Stampa questo articolo

Transcript

Stampa questo articolo
Guido Morselli, l’inattualità di un contemporaneo
di Andrea Santurbano
Nell’affrontare un autore come Guido Morselli, al di là delle inevitabili valutazioni estetiche sulla sua opera, ciò che più colpisce è la particolare complessità
contrassegnante la sua inserzione nel contesto storico e culturale della sua epoca.
In altre parole, quel suo stare in bilico, che a volte diventa addirittura calibrata
sincronia, dentro e fuori dal suo tempo: non solo dal punto di vista esistenziale,
ma anche da quello artistico, in un problematico (perlomeno dal punto di vista
dei suoi contemporanei) sfasamento rispetto ai canoni di critica e gusto. Caratteristica, questa, che si accentua e probabilmente cresce e si smeriglia con lucida
consapevolezza nel corso degli ultimi anni, relegandolo in modo sempre più inappellabile nella categoria degli incompresi e, di conseguenza, degli “impubblicabili”. Se, per esempio, un’opera quale Il comunista presenta ancora un riflesso fenomenologico, storicizzato, della coscienza di un protagonista lacerata sì,
ma che vuole in qualche modo ricostituirsi, nell’ultimo Dissipatio H.G. si assiste
ad una crisi del soggetto in senso ontologico, per un romanzo in qualche modo
decostruzionista o da leggere in chiave decostruzionista. Per dirla in altro modo,
quell’orizzonte di attesa nutrito dalla ricerca di una totalità del reale di cui solo
l’artista può farsi pieno interprete 1, erede di tanta poesia moderna da Baudelaire
e Rimbaud in poi, arriva a cristallizzarsi in un’entropia in cui le esperienze si sono accumulate in una sorta di archeologia del vivere e del sapere. Per ripercorrere le traversie morselliane è bene, allora, partire dalla fine, dalle ultime righe di
Dissipatio H.G., da quell’atmosfera post-apocalittica che circonda l’ultimo sopravvissuto, il quale appare all’improvviso costituirsi come unico testimone di
una palingenesi universale:
1
Scrive un giovane Morselli sul suo diario, il 26 novembre 1943: «Chi sa “ascoltarsi” vive
più vite. Per chi attinge alla propria sensibilità profonda, il passato non è mai morto; non solo,
ma la sua vita presente si dilata immensamente di là dai suoi limiti apparenti, ad abbracciare
innumerevoli esperienze» (MORSELLI G., Diario, Adelphi, Milano 1988, p. 13).
104
Andrea Santurbano
Me ne sto a guardare, dalla panchina di un viale, la vita che in questa strana eternità si prepara sotto i miei occhi. L’aria è lucida, di un’umidità compatta. Rivoli d’acqua piovana (saranno
guasti gli scoli nella parte alta della città) confluiscono nel viale, e hanno steso sull’asfalto, giorno dopo giorno, uno strato leggero di terriccio. Poco più di un velo, eppure qualche cosa verdeggia e cresce, e non la solita erbetta municipale; sono piantine selvatiche. Il Mercato dei Mercati si cambierà in campagna. Con i ranuncoli, la cicoria in fiore.2
Lo squarcio di queste poche righe, improvvisamente leggere e luminose, dopo un incessante monologo giocato sul filo dell’ironia, brilla come la superficie
traslucida e cangiante di un diamante. Rappresenta uno dei passi più indecifrabili di Morselli, perché si resta increduli davanti ad un apparente segnale di speranza da parte di uno scrittore che di lì a poco si sarebbe tolto la vita: ultima utopia, affidata al “senza luogo” della pagina letteraria, dunque, o finale disincanto di un qualcosa che sopravviverà senza e/o malgrado l’uomo? È chiaro che il
personaggio non può coincidere totalmente con il suo autore, ancorché in
quest’ultima e, difatti, testamentaria opera ne ricalchi in controluce tutte le
grandi questioni. Insomma, attorno a questi aspetti si riassume la vicenda stessa
di Morselli, la sua ambigua relazione, come si diceva prima, col mondo in generale e con la contingenza del suo tempo in particolare. Aspetti che ne fanno sin
da subito un pensatore isolato, indipendente ed irregolare.3
A neanche due anni dalla morte di Morselli e nove mesi prima del suo brutale assassinio, un intellettuale scomodo come Pier Paolo Pasolini esternerà tutta la
sua disillusione, ideologica e sociale, nel famoso articolo apparso sul «Corriere
della Sera» il 1° febbraio 1975, dal titolo Il vuoto di potere, ma meglio conosciuto
come quello “sulle lucciole”. In esso, infatti, Pasolini identificava nella scomparsa di questo fantasmagorico coleottero una drammatica transizione storica, che
coniugava i vecchi paradigmi populistici ereditati dal fascismo – chiesa, patria e
famiglia su tutti – con i nuovi imperativi di una società capitalistica e industriale,
il tutto con la connivenza, persino inconsapevole, della Democrazia Cristiana. In
tal modo, anche gli ultimi barlumi, rappresentati appunto dalle lucciole, di una
società autenticamente popolare, depositaria delle ultime speranze pasoliniane,
andavano scomparendo. Scrive lo scrittore e cineasta:
Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono divenuti in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, crimina-
2
MORSELLI G., Dissipatio H.G., Adelphi, Milano 2001, p. 54.
3
Mi permetto di rimandare al mio Marginalità e resistenza, in “Mosaico Italiano”, VIII (2012),
96, Rio de Janeiro, pp. 19-21, dove già appaiono questioni riprese e sviluppate nel presente articolo.
Guido Morselli, l’inattualità di un contemporaneo
105
le. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della
gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata [...].4
Il filosofo e storico dell’arte francese Georges Didi-Huberman (nome sul quale si tornerà in seguito), in un brillante saggio del 2009, Survivance des lucioles5,
disquisisce su questa cieca disperazione pasoliniana, che lo avrebbe reso incapace di cogliere i bagliori di una resistenza civile e portato di conseguenza ad assumere posizioni “reazionarie” negli ultimi anni (si pensi alla posizione assunta
dopo i fatti di Valle Giulia). Tuttavia, nel criticarne questa deriva, DidiHuberman non cessa di riconoscerne anche l’esattezza dell’analisi:
I profeti dell’infelicità, gli imprecatori, sono deliranti agli occhi di alcuni, chiaroveggenti e
affascinanti agli occhi di altri. È facile respingere il tono pasoliniano, con le sue note apocalittiche,
le sue esagerazioni, le sue iperboli, le sue provocazioni. Ma come non sperimentare la sua inquietudine lancinante quando tutto nell’Italia di oggi – per citare solo l’Italia – sembra corrispondere
ogni volta più precisamente all’infernale descrizione proposta dal cineasta ribelle? Come non
vedere operare questo neo-fascismo televisivo di cui ci parla, un neo-fascismo che esita sempre
meno, dicasi en passant, nel riassumere tutte le rappresentazioni del fascismo storico che lo ha
preceduto?6
Non sarà inutile ricordare a questo punto, seppur fugacemente, le considerazioni di Paolo Flores D’Arcais contenute nell’introduzione all’edizione del 1995
de La rivoluzione liberale di Piero Gobetti, allorché, costruendo una sorta di montaggio parallelo con alcuni passaggi del testo gobettiano, egli ricordava come alcuni mali endemici dell’organizzazione socio-politica italiana avessero radici
lontane. Con la conseguenza che
[...] l’egemonia è sempre stata nelle mani di una non-borghesia in espansione, capace bensì di
lucrare alti profitti e perfino di produrre innovazione tecnica, ma assolutamente aliena dai doveri, dalla mentalità, dall’ethos di una classe dirigente, che in quanto tale è orgogliosa di autonomia
4
Testo ripreso in questa circostanza da
http://www.pasolini.net/saggistica_scritticorsari_lucciole.htm.
5
Traduzione italiana uscita col titolo Come le lucciole – Una politica della sopravvivenza (Bollati
Boringhieri, Torino 2010).
6
T.d.r. dall’edizione brasiliana, DIDI-HUBERMAN G., Sobrevivência dos vaga-lumes (trad. di
Vera Casa Nova e Márcia Arbex), Editora UFMG, Belo Horizonte 2011, p. 39.
106
Andrea Santurbano
e dotata di quella “intransigenza e intolleranza operosa” (134) che ne faccia l’alambicco “di un
movimento libertario che vive di responsabilità economica e di iniziativa popolare” (10).7
O ancora, che
Il capitalismo ammanicato egemone in Italia [...] sceglie e rinnova l’alleanza fra populismi,
all’ombra di uno Stato che non sarà mai welfare in senso europeo, ma distribuzione di mance e
favori ai più diversi strati sociali, secondo la logica di un “perpetuo ricatto in cui a eterne concessioni fanno eco eterne richieste senza che si introduca nella lotta politica un principio di responsabilità” (28).8
Da queste note non deve certo derivare una equazione ideologica tra Morselli, Pasolini e Gobetti, quanto piuttosto segnali di un disagio, provenienti da posizioni e contesti diversi, che danno invece conto di un libero pensiero risultante in
posizioni “intempestive”, secondo un’accezione che si chiarirà meglio più avanti. Per tornare allora all’interrogativo accennato in sede introduttiva, Morselli
vedeva ancora brillare le lucciole, seppur in quella natura selvatica che affiorava
al di là di un’umanità sepolta?
Il suicidio sembrerebbe una risposta inappellabile, eppure forme di resistenza non sono mancate fino all’ultimo. Occorre innanzitutto dire che a partire dal
suo ritiro al Sasso di Gavirate si stabilisce definitivamente quel procedere controcorrente, anche dal punto di vista politico – politico inteso nel senso meno inflazionato del termine, di scelte coscienti e sistematiche nella prassi del vivere
quotidiano. Di lui si potrebbe anzi dare, per converso, la definizione di “impolitico”, nel senso non privo di ironia di colui che non sa adeguarsi alle norme, che
non sa cogliere le opportunità e che diventa, di conseguenza, un infrattore, non
programmatico ma sostanziale, del politically correct. Nella famosa lettera a Calvino scrive che «è politicamente in crisi, con quasi nessuna speranza di uscirne»,
per poi, in appunti sparsi, definire meglio il suo pensiero in merito alla situazione italiana. Su un ritaglio di un articolo del «Corriere della Sera» del 1969 annota: «Ci sarebbe un altro rimedio: subordinare la “società politica” (= i partiti) alla
società civile (i cittadini). Instaurare almeno tendenzialmente un regime di democrazia diretta».9 Insomma, nonostante il suo perdurante auto-isolamento,
Morselli resta sempre aggiornato sul dibattito politico e culturale in corso in Ita-
7
FLORES D’ARCAIS P., “Introduzione”, in GOBETTI P., La rivoluzione liberale, Einaudi,Torino
1995, p. XII. Le parti virgolettate e i numeri tra parentesi indicano le citazioni di Gobetti e le pagine da cui sono state tratte.
8
Ibid., p. XIII.
9
Documento conservato presso il Fondo Morselli a Pavia.
Guido Morselli, l’inattualità di un contemporaneo
107
lia. Da un articolo di Eugenio Scalfari sull’«Espresso», del 14 aprile 1968, sottolinea: «Quella sindacale è da tempo diventata un’altra burocrazia, non dissimile
per metodi e per mentalità dalla burocrazia dei partiti e da quella dello Stato.
Burocrazia vuol dire casta chiusa».10 E avrà probabilmente sottoscritto nello stesso articolo un altro passo: «la gente ha sfiducia nei partiti, nella classe politica,
nello Stato. Non odia la politica, odia chi la fa».
Tuttavia, siamo qui ancora ad un livello più evidente e cosciente di riflessione politica, mentre quello su cui si vuole porre l’accento è il modo in cui Morselli
abbia interiorizzato e resa effettiva questa sua intransigenza civile, al di là delle
note misure salutistiche a cui si sottoponeva regolarmente. Ecco, allora, che la
sua forma di resistenza quotidiana si riassumeva in gesti dal grande valore simbolico, oltre che pratico, come il pervicace riutilizzo di materiale cartaceo, non
ultimo quello pubblicitario, su cui fissava idee e spunti per i suoi scritti. Morselli,
questi oggetti (o indizi di “dispositivi”) di un sistema rifiutato arriva così a “profanarli”, per dirla con le parole di Giorgio Agamben, cioè a ritirarli dall’uso comune per restituirli al libero uso degli uomini. Una pratica, questa, che ci piace
vedere anche come forma di resistenza alla iperproduttività del mercato (nondimeno quello culturale), secondo l’unica arma di cui Morselli poteva disporre:
la scrittura appunto. Vanno in questo senso anche le note contenute sul suo diario, in data 26 agosto 1969, quando scrive che:
i “beni” sono mercificati, e lo stesso accade del lavoro. Ciascuno di noi anche se non lavoratore è alienato, cioè fatto schiavo di potenze che dovrebbero, invece, essere al nostro servizio,
anzitutto per la buona ragione che le abbiamo create noi. Ma non basta. Non solo siamo schiavi,
ma “reificati”: ossia ridotti al basso livello di oggetti, a vantaggio delle citate “potenze” nostre
creature.11
Michel de Certeau, allargando il discorso al rapporto tra cittadino e istituzioni, ricorda come Michel Foucault in Vigilare e punire
sostituisce l’analisi degli apparecchi che esercitano il potere (ossia, delle istituzioni localizzabili, espansionistiche, repressive e legali) con quella dei “dispositivi” che “hanno vampirizzato” le istituzioni e riorganizzato clandestinamente il funzionamento del potere: procedimenti
tecnici “minuscoli”, operanti su e con i dettagli, hanno redistribuito lo spazio per trasformarlo
nell’operatore di una “vigilanza” generalizzata.12
10
Anche questa carta è consultabile al Fondo Morselli.
11
MORSELLI G., Diario, cit.
12
T.d.r. dall’edizione brasiliana, de CERTEAU M., A invenção do cotidiano - 1. Artes de fazer
(trad. di Ephraim Ferreira Alves), Editora Vozes, Petrópolis 2001, p. 41.
108
Andrea Santurbano
E se è vero che questa rete di vigilanza si espande in ogni dove, si chiede dunque de Certeau quali siano le forme che una società intera possiede per opporvisi:
quali procedimenti popolari (anch’essi “minuscoli” e quotidiani) giocano con i meccanismi
della disciplina e non si adeguano ad essa se non per alterarli; infine, che “modi di fare” formano la contropartita, dalla parte dei consumatori (o “dominati”?), dei processi muti che organizzano l’ordinamento socio-politico.13
L’esistenza di Guido Morselli, come accennato, si nutre proprio di gesti minuscoli, abitudinari, meticolosi, e non già di anarchico abbandono, che diventano i cardini di un ordine esistenziale indispensabile nel suo rigore. Una scelta
alternativa, estrema, dettata da un irriducibile solipsismo, ma anche prassi di
strenua resistenza verso i dettami di una società nella sua deriva consumistica,
dove ogni oggetto ha perso la sua «aura», per usare un termine benjaminiano, ed
ogni uomo è «reificato», per riprendere la terminologia morselliana. Insomma,
quella dello scrittore varesino d’adozione si configura come una vera e propria
“strategia”, più che una “tattica”: ancora seguendo l’analisi di Michel de Certeau, la strategia «postula un luogo suscettibile di essere circoscritto como qualcosa
di proprio e di essere la base da cui si possono gestire le relazioni con una esteriorità di obiettivi o minacce»14, mentre la tattica «non ha altro luogo se non quello
dell’altro. E per questo deve giocare in un terreno che gli è imposto [...]. Non ha
mezzi per mantenersi da sè, a distanza, in una posizione di retroguardia, di previsione e di convocazione propria»15. Ne consegue che essa non ha
la possibilita di dare a se stessa un progetto globale né di totalizzare l’avversario in uno
spazio distinto, visibile e oggettivabile. [E] questo non-luogo gli permette senza dubbio mobilità, ma restando docile ai pericoli del tempo, per cogliere al volo le possibilità offerte per un istante [...].
Insomma, la tattica è l’arte del debole.16
Morselli, invece, il suo luogo, esclusivo, d’azione se lo sceglie e se lo progetta
addirittura (la “casina rosa”), e dall’esproprio dettatogli da circostanze esterne
(ghiri o ciclocrossisti rumorosi che si voglia) ha inizio la parabola che lo condurrà al suicidio.
13
Ibid.
14
Ivi, p. 99.
15
Ivi, p. 100.
16
Ivi, p. 101.
Guido Morselli, l’inattualità di un contemporaneo
109
Da uno spazio e una posizione operativa scelti e difesi ostinatamente, il passo
è breve per intessere quel rapporto particolare col proprio tempo storico evidenziato all’inizio. Morselli, in qualche modo, la corrente del suo tempo sceglie di
risalirla, non di seguirla, e qui risiede la sua grande specificità; una specificità,
appannaggio di pochi e selezionati autori, che si fonda su un’aritmia di fondo, su
uno sfasamento, su uno sguardo obliquo, in grado di cogliere le pieghe opache
del processo storico, senza per questo estraniarsene. Secondo Giorgio Agamben,
difatti, è veramente contemporaneo colui che mantiene una relazione singolare
col proprio tempo, aderendovi e allo stesso tempo prendendone le distanze; potendo, proprio grazie a questa parziale dissociazione, a questa “inattualità”, a
questa “intempestività”, a questo “anacronismo”, captare e capire il suo tempo
più degli altri.17 È di nuovo Didi-Huberman a chiarire, in particolare, l’ultimo di
questi termini, dandogli il senso di un’operazione che per essere efficace si deve
mettere in moto in una prospettiva pluridirezionale. Lo studioso francese parla
di anacronismo in relazione alle immagini dell’arte, ma il discorso può ampliarsi
ulteriormente, poiché, così come davanti ad un’opera pittorica, anche davanti ad
un libro dobbiamo pensare che siamo noi (lettori) transitori, mentre ci sentiamo
onnipotenti e consideriamo l’autore “fisso” e ingabbiato nel tempo: siamo noi,
semmai, un segmento lungo la linea del tempo, mentre l’opera ci sopravvive e
catalizza in essa vari “tempi”, in perpetuo rapporto dinamico. Essa può così parlarci in un modo ogni volta nuovo.
Non bisogna pretendere né di fissare né di eliminare la distanza [dell’oggetto]; occorre invece farla agire nel ritmo alterno tra i momenti di prossimità – empatici, intempestivi e inverificabili – e i momenti di distanziamento critico – coscienziosi e verificativi. Ogni questione di metodo è forse riconducibile a una questione di tempi.
L’anacronismo non può perciò essere ridotto a quel tremendo peccato che ogni storico patentato vi scorge immediatamente. Potrebbe essere pensato come un momento, un battere ritmico del metodo, al limite un suo passaggio sincopato.18
E questo vale certamente come approccio critico all’opera di Morselli, ma ancor più, nell’economia del nostro discorso, come prospettiva spesso tenuta dallo
scrittore di fronte agli avvenimenti del suo tempo e soprattutto di fronte ai fatti
della storia: da qui le sue note riscritture ucroniche, la sua contro-storia; insomma, il suo rifiuto “anacronistico” (inconcepibile e ozioso agli occhi di tanti suoi
contemporanei) della Storia come religione intoccabile. Morselli, nel chiuso della
17
Si veda AGAMBEN G., Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, Roma 2008.
18
DIDI-HUBERMAN G., Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (trad. di Stefano Chiodi),
Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 24.
110
Andrea Santurbano
sua officina, si fa artigiano paziente e rimescola nel suo mosaico narrativo
schegge di memoria, di sapere e di realtà per recuperare il senso di
un’esperienza individuale e collettiva. È proprio questo un aspetto che si ricollega ai precedenti e che, in qualche modo, chiude il cerchio: Morselli declina dalla
sua esperienza del vivere secondo le più comuni regole sociali e si ritira a vivere
ai margini, appunto per recuperare il senso stesso dell’esistenza, per gestirne e
assaporarne gli attimi lontano dalla contaminazione del quotidiano. Sulla scorta
di quella perdita dell’esperienza già denunciata da Walter Benjamin nel discorso
sul narratore, di nuovo Giorgio Agamben sottolinea:
Ogni discorso sull’esperienza deve oggi partire dalla constatazione che essa non è più qualcosa che ci sia ancora dato di fare. Poiché, così come è stato privato della sua biografia, l’uomo
contemporaneo è stato espropriato della sua esperienza: anzi, l’incapacità di fare e trasmettere
esperienze è, forse, uno dei pochi dati certi di cui egli disponga su se stesso.
[...] Poiché la giornata dell’uomo contemporaneo non contiene più quasi nulla che sia ancora traducibile in esperienza: non la lettura del giornale, così ricca di notizie che lo riguardano da
un’incolmabile distanza, né i minuti trascorsi al volante dell’automobile in un ingorgo, non il
viaggio agli inferi nelle vetture della metropolitana né la manifestazione che blocca improvvisamente la strada, non la nebbia dei lacrimogeni che si disfa lenta tra i palazzi del centro e
nemmeno i rapidi botti di pistola esplosi non si sa dove, non la coda davanti agli sportelli di un
ufficio o la visita al paese di Cuccagna del supermercato, né i momenti eterni di muta promiscuità con sconosciuti in ascensore o nell’autobus. L’uomo moderno torna a casa alla sera sfinito
da una farragine di eventi – divertenti o noiosi, insoliti o comuni, atroci o piacevoli – nessuno
dei quali è però diventato esperienza.19
Sul piano letterario Morselli si fa così capace di straordinari salti metaforici,
trasposizioni al di fuori delle coordinate spazio-temporali conosciute (da me definite in altra sede “buco del verme”20), terreno dove la sua critica può stagliarsi
salvaguardando quanto detto sin qui: cioè, la sua inattualità, la sua intempestività, il suo anacronismo, che diventano dei congegni originali, seppur condannati
all’incomprensione, per cogliere le idiosincrasie della contemporaneità.
Vien ora da pensare, tornando all’ultimo passo di Dissipatio H.G. e alle lucciole pasoliniane, ad un’opera epocale di Italo Calvino, Le città invisibili (pubblicata
l’anno prima della morte di Morselli), e al lucido disincanto del suo autore. Scri-
19
AGAMBEN G., Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Tori-
no 2001, pp. 5-6.
20
Si veda SANTURBANO A., Il romanzo come buco del verme, in SANTURBANO A., PIERANGELI F.,
DI GRADO A., Guido Morselli: io, il male e l’immensità (ed. bilingue, ital.-port.), Comunità, Rio de
Janeiro 2011.
Guido Morselli, l’inattualità di un contemporaneo
111
ve Calvino nel famoso explicit, attribuendo a Marco Polo, anche lui “anacronisticamente”, una sensibilità tutta moderna:
E Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno
che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo
all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.21
Ma in quest’opera c’è un altro passo, che sarà sottolineato – come si vedrà tra
poco – da Pasolini, in cui il tempo si comprime e sfasa il suo incedere lineare:
«Nella piazza c’è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è
seduto in fila con loro. I desideri sono già ricordi».22 L’ultimo sopravvissuto
morselliano parlava di vita in «questa strana eternità», ed anche lì il procedere
era scandito da ricordi. Torna la domanda: ultima utopia o disincanto finale?
Pasolini, che già smetteva di vedere le lucciole, ma che fin nella sua ultima intervista, rilasciata alla tv francese, diceva di non desistere dal suo impegno politico, coglie una duplicità nelle Città invisibili, e, come si sa, vede in Calvino una
rinuncia, un agire che sa di «tattica», per riprendere la definizione di Michel de
Certeau. Così scrive in un recensione al libro, del 28 gennaio 1973:
Le città invisibili è un libro di un ragazzo. Solo un ragazzo può avere da una parte un umore
così radioso, così cristallino, così disposto a far cose belle, resistenti, rallegranti; [...]
D’altra parte nella città di Isidora, “c’è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro”. E indubbiamente, cioè secondo logica, Le città invisibili sono
l’opera di un vecchio, o almeno di un uomo anziano, che ha visto passare la vita. Questa esperienza – che è la più importante che un uomo possa fare – fa sì che egli non riesca a vedere più il
futuro come il futuro della propria vita, e nemmeno, ormai, come il futuro dei figli o dei nipoti
[...]: no, l’esperienza dell’aver visto passare la vita equivale all’esperienza dell’aver visto passare
tutta la possibile vita, la vita del cosmo. [...] Il libro di Calvino è così il libro di un vecchio, per
cui “i desideri sono ricordi”. Non solo, però, i desideri sono ricordi: lo sono anche le nozioni, le
informazioni, le notizie, le esperienze, le ideologie, le logiche: tutto è ricordo. Ogni strumento
intellettuale per vivere, è un ricordo. [...]. È vero dunque che ogni illusione culturale in Calvino
è decaduta, ma la sua cultura è però rimasta: almeno come fornitrice di quei ricordi culturali,
21
CALVINO I., Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, p. 170.
22
Ivi, p. 16.
112
Andrea Santurbano
attraverso cui Calvino può esprimere il nuovo mondo, come esso si presenta ai suoi occhi abbacinati di vecchio-ragazzo, seduto sul muretto.23
Conclude Pasolini:
Dunque, malgrado la caduta di ogni illusione culturale, la cultura di Calvino, ripeto, è rimasta intatta, sia pure come Illusione: e, in quanto tale, ha raggiunto la perfezione formale di un
oggetto, di un meraviglioso fossile. La cultura specifica di Calvino, poi, che è quella letteratura,
liberatasi dalla sua funzione, dai suoi doveri, è divenuta come una miniera abbandonata, in cui
Calvino va a prelevare i tesori che vuole.24
Impossibile non cogliere delle possibili affinità tra il Calvino delle Città invisibili e soprattutto l’ultimo Morselli, e non dedicare una seria riflessione alle parole di Pasolini. Solo che utopia e disincanto non necessariamente devono contrapporsi, anzi possono ricomporsi in un’unità superiore. D’accordo con Claudio
Magris,
Utopia e disincanto, anziché contrapporsi, devono sorreggersi e correggersi a vicenda. [...]
Utopia significa non arrendersi alle cose così come sono e lottare per le cose così come dovrebbero essere [...].
Il disincanto è una forma ironica, malinconica e agguerrita della speranza; ne modera il pathos profetico e generosamente ottimista, che facilmente sottovaluta le paurose possibilità di
regressione, di discontinuità, di tragica barbarie latenti nella storia. Forse non ci può essere un
vero disincanto filosofico, ma solo uno poetico, perché soltanto la poesia può rappresentare le
contraddizioni senza risolverle concettualmente, bensì componendole in un’unità superiore,
elusiva e musicale.25
I contatti, il dialogo cercato fino all’ultimo col mondo culturale e politico parlano di un Morselli non rassegnato, anzi agguerrito nei suoi principi; la sua letteratura, comprese le opere incompiute ed i suoi progetti, addentrano sempre più
il terreno del grottesco, del paradosso, del fantastico, dando seguito a quel gioco
di chiaroscuri dove i personaggi si perdono e colgono, in delle epifanie improvvise, la propria voragine, i propri inferni. O semplicemente, punti dove percepiscono la loro dissonanza con la contemporaneità. Già in Un dramma borghese, per
esempio, il protagonista si vede infine precipitato anche fisicamente in un labi-
23
PASOLINI P. P., Saggi sulla letteratura e sull’arte, Tomo secondo, Mondadori (I Meridiani),
Milano 1999, pp. 1726-27.
24
Ivi, p. 1727.
25
MAGRIS C., Utopia e disincanto - Saggi, 1974-1998, Garzanti, Milano 2001, pp. 12-14.
Guido Morselli, l’inattualità di un contemporaneo
113
rinto oscuro, dai toni kafkiani («L’oscurità pare l’acqua di un acquario, è calda,
popolata, e si fa fatica a spostarla, sento il sudore vestirmi la schiena. I tronchi
non finiscono mai davanti a me, capisco qual è l’angoscia dell’insetto prigioniero»26) e di un Edipo moderno («Il gesto senza vergogna di un cieco; quasi
l’emblema, devo essermi detto, del mio stare al mondo e condurmici» 27). Climax
che ne Il comunista si ha con la scena dello smarrimento nella bufera:
Ma anche più in fondo, un pensiero angosciato, non un sogno, batteva in lui, poneva una
domanda, o la abbozzava; era come se lui dovesse scegliere. Scegliere ancora, una strada o una
soluzione, decidere. Su quel residuo di volontà si stendeva la fatica organica, e questa era senza
sofferenza, una facile rinuncia. Un ritirarsi.28
E, per tornare a Dissipatio H.G., una nuova “voragine”, stavolta sull’orlo di un
sifone, è trasposta sul piano di una lucida ironia che finisce col neutralizzarla:
Mi sentivo bene, stranamente, irriducibilmente bene. L’epilogo è in armonia con questo imprevedibile. Non ho agito. Sono stato agito dal senso organico, che è quanto dire: 85 chilogrammi di sostanza vivente non ubbidivano. Consci, a modo loro, della sentenza secondo cui
morire è cambiare materia, non erano disposti a cambiare materia.29
Anche alcuni degli ultimi racconti, infine, coniugano disincanto, memoria del
sapere e perdita dell’esperienza di personaggi imbalsamati nella loro quotidianità. Come quelli riprodotti in «Spaccato di un “vissuto” fortunato. Vissuto a due.
Cronachetta moglie e marito giovani, un po´ grigia, senza un pizzico di Antonioni, senza nemmeno Flaubert»30; o nel caso della vedova che vive sola e segregata in un villino di periferia con i suoi gatti:
Leggo un po’, rovistando tra i “rari”, da Luciano a Huysmans a Bioy Casares, mi cucino al
giradischi pasti musicali eterocliti e non sempre commestibili, evito con cura la tv e le chiacchiere circa altrettanto insulse delle brave borghesi, non so in pratica che cosa sia un ritrovo
elegante.31
26
MORSELLI G., Un dramma borghese, in ID., Romanzi, vol. I, Adelphi, Milano 2002, p. 913.
27
Ivi, p. 919.
28
ID., Il comunista, in ID., Romanzi, vol. I, Adelphi, Milano 2002, p. 1284.
29
ID., Dissipatio H.G., Adelphi, Milano 2001, pp. 24-25.
30
ID., Una missione fortunata e altri racconti, Nuova Editrice Magenta, Varese 1999, p. 18.
31
Ivi, p. 50.
114
Andrea Santurbano
Insomma, Morselli Guido, morto suicida, autore postumo, dalla sua
epoca fu giudicato inattuale. In realtà era contemporaneo come non mai:
allora come oggi.