 e ’30. Diversamente da La violenza del nazismo tuttavia, la scelta di aprire l’attenzione a tutto il trentennio permette all’a. di fare i conti con una serie di problemi che hanno a
che fare anche con la memoria del periodo e con gli effetti che determina – tanto nel campo
della destra che, soprattutto, della sinistra –, e di riflettere soprattutto sul mancato riconoscimento degli intellettuali antifascisti dei crimini perpetrati dallo stalinismo, come pure sulla rimozione, altrettanto duratura, e per certi versi ancora più enigmatica, della soluzione finale
portata avanti dal nazismo nei confronti soprattutto del popolo ebraico.
Giulia Albanese
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I LIBRI DEL 2007
Alberto Tronchin, Un «giusto» ritrovato. Karel Weirich: la Resistenza civile e il salvataggio
degli ebrei in Italia, Treviso, Istresco, 149 pp., € 12,00
Questo agile volumetto ricostruisce le vicende di Karel Weirich, giornalista ceco-slovaco
(questa è la grafia corretta) residente a Roma durante il ventennio e legato all’ambiente vaticano.
Dopo l’invasione nazista della Ceco-Slovachia, tramite i suoi contatti con gli ambienti giornalistici cechi, Weirich comincia ad inviare in Vaticano informazioni sulla sua patria occupata e nella seconda metà del 1940 fonda l’Opera di San Venceslao per «la gestione di un fondo destinato
ad opere di carità, al culto di San Venceslao, re e Santo Patrono Nazionale Ceco, ed al mantenimento dell’altare a lui dedicato presente nella basilica di San Pietro» (p. 60). L’attività dell’Opera
si concentra nel soccorso dei connazionali: si trattava nella maggioranza dei casi di ebrei che avevano abbandonato la madre patria dopo l’invasione nazista per cercare rifugio o una via di fuga
in Italia e che dopo il giugno del 1940 erano stati internati nei campi fascisti. Dato che l’Opera
era riuscita ad impiantare un vasto lavoro di assistenza, Weirich decise di creare un consiglio direttivo, composto, oltre che dal fondatore, da padre Josef Olšr e Viktor Miller.
L’attività di Weirich e dell’Opera si intrecciò con tutto quel mondo impegnato nell’assistenza dei profughi molto attivo a Roma per tutto il periodo della guerra: basti pensare alla Croce Rossa, alle organizzazioni cristiane ma soprattutto alla DELASEM, organizzazione di autosoccorso
ebraica. Dopo l’8 settembre 1943 l’Opera non divenne illegale per il suo carattere ufficialmente
«ariano» e continuò la sua attività di assistenza in bilico tra forme legali (invio di aiuti agli ebrei
ceco-slovachi internati) e forme clandestine (reperimento e distribuzione di documenti falsi). La
cosa non sfuggì ai nazisti che il 1 aprile 1944 arrestarono Weirich. L’intervento del Vaticano gli
evitò la fucilazione. Questa interessante vicenda è stata ricostruita dall’a. sulla base dell’archivio
privato di Weirich, sfuggito miracolosamente al suo arresto. Una scelta di questi documenti è stata pubblicata in un’ampia appendice. Oggi copie di queste interessanti carte, che potrebbero essere ancora consultate con profitto, si trovano depositate presso l’Istresco.
Questo episodio rappresenta un tassello dell’assistenza e della resistenza a Roma durante
la guerra: esperienza capillare, istituzionale e privata, dai tratti molecolari e per questo in parte sfuggente, che attende ancora di essere inquadrata nella sua complessità, in una città in cui
metà della popolazione era nascosta nella casa dell’altra metà, come sostenevano non senza ragione le autorità naziste. In particolare l’esperienza dell’accoglienza nei nove mesi dell’occupazione, attende ancora di essere studiata sistematicamente. Andrebbero costruite delle tipologie del soccorso, per tentare di mettere in luce quali fattori e quali dinamiche determinavano scelte difficili prese in condizioni estreme, in cui si metteva a repentaglio la vita propria e
delle persone con cui si viveva a contatto, oppure scelte oculate in prospettiva di un ribaltamento delle posizioni determinato dalle alterne fortune militari.
Gabriele Rigano
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I LIBRI DEL 2007
Andrea Ungari, Un conservatore scomodo. Leo Longanesi dal fascismo alla Repubblica, Firenze, Le Lettere, 111 pp., € 12,50
Questo volumetto, dedicato all’attività di organizzatore di cultura e in senso lato politica di Leo Longanesi dal 1943 al 1949, consta di un’Introduzione e di tre capitoli. Nel primo,
Fuga in Italia, lo vediamo nella Napoli occupata dagli Alleati dove è appunto fuggito dalla Roma occupata dai tedeschi. Intellettuale già fascistissimo, poi descritto con qualche esagerazione come frondista, non riesce a farsi accettare dagli antifascisti maturando una duratura antipatia nei loro confronti: non solo verso quelli di sinistra, ma anche verso i crociani. Tornato
a Roma al seguito delle armate anglo-americane, continua a sentirsi estraneo alla «nuova società politica e intellettuale» del post-fascismo (p. 34) e decide di trasferirsi a Milano. Qui fonda la rivista «Il Libraio», cui è dedicato il secondo capitolo del saggio di Ungari. È questa la
fase in cui ritrova il gusto della politica ponendosi a fiancheggiatore della DC degasperiana in
quella che descrive come una lotta per la vita o per la morte contro il comunismo; ma che lo
vede impegnatissimo nella polemica contro i tanti ex allievi del «Mondo» che si sono messi alla ricerca di una terza via antifascista, laica, non sempre e non pregiudizialmente anti-comunista. Li definisce «compagnia liberale da prendere a calci nel sedere» (p. 67). Questa persistente vena polemica contestatrice anti-antifascista lo porta a fondare la casa editrice che da
lui prende il nome, cui è dedicato il terzo capitolo del lavoro che qui presentiamo.
Come accade a molti di coloro che si impegnano a scrivere di un personaggio, anche Ungari tende a simpatizzare con lui. Ciò non gli impedisce di rilevarne il tratto umorale, la superficialità, la rancorosità. Probabilmente Ungari stesso non sarà d’accordo, ma a me sembra
che dalle sue pagine esca ben chiara la narcisistica autocentratura di un intellettuale che era
stato al centro dei reticoli cruciali di un regime dittatoriale, e che giudicò tutto partendo dalla sua personale marginalità rispetto ai circuiti del nuovo regime, finendo col dare un grande
contributo alla banalizzazione e del presente e (ancor più) del passato. È vero d’altronde che,
come Ungari rileva in conclusione del saggio, l’operazione si rivelò feconda, ponendo le basi
per il salvataggio e lo sviluppo in età repubblicana di «un pensiero conservatore più o meno
compromesso col fascismo» (p. 106).
Salvatore Lupo
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I LIBRI DEL 2007
Isabella Valentini, Storiografia e costruzione della nazione tra Risorgimento e post-fascismo,
Roma, Nuova Cultura, 337 pp., € 15,50
Il volume, nato da una tesi di dottorato, ha inteso analizzare l’evoluzione delle modalità
culturali della costruzione dell’idea di nazione nella storiografia italiana nel lungo periodo. L’ipotesi di partenza dell’a. è che l’identità nazionale sia fondata sulla storia e che quest’ultima
sia indissolubilmente legata alla politica in quanto crocevia fra interpretazione del passato e
orientamento dell’azione presente. Il libro è un’ambiziosa ricostruzione degli elementi di continuità che hanno legato il fenomeno del nation builiding agli studi storici. L’a. ha voluto mettere a fuoco il ruolo attivo dello storico nell’elaborazione «mitica» del concetto di nazione: la
storiografia passò da un attaccamento emotivo alla patria, proprio del periodo risorgimentale e post-risorgimentale, ad un progressivo e sempre più marcato desiderio di espansionismo
oltre i confini nazionali, che con il fascismo ebbe la sua massima espressione. Dopo la «guerra civile», secondo l’a., l’idea di nazione subì uno sgretolamento nel proprio valore sia come
costruzione mitica sia come elemento fondante del vivere civile. L’ampio arco cronologico
considerato attraversa – ma purtroppo tocca spesso troppo debolmente – molte cesure ideologiche e politiche nazionali. La ricerca appare poco persuasiva nel privilegiare quasi esclusivamente il rapporto della cultura italiana con l’idealismo non mettendo in luce altre correnti
in cui pure si aprirono discussioni storiografiche intorno al tema della nazione. Manca un’analisi più estesa delle relazioni che gli studiosi intrattennero con l’ambito europeo. Nei primi
due capitoli, che costituiscono l’asse portante del volume, è messo a fuoco il ruolo preponderante che l’idealismo ebbe in Italia nel diciannovesimo secolo nelle sue matrici napoletane e
piemontesi. Un’influenza che fu determinante, secondo l’a., anche durante il fascismo, per
questo motivo nel terzo capitolo è proposta una lettura inedita di Gioacchino Volpe, cercando di ascrivere lo storico abruzzese non tanto all’indirizzo economico-giuridico, ma avvicinandolo alla tradizione idealistica. Nell’ultimo capitolo è poi affrontata dal medesimo punto di
vista la parabola intellettuale dell’allievo Federico Chabod: «guardiano» nel secondo dopoguerra di un idealismo di stampo crociano. La lettura un po’ troppo rigida e monodirezionale della questione centrale, la struttura costruita a «medaglioni» e lo scarso apparato bibliografico di riferimento rendono nel complesso il testo fragile da un punto di vista interpretativo.
Nonostante questi elementi alcuni spunti rimangono interessanti come il rapporto privilegiato, proprio della tradizione italiana, tra politica e storiografia che fu certamente un forte elemento di continuità anche nel lungo secondo dopoguerra, influenzando anche gli studiosi che
maggiormente sentirono i limiti della concezione etico-politica, una relazione che spesso ostacolò le spinte innovative che provenivano dall’Europa.
Margherita Angelini
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I LIBRI DEL 2007
Paola Valentini, Presenze sonore. Il passaggio al sonoro in Italia tra cinema e radio, Prefazione di Pierre Sorlin, Firenze, Le Lettere, 273 pp., € 19,50
Il volume rappresenta un lavoro di storia e critica del cinema che affronta le complesse
questioni estetiche legate all’avvento del sonoro nel cinema italiano negli anni ’30: un uso
combinato di immagine, musica, parola che provoca nello spettatore una quantità di stimoli
inimmaginabile nella precedente età del muto, ulteriormente amplificata dal sempre più frequente riferimento al medium radio nelle pellicole cinematografiche e al mondo del cinema
nei programmi radiofonici dell’EIAR.
La novità di quest’opera consiste soprattutto nell’individuare nell’introduzione del sonoro all’interno della cinematografia italiana «la vera e propria nascita di una produzione nazionale più solida e strutturata» (p. 29). La tesi viene sviluppata analizzando le implicazioni economiche e tecniche che negli anni ’30 legano sempre più le sorti delle produzioni cinematografiche alla vicenda storica dell’EIAR, e rintracciandone la base teorica sin dalle prime teorie
futuriste che dal Manifesto del 1909 individuavano nel «rumore» la «realtà acustica del mondo moderno» (pp. 84-85).
Il suo limite è di non mettere a fuoco il progetto di politica culturale che, negli anni della costruzione dello Stato totalitario, anima questa nazionalizzazione del cinema sonoro. Numerose sono dunque le sollecitazioni e molteplici gli interrogativi sul tema fascismo-uso politico del suono che rimangono aperti invitando a battere altrettante piste d’indagine storiografica. La prima riguarda la necessità di differenziazioni e relative periodizzazioni inerenti all’uso del sonoro nei diversi ambiti di produzione fascista, come nel caso del LUCE, rispetto
alle altre società di produzione cinematografica. Queste informazioni consentirebbero di comprendere se e in che modalità vi fosse anche nel settore della cinematografia un consapevole
uso del suono da parte del regime a scopi propagandistici, fornendo un elemento significativo alla ricostruzione del disegno politico che nel 1928 ha portato alla creazione della Discoteca di Stato e negli anni ’30 alla progressiva fascistizzazione dell’EIAR. A questo tema si lega
quello nevralgico dell’introduzione delle tecniche di doppiaggio, la cui ricostruzione storica
fornita da Valentini lascia intuire, ma non si addentra nell’interessante progetto censorio e autarchico legato alla costruzione dei primi stabilimenti di dubbing per volontà di Mussolini.
Infine rimane da approfondire il più complesso e affascinante quesito su quali siano state nella popolazione le ricadute sociali, culturali e politiche provocate dalle sollecitazioni provenienti dall’uso congiunto e dalle frequenti interferenze tra i nuovi media – cinema e radio;
se e in che termini gli stimoli provocati da queste «presenze sonore» si siano tramutati in altrettanti strumenti di crescita democratica in grado di sfuggire allo stesso controllo del regime fascista.
Marilisa Merolla
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I LIBRI DEL 2007
Nelly Valsangiacomo (a cura di), Le Alpi e la guerra. Funzioni e immagini, Lugano, Casagrande Editore, 389 pp., € 20,00
Questo testo presenta gli atti di un convegno svoltosi nel 2004 in Svizzera, all’interno di
un progetto dedicato alla memoria delle Alpi attraverso e oltre i confini, un tema che ha assunto un peso significativo anche nell’attività più recente della SISSCo. L’interesse per questa
pubblicazione, dunque, va al di là dei suoi contenuti talvolta discontinui e un po’ frammentari, perché segnala una crescente strutturazione nello spazio pubblico della ricerca europea di
una prospettiva transnazionale nello studio di determinate e peculiari aree come l’arco alpino, delle loro interdipendenze e relazioni, culture e identità. Le questioni sono evidentemente molte e, come in tutti i convegni, trattate a un diverso livello di approfondimento e con
una diversa capacità analitica o intento comparativo. Da questo punto di vista l’assenza dell’area tedesca e slovena (e soprattutto della Grande guerra) è purtroppo un limite. La struttura del libro è su tre parti: la seconda guerra mondiale; il «vivere la guerra alla frontiera alpina»
a quel tempo; le immagini e la memoria delle Alpi.
Nel testo sono riscontrabili elementi di ricostituzione di un percorso identitario macroregionale delle Alpi e delle sue società e culture locali. Un vero «ponte simbolico» fra le nazioni, che trova segnali ricorrenti negli ultimi anni a più livelli, fra cui quello politico e quindi
anche sul piano storiografico proprio a partire dalla peculiarità svizzera, un ponte sanguinosamente condizionato nel passato dalle dinamiche belliche (le Alpi come «centro» di esse).
Questa esperienza macro-regionale di ricerca in ogni caso è ben modulata attorno a nuove o
ritrovate permeabilità comunicative della società locale rispetto alle fratture delle identità nazionali (la tradizione degli scambi legali e illegali e le Alpi come rifugio, ma anche le donne
antifasciste «di frontiera» o la riflessione istituzionale sull’autonomia e sul federalismo), tutti
elementi che ridefiniscono e riscoprono una specificità dei confini nell’arco alpino quale «vago pascolo», come recita il titolo di un saggio introduttivo. Il volume tocca a più riprese la
questione cruciale dell’impatto che la seconda guerra mondiale ha avuto nella modernizzazione delle Alpi sul piano simbolico e funzionale, grazie all’apertura forzata da essa imposta. Un
rilievo peculiare hanno i saggi legati alle questioni militari, sia di carattere più specialistico ma
comunque sensibili alla rappresentazione simbolica (la posizione internazionale del Piemonte, il «ridotto alpino repubblicano» o le truppe alpine francesi nel 1940); sia quelli più attenti al mutamento dei costumi legati ad esempio alla presenza in Svizzera di rifugiati stranieri e
prigionieri evasi, ma anche alla circolazione turistica dei militari alleati successiva alla guerra,
portatrice di stili di vita e di confronti inediti per l’epoca. Un’attenzione specifica è infine dedicata alle istituzioni culturali ed alle strategie mediatiche, siano la Radio della Svizzera italiana durante il conflitto, la memoria museografica post-bellica, la letteratura e la produzione intellettuale.
Pietro Causarano
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I LIBRI DEL 2007
Loretta Valtz Mannucci, La genesi della potenza americana. Da Jefferson a Wilson, Milano,
Bruno Mondadori, IV-302 pp., € 22,00
L’a. ha insegnato a lungo Storia degli Stati Uniti, dapprima all’Università di Lecce, poi alla Statale di Milano. Qui, a cavallo fra gli anni ’70 e gli ’80, ha dato vita al Milan Group in
Early United States History, una significativa occasione di incontro e discussione tra studiosi
statunitensi, europei e italiani, dalla quale sono passati alcuni dei più importanti storici sociali d’oltre Atlantico come Herbert G. Gutman e Alfred Young. Questo libro riflette la fitta rete di esperienze che Valtz ha costruito nel tempo tra le due sponde, all’intersezione tra storia
sociale, politica e culturale, quest’ultima dimensione essendo quella che la studiosa ha finito
sempre per privilegiare. Il libro ha per oggetto la progressiva costruzione degli Stati Uniti come grande potenza vista anzitutto dal lato di «mentalità, stile di pensiero, comportamenti»,
ovvero «tutto un insieme di elementi personali e sociali» che «sottende gli aspetti materiali e
istituzionali». Nella convinzione che «per ricostruire la genesi del potere americano dobbiamo allora addentrarci nella storia di quel paese come viaggiatori curiosi, aperti a soffermarci
su cose apparentemente frivole e sorvolare su altre che ci vengono indicate come “monumenti”». È un «viaggio» che «inizia nei primi anni dell’Ottocento in un paese fragile – aggrappato all’Atlantico – ancora scosso dallo scandalo di un vicepresidente appena assolto dall’accusa di alto tradimento» (p. I).
Quasi trecento pagine dopo, al capodanno del 1919, ritroviamo gli Stati Uniti «certamente Potenza, ma con modalità, remore e idiosincrasie innate che li differenziavano dai modelli
tradizionali e che avrebbero reso arduo ogni percorso sia per loro stessi sia per tutti gli altri paesi e popoli» (p. 287). Valtz rimescola costantemente le carte tra alto e basso, grandi vicende e
piccoli episodi dimenticati, «padri fondatori» e oscuri «militi ignoti», senza mai perdere di vista «neri, indiani, lavoratori, i cui propositi e le cui visioni della realtà sono fondamentali nella formazione delle civiltà del paese, anche – o particolarmente – quando vengono compiuti
sforzi coscienti, incruenti o violenti, per risospingerli ai margini del discorso nazionale» (p. II).
Il risultato è una narrative fluida e avvincente, nella quale, ad esempio, l’evoluzione del
nazionalismo USA viene restituita attraverso la ricostruzione, nell’arco di oltre un secolo, dalla guerra del 1812 all’intervento nella Grande guerra, dell’immagine dello zio Sam (pp. 21,
50, 193, 275). In pochi, efficaci tratti, Valtz ripercorre gli usi che ne sono stati fatti, gli attori concreti che quell’immagine hanno proposta, gli interessi e la passioni che essa ha servito e
animato. E anche se talvolta il libro risente di un mancato confronto con la storiografia più
recente (ad esempio rispetto al leader populista William Jennings Bryan o alla stessa nozione
di «impero»), esso conserva nondimeno una sua cifra di indubbia originalità.
Ferdinando Fasce
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I LIBRI DEL 2007
Antonio Varsori (a cura di), Alle origini del presente. L’Europa occidentale nella crisi degli
anni Settanta, Milano, FrancoAngeli, 299 pp., € 21,00
Secondo un’immagine tradizionale, gli anni ’70 sarebbero stati un periodo di stasi nel processo di integrazione. In questo volume, frutto di un convegno padovano del 2005, si propone una
visuale alternativa e stimolante, che nell’insieme delinea un superamento di quell’approccio.
Facendo tesoro di una ampia letteratura anglosassone sulle relazioni internazionali, i dieci saggi che compongono il volume, frutto di originali e stimolanti ricerche di archivio (a cui
si aggiungono l’Introduzione del curatore e i commenti di F. Romero e P. Ludlow), convergono nel sottolineare le modifiche del rapporto tra relazioni internazionali e processo di integrazione tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70.
Nella prima parte, i saggi di Bernardini, Del Pero, Garavini, Cerami e Romano aprono
un ventaglio di questioni solo apparentemente collaterali alle politiche comunitarie, quali l’Ostpolitik di Brandt, la Conferenza di Helsinki, la costituzione di nuovi soggetti nel «Terzo
Mondo», la modifica del ruolo della Turchia. Il caso portoghese è oggetto del saggio di Del
Pero, da cui si evincono i timori statunitensi di una diluizione del proprio potere nell’Alleanza atlantica e la progressiva crescita dell’influenza della Germania.
Come suggeriscono Varsori, Romero e Ludlow, la crisi degli strumenti dell’egemonia statunitense crea dei vuoti a cui la Comunità europea viene chiamata a rispondere dalle pressioni dei suoi membri. I saggi della seconda parte affrontano le risposte comunitarie alle sfide degli anni ’70, a partire dal vertice dell’Aja, a cui è dedicato il contributo di M.E. Guasconi, per
proseguire con la cooperazione politica (D. Zampoli), i primi tentativi di politica industriale
(L. Mechi e F. Petrini), gli armamenti (D. Burigana e P. Deloge), le politiche educative (S.
Paoli). Nonostante l’inevitabile eterogeneità, ne emergono sia l’estensione crescente delle funzioni affidate alla cooperazione europea sia le resistenze degli Stati nazionali ad una cessione
ampia di poteri a Bruxelles. Di qui si delinea una dinamica del rapporto tra sovranità e sovranazionalità che appare più ricca di quella «federalista», in quanto è proprio la crescita delle
competenze comunitarie a dar conto delle resistenze statali alla cessione di poteri federali alla
Commissione. Le tensioni interne alla Comunità emergono allora come «crisi di crescita» e
non come meri «arretramenti» del processo di integrazione.
Pare al recensore che queste indagini aprano la via al dialogo tra un approccio all’integrazione centrato sugli Stati e la scuola di international political economy, che insiste sulle trasformazioni del capitalismo e delle forme della sua regolazione internazionale. Molti interrogativi promettenti ne risultano, circa le capacità di comprensione della crisi da parte dei governi
e di adattamento di culture politiche consolidatesi all’ombra della protezione statunitense al
quadro risultante dallo shock petrolifero e dalla crisi del regime di Bretton Woods, e l’adeguatezza delle risposte offerte dalla Comunità.
Carlo Spagnolo
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I LIBRI DEL 2007
Maurizio Vaudagna (a cura di), The Place of Europe in American History: Twentieth-Century Perspectives, Torino, Otto Editore, 403 pp., € 13,00
Questa interessante raccolta di saggi costituisce un importante contributo al tentativo di
ridefinire ed ampliare l’agenda degli studi sulle relazioni transatlantiche. Come viene notato
nell’Introduzione, il peso e lo spazio dell’Europa nella storia americana del XX secolo si sono
progressivamente ridotti, per una serie di motivi culturali e politici: da un lato, la nuova storiografia americana ha cercato deliberatamente, attraverso un approccio multiculturale e pluralista, di smantellare la tradizionale versione delle origini degli Stati Uniti come il prodotto
di una fase dell’espansione dell’Europa; dall’altro, lo spostamento del baricentro politico degli Stati Uniti verso il Sud e il Sud-Ovest ha creato un clima culturale che ha reso ancora più
difficile preservare quella immagine tradizionale.
Questo volume si colloca invece all’interno di quegli studi che mirano a contrastare tali
orientamenti e a recuperare spazio e importanza allo studio delle relazioni transatlantiche.
Gran parte dei saggi contenuti nella raccolta cerca di conseguire quest’obiettivo in modo del
tutto originale e in un certo senso in controtendenza, rispetto alla crescente propensione a studiare il fenomeno dell’«americanizzazione» dell’Europa. Gli aa. si sforzano infatti di sottolineare l’influenza europea nell’evoluzione culturale, storica e politica degli Stati Uniti nel corso del XX secolo, analizzando gli scambi culturali e intellettuali, le prospettive politiche, le interazioni nell’evoluzione delle rispettive politiche sociali, e l’emigrazione. I saggi spaziano così attraverso campi e settori di studio molto diversi. Giuliana Muscio, ad esempio, analizza il
ruolo degli attori europei nella storia del cinema americano, sottolineando la loro molteplicità di funzioni – ad un tempo strumento di legittimazione culturale ma anche di penetrazione di potenziali mercati stranieri. Marco Mariano si sofferma sul ruolo della rivista «Life» e
sulla personalità di Henry Luce nel tentativo di costruire e divulgare un’immagine della comunità atlantica che gli Stati Uniti intendono sviluppare e guidare all’indomani della seconda guerra mondiale. Mario Del Pero, in uno dei capitoli più interessanti, riflette sul tentativo
di Henry Kissinger di de-ideologizzare e quindi in un certo senso di europeizzare la politica
estera americana, spostandola su un piano apertamente realista: la veemente reazione dei neoconservatori avrebbe rapidamente provocato il fallimento di questo esperimento, riducendolo sostanzialmente a una parentesi nella storia delle relazioni degli Stati Uniti con il resto del
mondo. Elisabetta Vezzosi concentra invece l’analisi sul piano della legislazione sociale, interrogandosi sulle difficoltà che ancora oggi gli Stati Uniti riscontrano nell’introdurre una adeguata politica di tutela della maternità del tipo praticato nella maggior parte degli Stati europei. Nell’insieme, la ricchezza e la varietà dei saggi contenuti nel volume offrono numerosi
spunti di riflessione e costituiscono un apporto originale e interessante allo studio delle relazioni transatlantiche.
Leopoldo Nuti
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I LIBRI DEL 2007
Ferruccio Vendramini, Belluno nel Novecento. Antonio e Flavio Dalle Mule tra socialismo,
azionismo e socialdemocrazia, Verona, Cierre, 388 pp, € 14,00
Il volume ripercorre la vicenda biografica di Antonio e Flavio Dalle Mule – padre e figlio
– due figure di spicco nella Belluno del ’900. Antonio (1882-1956), farmacista, prima socialista, dopo la lunga sospensione coatta del fascismo entra nel Partito socialdemocratico; Flavio (1912-2000), avvocato, esponente fin dal ’42 del Partito d’Azione, alla cui esperienza resterà sempre legato, poi anch’egli nelle file socialdemocratiche, aderisce infine, nella seconda
metà degli anni ’70, al Partito repubblicano. Entrambi attivi protagonisti della vita amministrativa locale che vede Flavio ricoprire tra l’altro, per brevissimo tempo, la carica di sindaco.
L’a., Ferruccio Vendramini, direttore per vent’anni dell’Istituto storico bellunese della Resistenza e animatore, dal 1980, della rivista «Protagonisti», è studioso della storia moderna e
contemporanea di Belluno e del suo territorio. Lavoro centrato sulla realtà locale e su una lunga consuetudine di ricerca, dunque, il volume si propone anche come una riflessione di più
ampio respiro sulle dinamiche della società civile italiana dell’ultimo secolo e delle sue classi
dirigenti, per una migliore comprensione del nostro presente.
Due, in particolare, gli aspetti che ne caratterizzano la struttura narrativa. Da un lato, appunto, la continua spola tra vicenda biografica e vicenda cittadina, e tra questa e il più vasto
contesto nazionale in cui sempre è collocata e trova spiegazioni, pur nell’estremo dettaglio del
racconto. Dall’altro il robusto impianto documentario che accompagna e puntella ogni affermazione, a cui viene lasciato ampio spazio sia nelle citazioni del testo che, soprattutto, nel fitto apparato delle note: una «debolezza» di cui l’a. chiede «venia» nella sua Postfazione (accanto a un elogio della «lentezza», dote preziosa per il mestiere di storico), ma sicuramente un vero serbatoio di indicazioni per chi voglia, da qui, ripartire per ulteriori ricerche.
Ampia e ricca di spunti interessanti in più direzioni la gamma di questioni prospettate
dall’angolo visuale dei due protagonisti, oltre all’analisi delle dinamiche interne ai partiti di
cui sono esponenti. Innanzi tutto il nodo non risolto, nell’Italia repubblicana, del nesso tra
centro e periferia che trova, particolarmente in Flavio Dalle Mule, una delle sue declinazioni
nell’attenzione per le questioni ambientali e territoriali (dalla battaglia legislativa per la salvaguardia della montagna, schiacciata negli anni del boom tra abbandono e consumo turistico,
alle discussioni sulla nascita dell’Ente Regione, fino all’immane tragedia del Vajont, nel 1963,
a cui Flavio partecipa come avvocato in difesa dei superstiti). O, ancora, il nesso tra politica e
professioni, che ci riporta alla domanda sulla fisionomia delle élites dirigenti locali, a partire
da quelle farmacie di inizio ’900 «veri punti di incontro e scambio di idee tra la gente» (p. 22),
dove il giovane Antonio matura le idee socialiste.
A completare le biografie un inserto di illustrazioni e l’appendice documentaria, con materiale tratto dall’archivio privato della famiglia.
Lidia Piccioni
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I LIBRI DEL 2007
Claudio Vercelli, Israele. Storia dello Stato. Dal sogno alla realtà (1881-2007), Firenze,
Giuntina, 481 pp., € 18,00
Questo libro vuol fornire una base informativa e analitica sullo Stato di Israele, che, secondo l’a., in Italia viene più spesso giudicato che studiato. La lettura della storia di Israele che
ci viene offerta è basata su molte fonti secondarie (soprattutto in italiano, ma non solo).
Le prime due parti del libro sono dedicate al contesto storico della nascita dello Stato. Esso viene presentato in due parti: la nascita del «sogno» sionista di uno Stato-nazione ebraico e
l’immigrazione in Palestina degli ebrei, sullo sfondo dell’antisemitismo e del nazismo, sottolineando il carattere collettivo dell’insediamento ebraico e le trasformazioni ideologiche che l’accompagnavano. La terza e principale parte è consacrata alla storia dello Stato – ai suoi organi,
al suo regime giuridico – e alla sua società. Unita nella situazione di guerra, la società israeliana
è tuttavia molto pluralista di fronte alle tante contraddizioni interne dovute alla politica di giudeizzazione dello Stato su basi religiose o etniche. Vercelli comincia la sua narrazione con gli anni formativi del complesso processo di costruzione dello Stato e della nazione e li colloca in un
quadro più generale, regionale e mondiale. Ma l’a. ignora alcuni aspetti che sono ormai considerati cruciali nella costruzione nazionale. Per esempio egli riduce la complessità delle «guerre
di confine» (Benny Morris) degli anni ’50 a una semplice strategia di sicurezza e minimizza l’impatto del regime militare cui erano sottoposti i cittadini israeliani arabo-palestinesi fino al 1966
(politica che serviva, oltre che per il controllo del territorio, anche per confiscare le loro terre e
rendere i loro coltivatori dipendenti dell’amministrazione militare). Questi e altri aspetti sono
importanti non tanto per la discussione sul conflitto israelo-palestinese, che l’a. non mette al
centro di questo libro, ma proprio per capire come si sono forgiate la società israeliana e le sue
istituzioni. Una società nella quale il 18 per cento dei cittadini non è stato integrato nella nuova nazione, i cui confini non sono stati fissati dalla sua fondazione. La dinamica di questa inclusione/esclusione geografica e politica, nonché giuridica, è rilevante per spiegare il peso della
Shoah, della religione e della storia nella società israeliana e nelle sue istituzioni, nonché sulla
stessa definizione dell’ebraismo come nazionalità, aspetti sui quali si riflette nel libro.
Una buona metà del testo è dedicata agli avvenimenti politici dal 1967 in poi. Intrecciando la politica regionale e globale con la politica israeliana, la globalizzazione con la fine dell’opposizione fra sinistra e destra Vercelli ha scelto una periodizzazione interessante, che vede
negli anni 1978-1982 «gli anni della pacificazione armata e della stabilizzazione territoriale»
con i paesi arabi, negli anni 1982-1995 «la palestinesizzazione del conflitto con gli arabi» e
negli anni 1995-2006 la globalizzazione del paese. In questa seconda parte l’a. ci offre una sintesi molto interessante di quarant’anni di politica israeliana e della nazionalità ebraica che si
viene forgiando. Ma anche secondo la sua chiave di lettura esse si svolgono soprattutto intorno al conflitto con i palestinesi.
Raya Cohen
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I LIBRI DEL 2007
Paolo Veziano, Sanremo. Una nuova comunità ebraica nell’Italia fascista. 1937-1945, Prefazione di Alberto Cavaglion, con un contributo di Giulio Schiavoni su Walter Benjamin a
Sanremo, Reggio Emilia, Diabasis, 274 pp., € 21,00
Paolo Veziano ha ricostruito, sulla base di una solida e variegata base documentaria e di un’accurata conoscenza della bibliografa più aggiornata, la storia della nascita di una nuova comunità
ebraica in età fascista. Lo studio si inserisce nel contesto delle ricerche sulla genesi, gli effetti e i
postumi delle leggi razziali fasciste, di cui ricorre quest’anno il settantesimo anniversario. Più in
particolare, il contributo di Veziano getta luce sulle vicende degli ebrei stranieri, ancora poco indagate a parte il punto di riferimento costituito dai lavori di Klaus Voigt. La Riviera di Ponente,
a causa della sua posizione geografica, costituì un punto di raccolta «naturale» per immigrati regolari e clandestini, in transito o decisi a stabilirsi nel paese. Come sottolinea Alberto Cavaglion
nella sua Prefazione, al centro della storia della comunità di Sanremo c’è il problema «di lunga durata» dei «rapporti fra gli ebrei italiani e i correligionari provenienti da aree geografiche segnate da
ondate di persecuzioni antisemite» (p. 10). Una questione su cui l’a. non riflette direttamente, ma
che meriterebbe ulteriori approfondimenti al di là dello specifico caso sanremese.
La Riviera era anche un luogo di villeggiatura e di cura che aveva attratto a partire dalla
metà dell’800 numerosi stranieri, in particolare inglesi. Inoltre la fondazione di Imperia nel
1923 fece sperare in un rapido sviluppo dell’area, e attrasse – fra gli altri – ebrei stranieri e italiani. Dal 1925 in poi Veziano nota un incremento degli arrivi, con punte per quanto riguarda gli stranieri nel 1933, e poi tra 1936 e 1938.
La Comunità nacque come sezione della Comunità genovese il 23 aprile 1937. Secondo
l’a., si può stimare che nell’agosto del 1938 la Comunità contasse 113 membri, in prevalenza appartenenti alla media borghesia. Diversamente da quanto avveniva nella maggior parte
dei centri ebraici italiani, la vita religiosa era attiva, e mantenuta vivace soprattutto dalla presenza degli stranieri e da un personaggio singolare come il cabalista Oskar Goldberg. Altre figure note abitarono Sanremo in quegli anni, fra cui meritano di essere ricordati Serge Voronoff, scienziato russo pioniere dei trapianti alla ricerca dell’eterna giovinezza, e Walter Benjamin, che alloggiò nella cittadina nella pensione tenuta dalla sua ex moglie Dora Kellner. Un
dato segnalato dallo studio di Veziano riguarda proprio la massiccia presenza di lavoro femminile nel settore turistico-alberghiero, in particolare negli anni ’30. In questo modo trovarono mezzi di sussistenza molte donne vedove o divorziate. Nonostante il grande interesse del
tema, le notazioni proposte da Veziano sulla tradizione ebraica e sui ruoli di genere all’interno della famiglia ebraica tradizionale appaiono poco meditate e non sempre convincenti.
Il volume ricostruisce molto efficacemente l’impatto devastante che i provvedimenti antiebraici, in particolare quelli contro gli ebrei stranieri a partire dal RDl. n. 1381, ebbero sulla Comunità sanremese.
Carlotta Ferrara degli Uberti
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I LIBRI DEL 2007
Eric Vial, L’Unione populaire italienne 1937-1940: une organisation de masse du parti communiste italien en exil, Roma, École Française de Rome, 461 pp., € 51,00
L’ampio volume di Vial presenta, ben elaborati ed esposti con chiarezza, i risultati di
un’approfondita ricerca sull’Unione popolare italiana (UPI), l’organizzazione per i lavoratori
italiani emigrati in Francia promossa dal Partito comunista italiano tra il 1937 e il 1940. La
ricostruzione è basata prevalentemente su fonti d’archivio, sia italiane che francesi (provenienti soprattutto, per l’Italia, dall’Archivio Centrale dello Stato, dall’Archivio del Ministero degli Esteri e dall’Archivio del PCI, e, per la Francia, dagli archivi dipartimentali e municipali
di varie località), e su fonti a stampa, a partire dallo spoglio accurato dell’organo dell’UPI, «La
Voce degli italiani», strumento di grande importanza per l’organizzazione. Uno scavo così approfondito della documentazione (reso possibile anche dalla ormai ventennale consuetudine
dello studioso con le fonti dell’antifascismo italiano) ha permesso a Vial di presentare una ricostruzione davvero a tutto tondo dell’UPI, in cui gli intendimenti programmatici e le parole d’ordine dell’organizzazione, ben connessi con il contesto generale della seconda metà degli anni ’30 – in particolare con la Francia del Fronte popolare, con la politica del PCI e del
PCF, con le problematiche dell’emigrazione italiana, con le vicende dell’antifascismo –, sono
poi sottoposti a verifica attraverso la ricostruzione dell’azione concreta dell’UPI. Quest’ultimo mi pare l’aspetto di maggior interesse e novità: le vicende dell’UPI sono mostrate anche
nella concretezza del suo agire nel territorio, mediante l’analisi delle iniziative realmente messe in opera dalle sue sezioni locali. Le parole d’ordine dell’apoliticità e dell’apertura verso tutti, indistintamente, i lavoratori italiani, non escludendo quelli legati alle organizzazioni fasciste, acquistano così spessore concreto nell’importanza che le iniziative di carattere assistenziale, non connotate politicamente, assumevano nel quadro complessivo dell’operato dell’Unione. Riflesso della politica di «riconciliazione nazionale» voluta all’epoca dal PCI, l’UPI appare il risvolto, nell’emigrazione, della strategia dell’entrismo nelle organizzazioni fasciste tentata in Italia: entrambe iniziative tese a recuperare un rapporto diretto con le masse popolari,
nonostante la forte presa esercitata su di esse dal fascismo. Colpisce, in tal senso, l’analogia tra
alcune attività dell’UPI e quanto allora facevano in terra straniera i consolati italiani e i Fasci
all’estero per attirare i connazionali: si veda l’esempio emblematico del tentativo di creare delle Case degli italiani (a fronte delle fasciste Case d’Italia o Case del Fascio). E assai significativo mi pare anche il tentativo dell’UPI di entrare in contatto con gli italiani di passaggio in
Francia, per raccontar loro qualcosa di diverso da quello che potevano ascoltare in Italia. Mi
sembra perciò condivisibile l’accenno di Vial a una possibile influenza dell’esperienza di una
«organizzazione di massa» quale l’UPI aveva teso ad essere sulla trasformazione del PCI in partito di massa a partire dalla Resistenza.
Benedetta Garzarelli
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I LIBRI DEL 2007
Giovanni Vian, «La Voce di San Marco» (1946-1975), Padova, Il Poligrafo, 130 pp., €
14,00
A partire da un sistematico spoglio delle annate de «La Voce di San Marco» Giovanni Vian offre una puntuale ricostruzione delle alterne vicende del settimanale dei cattolici veneziani nei tre
decenni della sua storia; una storia che si snoda dall’immediato secondo dopoguerra – quando il
giornale rimpiazza il precedente «La Settimana Religiosa», anche per marcare le distanze rispetto
alla lunga stagione del fascismo – alla metà degli anni ’70, quando giunge a conclusione il lungo
declino del settimanale. Un periodo cruciale, questo, per l’Italia repubblicana e per Venezia, che si
deve misurare con il definitivo sviluppo dell’area industriale di Porto Marghera e le connesse dinamiche di riequilibrio demografico fra le diverse aree del comune indotte dalle trasformazioni socio-economiche in atto e dagli altri problemi legati alle esigenze della salvaguardia della zona lagunare. È un periodo cruciale anche per la Chiesa cattolica, che dalla stagione della radicale contrapposizione ideologica al socialcomunismo e dello stretto collateralismo al partito cattolico viene traghettata da Giovanni XXIII all’«aggiornamento» conciliare che cederà a sua volta il passo, a Venezia come altrove, ai fermenti e alle inquietudini tipiche della complessa fase postconciliare.
Di tutta questa parabola la diocesi lagunare rappresenta un osservatorio particolare, sia
per la statura e il ruolo dei tre patriarchi che in questi anni si avvicendano – Angelo Giuseppe Roncalli, Giovanni Urbani e Albino Luciani –, sia per la presenza di una vivace leadership
democristiana che negli anni ’50 fa di Venezia un laboratorio della nuova formula politica del
centro-sinistra. Organo saldamente sottoposto al controllo delle locali autorità ecclesiastiche
e per molti versi «specchio» sui generis della Chiesa e dei cattolici veneziani, su tutti questi passaggi «La Voce di San Marco» intende offrire un proprio specifico punto di vista. Punto di vista di cui Vian ricostruisce attentamente il dipanarsi individuando, nella storia del settimanale, la successione di tre fasi principali: un periodo iniziale, corrispondente agli anni dell’immediato dopoguerra, in cui il giornale rappresenta sostanzialmente uno strumento politico e
culturale del centrismo; una seconda, difficile stagione, che va dalla metà degli anni ’50 al
1962, in cui esso si mostra abbastanza critico di fronte alle prime ipotesi di «apertura a sinistra», non senza manifestare una certa distanza dalla linea di prudente riserbo verso la politica adottata prima dal patriarca Roncalli e quindi di cauto favore verso la nuova formula politica espressa da Urbani e da altri ambienti del cattolicesimo veneziano; una terza fase in cui,
dopo il suo riallineamento alle posizioni del patriarca, alla «La Voce di San Marco» è chiesto
di contribuire al rinnovamento della Chiesa veneziana accordandosi al diapason conciliare.
Pur senza mai riuscire a trasformarsi in un vero «specchio» della diocesi, il settimanale
rappresenta dunque un interessante luogo di osservazione delle dinamiche che attraversano in
quegli anni il cattolicesimo veneziano e in questo senso la puntuale ricostruzione di Vian aggiunge un tassello utile a una più approfondita conoscenza.
Silvia Scatena
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I LIBRI DEL 2007
Ulrike Viccaro, Storia di Borgata Gordiani. Dal fascismo agli anni del «boom», Milano,
FrancoAngeli, 186 pp., € 18,00
Dei cinque volumi usciti tra il 2006 e il 2007 nella collana su Roma diretta da Lidia Piccioni per FrancoAngeli e intitolata «Un laboratorio di storia urbana», il libro di Ulrike Viccaro su
Borgata Gordiani è quello che punta con più decisione sugli strumenti della storia orale. Per impostazione e metodi, il volume può essere accostato ad alcune delle ricerche su Roma promosse
negli ultimi anni da Alessandro Portelli: in particolare a Città di parole, il lavoro collettivo su
Centocelle pubblicato nel 2006, cui la stessa Viccaro aveva a suo tempo preso parte.
Borgata Gordiani, la borgata creata all’inizio degli anni ’30 per ospitarvi una popolazione in gran parte espulsa dalle aree centrali della città, comincia a essere smantellata nel 1959
e non esiste più dal 1980. Questo dato di partenza conferisce alla ricerca un primo tratto di
originalità: ricostruzione della memoria di una comunità, ma di una comunità da tempo dispersa sul territorio, che è necessario seguire nei propri spostamenti per poterne raccogliere le
testimonianze.
Viccaro osserva la borgata, da sempre simbolo di marginalità e di povertà, con uno sguardo che tende a portare in primo piano le culture e le pratiche della vita quotidiana e a sottolinearne la radicale alterità. Per questa strada, il volume riprende alcune tesi consolidate sulle
borgate romane come luoghi di esclusione sociale e di acculturazione di un sottoproletariato
estraneo alle retoriche del regime e ripropone l’ipotesi secondo cui, dal punto di vista dei processi di divisione sociale dello spazio urbano, esisterebbe a Roma una sostanziale «continuità
tra il regime fascista e il regime democristiano» (l’espressione è di Pasolini, che nella borgata
girò Accattone e le cui riflessioni sembrano rappresentare un punto di riferimento importante per la ricerca).
L’originalità dello studio sta nel tentativo di rinnovare queste linee interpretative attraverso
un approccio che esplora i confini tra storia orale, etnografia, storia urbana, cultural studies. Le
questioni che l’a. si propone di toccare sono molte: le condizioni abitative, le strategie di adattamento e di sopravvivenza, la cultura materiale, i rituali del quotidiano, il ruolo delle donne o
dei bambini, l’azione di Chiesa e PCI, le resistenze e le forme di lotta collettiva, le rappresentazioni del quartiere elaborate tanto al suo interno quanto all’esterno. Un programma che per poter essere davvero portato a termine avrebbe avuto bisogno di molto più spazio rispetto alle circa centocinquanta pagine di cui il volume si compone. Il confronto tra le fonti si svolge tutto su
un piano narrativo: testimonianze, articoli di giornale, film, fotografie, canzoni, romanzi, carte
di polizia, atti parlamentari sono considerati alla stregua di altrettanti racconti, di cui si cerca di
interpretare le ragioni e cogliere i punti di contrasto. La scrittura è il vero laboratorio di questa
storia a più voci ed è la qualità della scrittura a permettere all’a. di «far parlare» i propri materiali e mantenere vivo a ogni pagina il senso della complessità di una ricerca urbana.
Filippo De Pieri
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I LIBRI DEL 2007
Angela Villani, L’Italia e l’ONU negli anni della coesistenza competitiva (1955-1968), Padova, Cedam, 487 pp., € 42,00
La ricca e ponderosa opera prima di Angela Villani ripercorre con linearità e accuratezza
l’azione italiana all’ONU, fin dalla nascita dell’organizzazione e dagli sforzi per l’ammissione.
Il lavoro di Villani è un bel libro di storia diplomatica che descrive nel dettaglio come la delegazione italiana dialogasse con il potere politico, attirandone l’attenzione sulle più urgenti
questioni internazionali. È costante l’attenzione al dibattito interno alle forze di governo,
mentre restano in ombra il ruolo dell’opinione pubblica e quello delle opposizioni. Il punto
di vista è quello italiano, e solo raramente – e per lo più dai commenti degli italiani stessi – si
intravede come altri giudichino l’azione dell’Italia.
L’a. opera una ricostruzione puntuale e precisa, solidamente fondata su fonti d’archivio
non solo italiane – spiccano i documenti americani e quelli delle Nazioni Unite. Ad una prima parte cronologica, seguono due approfondimenti tematici particolarmente interessanti
sulle questioni del disarmo e della cooperazione allo sviluppo. Due parole, che tornano in continuazione, descrivono sommariamente la linea italiana: equidistanza e prudenza. L’Italia si allinea alle posizioni degli alleati occidentali, anche se non sempre con convinzione. Fa sovente capolino la tentazione di ricavare visibilità e vantaggi, politici o economici, da posizioni ambigue di apertura verso i paesi di recente indipendenza. Ed è proprio questa un’altra costante:
la tentazione di ergersi a paladini della decolonizzazione, con la percezione di poter finalmente contare qualcosa. Nella prima fase, tuttavia, la tentazione è frenata dai timori che il sostegno all’autodeterminazione sia controproducente e sproni le rivendicazioni austriache per
l’Alto Adige. Anche poi, inoltrandosi negli anni ’60, le posizioni di principio si scontrano con
l’opportunità politica e la scelta non è mai quella più coraggiosa. L’Italia ricorre all’astensione
e si offre per la ricerca di soluzioni di compromesso. Spesso tuttavia mantiene atteggiamenti
contraddittori, come nel caso delle sanzioni contro la Rhodesia e il Sudafrica.
L’impressione chiara che si evince dal quadro equilibrato offerto da Villani è che il multilateralismo sia stato vissuto dall’Italia come occasione per sfuggire alle responsabilità dirette, in
un rapporto con l’organizzazione che un’a. pur tanto attenta e misurata non esita a descrivere,
tirando le somme, come «a volte contraddittorio o velleitario». L’ONU si dimostra sede congeniale per quella politica della «presenza» guardata con tanta irridente curiosità dagli Stati Uniti di cui soprattutto Fanfani divenne un simbolo. Una politica coronata da un certo successo,
con l’elezione proprio di Fanfani alla presidenza dell’Assemblea generale. L’ONU, più e meglio
di altre organizzazioni a carattere più tecnico, come il Development Assistance Committee nell’OECD, poteva restare luogo di discussione politica e di scambio di informazioni più che organismo capace di imporre misure vincolanti e di controllo. E proprio questo garantì quello
che è qui giustamente definito il primato dell’ONU nella politica estera italiana.
Sara Lorenzini
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I LIBRI DEL 2007
Claudia Villani, Il prezzo della stabilità. Gli aiuti americani all’Italia 1953-1961, Bari,
Progedit, 255 pp., € 25,00
Il volume approfondisce uno dei momenti centrali della storia dell’Italia repubblicana, gli
anni del cosiddetto «miracolo economico», spostando l’accento da una dimensione della vita
politica interna – la transizione dal centrismo al centrosinistra – ad una dimensione internazionale, e in particolare allo studio del rapporto con gli Stati Uniti nel quadro della guerra
fredda. Il cuore della ricerca è rappresentato dalla ricostruzione della politica degli aiuti economici degli Stati Uniti a favore dello sviluppo italiano nella seconda metà degli anni ’50, dopo la fine del Piano Marshall e sottolinea il nesso tra politica di stabilizzazione della democrazia e aiuti economici, con particolare attenzione ai prestiti a favore dell’industrializzazione del
Mezzogiorno. Si tratta di una politica che si afferma nel 1949-50 e combina variamente le dimensioni di atlantismo, europeismo e meridionalismo. Viene qui studiata in particolare la negoziazione intergovernativa e bilaterale tra gli Stati Uniti e l’Italia che conduce all’approvazione della linea industrialista e meridionalista sostenuta dalla Banca d’Italia di Menichella e dalla Svimez.
Villani impiega una ricca documentazione proveniente dagli archivi di Roma e di Washington, che mostra come il Mezzogiorno divenga in questi anni il luogo privilegiato per la
sperimentazione di una via pacifica alla lotta contro il comunismo attraverso una politica di
sviluppo a favore delle zone depresse, nel quadro della politica americana di stabilizzazione
della democrazia nel Mediterraneo. È proprio la logica della guerra fredda che favorisce la politica di intervento a fini sociali e la concessione dei prestiti per il Sud d’Italia, ed è nella linea
di continuità tra le amministrazioni Truman e Eisenhower che nel 1954-55 l’Italia ottiene dalla Banca mondiale gli aiuti per realizzare gli obiettivi previsti dallo Schema di sviluppo elaborato dalla Svimez. Dopo la crisi del progetto europeo di difesa (CED), con l’azione combinata del ministro degli Esteri Martino e di quello del Bilancio Vanoni l’Italia vede accolte le sue
proposte di rilancio della politica di integrazione economica europea, della quale l’a. rileva gli
elementi di continuità con la strategia già avviata nel 1950 dal VI governo De Gasperi.
Le conclusioni alle quali giunge Villani condividono un giudizio negativo di una parte
della storiografia circa i risultati ottenuti da tale politica. Il volume si inserisce in quel filone
che interpreta la politica degli aiuti economici più come strumento della strategia espansionistica statunitense, che non anche come il riconoscimento di un disegno riformatore e di modernizzazione perseguito dagli esperti italiani. Non viene dato un rilievo interpretativo, come
pure emerge dalla ricca serie di dati, al ruolo attivo svolto dalle culture politiche riformatrici
più avanzate. Il libro apre tuttavia interessanti interrogativi circa il ruolo delle culture economiche nella strategia della politica estera e in particolare per la ricostruzione della storia della
democrazia italiana.
Simone Misiani
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I LIBRI DEL 2007
Piero Violante, Eredità della musica. David J. Bach e i concerti sinfonici dei lavoratori viennesi 1905-1934, Palermo, Sellerio, 227 pp., € 16,00
Storico delle dottrine politiche, sociologo della musica e critico musicale per le pagine palermitane de «la Repubblica», Violante ha scritto un libro che tiene insieme i suoi diversi interessi, le sue passioni e che ha il suo perno in una Vienna che si intuisce aver svolto un ruolo importante nella sua biografia sia personale che di studioso. Le pagine di questo lavoro sono un bell’esempio di come la storia politica e delle idee possa intrecciarsi ed essere spiegata
attraverso quella della cultura. Il luogo è Vienna, in particolare la Vienna rossa del peculiare
esperimento dell’austro-marxismo; il tempo è quello del tramonto dell’Impero, della Repubblica e della sua débâcle; i protagonisti, numerosi, sono da una parte gli operai viennesi, target di un utopistico progetto pedagogico, dall’altra i socialdemocratici austriaci e in particolare quel David Josef Bach giornalista, militante, critico musicale della «Arbeiter-Zeitung»,
amico di Schoenberg, estimatore di Anton Webern, allievo del fisico ed epistemologo Ernst
Mach, vicino a Freud e ispiratore di una miriade di iniziative culturali; in mezzo c’è la grande tradizione musicale austriaca e tedesca, quella cioè degli Haydn, dei Mendelssohn, dei
Beethoven, dei Brahms, ecc., ma soprattutto della nuova temperie culturale che ha in Wagner
e poi soprattutto in Mahler i suoi principali perni; la storia, riesumata dall’oblio, è quella «di
un’utopia intellettuale censurata e dimenticata» (p. 13), quella cioè dei concerti sinfonici per
i lavoratori viennesi iniziati nel 1905 e svoltisi ininterrottamente fino all’11 febbraio 1934.
Nei dodici capitoli in cui il libro si articola, Violante non ci racconta solo dei concerti, della loro organizzazione, dei loro programmi, ma usa questa storia per ricostruire un «reticolo di
strutture, di iniziative e di personaggi» (p. 15), per ragionare sul rapporto tra arte e politica e in
particolare tra arte e socialdemocrazia austriaca (i concerti dei lavoratori sono tra l’altro parte di
una più vasta politica culturale nella quale, soprattutto tra il 1919 e il 1923, è impegnata l’Amministrazione comunale di Vienna), per riflettere sulla scarsa ortodossia marxista della socialdemocrazia austriaca che con Viktor Adler, il suo principale esponente, imbocca la strada «di un
modello di politica che sa tener nel giusto conto l’emotività, la psicologia individuale e collettiva per mobilitare in una teatralizzazione, che per dimensioni non ha precedenti, la massa operaia» (p. 38), ma anche e soprattutto per analizzare un tema di grande importanza quale il rapporto tra socialdemocrazia, cultura e identità nazionale tedesca. In questo senso, il tema che attraversa come un filo rosso tutto il libro e che mi pare di grande interesse perché riconnette questo lavoro di Violante ai molti che in anni recenti, sulla scia di George Mosse, si sono occupati
di estetica e religioni politiche è quello del wagnerismo, un wagnerismo che non è qui visto e interpretato esclusivamente in funzione dell’epilogo nazista, ma che è invece fonte di ispirazione
per il progetto nazional-popolare socialdemocratico, un progetto «bloccato dai fascisti austriaci
e dai nazisti e poi rimosso dallo stalinismo e infine dal nostalgismo» (p. 15).
Daniela Luigia Caglioti
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I LIBRI DEL 2007
Frank Vollmer, Die politische Kultur des Faschismus. Stätten totalitärer Diktatur in Italien,
Köln-Weimar-Wien, Böhlau Verlag, 816 pp., € 79,90
Il ponderoso volume, di difficile lettura per i non-specialisti e non traducibile in italiano
(date le dimensioni ed i costi prevedibili), è frutto della rielaborazione di una tesi di dottorato discussa a Münster sotto la supervisione di Hans-Ulrich Thamer, uno storico tedesco attento ai temi della storia contemporanea italiana. L’a. ha preso in esame due casi regionali, distinti per caratteristiche sociali e politiche: da un lato Arezzo, una delle città culla del primissimo fascismo squadrista, dall’altro il centro industriale di Terni, sede di una delle maggiori
industrie siderurgiche italiane, dove il fascismo ebbe maggiori difficoltà ad attecchire in una
popolazione operaia.
Il taglio dell’opera risente dei metodi dei cultural studies, anche se l’a. è attento agli elementi politici e «materiali». Tuttavia, come avviene spesso per questo ricco filone di studi (poco frequentato in Italia), vi è nell’opera una ridondanza di elementi metodologici, di riflessioni teoriche, di generalizzazioni, che rendono la lettura in molti tratti impervia. Il secondo capitolo,
di cinquanta pagine, è tutto imperniato su riflessioni metodologiche perlopiù astratte. In ogni
caso, fulcro del lavoro è la ricostruzione dell’intreccio fra cultura locale e tentativi del regime di
imporre nuovi valori, nuovi punti di riferimento della cultura politica locale, o di impadronirsi di quelli tradizionali esistenti, deformandoli e strumentalizzandoli ai suoi obiettivi.
Al centro dell’analisi stanno quattro grandi temi: le tradizioni locali, la questione della
«rivoluzione», l’intreccio fra politica e religione nelle cerimonie per i caduti, e infine il culto
della romanità. Vollmer mostra un’ottima conoscenza delle fonti locali e centrali, che utilizza
con dovizia, e conosce molto bene i contesti storiografici ai quali si accosta. I capitoli sono ricchi di annotazioni, che mettono in luce da un lato il forte impegno del regime, a livello centrale ed a livello locale, a costruire un progetto di cultura politica in grado di incontrare il consenso della popolazione, e dall’altro le articolate reazioni della società locale. Le molte riflessioni interessanti che emergono da questa messe di materiale finiscono però per essere travolte dalla marea di documenti e dalla complessa articolazione del discorso metodologico, che
qui pare rivelarsi più un inciampo, che un sussidio positivo.
Lo dimostra assai bene il capitolo finale, nel quale l’a. trae conclusioni spesso acute, ma
allo stesso fortemente oscillanti l’una rispetto all’altra sulle grandi questioni che ha messo in
campo: il fascismo era moderno, o no? Riuscì a costruire consenso vero e profondo, o solo
un’adesione conformistica? Possiamo parlare davvero di una dittatura totalitaria, o tendenzialmente totalitaria? Le righe conclusive, che mettono l’accento sulla «zona grigia», esprimono –
a mio avviso – il succo dell’opera: un gigantesco deposito di materiali, solo parzialmente rielaborati, dai quali l’a. trae una assai sintetica conclusione, che non conclude. Si potrebbe parafrasare: «tanta metodologia per nulla».
Gustavo Corni
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I LIBRI DEL 2007
Nikolaus Wachsmann, Le prigioni di Hitler. Il sistema carcerario del Terzo Reich, Milano,
Mondadori, 610 pp., € 25,00 (ed. or. New Haven, 2004)
Quanto mai positiva è stata la scelta di tradurre questa solida e ben documentata ricerca di
Wachsmann, studioso tedesco di formazione accademica inglese e docente al Birkbeck College
di Londra, che ha finalmente colmato un imbarazzante vuoto nella storiografia, specialmente
fuori dalla Germania, sul sistema giudiziario e sulla realtà penitenziaria negli anni della dittatura hitleriana. Una prospettiva di lunga durata a partire dall’esperienza guglielmina e specialmente weimariana fino alla Germania del secondo dopoguerra permette di valutare gli elementi di
continuità/discontinuità della storia della politica penale e carceraria nel Terzo Reich.
Nella descrizione delle principali tappe, nello Stato policratico nazista, della politica giudiziaria e della realtà penale, drammaticamente intrecciantisi con la politica razzista ed eugenetica, emergono i diversi gradi e le spesso complesse forme di conflitto, concorrenza, compromesso e collaborazione attiva tra il sistema giudiziario, da una parte, con il controllo della realtà carceraria, e la polizia e le SS, dall’altra, con la gestione dei campi di concentramento. Si sottolinea allo stesso tempo l’influenza diretta e indiretta di Hitler, sia nella sua concreta azione d’intervento e ingerenza sul sistema penale, sia attraverso il lavoro di funzionari locali, intenti ad interpretare e prevedere con iniziative autonome la volontà del Führer, in una
sorta di «obbedienza anticipata» e di «lavoro per Hitler» (Kershaw). Risalta il radicalizzarsi del
terrore giudiziario dopo lo scoppio della guerra, con i suoi livelli più acuti nel periodo 19421945 sotto il nuovo ministro di Giustizia Thierack attraverso il vertiginoso aumento delle pene capitali, attraverso l’«eliminazione mediante il lavoro», in seguito all’accordo con Himmler per la consegna alla polizia dei condannati al «confino di sicurezza» e il loro trasferimento
nei campi di concentramento, nonché attraverso il dilagare delle uccisioni di detenuti «asociali» e invalidi (capitolo VIII) e, infine, attraverso l’assassinio di alcune migliaia di reclusi negli ultimi mesi di guerra in seguito al piano di evacuazione degli istituti di pena. L’evolversi
della situazione nel sistema penale, sintetizzato in un’utilissima appendice grafica, è seguito
con un continuo interesse per le vicende concrete della popolazione carceraria, costituita da
ebrei, polacchi, oppositori, testimoni di Geova, omosessuali, ma anche soprattutto da quei detenuti «comuni», rimasti spesso ai margini, se non esclusi nell’attenzione degli storici. L’a. è
costantemente attento a non cadere in semplicistiche generalizzazioni interpretative, preferendo piuttosto un approccio ermeneutico differenziato e pluricausale, in un confronto critico
con importanti filoni storiografici. In particolare questo studio mette definitivamente in crisi la teoria di Fraenkel, o derivata piuttosto da una banalizzazione della sua tesi, della natura
duale dello Stato nazista, diviso tra una realtà arbitraria e discrezionale dello stato di emergenza, dominato dal terrore della polizia e delle SS, e una realtà normativa dello stato legale, garantito appunto dal sistema giudiziario.
Andrea D’Onofrio
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I LIBRI DEL 2007
Alfred Wahl, La seconda vita del nazismo nella Germania del dopoguerra, Torino, Lindau,
445 pp., € 26,00 (ed. or. Paris, 2006)
Uscito nel 2006 in francese e immediatamente pubblicato in edizione italiana, senza note, ma con un piccolo glossario dei termini tedeschi per risparmiare al lettore la fatica dell’uso del dizionario, il libro di Alfred Wahl è una lunga riflessione sugli atteggiamenti dell’opinione pubblica e delle istituzioni statali verso gli ex nazisti. Buona parte del libro ripercorre le
piste già battute da Norbert Frei, con l’intenzione di allargare l’analisi da alcune categorie specifiche alla intera società. Un passato che non passa è il Leitmotiv di questa sorta di lungo
pamphlet. Un passato che non passa perchè non vi è stata una vera epurazione dei nazisti nei
principali corpi dello Stato, nei vari settori economici e professionali, e addirittura nei partiti e nella politica in genere; il motivo ricorrente si riferisce contemporaneamente al successivo rifiuto, nella opinione pubblica, del silenzio sulle responsabilità della società tedesca. Sono
note le ragioni che resero impervio un processo di denazificazione postbellico. La volontà, più
volte richiamata dall’a., delle forze politiche tanto americane che tedesche di restituire alla
Germania un ruolo politico e militare strategico in Europa si scontrava con ogni prospettiva
di una profonda epurazione. Questo inevitabilmente, come è noto, restituiva a tutta la vecchia classe dirigente la leadership di una Germania ormai proiettata a diventare la locomotiva
economica e politica della allora Comunità europea. In questo quadro il riarmo della Germania, culminato con il suo ingresso nella NATO era un vero e proprio colpo di spugna su tutte le responsabilità delle Wermacht, ma anche delle SS. Le principali cause dell’impunità concessa alla vecchia classe dirigente, passata indenne, e talvolta addirittura rafforzata, attraverso
le politiche di Entnazifizierung della seconda metà degli anni ’40, sono, secondo Wahl, di Adenauer e di una magistratura composta in larga parte di giudici attivi negli anni del Terzo Reich. Molto, però, aveva pesato nella vicenda tedesca postbellica un generale atteggiamento autoassolutorio della popolazione, la opposizione alla politica alleata di una popolazione completamente schierata a favore dei nazisti con «la solidarietà degli occupati contro gli occupanti» (p. 172). Se «il mantenimento al suo posto del personale nazista ebbe una portata notevole» (p. 272), è altrettanto vero che questa consegna del silenzio si andò progressivamente marginalizzando e poi sgretolandosi. Passaggi cruciali di questo processo furono certo gli ultimi
anni ’60, con la maturazione di una gioventù non più disposta ad accollarsi le colpe dei padri
e poi il crollo del Muro di Berlino, il processo di unificazione, la ricerca di un disegno identitario. La storia, però, rimane sempre presente: i tedeschi «non possono sbarazzarsi di un senso di colpa, se non addirittura di vergogna» (p. 438), in cui permane però la tentazione di cercare nella nuova, ma non troppo, attenzione per la sorte dei profughi e dei tedeschi espulsi,
per le vittime dei bombardamenti una sorta di relativizzazione del peso dell’olocausto»; ma
tutto questo però è solo giornalismo.
Giovanni Montroni
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I LIBRI DEL 2007
Gerhard L. Weinberg, Il mondo in armi. Storia globale della Seconda Guerra Mondiale, Torino, Utet, XXXI-1.295 pp., € 35,00 (ed. or. Cambridge, 20052)
Una pagina di scheda-recensione contro 31 pagine d’Introduzione, 1.059 di testo, 170
di note, 30 di bibliografia ragionata e 35 fra carte e indice dei nomi: in gergo militare, per stare al tema, una «missione impossibile». Eppure non deve essere ignorata la traduzione italiana della seconda edizione (2005) di questo volume (1993). Si tratta infatti di una ciclopica
impresa editoriale, che va a merito di chi l’ha realizzata.
L’opera meritava di essere tradotta, sia per i suoi risultati sia per la personalità del suo autore. Partiamo da quest’ultima. Weinberg (1928), figlio di un funzionario – già combattente
e decorato – della Germania guglielmina e weimeriana, fu costretto ad abbandonare la Germania nel 1938 per gli USA. Dopo aver servito il proprio nuovo paese nel Giappone occupato, fu a Chicago sotto Hajo Holborn e operò fra i primi nello studio dei documenti tedeschi
catturati e microfilmati (fra essi ritrovò il cosiddetto Secondo libro di Adolf Hitler, edito con
criteri scientifici in Germania nel 1963 e negli USA solo nel 2003). Analista della politica estera nazista, si dedicò allo studio della seconda guerra mondiale, in primo luogo – ma non solamente – in termini di storia politico-militare. Capace di scritti anche polemici, dibatté aspramente con Hillgruber, poi con i «revisionisti», non disdegnando di spiegare nel 2002 che l’amministrazione Bush non aveva il diritto di rovesciare l’accusa ritenuta infamante di appeasers
su chi criticava l’indirizzo verso l’intervento in Iraq. Toccato ma non travolto dall’incidente
dei falsi diari di Hitler del 1983 (lo stesso che investì in pieno Trevor-Roper) ha dedicato quasi un quindicennio a questo opus magnum.
Il volume riassume una vita di letture e ricerche transatlantiche ed è un’eccezionale ricostruzione della guerra mondiale in quanto guerra globale (Lucio Ceva ne aveva scritto già a lungo su
«Storia contemporanea» nel 1996). La capacità dell’a. di incorporare nuovi (ai primi anni ’90)
risultati della ricerca e di condurre ricerche originali è notevole: dal punto di vista dell’informazione fattuale il volume oggi non ha paragoni con quelli di M. Gilbert, J. Keegan o altri. Enfatizza le connessioni fra i vari fronti: quantitativamente, lo spazio dedicato a quelli non europei è
– rispetto ad opere consimili – notevolmente più ampio. Mette in primo piano i decisori delle
grandi scelte politiche e strategiche. È severissimo nei confronti della Germania e di Hitler in
particolare, nonché della cerchia dei suoi collaboratori civili e militari. L’attacco ad Est nel 1941
(ma progettato e auspicato già in precedenza) segna il cambiamento di carattere della guerra. La
guerra delle operazioni regolari prevale assai su quella delle guerre partigiane.
Come in consimili opere anche varie critiche sono possibili: le fonti e le lingue sono quelle europee, la società sta in disparte e la stessa esperienza dei combattenti passa in subordine
alla guerra dei massimi decisori. Ciò detto quella di Weinberg non è affatto una storia tradizionale, drums and trumpets. È stata e per molti anni sarà un’opera di riferimento.
Nicola Labanca
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I LIBRI DEL 2007
Nicolas Werth, L’isola dei cannibali. Siberia, 1933: una storia di orrore all’interno dell’arcipelago del gulag, Milano, Corbaccio, 189 pp., € 16,60 (ed. or. Paris, 2006)
La vicenda ricostruita da Werth iniziò nell’aprile 1933 con l’approvazione, su proposta
dell’OGPU, di un piano di deportazione di un milione di «elementi socialmente indesiderabili», che avrebbero dovuto colonizzare terre gelate d’inverno e acquitrinose d’estate. Da subito giunsero in Siberia occidentale persone «senza-gambe-né-braccia», inadatte al lavoro, in
prevalenza piccoli delinquenti che si diedero a furti e razzie. In queste condizioni valeva la legge burocratica dello scaricabarile. Dal campo di smistamento dell’OGPU di Tomsk fu deciso
l’invio verso Nord, lungo il fiume Ob’, di un contingente di 5-6.000 «elementi declassati» provenienti da Mosca e Leningrado. Atterriti dall’arrivo di persone in stato di inedia, con scarse
riserve alimentari, i comandi locali le dirottarono verso Nazino, un’isola desertica lungo il fiume. Le prime notizie su episodi di cannibalismo si diffusero il 20 maggio, senza suscitare particolari reazioni da parte dei rappresentanti del Partito e dell’OGPU. Voci sulla diffusione della pratica del cannibalismo nel mondo della malavita circolavano da tempo, e le poche decine di casi accertati erano poca cosa rispetto alle dimensioni che il fenomeno aveva assunto nel
corso della carestia che colpì Ucraina e Kazachstan. Un primo processò si concluse con l’assoluzione dei deportati accusati di necrofagia, e solo in seguito furono comminate undici condanne a morte. Il clima era cambiato dopo la decisione presa nel settembre da Stalin, informato dell’accaduto dalla relazione di un dirigente comunista locale, di nominare una commissione di inchiesta, il cui rapporto portò alla condanna a lievi pene dei responsabili dell’operazione, accusati di non essersi curati della sorte dei deportati – due terzi dei quali erano
morti per l’«isolamento prolungato in ambiente ostile» – e di aver consentito che si scontrassero con la popolazione locale. Le conseguenze politiche furono ben più vaste. In sé secondario, l’episodio dell’isola di Nazino gettò definitivo discredito sul sistema delle colonie di popolamento. Su direttiva di Stalin, le deportazioni di massa cessarono (sarebbero riprese solo a
guerra mondiale in corso), e i detenuti furono indirizzati verso il gulag, che assunse un ruolo
centrale nel sistema repressivo sovietico.
Grazie a una sapiente combinazione della documentazione sugli aspetti locali della vicenda, già pubblicata in Russia, con quella raccolta negli archivi centrali, il lavoro di Werth rende con efficacia i caratteri di eccezionalità ed emblematicità dell’episodio di Nazino. Del primo aspetto non sappiamo quanto vorremmo, data l’assenza di memorie di protagonisti e testimoni che raccontino cosa significhi la rottura del tabù del cannibalismo. A emergere con
chiarezza è invece il processo di «decivilizzazione» subito dall’URSS dopo la rivoluzione, e la
reazione dei vertici del regime, che, incapaci di riconoscersi nella società che essi stessi avevano creato, evitarono di ricorrere a una «soluzione finale», ma dilatarono la categoria dei «socialmente nocivi» sino a conferire al Terrore un carattere permanente.
Fabio Bettanin
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I LIBRI DEL 2007
Stuart Woolf (a cura di), L’Italia repubblicana vista da fuori, Bologna, il Mulino, 498 pp.,
€ 25,00
Mark Gilbert, David Ross, Rolf Petri, John A. Davis, Patrick McCarthy, cinque studiosi
di lingua inglese, presentano altrettanti densi saggi che sono una interessante e stimolante rassegna degli studi e delle interpretazioni sulla storia della Repubblica italiana vista dall’estero,
in particolare dalla sponda anglosassone e tedesca. Li introduce Stuart Woolf con una lunga
premessa che solleva temi di grande attualità nella comunità degli storici accademici italiani
e non solo italiani: innanzi tutto il problema di una ricerca storica su avvenimenti legati a un
passato recente e recentissimo che apre questioni di metodo e di fonti, ma ripropone anche il
nodo ineludibile dell’uso e dell’abuso pubblico della storia. Da qui il discorso sul revisionismo e sulla memoria divisa o condivisa, non solo come querelle interna alla storiografia italiana, ma caratteristica di una fase di transizione e di cambiamento con la quale a partire dal
1989 l’intera comunità scientifica europea sta facendo i conti. Al di là di percorsi paralleli,
non va eluso il problema di quali siano limiti e vantaggi dell’approccio alla storia di un paese
da parte di ricercatori stranieri che necessariamente si muovono in un contesto comparativo
e rispetto agli storici italiani attribuiscono maggiore importanza alle scienze sociali. Woolf e
gli autori dei saggi smentiscono comunque la pretesa neutralità di uno sguardo «da fuori».
Nelle rassegne degli studi sulla storia dell’Italia repubblicana, con l’eccezione del saggio di Rolf
Petri, emerge invece il profondo coinvolgimento degli aa. nel dibattito storiografico italiano
di cui finiscono col condividere posizioni e divisioni, a volte con la stessa passione ideologica.
Una democrazia italiana «anomala» o una democrazia incompiuta o debole è il filo conduttore delle interpretazioni che si differenziano nell’individuazione della cause: una società arcaica governata con le modalità trasformistiche del XIX secolo – Denis Mack Smith; una arretratezza economica e sociale incompatibile con la costruzione di un edificio democratico moderno – Stuart Hughes; una inadeguatezza della classe politica nel riconoscere e rappresentare la trasformazione accelerata di valori e idee che a partire dal boom degli anni ’60 cambia il
volto della società italiana – Paul Ginsborg. Sotto questo profilo fuori dal coro c’è solo il giudizio provocatoriamente positivo di La Palombara che rileva la stabilità di questo pur anomalo edificio istituzionale. L’aspirazione a un «paese normale» che ne discende ha portato ad approfondire le analisi su familismo, clientelismo e localismo, tre caratteristiche essenziali della
società italiana – Robert Putnam, ma anche gli studiosi il cui oggetto di ricerca è il Sud, diventato nella storiografia degli anni ’70 (Sidney Tarrow, John Davis) «un campo di battaglia
per le opposte teorie sociologiche sulla modernità» (p. 361). Il volume si chiude sui temi dell’identità nazionale, già anticipati nell’Introduzione da Woolf che, per parte sua, considera poco persuasiva l’insistenza della storiografia italiana sul concetto di una crisi di appartenenza
nazionale, mettendo invece l’accento su una «diseducazione» alla cittadinanza.
Simona Colarizi
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I LIBRI DEL 2007
Zheng Yangwen, Storia sociale dell’oppio, Torino, Utet, XVIII-261 pp., € 22,00 (ed. or.
Cambridge, 2005)
Studiosa cinese originaria del Hunan, Zheng Yangwen è ricercatrice presso l’Università nazionale di Singapore. Ha pubblicato nel 2005 The Social Life of Opium in China ora tradotto
per il pubblico italiano. Il volume ricostruisce le trasformazioni dell’oppio a partire dalla metà
della dinastia Ming, quando da medicinale divenne afrodisiaco, attraverso tutta l’epoca Qing
e il periodo repubblicano, per arrivare, con qualche rapido cenno, fino all’epoca post-maoista.
Il lavoro si basa principalmente su una varietà di fonti edite non convenzionali, come i
libri pornografici (Yin shu) oppure i menù per le cene e i matrimoni, e analizza volumi e periodici sia in lingue occidentali sia in lingua cinese. L’obiettivo di Zheng è quello di tracciare
una storia dell’oppio non condizionata solo dalle fonti proibizioniste fornite dal governo per
avvalorare la linea ufficiale di condanna. Così l’a. illustra un duplice percorso dell’oppio: da
una parte la sua penetrazione all’interno di strati sociali sempre più bassi e dall’altra la sua diffusione geografica che progressivamente si estese nel paese. Dapprima riservato alla Corte imperiale e all’élite dei funzionari-letterati, il fumo d’oppio si diffuse rapidamente nel corso
dell’800. Fu allora che esso divenne un problema sociale e morale, poiché i fumatori delle classi più basse lo resero visibile e disonorevole. «Ma – scrive Zheng – il male aveva bisogno di
una definizione e di un colpevole. Doveva venire dal basso e da fuori, non certo dall’alto e da
dentro» (p. 60). Questa divenne la linea tramandata dalle storie ufficiali.
Tra i temi più interessanti che emergono nel libro vi sono il legame tra il consumo dell’oppio e la storia delle donne in Cina e gli accenni al fenomeno del yanghuo re cioè «la febbre delle merci straniere», desiderate e di moda anche se ufficialmente condannate, i cui primi consumatori rimanevano proprio i membri della Corte imperiale e i funzionari-letterati.
Intellettuali cinesi di inizio ’900, come Liang Qichao, considerarono l’oppio un ostacolo al progresso e alla modernità. Con Mao, la Cina che combatteva per liberarsi dagli imperialismi, finì per lottare anche contro l’oppio. Zheng tuttavia smentisce la presunta «innocenza» dei comunisti cinesi nei confronti dell’oppio. Negli anni ’50 esso venne comunque sradicato con successo. Solo dopo la fine dell’epoca maoista e, soprattutto negli anni ’90, i moderni derivati dell’oppio tornarono nel paese come pratica diffusa.
Una storia politico-economica dell’oppio esiste da tempo: vari studi hanno insistito sulle guerre dell’oppio, sui legami con l’imperialismo occidentale e sui traffici commerciali. La
novità del libro di Zheng è quindi nella scelta di un taglio esclusivamente sociale e culturale
per rispondere agli interrogativi su chi fumasse oppio nella Cina moderna ma anche come,
quando e perché. Va tuttavia rilevato che l’a. in più punti corre il rischio di sopravvalutare
l’importanza dell’oggetto della sua ricerca nel quadro storico complessivo. Zheng attribuisce
a questa merce un ruolo eccessivo sia nei rapporti tra Cina e altri paesi, giungendo per esempio a presupporre che, a livello internazionale, vi fosse un’identificazione tra oppio e nazione
cinese, sia nelle scelte di politica interna.
Elisa Giunipero
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I LIBRI DEL 2007
Robert J.C. Young, Mitologie bianche, Roma, Meltemi, 335 pp., € 24,00 (ed. or. London, 1990 e 2004)
Il volume rende disponibile anche in traduzione italiana uno dei testi chiave del dibattito postcoloniale in ambito anglosassone, attraverso cui l’a. si è collocato nel dibattito su teoria e storia che opponeva poststrutturalismo e marxismo. Il mito incrollabile a cui allude il titolo è infatti la filosofia della storia su cui si fonda la modernità europea che ha innalzato l’Europa ad unico soggetto storico universale e condannato le storie «altre» ad essere costantemente in ritardo sulla Storia. Se il punto di partenza di Young è la critica allo storicismo elaborata da Edward Said, la sua attenzione tuttavia si sposta dai testi e dai discorsi dell’imperialismo
e dell’orientalismo europeo, per interrogare invece direttamente le teorie della storia dei progetti di emancipazione, suggerendo una genealogia storico-teorica che collega post-strutturalismo e postcolonialismo alla crisi del «marxismo bianco».
Una prima direzione di ricerca muove dal rapporto privilegiato tra lotte anticoloniali e la
critica all’umanesimo, portando in primo piano l’impatto delle vicende algerine sui percorsi
dei principali critici dello storicismo del marxismo hegeliano, tra cui spiccano Sartre, Claude
Lévi-Strauss, Althusser e Derrida. La definizione suggerita di «teoria franco-maghrebina»,
mette l’accento sul momento storico in cui va contestualizzata l’origine del poststrutturalismo, identificato con la guerra d’Algeria piuttosto che con il maggio del ’68. A questo percorso si collega la discussione del contributo offerto dalla critica postcoloniale. Se per un verso
essa fonda la sua sfida a partire dagli strumenti teorici elaborati dal poststrutturalismo, per un
altro ne evidenzia una metamorfosi cruciale. Portando alla luce la «violenza epistemica» inscritta nella dipendenza dello storicismo dall’imperialismo e dell’umanesimo dal dominio coloniale, autori come Edward Said, Homi Bhabha e Gayatri Spivak raccolgono la sfida delle
lotte coloniali a «decolonizzare» sul piano teorico e filosofico i presupposti eurocentrici delle
«mitologie bianche» che l’antiumanesimo francese non aveva messo a tema.
Questo doppio nesso tra critica politica del colonialismo e tradizione teorica anti-dialettica,
che interpreta il postcolonialismo come un nuovo «tricontinentalismo», viene ripreso dal saggio
«Mitologie bianche rivisitato», apparso nella nuova edizione del 2004. L’a. qui non solo rende conto del dibattito sollevato dal volume ma propone una nuova e stimolante interpretazione anticipata dai suoi lavori successivi e in particolare da Postcolonialism: A Historical Introduction (Oxford,
OUP, 2003). Sulla scorta di una puntuale ricostruzione delle relazioni che Sartre, Derrida, Kristeva, Foucault, Althusser e Lacan intrattennero con le culture politiche maoiste, Young suggerisce di leggere nel nesso tra poststrutturalismo e postcolonialismo uno degli esiti del decentramento del marxismo europeo operato dalle lotte anticoloniali. Se alcune delle tesi sostenute nel volume sono discutibili e meriterebbero un ulteriore approfondimento, si tratta tuttavia di un contributo cruciale per comprendere le resistenze, sul piano politico così come su quello teorico, della
storiografia ad accogliere le sfide della critica postcoloniale.
Liliana Ellena
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I LIBRI DEL 2007
Natalie Zemon Davis, La storia al cinema. La schiavitù sullo schermo da Kubrick a Spielberg, con una nota di Alessandro Portelli, Roma, Viella, 174 pp., € 19,00
In questo scorrevole, ma denso libro, Zemon Davis ci invita a percorrere un affascinante
viaggio fra racconto storico e narrazione cinematografica, tra verità storica e «meta-realtà» di
immagini, suoni, dialoghi.
L’a. si domanda: «Quale potenzialità ha un film di raccontare il passato in modo significativo e accurato?» (p. 17), può un film rendere quell’intreccio straordinario fra una storia –
una «microstoria» – e la storia, vale a dire la ricostruzione di un passato fatto di vite individuali e collettive, di strutture e codici sociali, di grandi ideali e di istituzioni politiche?
Ci propone, quindi, di avventurarci in un sentiero, irto di difficoltà e anche di sfide per
gli storici di professione, analizzando un tema di grande interesse storico e di drammatica attualità: la schiavitù. E lo fa attraverso l’analisi di cinque film famosi: Spartacus di Kubrick,
Queimada di Pontecorvo, La última cena del regista cubano Gutiérrez Alea, Amistad di Spielberg e Beloved di Demme, tratto dal romanzo di Toni Morrison. Cinque film che tratteggiano, in modi e periodi diversi, e a volte anticipano questioni chiave che gli storici hanno affrontato nelle loro analisi sui sistemi di schiavitù: la resistenza degli schiavi (Spartacus), le ribellioni e i riti culturali e religiosi che hanno nutrito quelle rivolte (Queimada e La última cena) che punteggiarono l’«Atlantico nero» (Gilroy), come già nel 1938 aveva messo in luce
C.L.R. James nel suo I giacobini neri. E, infine, il trauma, il ricordo doloroso e lacerante della cattura e del Middle Passage (Amistad) o di una fuga verso la libertà, lungo i percorsi della
Underground Railroad, pagata, soprattutto dalle donne, a caro prezzo, anche quello più alto
dell’uccisione dei propri figli (Beloved).
I vari capitoli si dispiegano attraverso un’analisi che intreccia la narrazione della genesi e
delle vicende cinematografiche e la ricerca storiografica, la sola in grado di contestualizzare i
fatti narrati, ma anche di gettare luce sulle radici stesse dei film presi in considerazione. Ha rilevanza che Spartacus venga girato nell’epoca della guerra fredda e del «pericolo rosso» e che
Queimada sia invece concepito, sulla scia delle rivoluzione anticoloniali, dall’autore di La battaglia d’Algeri o, infine, che Amistad e Beloved siano creati «all’ombra dell’Olocausto» (p. 81)?
Ha importanza il fatto che Dalton Trumbo, sceneggiatore di Spartacus, fosse nella lista nera
di McCarthy? Sì, ne ha perché spesso si proiettano sulle vicende narrate sentimenti o ideali
che appartengono al presente, come, secondo l’a., fa Spielberg nel suo Amistad, quando «inventa» un’amicizia fra lo schiavo ribelle, Cinqué, e John Quincy Adams che lo difende in tribunale. Mentre, invece, ed è questa la conclusione del libro, «i film storici dovrebbero lasciare che il passato rimanga tale» (p. 148), senza ammorbidimenti o rimodellamenti per renderli compatibili con il presente. In fondo ce lo può insegnare proprio la protagonista di Beloved:
la memoria può fare sanguinare, ma solo facendo i conti con essa si può guardare al futuro.
Raffaella Baritono
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I LIBRI DEL 2007
Idith Zertal, Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia, Torino, Einaudi, XV254 pp., € 22,00 (ed. or. Tel Aviv, 2002)
Per l’Ernst Cassirer del Saggio sull’uomo il racconto mitico è una forma autonoma di interpretazione della realtà. Le sue funzioni sono molteplici, promuovendo la solidarietà tra individui, ratificando la vicinanza fisica e la condivisione del medesimo orizzonte esistenziale
intesi come una sorta di comunità di destino. In questo la mitografia non è necessariamente
alternativa all’esercizio storiografico. Semplicemente l’una e l’altro occupano due campi diversi ma non contrapposti, semmai a tratti complementari. La mitografia si alimenta di un
grado di elevata «attualizzazione» dei trascorsi, in virtù della plasticità con la quale li può ricostruire, adattandoli al presente. Tale funzione è tanto più potente nel momento in cui viene attivata nell’esercizio della costruzione di una identità nazionale. Quest’ultima, infatti, proprio perché proiettata nel «qui ed ora», eternizza il presente attraverso il racconto delle origini, ossia la «dolce finzione» delle fondamenta immutabili che, nel loro persistere e reiterarsi
attraverso lo spirito collettivo, garantiscono l’incrollabilità dell’edificio nazionale. Israele è un
formidabile prisma attraverso il quale leggere lo spessore dell’artificio culturale che si cela dietro il discorso nazionalista nel ’900. Non per questo quel paese è meno vero. Semmai, in ciò
facendo, rinnova il suo carattere laboratoriale, dove in vitro si è interamente consumato quel
che altrimenti è riconoscibile solo in forme frammentate ed episodiche. Il libro di Idith Zertal ci introduce ai diversi modi attraverso i quali ha preso forma la dimensione della tragedia
nella coscienza di sé degli israeliani, aiutandoci così nell’identificazione della funzione mitopoietica nella razionalità quotidiana. È quindi un viaggio attraverso la reificazione del passato, la sua traslazione epica. In tal senso esiste una dialettica irrisolta tra la costruzione dell’identità nazionale e arruolamento dei morti nelle file dei vivi. Per meglio dire, c’è un nesso diretto tra le «magnifiche sconfitte» che costellano la storia dei risorgimenti nazionali, di cui la
nascita d’Israele è parte, e la costituzione di una cittadinanza inclusiva. Questa è tale se incorpora non solo le generazioni presenti e future ma anche e soprattutto quelle trascorse. Il binomio istitutivo dell’israelianità è quello che intercorre tra distruzione e redenzione, ovvero
tra catastrofe e rinascita. Lo spirito pionieristico, estrinsecando l’intenzione sionista in un progetto fondato su un nuovo legame tra spazio e tempo, tra deserto e «uomo nuovo», incorpora l’assenza come elemento fondante: assenza di chi ci si è lasciati alle spalle, assenza come condizione dell’Esilio, assenza come mancanza di un interlocutore indigeno con il quale confrontarsi (i palestinesi). Da ciò deriva anche il ricorso postumo alla rappresentazione della Shoah
come risorsa simbolica nei processi di legittimazione politica e il carattere di sacralità rivestito dalle vittime di quella «catastrofe». Un libro interessante, non privo però di quelle incrostazioni, petulanze e ingenue enfasi, che connotano la scrittura di parte dei cosiddetti «nuovi
storici israeliani».
Claudio Vercelli
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I LIBRI DEL 2007
Clemens Zimmermann, Medien im Nationalsozialismus. Deutschland, Italien und Spanien
in den 1930er und 1940er Jahren, Wien-Köln-Weimar, Böhlau Verlag, 316 pp., s.i.p.
L’intento dell’a. è immediatamente dichiarato nella lunga introduzione preposta al volume: analizzare in termini comparati «le caratteristiche del sistema culturale e dei media» (p.
43) messo a punto da tre regimi dittatoriali fascisti: il nazista, quello italiano e il franchista.
La tesi di fondo è quella della modernizzazione coercitiva e totalitaria comune ai tre sistemi
politici, pur distinguendo le diverse vie da loro percorse. In questo contesto, Zimmermann
non nutre nessun dubbio che il nazismo abbia costituito l’esempio più forte e completo di trasformazione e di utilizzo dei media nella sua politica totalitaria, che il fascismo italiano non
sia riuscito completamente in tale intento, mantenendo compromessi e spazi di minore contaminazione ideologica, e che il franchismo non si sia completamente riscattato dalla cultura
più tradizionale e reazionaria della quale era il prodotto. Gli ampi capitoli centrali affrontano
ciascuno i principali settori d’intervento dei regimi: editoria e biblioteche, stampa e giornalismo, radiodiffusione e cinematografia. Essi sono essenzialmente descrittivi: affrontano l’argomento paese per paese (sempre prima il Terzo Reich, seguito dall’Italia fascista e dalla Spagna)
per poi aggiungere un breve paragrafo di sintesi e di comparazione tra i tre casi.
Questo libro conferma tutti i pregi ed anche tutti i limiti di molti lavori comparati. È particolarmente utile per i lettori di lingua tedesca perché li introduce ad una letteratura sul tema consultata dall’a. in lingua straniera. Occorre riconoscere la correttezza delle letture prese
in esame da Zimmermann per il caso italiano: le principali opere sono state affrontate e segnalate; analogamente si può dire per il caso spagnolo. I limiti però sono nella comparazione.
Innanzitutto, se si parte dalla tesi che il caso tedesco rappresenta il modello al quale attenersi
e confrontarsi, si perdono di vista le specificità degli altri due casi presi in esame: essi non sono incompleti, sono semplicemente diversi, in un contesto culturale, di sviluppo tecnologico, di mercato editoriale e cinematografico, di risorse finanziarie, di politiche di propaganda
molto diversificate tra loro. Secondo limite, la cronologia. L’apparato mediatico e propagandistico del regime franchista (studiato dall’a. sino al 1951) viene messo in piedi quando oramai gli altri due regimi si avviavano verso la fine; le condizioni culturali, economiche e morali della Spagna erano tutt’altro che idonee alla immediata creazione di un consenso, piuttosto favorevoli alla repressione. L’a. è costretto ad intrecciare la storia dei media sotto la Seconda Repubblica e le vicende della reazione ad essi condotta dal governo militare nazionalista.
Avrebbe potuto invece leggere meglio, trattandosi di un lavoro che tende al confronto, l’intervento diretto ed indiretto che i regimi nazista e fascista condussero non solo con le armi ma
anche con i media nella guerra civile spagnola e nei primi anni del franchismo.
Patrizia Dogliani
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I LIBRI DEL 2007
Vincenzo Zucchi, Architettura e memoria. Contrà Porta nuova Vicenza, Milano, FrancoAngeli, 185 pp., € 18,50
Se architettura indica tutto ciò che è «forma», tutto ciò che deve stare all’interno di un
canone, «memoria» rimanda a ciò che costituisce la specificità identitaria di una città. Solo la
corretta declinazione delle due categorie può legittimare la trasformazione di un complesso
stratificato di stili architettonici mettendo la città nella condizione di rispondere alle esigenze della vita contemporanea senza esserne svilita nella personalità o, peggio, «musealizzata» nei
contenuti. Sono questi i concetti cardine entro i quali si snoda la riflessione di Vicenzo Zucchi, docente di Composizione architettonica e urbana presso il Politecnico di Milano. Il volume raccoglie le lezioni che lo studioso ha tenuto a studenti di area latino-americana presso
la Scuola di formazione internazionale di Valorizzazione del Patrimonio storico e urbano. La
scuola è inserita nell’ambito del Programma internazionale Ur-bal, un programma di cooperazione decentralizzata della Commissione Europea avente come oggetto le principali tematiche delle politiche urbane e destinato a collettività locali dell’Unione Europea e dell’America latina. L’Italia e la Provincia di Vicenza hanno coordinato la Rete 2 incentrata sulla Conservazione dei contesti storici urbani. Il volume è diviso in tre parti. La prima, che consta di
sei capitoli, è un excursus storico sulla normativa italiana riferita ai piani regolatori, sui diversi strumenti di pianificazione urbanistica previsti nel sistema italiano, sulla storia della città
dalle origini dell’urbanistica all’età moderna, sulle diverse modalità d’intervento per la rivitalizzazione dei centri storici, sull’importanza della lettura del campo e dell’analisi urbana e sui
fondamenti teorici dell’intervento nel contesto urbano. La seconda parte affronta, invece, la
specificità dell’intervento in una città di grande tradizione architettonica come Vicenza, sede
del corso, e laboratorio in cui gli studenti hanno dovuto esprimersi nella progettazione di strategie di recupero e di rivitalizzazione di un quartiere del centro storico cittadino, Porta Nova,
avulso dalla core area, ma al contempo inserito nella cinta muraria che racchiude la città. Zucchi, insistendo sulla necessità di conoscere il territorio in cui si opera, ripercorre rapidamente
la storia di Vicenza e della sua evoluzione urbana, addentrandosi nella specificità del quartiere di Porta Nova ed indagando sull’attività degli ordini religiosi che hanno così fortemente segnato quel quartiere. Con ciò ha fornito chiari presupposti teorici e storici che hanno permesso agli studenti, divisi in quattro gruppi, di realizzare quattro differenti progetti per il rilancio del complesso architettonico del convento di Santa Maria Nova con annessa una chiesa
realizzata su disegno di Andrea Palladio, al fine di creare un nuovo polo urbano dinamico e
attrattivo e soprattutto maggiormente integrato al contesto cittadino. I quattro progetti, illustrati da planimetrie e piante del quartiere, integralmente riportati, chiudono il volume.
Alessandro Baù
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I LIBRI DEL 2007
Susan Zuccotti, Holocaust Odysseys. The Jews of Saint Martin Vésubie and Their Flight through France and Italy, New Haven-London, Yale University Press, 285 pp., $ 28,00
Per un curioso paradosso storiografico la pagina dell’occupazione italiana della Francia
meridionale, mentre ha stimolato la scrittura di molta memorialistica, talora piuttosto notevole (si pensi alle autobiografie di François Maspero e Léon Poliakov), non ha suscitato altrettanto interesse nella ricerca scientifica. Anche l’ottimo volume di Davide Rodogno (Il nuovo
ordine mediterraneo: le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa, 1940-1943, Torino, Bollati Boringhieri, 2003), molto scrupoloso sui paesi balcanici, nella sezione sulla Francia risulta meno originale. Manca, per esempio, una ricerca specifica sul ruolo maieutico di
una figura come Angelo Donati, diplomatico, regista sapiente di infinite mediazioni fra autorità consolari a Nizza, militari e governo di Vichy; manca un quadro generale sul comportamento delle forze italiane. A fronte di queste lacune sorprende, nell’ultimo decennio, l’intensificarsi di attenzione intorno al villaggio alpino di St Martin Vésubie, una di quelle «residenze coatte» istituite dalle forze italiane per gli ebrei stranieri confluiti a Nizza dopo il novembre 1942. Alla vicenda di questo migliaio di profughi provenienti da mezza Europa hanno
guardato con forte coinvolgimento emotivo due romanzieri, il francese J.M. Le Clézio (Étoile errante, Paris, Gallimard, 1992; trad. it. Milano, Il Saggiatore, 2000) e la scrittrice statunitense M. Doria Russel, A Thread of Grace. A Novel (New York, Random House, 2005). In Italia, molti ricorderanno Il prete giusto (Torino, Einaudi, 1990), uno degli ultimi lavori di Nuto Revelli, dedicato al parroco di Borgo S. Dalmazzo, don Raimondo Viale, che con ogni forza si prodigò per recare soccorso ai fuggiaschi.
In questo contesto s’inserisce adesso il volume di Susan Zuccotti, studiosa americana già
nota per ottimi lavori sulla storia della questione ebraica in Italia e in Francia e per un volume sull’atteggiamento della Chiesa di fronte alla Shoah. La Zuccotti non ci offre adesso una
ricerca di archivio, ma la storia di alcune famiglie provenienti dall’Europa centro-orientale
giunte nella Francia occupata dagli italiani nel tardo autunno del 1942 (Sigi Hart, Charles
Roman, Menachem Marienberg, Walter Marx, Miriam Löwenwirth, Boris Carmeli, William
Blye, Jacques e Paulette Samson, Lya Haberman). L’arco alpino occidentale, nei suoi tre versanti, italo-franco-svizzero, fu nel secondo conflitto mondiale una entità geografica autonoma, un luogo dove per una ineluttabile legge di gravità migliaia di profughi cercarono rifugio.
Non pochi valicarono i colli due o tre volte, in una spirale senza fine iniziata dall’Italia di Mussolini che li aveva espulsi nel 1940. Zuccotti ha raccolto la voce dei testimoni-superstiti –
Charles Roman ha messo a sua disposizione le indimenticabili fotografie. Ne viene fuori
un’antologia sull’esilio, da cui esce confermata l’ipotesi che l’arco alpino occidentale, durante
il secondo conflitto mondiale, sia ritornato ad essere luogo di rifugio per devianze, come sempre è accaduto per le minoranze religiose perseguitate, dai catari ai valdesi.
Alberto Cavaglion
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I LIBRI DEL 2007
Erik J. Zürcher, Storia della Turchia. Dalla fine dell’impero ottomano ai giorni nostri, Roma, Donzelli, XX-460 pp., € 30,00 (ed. or. London-New York, 1993)
Quella in oggetto è la traduzione dell’ultima versione, riveduta e aggiornata, dell’opera
dello Zürcher. Essa comprende inoltre una specifica Prefazione dell’a. all’edizione italiana.
Il libro, che prende le mosse dalla fine del XVIII secolo, ha una dichiarata ambizione di chiarezza didattica. Essa si riflette nell’organizzazione della materia, condotta secondo un criterio tematico anziché sincronico. Pregi e potenziali difetti di tale impostazione sono noti: lo Zürcher
nel complesso sfrutta bene i primi e «tiene sotto controllo» i secondi. Seria e meditata, inoltre, è
la rassegna bibliografica finale, rispetto alla quale abbiamo solo episodici motivi di dissenso.
Dal punto di vista interpretativo, la caratteristica saliente di quest’opera è sottolineata dalla partizione cronologica. L’a. sottolinea al massimo grado gli elementi di continuità presenti
tra l’esperienza dei «giovani turchi» e quella del periodo repubblicano nell’epoca monopartitica. Per quanto riguarda il periodo più recente, non si può certo dire che lo Zürcher si macchi di reticenza verso i golpisti del 12 settembre 1980, tuttavia ci resta l’impressione che egli
non abbia trasmesso abbastanza al lettore l’entità della devastazione politica, morale e culturale da essi compiuta. Un’annotazione specifica: sia nel corpo del libro (p. 211) sia nella sua
Prefazione ad hoc per questa edizione (p. XVII), lo Zürcher incorre in quello che è del resto
un frequente errore: parlando del Codice penale adottato dalla Turchia kemalista nel marzo
del 1926, lo presenta come esemplato su quello fascista, laddove in quel momento il processo di revisione che avrebbe portato dal Codice Zanardelli al Codice Rocco (promulgato nel
1930) era stato appena avviato. Questo errore è meno banalmente tecnico di quanto possa
sembrare. Associare al kemalismo un codice fascista anziché liberale sottintende la lettura del
regime kemalista come regime autoritario parafascista. In realtà esso fu molto di più; e, se si
vuole guardare in faccia la realtà, la sua pressione totalitaria sulla società va messa in rapporto con il suo aggancio ideale alla liberaldemocrazia occidentale e ai valori dell’illuminismo.
Tutto ciò emerge a fatica da una versione italiana indecente. La casa editrice Donzelli non
si vergogna di far pagare 30 euro dopo aver mandato in stampa senza il minimo controllo una
traduzione che, alla consueta totale ignoranza del paese oggetto dell’opera e della lingua turca, e quindi agli innumerevoli tragicomici strafalcioni, aggiunge una totale ignoranza della
grammatica italiana e latina, la mediocre conoscenza dell’inglese, la sciattezza stilistica e tutte
le possibili sviste della videoscrittura.
Per un po’ si ride, ma ben presto si ride amaro. Immaginiamo traduttori giovani, inesperti e malpagati. La questione delle traduzioni va posta in tutta la sua serietà. In altri paesi, tra
cui la Turchia, sulle copertine, assieme ai nomi degli autori e ai titoli, sono abitualmente posti i nomi dei traduttori; con ciò, si sottolinea sia la loro importanza sia la loro responsabilità.
Sarebbe bene cominciare a fare lo stesso in Italia.
Fabio L. Grassi
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I LIBRI DEL 2007
Alessandro Zussini, Franco Invrea. Un «Patrizio Genovese» nella Torino giolittiana, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 148 pp., € 15,00
Franco Invrea (1874-1950), di nobile famiglia genovese (i marchesi di Pontinvrea), ma
torinese di adozione, intellettuale, avvocato e amministratore, si distingue sin da giovanissimo tra i promotori del movimento cattolico piemontese.
Il lavoro di Zussini, che privilegia come fonti i carteggi privati e le delibere comunali, si
colloca in quel filone di studi sul notabilato che negli ultimi anni ha riconquistato l’interesse
degli studiosi, poiché contribuisce, in prospettiva comparata, ad accendere spie significative
sul ruolo di alcuni protagonisti «minori» della politica e della cultura in età liberale.
In questo caso, il percorso è quello di un esponente dell’intellettualità torinese di orientamento cattolico-democratico, che riesce a coniugare attività sociale, impegno pubblico ed
esercizio della professione, attraverso una presenza costante negli ambienti della cultura cittadina e, dai primi del ’900, nel Municipio del capoluogo (1906-1923). Le corrispondenze esaminate dall’a. mettono in luce i rapporti di amicizia di Invrea con i maggiori rappresentanti
del movimento politico cattolico, in particolare con Giuseppe Toniolo e Romolo Murri negli
anni del dibattito sul ruolo dei cattolici nella vita politica nazionale e della nascita della prima «democrazia cristiana». Ugualmente interessanti, specialmente per lo scambio di opinioni «sulle problematiche fiscali dei comuni», sono i legami con l’economista Luigi Einaudi, che
Invrea conosce nel Laboratorio di economia politica di Torino. L’intenso confronto culturale
degli anni giovanili ha esiti fecondi nella collaborazione alla «Rivista Internazionale di Scienze Sociali» e alla «Cultura Sociale» e nella pubblicazione di saggi e volumi, in cui parla di diritti dei lavoratori, di giustizia distributiva, di reti associative e di «municipalismo sociale».
La ricerca sollecita alcune considerazioni. Intanto, l’importanza di partire da esperienze individuali per osservare e comprendere più ampi contesti storici, politici, culturali. Il taglio prosopografico permette, di fatto, di cogliere non solo i «passaggi obbligati» nei processi formativi
delle élites e nella costruzione di reti di sociabilità, ma soprattutto di individuare, in chiave comparativa, progettualità e programmi per i modelli di crescita urbana nel rapporto con il panorama nazionale ed internazionale. Essi sono il frutto delle riflessioni di una intellighenzia che si
interroga sul futuro del centro urbano, in particolare per il governo di una Torino che nel ’900
subisce profonde modificazioni legate ad una straordinaria crescita demografica e al suo destino industriale. Non a caso, autonomia dei Comuni, municipalizzazioni, riforme tributarie e riqualificazione degli spazi urbani sono i punti strategici del programma amministrativo di Invrea, che si inserisce nelle linee politiche giolittiane e che deriva da una ricorrente attenzione
agli esempi europei, non sempre, però, applicabili e realizzabili. Tanto è vero che il «nobile»-avvocato, condizionato dalla mancanza di risorse, sarà costretto a spendere le sue energie, come
assessore alle Finanze, nel difficile compito di restaurare «il disastroso bilancio comunale».
Daria De Donno
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