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Il racconto della rimozione:
Un dramma borghese di Guido Morselli
di Luigi Weber
Tutta la nostra esperienza interiore è il gioco di due fattori:
la memoria (il passato) e l’angoscia (il presente).
Catanzaro, 2 febbraio 1944
Guido Morselli, Diario1
Desolate, rare e spesso laconiche sono le annotazioni del Diario stese da Morselli nel corso dell’anno 1959. Ne basti una per tutte, preceduta (e seguita) da oltre un mese di silenzio: «Un così vasto cielo, e nessun bene» 2.
Nel quaderno XIII, che contiene gli appunti di quell’anno3, si osserva pure il
fenomeno opposto, concentrato solo negli ultimissimi giorni, tra Natale e Capodanno, che notoriamente sono momenti di particolare peso e pena psichica per
chi inclina a umori malinconici o depressi 4; qui lo scrittore lascia sulla carta alcuni brani di maggior estensione, e in una nota del 29 dicembre dedicata alle moderne, laiche, impersonali declinazioni dell’istituto della confessione, cita il celebre – per l’epoca – rapporto Kinsey. Così scrive Morselli: «Il mondo ha un eterno
bisogno di confessarsi. […] Ad una commissione di “esperti” capitanata dal professor Kinsey, migliaia di donne hanno aperto, con consapevole obbiettività, con
1
MORSELLI G., Diario, a cura di FORTICHIARI V., Adelphi, Milano, 1988, p. 54.
2
Ivi, annotazione del 17 aprile 1959, p. 180.
3
Il quaderno XIII va dal maggio del 1949 all’ottobre 1960.
4
Si veda l’incipit, mestamente eloquente, dell’annotazione del 1 gennaio 1960: «Ieri sera (31
dicembre) ero a letto prima delle undici», ivi, p. 189.
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una freddezza che per essere scientifica è del tutto al di là del pudore, i più gelosi segreti della loro carne, ed abbiamo appreso mercé loro con quali sottigliezze
si esercita nottetempo l’istinto insoddisfatto delle vergini americane»5. Non
sfuggano due dettagli: gli studi del biologo Alfred Kinsey, Sexual Behaviour in the
Human Male e Sexual Behaviour in the Human Female, erano usciti in America nel
1948 e nel 1953, ed erano stati tradotti in Italia da Bompiani nel 1950 e nel 1955,
ma naturalmente quello che aveva sollevato maggior eco, ed eco di scandalo, era
il secondo, dedicato al Comportamento sessuale nella femmina umana. Morselli si
dimostra perfetto interprete di una diffusa mentalità maschile, colta di sorpresa
e disorientata dalla scoperta di quanto comune fosse la pratica autoerotica anche
presso il genere femminile, addirittura in individui di età molto giovane. Infatti
nella nota si parla, sintomaticamente, non di uomini e donne americani, né di donne
americane, bensì di «vergini americane». Il velo alzato del rapporto Kinsey, che
turba gran parte del mondo benpensante da una parte e dall’altra dell’Atlantico,
riafferma su basi statistiche e scientifiche l’esistenza dell’eros adolescenziale, e
persino pre-puberale. Morselli tornerà a menzionare il medico dell’Indiana e il
suo libro in Un dramma borghese, quando il narratore interroga il dottor Vanetti
sulla “normalità” delle pratiche solitarie della figlia Mimmina, a cui ha casualmente ma rapinosamente assistito 6.
Tra il 1959 e la cruciale annotazione nel Diario del 4 marzo 1961 – cruciale,
s’intende, in quanto ricollegabile con una certa sicurezza non solo cronologica al
graduale addensarsi della nebulosa di tematiche e suggestioni che di lì a poco
porterà Morselli a iniziare Un dramma borghese – , o se si vuole, più correttamente, tra quel dolente ’59 e la fine del ’62, quando per l’appunto Un dramma borghese
è nella sua prima stesura terminato, andrebbero ulteriormente registrati due fatti, tutt’al più come mera suggestione; fatti che con l’opera e con il pensiero di
Guido Morselli magari non ebbero tangenza diretta, e che, tuttavia, presentano
una certa utilità per il percorso di lettura che si intende fare in questa sede.
Il primo data ancora al 1959, ed è la traduzione italiana per Mondadori, a
firma di Bruno Oddera, del capolavoro “scandaloso” di Vladimir Nabokov, Lolita, uscito originariamente a Parigi nel 1955 e solo qualche tempo più tardi in
America, con a seguire la ben nota pirotecnia di polemiche innescata dal tema
del romanzo. Il secondo – giugno del ’62 – è la distribuzione dell’altrettanto o5
Ivi, p. 186.
6
«Premetto, inventando, che ho con me il volume del rapporto Kinsey e lo sto leggendo»,
MORSELLI G., Un dramma borghese, Adelphi, Milano, 1978, p. 126. Si cita dalla seconda edizione,
pubblicata nel 1992 (d’ora in poi DB). Scritto tra il settembre 1961 e l’agosto 1962, il romanzo
ebbe poi una revisione nel febbraio-maggio del 1967. Dettagliate informazioni riguardo i tempi
della stesura e i modi della revisione si trovano nelle Note ai testi, (pp. 1587-1615) di MORSELLI
G., Romanzi I, a cura di BORSA E. e D’ARIENZO S., Adelphi, Milano, 2002.
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steggiato e discusso film che Kubrick trasse da Lolita, con James Mason, Peter
Sellers e Shelley Winters; pellicola presentata in concorso a Venezia tra agosto e
settembre di quello stesso anno. Lolita riscosse, si sa, un enorme successo in tutto
il mondo: tra il 1959 e il 1962 Mondadori giunse fino alla ventunesima ristampa
del volume di Nabokov, e se pure del libro non v’è traccia tra quelli posseduti da
Morselli e catalogati nel Fondo a suo nome 7, né lo scrittore lo menziona mai nel
Diario, è certo che del “caso Lolita” si parlò moltissimo, prima ancora che giungesse l’opera cinematografica a moltiplicarne la popolarità (stemperandone però, con la scelta di una Sue Lyon decisamente più adulta della Dolores dodicenne del romanzo, la minaccia), giacché gli USA non erano la sola nazione, al tempo, per la cui opinione pubblica un tema del genere fosse di difficile metabolizzazione. L’Italia già da un decennio aveva visto la messa all’Indice di tutte le opere di Moravia8, forse l’unico autore nazionale insieme a Pirandello9 che avesse
affrontato in tempi moderni quella scottante eredità della tragedia greca. Infine,
per completare la mappa delle suggestive – nient’altro che suggestive – coincidenze, osserviamo che proprio nel 1961, e proprio grazie alla ricchezza donatagli
da Lolita, l’esule dorato, il più e più volte esule Nabokov, stabilisce il suo definitivo buen retiro nella suite del Palace Hotel di Montreux, in quella Svizzera che
circonda da tre lati il romitaggio morselliano di Gavirate, quella Svizzera che incombe e influenza la sua narrativa, che avrebbe ospitato molte sue future trame,
da Divertimento 1889 a Dissipatio H.G.; Nabokov sceglie di vivere gli ultimi suoi
vent’anni o poco meno in un hotel affacciato su un lago, quello di Ginevra, e in
un hotel, affacciati su un lago nebbioso – a Lugano – si ritrovano i due protagonisti convalescenti di Un dramma borghese, la giovane Mimmina e il suo innominato padre, il narratore. Chissà se Morselli lo seppe, chissà se la cosa poteva in
qualche modo interessarlo; non è essenziale, in ogni caso.
7
Cfr. Il Fondo Morselli, catalogo a cura della Biblioteca Civica di Varese, San Vittore Olona,
1984. Una copia già della primissima stampa del Nabokov italiano si trova alla Biblioteca Civica
di Varese.
8
Moravia fu messo all’Indice nel 1952. E malgrado il tema incestuoso figurasse con una cer-
ta importanza già nel rapporto tra Leo e Carla negli Indifferenti, bisogna attendere fino al 1965
de L’attenzione perché lo scrittore romano vi dedichi un intero libro.
9
«Sono convinto che molta parte del gioco del teatro nel teatro e poi dell’impostazione pi-
randelliana siano connessi a una timidezza e a una paura. Il tema pirandelliano nei Sei personaggi è l’incesto. Pirandello mette in opera tutte le cautele perché questo tema appaia neutralizzato,
elusivo, frustrato. […] La tragedia c’è con il re, con l’Ancien régime, con l’aristocrazia. Per essere
tragici bisogna non avere niente da fare: allora si può incontrare il destino. Con il mondo borghese
non a caso si passa dalla tragedia al dramma.», cfr. SANGUINETI E., introduzione a Sei personaggi.com.
Un travestimento pirandelliano, il melangolo, Genova, 2001, pp. 10-11, corsivi nostri.
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Naturalmente, Nabokov non è una fonte per Un dramma borghese, il primo tra
i grandi romanzi di Morselli 10, o almeno non vi sono evidenze per sostenerlo, e
le coincidenze non fanno sistema né tantomeno prova, ma ciò non toglie che Lolita costituisca una più che significativa e insieme ravvicinata anticipazione non
per uno, bensì per i due radicati tabù che l’autore italiano intreccia nel proprio
racconto: la possibilità di un amore sensuale tra un padre e una figlia, per un
verso, e tra un uomo adulto e un’adolescente per un altro. Tabù al di sopra dei
quali Nabokov e Morselli si guardano e in qualche misura si rispecchiano, forti
del comune dichiarato rifiuto, sarcastico e talvolta sprezzante, per la psicanalisi e
la critica del profondo (a differenza, per esempio, proprio di Moravia, cui Un
dramma borghese potrebbe far pensare in prima lettura). Nabokov gli interdetti li
affronta, si pensa, con tutt’altro ardire 11, unendo il padre adottivo Humbert
Humbert malato di «pederosi»12 e la piccola Dolores, ma Morselli non è poi da
meno, a ben vedere, ed è questo uno degli aspetti che forse la critica non ha bastevolmente indagato.
Intanto conviene spiegare in quale misura Un dramma borghese appaia preconizzato, per alcuni non marginali aspetti, nella nota del Diario del marzo ‘61, che
val la pena rileggere integralmente:
Ci sono voluti 25 secoli, circa, quanti ne corrono da Aristotele a Benedetto Croce, perché la
filosofia dell’arte si rendesse conto che i «generi» letterari sono convenzioni, spesso artificiose e
perciò abusive. Quanto tempo ci vorrà ancora perché la gente […] si accorga che sono ugualmente artificiose le distinzioni che facciamo nel campo analogo, dei sentimenti, quando diciamo, per esempio, che «una cosa è l’attaccamento alla patria, alla casa, ai nostri oggetti, alle piante del nostro giardino, e un’altra cosa è l’affetto che sentiamo per i nostri figli, o per nostro padre»?
L’amore, specialmente quello che sarebbe tale per eccellenza, l’amore erotico o l’amourpassion di Stendhal, ci sembra formare un «genere» a sé, irriducibile alle altre manifestazioni
del sentimento affettivo.
In realtà, per quanto ci si sforzi di identificare la differenza specifica (per dirla aristotelicamente) che dovrebbe contraddistingue questa sorta di affetto e renderla intimamente diversa
10
Anteriori a questo romanzo vi sono soltanto Uomini e amori e Incontro col comunista, scritti
nel 1943-45 e nel 1948.
11
E irriverenza: «Per quanto riguarda la maggior parte degli editori americani, infatti, ci so-
no almeno tre temi assolutamente tabù. Gli altri due sono: il matrimonio tra un negro e una
bianca, o viceversa, che sia magnificamente riuscito e culmini in tanti figli e nipotini; e l’ateo
impenitente che viva una vita felice e utile, e muoia nel sonno all’età di 106 anni», cfr. NABOKOV
V., A proposito di un libro intitolato Lolita, appendice 1956 a ID., Lolita, Milano, Adelphi, 2001, p.
391.
12
Cfr. NABOKOV V., Lolita, cit., p. 321.
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dalle rimanenti, non è dato trovare nulla di concreto. Nemmeno l’«aroma sensuale», nemmeno il
«romancing», sono elementi esclusivi del cosiddetto amore (per antonomasia).
La verità è che, per quanto siamo innamorati di una donna, non mettiamo in questo pathos
niente di diverso da ciò che è la sostanza del sentimento che ci lega a una casa, a un paesaggio, a
un cavallo, ai nostri libri, ai nostri amici, ai nostri vizi. Attaccamento (e cioè abitudine), fondato
sopra una creduta idoneità dell’oggetto a soddisfare un determinato bisogno, e pervaso di timore, dal timore di perderlo (che è la gelosia). […]13
Siamo, date alla mano, all’inizio della fondamentale conversione – che integrale conversione non sarà mai – del saggista Morselli, autore fino ad allora di
Proust o del sentimento (1943), Realismo e fantasia (1947), Fede e critica (1955), in romanziere, e l’accenno, per quanto “dilettantesco” come talora egli si compiaceva
di essere, a una parabola della filosofia dell’arte che abbia ai poli Aristotele e
Croce, necessaria per appurare che i generi letterari non esistono, sembra decisamente orientato in chiave autoriflessiva. La narrativa morselliana, lo sappiamo, non rinuncerà a corpose immissioni di sostanza saggistica, sia essa teologica,
storico-politica, filosofica, configurandosi nel complesso come una delle esperienze più intimamente musiliane del nostro Novecento. Più singolare, va qui
osservato lo slittamento logico di qualche riga seguente, non appariscente e tuttavia significativo, in cui si produce il testo diaristico di Morselli quando, postulata la rimozione di intralci concettuali quali i generi e le convenzioni, passa, con
il solo aiuto di un capoverso, da «l’affetto che sentiamo per i nostri figli, o per nostro padre» all’«amore erotico», rincalzato dalla menzione araldica per quello
Stendhal che fu una delle letture preferite dello scrittore reale, e che soprattutto
lo sarà del narratore intradiegetico di Un dramma borghese, suo compagno di viaggio e di degenza, nonché parziale bussola nel turbolento mare privatissimo
della camera d’albergo condivisa con la figlia. Terzo ed ultimo elemento, a un
tempo collante e destabilizzante di qualunque congiunzione sentimentale: la gelosia, ossia l’«attaccamento (e cioè abitudine), fondato sopra una creduta idoneità dell’oggetto a soddisfare un determinato bisogno, e pervaso di timore, dal timore di perderlo». Un dramma borghese è già tutto qui, in potenza.
Ma non in atto, ovviamente, perché nell’atto della composizione e della scrittura, nel trapasso dalla potenza – posto che leggere un’annotazione diaristica
con il senno di poi non sia comunque un procedimento in parte arbitrario –,
all’atto, i campi di forze tra i vari poli tematici testé rinvenuti ancora giustapposti si incrementano e si rafforzano, dando occasione a Morselli di organizzare
uno dei suoi straordinari giochi di scacchi letterari, uno di quei romanzi a una dimensione, per dirla con Rinaldi, che dentro quella sola dimensione ne contengono
13
MORSELLI G., Diario, cit., pp. 201-202.
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però innumerevoli, come un universo-biblioteca borgesiano, privo di esterno ma
infinito.
Pensiamo soprattutto a Un dramma borghese, che è forse il romanzo più internamente calibrato di Morselli: diviso in due parti uguali, una all’interno e una all’esterno, dominate da due
donne diverse; con il puntuale corrispondersi dei sogni e delle telefonate; con il motivo del labirinto che passa dal sogno iniziale del padre, alla scena centrale del giardino, a quella finale della
ricerca notturna dell’ospedale, con la fuga verso l’alto, in funicolare, a segnare uno stacco nel
bel mezzo dell’opera14.
Internamente calibrato con, in aggiunta, una componente di struggente umanità e malinconia che forse non si rintraccerà più in nessuno dei lavori seguenti,
pur maggiori, se non nel libro per vari motivi gemello che è Il comunista. Struggente umanità e malinconia che restano il tratto distintivo del libro, tanto forti da
velarne la costruzione geometrica. Come ne Il comunista, infatti, in Un dramma
borghese assistiamo a un drammatico contrasto tra sentimenti e ruoli, con il prevalere dei secondi: là l’etico parlamentare reggiano del PCI Ferranini è obbligato
dalla rigida morale del partito a rinunciare alla relazione con Nuccia, poiché extra-coniugale, mentre qui il narratore-padre converte improvvisamente, con significativo autoinganno, la tentazione incestuosa con la figlia in un «incesto proiettivo» con la migliore amica di lei, e tuttavia i protagonisti non ne usciranno né
assolti né protetti, bensì diversamente sprofondati nella medesima catastrofe che
si cercava di evitare.
Mentre Il Comunista si svolgerà, forse per reazione, tutto dentro un orizzonte
storico-culturale delineato con estrema precisione, Un dramma borghese aveva natura, al contrario, così sfumata e imprecisa da orientarsi verso il tipologico, o il
mitico, e giustamente può osservare Vittorio Coletti, per tutto Morselli ma direi
soprattutto per questo Morselli, che «in una realtà contesa e sottratta alla Storia,
dove l’uomo non è – se non in negativo – l’artefice e il responsabile, si apre lo
spazio per un’attenta perlustrazione delle cose (e dell’uomo)» 15.
La realtà sottratta alla Storia è la malattia, dell’uno e dell’altro, tramata in
parti indiscernibili di fisico e di psicologico, autentica e nevrotica insieme, e topograficamente lo è l’asfittica coppia di stanze d’albergo comunicanti dove si ritrovano padre e figlia, separati da un decennio dopo la tragica morte della madre. Lui solitario giornalista e corrispondente internazionale, lei cresciuta in un
14
Cfr. RINALDI R., I romanzi a una dimensione di Guido Morselli, in Aa.Vv., I tempi del rinnova-
mento. Atti del convegno internazionale «Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al
1992», vol. I, Bulzoni – Leuven University Press, Roma-Leuven, 1995, pp. 471-499: 484.
15
Cfr. COLETTI V., Guido Morselli, in «Otto/Novecento», n. 5, 1978, p. 92.
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collegio vagheggiando la famiglia e gli affetti che non ha mai avuto. In uno dei
pochi saggi esistenti su Un dramma borghese si legge che «con il passare dei giorni, il ménage fra i due assume […] caratteri non solo sempre più conflittuali, ma
anche decisamente morbosi: la ragazza infatti, che sognerebbe di costruire con
suo padre un rapporto quasi simbiotico, si produce in una serie di gesti tanto espansivi da sconfinare quasi nell’incestuoso: ma l’infrazione del tabù sarà soltanto
sfiorata»16 (corsivo nostro).
Questa osservazione, incontestabile in sé, e che in varie forme torna nella
maggior parte della critica morselliana, a me pare vada tuttavia corretta, in due
direzioni. In primo luogo, dal punto di vista della percezione del lettore, il quale
si trova a coabitare per la maggior parte del romanzo con siffatto tema, continuamente lampeggiante, riemergente, ammiccante, imminente e immanente;
dunque, in chiave extratestuale, il tabù diventa oggetto centralissimo della narrazione, tutt’altro che sfiorato. Anche nella seconda direzione, quella intratestuale, e diciamo così precipuamente fisiologica cui Mezzina pensava, l’incesto non
risulta affatto soltanto sfiorato: è spostato, ma consumato appunto perché spostato, e nell’insufficiente censura che circonda tale atto simbolico, per tutti e tre i
protagonisti, si annida la catastrofe.
Già alla fine del XVIII secolo l’Alfieri, che pur guardando al passato, alla centralità del tema nel mondo tragico greco, sapeva prodigiosamente parlare anche
del futuro, osservò – ce lo ricorda Raimondi – «nel Parere sulla Mirra che forse la
Mirra è la più borghese delle sue tragedie, cioè una tragedia tipicamente settecentesca. Infatti, più che la sovranità è la famiglia in discussione […] nel caso di
Mirra è evidente: l’incesto, che non c’è, è sentito in un modo molto più perverso,
perché è sentito come un muoversi di continuo ai margini di una cosa che è già
compiuta e nello stesso tempo non è compiuta»17.
Mimmina e suo padre appaiono fin dall’inizio polarizzati in maniera quanto
mai insistita: la famiglia qui non esiste, se non in forma cava, di discorso vuoto,
di sistema astratto; l’uno l’ha perduta con la morte improvvisa della moglie, ma
forse non l’ha mai davvero posseduta, giacché della consorte sa pochissimo, e
non intende indagare di più sulla realtà di lei, né sulle ragioni dell’incidente che
l’ha uccisa, mentre della figlia si è sbarazzato grazie al collegio fino alla maggiore età; lei ha ricordi vaghi (e funeste percezioni) della madre, ed un mito del pa-
16
MEZZINA D., Dalla chiaroveggenza intellettuale alla «frana morale»: Un dramma borghese di
Guido Morselli, in «Critica letteraria», a. 2008 - n. 3 - pp. 493-524. Di MEZZINA D. si veda ora anche la recente monografia Le ragioni del fobantropo. Studio sull’opera di Guido Morselli, Bari, Stilo
2011.
17
Cfr. RAIMONDI E., Le pietre del sogno. Il moderno dopo il sublime, Bologna, il Mulino, 1985,
pp. 84-85.
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dre completamente svincolato dalla persona reale, un mito tutto edificato sulla
proiezione della propria futura dedizione e possibilità di accudimento, una giustificazione di sé nella misura in cui saprà rendersi utile, ed essere amata secondo tale utilità. Nel primo capitolo la tentazione di leggerli come rappresentanti
l’uno di una Mente senza Corpo, e l’altra di un Corpo senza Mente, è forte, ma
ben presto Morselli interseca i piani e li confonde: il padre, che sembra posseduto dal demone della teoria, teorizza a lungo sulla propria dipendenza dalla digestione18, e da altri fattori puramente fisiologici. Mimmina, continuamente dominata dai propri slanci emotivi e dal proprio bisogno di affetto e di contatto fisico,
spesso sa ben demistificare i ragionamenti algidi del padre. «In genere – notò
precocemente Coletti – quella dell’accostamento di vicende intellettuali o di caratteri contrapposti con relativo reciproco equilibrio o turbamento è una delle
tecniche preferite di Morselli»19. A complicare, e ad arricchire la loro polarità,
speculare e complementare, giunge Teresa, l’amica di collegio di Mimmina, proprio nel capitolo VII, centro geometrico di tutta la vicenda20.
Si è fatto il nome di Moravia, prima. Ebbene, se vi è una traccia di Moravia,
qui, è di quel Moravia che Guido Almansi definiva disgustato dal sesso 21, solo
che il disgusto è, ancora, una semplice pellicola superficiale tesa su questioni ben
più complesse. «Un dramma borghese, […] dal punto di vista basso-corporeo forma un vero deposito tematico per l’intera opera morselliana; non solo in dipendenza dalla vicenda erotica centrale (con minuzia tecnica di sessuologo), ma co18
«Con tutto questo, il mio umore sta cambiando, miracolosamente. Un dito d’acqua, il con-
tenuto della cartina, una reazione chimica banalissima fra acidi e Sali, nella cavità di un sacchetto appeso sotto alle mie costole, e la serenità ritorna. Il processo è tutto meccanico, ha una sua
rapida violenza: dalle viscere affiora gorgogliando alla bocca il getto di gas solforati e brucianti;
ma ne nasce, o ne rinasce, lo spirituale; la mente si illumina, il cuore si riscalda, i valori già negletti o spregiati risorgono. Ridivento una volontà morale», DB, 51.
19
Cfr. COLETTI V., Guido Morselli, cit., p. 95.
20
Il romanzo è composto di tredici capitoli: i primi sei si svolgono all’interno dell’albergo, e
presentano una vicinanza sempre maggiore tra il padre e la figlia, che giungono fino ad abituarsi a condividere il letto. Il capitolo VII è quello in cui arriva Teresa, interrompendo un contatto
potenzialmente erotico tra i due, momento critico a cui il padre si sottrae con un goffo deliquio.
Dal capitolo VIII, la vicenda si sposta prevalentemente in esterni. Padre e figlia ricominciano a
dormire separati. Alle pp. 154-55 vi sono riflessioni esplicite (ma depistanti) sull’incesto. Con un
nuovo perdersi in un giardino-labirinto del narratore, inizia la relazione con la seconda ragazza,
che culmina con il tentato suicidio di Mimmina, e con l’ultima definitiva perdizione, nella notte
e nella nebbia, in cerca dell’ospedale dove la figlia, forse, sta morendo o è già morta.
21
Cfr. ALMANSI G., Il fallo parlante e altre voci, in Id., L’estetica dell’osceno, Torino, Einaudi,
1974, pp. 90-107. Almansi nei romanzi e nei racconti di Moravia riscontrava «un certo acre sapore di angosciosa sessuofobia» e rilevava che «tutto ciò che è collegato alla sfera sessuale diventa
ignobile, schifoso» (cit. pp. 103-104, corsivo dell’autore) .
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me lungo catalogo di odori, secrezioni organiche, frammenti anatomici brutalmente esibiti»22. Tutto questo basso-corporeo riguarda quasi sempre l’intimità o
femminilità di Mimmina e, più ancora, riguarda la sua autosufficienza – il che è
ben paradossale, se si pensa a quanto la personalità di lei si mostri come dipendente –, ossia la sua disinvoltura nel rapportarsi alla propria natura anatomica,
come è evidente fin dalla primissima scena in cui la ragazza si controlla la temperatura davanti al padre, e questi reagisce scandalizzato:
-
Va’ a letto, Mimmina. Misurati la febbre.
-
Lasciami stare qui…
-
Ubbidisci.
-
Sì, ma non ti stizzire.
Si scosta la vestaglia e solleva la camicia. Si insinua il termometro all’inguine.
-
Un momento! Ma va’ di là, perbacco (DB, 18)
Tutto questo reagire scandalizzato culminerà nell’osservazione da parte del
padre, come abbiamo detto rapinosa ma non per questo meno attenta e
senz’altro turbata, del risveglio mattutino in cui la ragazza si procura piacere rimanendo a letto, nel dormiveglia; momento non a caso dopo il quale (è l’inizio
del cap. VII) la storia muterà direzione, ed il padre sposterà sulla sopravveniente
Teresa la logica della seduzione, riappropriandosi di un ruolo attivo che
l’esuberanza e le intemperanze di Mimmina, oltre che il proprio ruolo bloccato
di padre, gli avevano sempre negato.
L’aspetto cruciale del passaggio da Mimmina a Teresa è che mentre Mimmina possiede, pur avendo solo diciott’anni, tutti i tratti fisici di una femminilità
matura e prorompente (è alta, giunonica, prosperosa), laddove il suo sviluppo
emotivo è ancora allo stadio adolescenziale, al contrario Teresa – sua coetanea –
appare fin da subito come «una ragazzina», senza caratteri sessuali pronunciati,
con «un vestito piuttosto floscio, da educanda: sui sedici anni»23, «giovanissima e
anzi acerba» (DB, 163); la prima mossa del desiderio evoca dichiaratamente
l’infanzia: «Un antico malvezzo di maschio suggerisce al mio sguardo di cercarle
i ginocchi. Si intravvedono appena, e dovrei indovinarli esili, lisci, infantili; in realtà non me li immagino affatto, non so come siano i ginocchi di una bambina» (DB,
171, corsivi nostri). Anche in seguito il testo indica Teresa quasi sempre con formule quali «la scolara», «la scolaretta» e soprattutto «la piccola». Specularità per-
ne.
22
Cfr. RINALDI R., I romanzi a una dimensione di Guido Morselli, cit., p. 473.
23
Più avanti il narratore si correggerà, attribuendole addirittura l’aspetto di una quindicen-
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fetta, la “bambina” Teresa ha però comportamenti da donna matura, perfino sofisticata, ed è questo, sembra, ad attrarre il narratore.
Al termine del primo incontro sessuale tra i due, nell’impoetico spazio angusto dell’automobile, il narratore avrà una preoccupazione di tipo paradossalmente “paterno” (o paternalistico), avvertendo Teresa: «Bada. Non ho usato riguardi», e cercando di convincerla a tornare subito in albergo per «prendere un
certo provvedimento»; ella comprensibilmente se ne risente, giacché non è di
quel tipo di protezione che va in cerca. Ben presto infatti, comprendendo di esser
stata coinvolta in una dinamica triangolare perversa, nella quale ha un ruolo di
sostituta rassicurante, Teresa si allontanerà dall’uomo con freddezza, senza dare
spiegazioni, e senza che il suo atteggiamento venga da lui compreso.
Tre sono i livelli a cui opera quello che a me pare il nucleo fondamentale del
romanzo, ossia la rimozione come frutto d’angoscia. Rimozione in primo luogo
di una autonoma e libera sessualità femminile, avvertita sempre con reazioni
scandalizzate o disgustate; rimozione della tentazione incestuosa, che è causata –
la rimozione, non la tentazione – proprio dalla facilità con cui tale sessualità in
senso lato si presenta e si offre nel corpo e nei comportamenti della figlia, così da
generare angoscia in chi è a un tempo oggetto di desiderio o soggetto desiderante; rimozione, infine, del ricorrente macro-tema morselliano del suicidio, che in
Un dramma borghese riceve un trattamento quanto mai singolare: negato e svalutato continuamente24 dall’istanza raziocinante paterna e intra-diegetica25, il suicidio le si manifesta tutto intorno con beffarde metamorfosi continue: con la scena iniziale in cui Mimmina si sporge dalla finestra e il padre si allarma in maniera sproporzionata (DB, 20-21), con il suicidio del bambino nel lago (DB, 34-35),
con il ricordo della morte della moglie, e il sospetto – avanzato da Mimmina, rifiutato con sdegno dal padre – di un incidente volontario (DB, 82-83), con la mosca nel bicchiere (DB, 130), con i suicidi nei Navigli (DB, 145), e naturalmente con
il doppio finale tragico, dell’“incidente” di Mimmina con la pistola nel cap. XIII,
24
«Senza smettere il suo lavoro, a un tratto è venuta fuori a parlare, eccitatissima, del ragaz-
zo che si è annegato nel lago. Dice che ci pensa tutte le sere prima di andare a dormire. Ha sofferto, di sicuro troppo sofferto. “Ma perché devono averlo costretto a farlo, perché mai era così
disperato, avrebbero dovuto consolarlo”, ecc. Ho cercato io di consolare lei: con poco successo.
Le ho spiegato che probabilmente il ragazzo era uno squilibrato, o almeno molto malato di nervi. Lei non lo ammette; così si fa torto alla sua memoria, si irride alla sua sventura. Le ho fatto
notare che la fine di quelli che muoiono per annegamento è una delle meno dolorose, delle più
brevi. Niente: non si vuol mettere il cuore in pace». (DB, 68) .
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L’Ich-Form diaristica appare qui per la prima volta in Morselli, travasandosi nella scrittura
narrativa dall’esperienza già più che ventennale del Diario, e tornerà compiutamente ad accamparsi sulla pagina romanzesca solo nel definitivo Dissipatio H.G., approdo ultimo dell’esame
sulla soppressione di sé.
Il racconto della rimozione: Un dramma borghese di Guido Morselli
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doppiato dall’aneddoto, quasi una vendetta della cronaca nera contro il troppo
distaccato cronista, su cui il libro termina: una bambina di sette anni che aveva
perso la vita armeggiando con un fucile da caccia. Insomma, intorno al padrenarratore tutti o quasi muoiono per propria mano: l’emittente del racconto si
configura come un ben singolare centro gravitazionale di una costellazione di
eventi omologhi che tuttavia non lo tange in prima persona, così come accade
per tutto il romanzo con la negazione dell’incesto, proprio mentre ci si tratteneva
così pericolosamente nei pressi.
Rimozione, si vuol dire, anche a livello narratologico, perché la potente scena finale del disperato perdersi nel bosco e nella nebbia del padre-narratore in
cerca dell’ospedale dove dovrebbe esser stata ricoverata Mimmina, non sceneggia solo con sconvolgente intensità la pena tradizionale, archetipa, di ogni colpevole d’incesto, da Edipo in giù, ossia l’accecamento; insiste nella pratica della
rimozione fino all’ultima riga del testo, giacché le ragioni, pure evidenti, del gesto della figlia abbandonata, sostituita e tradita, non vengono acclarate, e si oscilla tra l’incidente e la fatalità, né viene acclarato l’esito stesso del gesto. Fino
all’ultimo si parla di cure, di un’operazione d’urgenza, dell’attesa di un medico
specialista: tutti elementi che fanno supporre una situazione grave, non la morte,
mentre è proprio sulla morte, una morte altrui, di una bambina, che il testo ammutolisce.
E così quest’uomo, torturato da un’angoscia ancora una volta tutta privata ed
egoistica, sempre prigioniero del suo sterile ragionare autoassolutorio,
quest’uomo che teme e rifiuta il corpo femminile in quanto entità libera e a sé
stante, si riduce a brancolare nel labirinto nebbioso del bosco a occhi chiusi, aiutandosi solo con le mani, e per lui vale ciò che osserva Humbert Humbert mentre rientra, frastornato, dopo l’omicidio di Quilty:
È strano come il senso del tatto, infinitamente meno prezioso agli uomini della vista, diventi
nei momenti critici il nostro principale appiglio sulla realtà, se non l’unico26.
26
Cfr. NABOKOV V., Lolita, cit., p. 380.