Un`estate con Nostradamus

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Un`estate con Nostradamus
Leonardo Boselli
Nostradamus
in signo Cancri
Cronache dal prossimo futuro
tra satira, parodia e grottesco
A Isabella
AVVERTENZE
Questi racconti fanno riferimento a eventi storici, personaggi, luoghi e organizzazioni esistenti,
ma le vicende narrate sono opera di fantasia.
Eventuali azioni di singoli, gruppi, istituzioni o
organizzazioni possono rientrare in stereotipi
consolidati, ma potrebbero non avere alcuna attinenza con la realtà. Quindi ogni riferimento a
fatti veramente accaduti o a persone e cose realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale
e dovuto alle esigenze della narrazione.
Nella finzione artistica, si suppone che gli articoli siano frutto dell’interpretazione di alcune centurie scritte da Nostradamus nel XVI secolo.
Ovviamente l’autore non si assume alcuna responsabilità sul reale potere predittivo degli articoli. Non c’è alcuna garanzia che i fatti presentati si avverino effettivamente. Inoltre, le dichiarazioni virgolettate non sono mai state espresse
dai personaggi a cui sono attribuite o sono state
rilasciate in altro contesto.
Copyright © 2010 Leonardo Boselli
PREMESSA
Chi dovesse leggere questa raccolta di racconti si potrebbe chiedere, a un certo punto, cosa c’entrano Nostradamus e il segno del Cancro riportati nel titolo.
Per quest’ultimo c’è una semplice spiegazione: le date
degli articoli cadono tutte, più o meno, sotto il segno del
Cancro, ed ecco quindi motivata la sua citazione.
Il riferimento a Nostradamus, invece, è frutto di una serie di eventi. Tutto è cominciato il 24 giugno 2010.
Era il giorno della partita dei mondiali di calcio tra Italia e Slovacchia, conclusa 2 a 3. Con quella clamorosa
sconfitta la nazionale italiana terminò ultima nel suo girone e non poté accedere agli ottavi. In quel periodo era
sorta una polemica che ha coinvolto alcuni esponenti
della Lega e Radio Padania che dichiaravano esplicitamente di tifare contro l’Italia. Da questi fatti è nata
spontanea una previsione: ipotizzando un 2014 in cui la
secessione è avvenuta e l’Italia è ormai divisa in due,
era facile immaginare una nazionale padana iscritta a
partecipare ai prossimi mondiali. Naturalmente, visti i
proclami leghisti, sarebbe stata una nazionale vincente
che non avrebbe avuto problemi ad accedere agli ottavi
infliggendo una sonora sconfitta al favorito Brasile.
Dopo aver scritto l’articolo, che lì per lì mi sembrava
divertente, ci voleva una pagina internet su cui pubblicarlo. Ma come intitolarla e in che modo era stata ottenuta quella improbabile previsione? Si era fatto ricorso
a una sfera di cristallo, ai tarocchi, o a una macchina del
tempo? La scelta è caduta su Nostradamus, al quale,
grazie all’interpretazione delle sue oscure centurie, sono
state attribuite previsioni di ogni genere. Così su Facebook comparvero le “notizie dal futuro” del “Nostradamus Network”, Nostradamus Network News, con un
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logo, NNN, che richiamava esplicitamente quello della
CNN (Cable News Network).
Da quel 24 giugno, un giorno dopo l’altro, sono seguite
altre notizie che ho raccolto in questo libretto. Alcune
satiriche, altre parodistiche, altre ancora orientate al
grottesco. Ad esempio, da qualche anno si sente ripetere
che la crisi economica sta volgendo al termine, che il
peggio è passato, che bisogna essere ottimisti. Così arriva Tremonti, nel 2020, che dichiara di intravedere segnali di ripresa. Sempre sulla stessa linea seguono le vacanze “fatte in casa” del 2014. Ma perché non premiare
gli ingegni di casa nostra? E così nel 2013 Giovanni
Masotti, il corrispondente da Londra della RAI, vincerà
il premio Pulitzer. Prendendo ispirazione dalla cronaca
d’inizio estate 2010, le notizie da parodiare erano tante.
Alcune sono state subito superate dagli eventi, ma al
momento hanno avuto qualche risonanza: le vicissitudini giudiziarie di ministri e politici, la Marea Nera, la
legge sulle intercettazioni, le tariffe per l’accesso al
GRA, gli scandali sessuali, la fine diplomazia della Farnesina, i laureati eccellenti, i maneggi della P3, la politica industriale della FIAT, l’informazione parziale dei
TG. E poi, più grottesche che satiriche, si inseriscono,
tra le pieghe dell’attualità, le disavventure del “Presidente” al quale ne avvengono di tutti i colori, a cominciare dalla costruzione di un androide-sosia, passando
per un improbabile trapianto di cervello, fino a un blitz
dei malebranche, i diavoli della quinta bolgia.
Alcuni racconti sono un po’ particolari, spero però che
nessuno si offenda. Naturalmente, si fa per sorridere,
mettere alla berlina alcuni nostri difetti e magari rifletterci sopra, ma allo stesso tempo si vuole anche esorcizzare certe nostre paure. Buona lettura.
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Mondiale 2014: La nazionale della Padania
supera il turno battendo il Brasile e
accede agli ottavi
Rio de Janeiro (Brasile), 24 giugno 2014.
Oggi è un grande giorno per i tifosi padani. La nazionale, contro tutte le critiche e i pronostici degli allibratori
della perfida Albione, ha passato il turno battendo con il
risultato di 4 a 1 il Brasile, in quel tempio del calcio che
è il Maracanã.
Salgono così a tre le vittorie: un punteggio pieno che il
Presidente della Padania, Umberto Bossi, ha salutato
con un “Noi ce l’abbiamo duro!”.
La compagine padana, guidata dal tecnico Mazzini,
schierava un audace 3-4-3. La rosa era composta dal
portiere Brambilla, i difensori Biadego, Cattaneo e Cazzaniga, i centrocampisti Colombo, Fumagalli, Tinelli e
Bixio, per finire con gli attaccanti Gorlin, Perasso e
Borromeo.
Fin dalle prime battute, la partita si è subito dimostrata
a senso unico. L’assalto iniziale dell’undici padano a un
Brasile votato alla difesa è stato immediatamente fruttuoso: al quarto minuto del primo tempo un preciso calcio d’angolo di Fumagalli incontrava la testa del decisivo Borromeo che insaccava in rete.
Gli attacchi continuavano e, approfittando della scarsa
fantasia di gioco del Brasile, un tiro da fuori area del
millimetrico Cazzaniga si insinuava sotto l’incrocio dei
pali neppure sfiorato dall’impotente portiere avversario.
Alla mezz’ora, dopo un inutile tentativo in contropiede
dei variopinti carioca, un rapido uno-due di Gorlin e Perasso portava il punteggio sul tre a zero.
Nella ripresa Mazzini sostituiva Gorlin con Valpreda.
L’attaccante è uscito dal campo acclamato dall’oceanica
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tifoseria padana al rumore delle fastidiose maracas. Appena entrato, il virile Valpreda ha segnato una rete di testa su passaggio di Biadego.
Non paghi delle quattro reti, gli eroi padani hanno continuato a insidiare la porta avversaria fino a quando un
vile contropiede brasiliano portava un attaccante carioca
di fronte al sicuro Brambilla. Con una meschina finta di
corpo, il truce mezzosangue scagliava un viscido tiro tra
i pali nostrani. Il generoso Brambilla, pur di non lasciare la rete all’avversario, è riuscito a sfiorare la palla con
le sue mani, forgiate dal duro lavoro, affinché fosse segnata come autorete.
Le celebrazioni per la vittoria della tifoseria verde sono
iniziate al canto di tipiche canzoni padane tra cui “E mì
la donna bionda” e “O mia bela Madunina”. Le cene dei
festeggiamenti, che continuano tuttora, sono a base di
cassoeula, riso con lo zafferano alla milanese, fettine
impanate alla milanese, annaffiate da gioiose degustazioni di Barbera e Lambrusco.
Per finire un amaro Ramazzotti.
Le dichiarazioni del tecnico Mazzini sono state di elogio per la squadra: “I gan la ghigna di brav ragas”. Al
cronista che gli chiedeva se questa fosse la vittoria più
bella della sua carriera, il tecnico ha dichiarato che
un’altra partita è incisa a lettere di fuoco sul suo cuore:
ha sostenuto, infatti, che vincere con il Brasile nello stadio Maracanã non è paragonabile ad aver umiliato sette
reti a zero la nazionale della Terronia a Roma Ladrona
durante le fasi di qualificazione, vittoria che ha escluso
dal mondiale l’inconcludente Terronia del tecnico Caputo.
Ora i “bauscia” di Mazzini, come è simpaticamente soprannominato l’undici padano, dovranno affrontare la
Spagna negli ottavi, partita di ordinaria amministrazione vista l’attuale pochezza fisica e tecnica della squadra
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che ha vinto l’ultima Coppa del Mondo. Il Brasile invece, secondo nel girone, incontrerà l’Olanda.
Il cammino verso la finale del mondiale è spianato.
Dal nostro inviato in Brasile
2020: Tremonti:
“Si intravedono segnali di ripresa”
Milano, 25 giugno 2020.
Oggi, al Congresso dei Giovani Industriali, il Ministro
delle Finanze Giulio Tremonti ha tenuto il suo atteso discorso sullo stato dell’economia. Nel suo incisivo intervento, durato due ore e mezza comprensive della cena
di lavoro, non ha nascosto le difficoltà che attendono
ancora il Paese, ma ha anche dichiarato con il convincente realismo che lo contraddistingue: “Il peggio è passato, si intravedono segnali di ripresa”. L’uditorio ha dimostrato la sua approvazione con uno scrosciante applauso.
In platea era presente tutto il gotha dei giovani imprenditori. Nelle prime file si potevano notare Lucrezia Berlusconi, figlia di Pier Silvio Berlusconi, che sta seguendo le orme del padre, e Leone Elkann, figlio di John,
che si occupa dell’industria del riciclo, in particolare
della rottamazione di vecchie automobili.
La dichiarazione di Tremonti ha dato respiro alla Borsa
di Milano, il cui indice MIBAL è salito immediatamente del 12,5%. Avevano pesato sulla fiducia degli investitori due vicende importanti per il destino del Paese.
In primo luogo, la finanziaria in discussione proprio in
questi giorni alla Camera delle Regioni 1 prevede l’in1
La Camera delle Regioni, istituita con la riforma del 2012,
ha sostituito la Camera dei Deputati e il Senato della Repub-
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nalzamento dell’età pensionabile a 75 anni per gli uomini e 80 anni per le donne. Questa modifica è richiesta
dall’Unione Europea che, preoccupata per la discriminazione nei confronti degli uomini che mediamente vivono meno, ha preteso un adeguamento dell’Italia agli
standard europei. Il ministro Tremonti, obtorto collo ma
con entusiasmo, si è attivato e ha deciso di far corrispondere l’età pensionabile alla durata media della vita
di uomini e donne. La maggioranza ha poi imposto alcuni emendamenti alla legge, per tenere conto anche di
tutti quei lavoratori, e sono ben il 50%, che dovessero
superare l’età pensionabile, decurtando la loro pensione
del 50%. Grazie a questi provvedimenti, l’INPS prevede un risparmio del 75% sulle pensioni erogate nel primo anno. Queste decisioni hanno messo in fermento il
mondo del lavoro e le borse ne hanno risentito, ma la
dichiarazione ottimistica del ministro ha subito calmato
gli animi.
In secondo luogo, gli operatori economici sono stati turbati da alcune polemiche in cui la politica italiana si è
trovata invischiata recentemente. Il delegato Antonio Di
Pietro ha chiesto ripetutamente al Presidente della Repubblica, Silvio Berlusconi, di non firmare, per palese
incostituzionalità, la legge, nota come “lodo
Brambilla”, che prevede un’indulgenza plenaria a
“TUTTI i cittadini italiani il cui cognome inizi per B e
il nome per S, nati nel 1936, Cavalieri del Lavoro nel
1977, iscritti alla Loggia P2 nel 1978, almeno quattro
volte Presidenti del Consiglio, proprietari di almeno tre
emittenti televisive, proprietari di una squadra di calcio
che abbia vinto, sotto la loro gestione, almeno 7 scudetti e 5 Champions League (l’Europa League non imblica. Prevede 1501 delegati scelti, secondo il loro censo, in
proporzione al PIL di ogni regione italiana con un premio di
maggioranza per le regioni con più delegati (N.d.R.)
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porta), sposati almeno due volte e divorziati altrettanto”.
La richiesta di Di Pietro ha trovato vasta eco nel mondo
politico. Il capo del partito PDSC, l’ex-PD Pier Luigi
Tafazzi, sostiene l’evidente incostituzionalità del provvedimento e scrive sul suo blog, ospitato su un server
dello Zimbabwe ma oscurato in Italia: “Nonostante gli
ultimi emendamenti alla Costituzione, una legge che riguardi un numero esiguo di italiani come il lodo Brambilla non può comunque superare il vaglio della Corte
Costituzionale Riformata”.
Fanno eco alle dichiarazioni di Tafazzi, intervistati a
reti unificate sul TG1 di Augusto Minzolini, il Presidente del Consiglio, Noemi Letizia: «Tafazzi non sa di cosa
parla"; il portavoce del PDLA, Paolo Bonaiuti: “Tafazzi
è in pieno marasma, come il partito che porta allo sbando”; il portavoce del PDLB, Daniele Capezzone: “Siamo preoccupati, Tafazzi fa del male al suo partito”; il
portavoce del PDLC, Maurizio Gasparri: “Quando parla
Tafazzi, non lo capisco”.
Anche questo conflitto istituzionale ha influito sull’andamento dell’economia, infatti se il Lodo Brambilla non
dovesse essere approvato, le ripercussioni sulle buste
paga delle famiglie sarebbero rilevanti.
Le parole di Tremonti, che recentemente ha anche scritto il best-seller “Dopo la crisi c’è sempre la ripresa”,
hanno comunque rasserenato gli animi e tutti guardano
con più fiducia al futuro.
Dal nostro consulente economico
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Estate 2014:
Il boom delle vacanze “fatte in casa”
26 giugno 2014.
I Mondiali volgono al termine e gli italiani cominciano
a pensare alle vacanze.
Abbiamo già due certezze: il tormentone dell’estate sarà
il ballo Tuki-Tuki e saremo costantemente perseguitati
dal rumore delle maracas. Quest’ultimo flagello ci ha
accompagnati per tutte le partite del mondiale brasiliano, ma sicuramente ci inseguirà anche sulle spiagge. Infatti, sembra che in Brasile le scorte siano esaurite e ci
giungono notizie di navi trasporto cariche di container
pieni di maracas in rotta verso l’Italia, per soddisfare gli
ordini dei tifosi nostrani.
A parte queste certezze, pare che gli italiani non sappiano ancora dove passare le vacanze. Ormai l’industria
del turismo ha rinunciato a proporre sconti sulle prenotazioni, perché le famiglie non riescono più a pianificare le loro spese sul lungo periodo e vivono alla giornata.
L’offerta che dilaga è quella della vacanza last minute.
Le agenzie pubblicano i loro cataloghi il 27 del mese e
li fanno distribuire dalle banche con lo stipendio. Chi si
prenota entro una decina minuti ha diritto a forti riduzioni.
È di ieri la notizia di un ragioniere di Busto Arsizio che
ha ottenuto una vacanza di due settimane alle Maldive
per sette persone in albergo cinque stelle tutto compreso
per soli 50 euro. Purtroppo, quando è tornato a casa
dopo aver pagato la bolletta della luce, del gas, del telefonino della figlia, della moglie e della suocera, la rata
dell’automobile e il mutuo della casa, si è accorto che
dello stipendio non restava nulla e ha dovuto rinunciare
al viaggio. L’agenzia ha imposto quindi il pagamento
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della penale di 15 mila euro, così il ragioniere è stato
costretto a ipotecare la casa, vendere l’automobile e cedere il quinto dello stipendio, per far fronte anche al pagamento degli alimenti per mantenere moglie, figlia e
suocera, che nel frattempo hanno chiesto il divorzio. A
parte queste disavventure, le vacanze last minute stanno
riscuotendo un grande successo.
Solo una categoria si sta lamentando, quella dei disoccupati che protestano perché, dopo tanti anni di attesa,
ritengono che la loro situazione sia senza sbocchi. A
questo proposito, il ministro del Turismo, Michela Vittoria Brambilla, ha dichiarato di non comprendere il
problema: “Non hanno lavoro? Vadano in ferie”.
Oltre alle vacanze last minute, gli italiani si stanno
orientando anche verso le vacanze fatte-in-casa, nel senso che resteranno proprio a casa. Effettivamente, non
c’è niente di meglio d’estate che rimanere in città: le
strade son deserte, deserte e silenziose, un’ultima familiare rombando se ne va e poi, la pace, la quiete assoluta... niente più maracas! Solo pochi supermercati aperti
dove prendere il fresco dell’aria condizionata, ma per il
resto la desolazione totale, neppure un prete per chiacchierar. Cosa c’è di meglio? Se lo sono chiesti molti italiani che si stanno organizzando per rimanere a casa e
hanno preso d’assalto i negozi ancora aperti per fare
scorta di alimentari e generi di prima necessità. Rimane
un solo dubbio: se quasi tutti restano, addio pace, addio
quiete assoluta, addio desolazione e liberazione dalle
maracas. A questo proposito, il ministro del Turismo,
Michela Vittoria Brambilla, ha dichiarato di non comprendere il problema: “Milioni di stranieri vengono in
Italia per ammirare le nostre bellezze artistiche e naturali! Gli italiani sono già qui, di cosa si lamentano?”
Una categoria avvantaggiata per quanto riguarda la
scelta del luogo per le vacanze è quella dei tifosi che
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ora si trovano in Brasile per le partite del mondiale. La
maggior parte ha deciso di continuare le ferie sul posto.
L’inconveniente è che sono partiti in bermuda e canottiera senza tenere conto che laggiù è inverno e il clima
di alcune zone non è particolarmente mite. A Porto Alegre, nel mezzo di una tormenta di neve, sono stati avvistati famelici gruppi di tifosi italiani con le infradito:
cercavano riparo in prossimità dello stadio in attesa della partita. Il giorno dopo si sono contati 64 dispersi.
Un’altra categoria che non ha problemi è quella dei
VIP.
Al termine di una conferenza stampa semi-deserta, Fabrizio Corona, anche se nessuno gliel’aveva chiesto, ha
dichiarato di partire con la sua nuova fiamma per Tahiti.
I pochi presenti hanno colto l’occasione per augurargli
buon viaggio e gli hanno anche educatamente suggerito
di restarci.
Come è noto, invece, il Presidente del Consiglio, Silvio
Berlusconi, non va mai in ferie. Per l’estate, il suo staff
prevede soltanto una vacanza-di-lavoro nella villa di
Arcore, una vacanza-di-lavoro a villa Certosa in Sardegna, una vacanza-di-lavoro sulla barca alle Bahamas,
che si lamenta sempre di sfruttare poco, una vacanza-dilavoro ad Antigua e, infine, sarà invitato dal Presidente
della Federazione Russa, Vladimir Putin, per una vacanza-di-lavoro sul Baltico. Ha anche un invito per una
crociera-di-lavoro nel Mediterraneo con il Presidente
della Repubblica Francese, Nicolas Sarkozy, e la moglie, ma non sa ancora se gli impegni già presi gli consentiranno di accettare.
Per uno strano contrappasso, il Presidente della Camera,
Gianfranco Fini, sarà invece accompagnato sull’isola di
Ventotene in compagnia di Italo Bocchino.
Per finire questa carrellata di VIP, chiudiamo con il
capo dell’opposizione Pier Luigi Tafazzi che passerà le
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sue ferie a Gallipoli invitato da Massimo D’Alema.
L’ente del turismo pugliese ha protestato perché, come
è noto, il segretario Tafazzi in vacanza è costantemente
perseguitato da una nuvola temporalesca, ormai ribattezzata la “nuvoletta di Tafazzi”, e il servizio meteorologico prevede perciò tre settimane di pioggia e grandine su Gallipoli.
Intervistati sul problema della Puglia a reti unificate dal
TG1, i portavoce della maggioranza hanno rilasciato le
seguenti dichiarazioni. Paolo Bonaiuti: “Tafazzi è in
pieno stato confusionale, come il partito che sta conducendo alla rovina”; Daniele Capezzone: “Siamo angosciati per l’opposizione, Tafazzi la sta portando al disastro”; Maurizio Gasparri: “Quando parla Tafazzi, mi addormento”. L’unica voce favorevole è stata quella del
Presidente della regione Puglia, Nichi Vendola: “Sono
lieto di ospitare il compagno Tafazzi nella mia bella regione. Lo inviterò a visitare il tavoliere. Quest’anno la
siccità ha fatto molti danni e un po’ di pioggia non può
fare male”. La Protezione Civile è stata allertata.
Naturalmente le vacanze sono già iniziate per milioni di
studenti. Il ministro dell’Istruzione Università e Ricerca, Mariastella Gelmini, ha augurato loro di trovare ristoro dopo le fatiche dello studio e ha aggiunto con tono
rassicurante: “Ho in mente grandi cambiamenti. Al vostro ritorno, cari studenti, non riconoscerete più la vostra scuola di sempre. Buone vacanze a tutti!”
Dal nostro opinionista di costume
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2013: Giovanni Masotti
vince il premio Pulitzer
Londra, 27 giugno 2013.
Oggi è un grande giorno per il giornalismo italiano: il
corrispondente da Londra della RAI, Giovanni Masotti,
ha vinto il Premio Pulitzer, la prestigiosa onorificenza
per il giornalismo e i successi letterari. Dopo un attento
discernimento, la Columbia University di New York
non ha trovato nessun candidato che incarnasse più fedelmente la figura del cronista dedito alla causa dell’informazione pubblica e, quindi, lo ha insignito del premio per la categoria Public Service. Le motivazioni che
accompagnano l’onorificenza dicono, tra le altre cose,
che la decisione è stata presa dopo la visione di alcuni
servizi in cui spiccava “il suo giornalismo di denuncia,
sempre pronto a informare la pubblica opinione con imparzialità e senso di abnegazione”.
Sono noti al grande pubblico gli scoop con cui negli ultimi anni il corrispondente ha informato gli italiani sulle
vicende più importanti del Regno Unito. Solo per citarne alcuni, ricordiamo il servizio di denuncia sugli anziani inglesi afflitti perché non potevano più permettersi
una crociera, sui bancomat difettosi che distribuivano
denaro ai passanti, sui fantasmi che infestano la metropolitana di Londra, per finire con il servizio sull’ultima
tendenza della moda londinese: l’ombrello fluorescente.
Due notizie in particolare hanno orientato la Columbia
University nell’assegnazione del premio.
La prima era relativa alla malasanità inglese: un medico
aveva diagnosticato ad un tale un male incurabile con
prognosi di pochi mesi. Il paziente aveva quindi lasciato
il lavoro e donato tutti i suoi averi a parenti e organizza-
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zioni umanitarie, per poi scoprire che la diagnosi era errata.
La seconda notizia, che ha tolto ogni dubbio e consentito il conferimento dell’onorificenza all’unanimità, riguardava invece la condizione della terza età britannica:
ha informato la pubblica opinione della protesta di
un’associazione di pensionati contro i cartelli stradali
nei pressi degli attraversamenti pedonali, perché gli anziani vengono ritratti come vecchietti ricurvi e col bastone.
Ma Giovanni Masotti si è soprattutto distinto per il suo
incomparabile fiuto per la notizia che i direttori dei telegiornali hanno sempre apprezzato. Mentre infuriava uno
sciopero di protesta degli insegnanti contro i tagli alla
scuola, che ha portato a notevoli ritardi nell’effettuazione di migliaia di scrutini, il direttore del TG1, Augusto
Minzolini, ha subito compreso, con grande professionalità, che la notizia da Londra fosse di maggiore rilevanza, ed ecco apparire in video il volto rassicurante di
Giovanni Masotti che ci ha informati su un curioso ritrovamento da parte di un meccanico: un serpente era
nascosto nel motore dell’automobile che stava riparando. L’opinione pubblica, sconvolta dall’evento, è stata
subito tranquillizzata, si trattava, infatti, di un serpente
costrittore, quindi non velenoso, di soli 60 cm.
Ma torniamo alle reazioni seguite all’assegnazione del
premio. Appena le agenzie di stampa hanno battuto la
notizia, siamo riusciti a raggiungere telefonicamente
Giovanni Masotti per conoscere dalla sua viva voce
quali emozioni lo pervadessero. Essere riconosciuto
come uno dei migliori cronisti internazionali, sempre
dentro la notizia, non capita tutti i giorni. Paradossalmente, abbiamo scoperto che lui non ne sapeva ancora
nulla quando, subito dopo l’annuncio, ci ha risposto:
“Ma che? Mi prendete per il culo?”
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Dopo la nostra, sono giunte numerose telefonate di congratulazioni. In particolare, il ministro per i Beni e le
Attività Culturali, Sandro Bondi, ha commentato negativamente il fatto che una risorsa del giornalismo italiano
fosse costretta a lavorare all’estero: «L’Italia è afflitta
da due gravi problemi che ne soffocano lo sviluppo: il
primo è il traffico. Del secondo è invece un esempio il
nostro insigne Giovanni Masotti: la fuga dei cervelli all’estero».
Certo, lo sappiamo, nessuno è profeta in patria. Lo stesso è capitato al Nostro quando anni fa, chiamato a sostituire un insulso programma di intrattenimento di Michele Santoro, aveva ideato la trasmissione di approfondimento giornalistico “Punto e a Capo”. Gli ascolti purtroppo erano crollati: il pubblico italiano non si è dimostrato pronto a riconoscere le doti di un giornalista-conduttore che ora il mondo ci invidia.
Giovanni Masotti comunque ha fatto buon viso a cattivo
gioco. Grazie alla sua abnegazione, ha risalito la china e
dimostrato le sue doti sul difficile terreno dei corrispondenti da Londra, la cui solida tradizione passa per Sandro Paternostro fino a giungere ad Antonio Caprarica.
Nonostante questi punti di riferimento inarrivabili, ha
saputo imporsi con la sua impeccabile dizione (alcuni
ricercatori in Scienze della Comunicazione stanno studiando approfonditamente la sua caratteristica cadenza)
e la sua ricercata eleganza (Dolce & Gabbana hanno
lanciato un’intera linea di moda-uomo ispirata ai suoi
foulard).
Non tutte le voci però concordano nell’elogiare quest’uomo di cui mi pregio di essere collega. Alcuni flebili toni dissenzienti sono stati emessi dal capo dell’opposizione, Pier Luigi Tafazzi, che ha osato insinuare, contro la lungimiranza della Columbia University di New
York, che gli scoop di Masotti siano in realtà semplici
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servizi di colore di scarso interesse, ingrossati solo per
nascondere le vere notizie sullo stato del Paese che non
devono giungere alle orecchie degli italiani. Fanno eco
a queste poco significative considerazioni i pareri autorevoli dei portavoce della maggioranza, trasmessi dal
TG1 a reti unificate. Paolo Bonaiuti: “Tafazzi è in pieno
delirium tremens, come il partito che sta trascinando
alla distruzione”; Daniele Capezzone: “Tafazzi è il solito disfattista, trova scuse ridicole mentre dovrebbe gioire per il successo di un italiano”; Maurizio Gasparri:
“Quando parla Tafazzi, mi appisolo”.
Noi non possiamo che associarci al tripudio di tutto il
Paese per questa ulteriore conferma della supremazia
dell’ingegno italiano nel mondo e attendiamo, con impazienza, il prossimo scoop da Londra del premio Pulitzer Giovanni Masotti.
Dal nostro corrispondente da Londra
2023: La Giustizia trionfa:
Il ministro Ciapèr è prosciolto dalle
accuse per estinzione della Corte
Roma, 28 giugno 2023.
Dopo anni di attesa, il ministro Aldo Ciapèr ha finalmente vista riconosciuta la propria innocenza. Oggi, all’udienza conclusiva del quinto grado di giudizio del
processo che lo vedeva accusato di ricettazione, la stenografa ha dichiarato l’imputato prosciolto da ogni addebito per “estinzione della Corte giudicante”.
Ma ripercorriamo la carriera e l’iter giudiziario dell’attuale ministro della Surroga ai Surrogati, per porre l’accento sulla lentezza e la farraginosità della macchina
giudiziaria italiana.
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Aldo Ciapèr1 nasce verso la fine della seconda guerra
mondiale nel Triveneto e sin da piccolo scopre la sua
vocazione sacerdotale. Dopo il seminario e la consacrazione a sacerdote, ha avuto una crisi vocazionale. Ha ritenuto di riuscire a servire meglio il Signore facendosi
assumere da un noto gruppo imprenditoriale e, quindi, è
tornato allo stato laicale. Nel corso degli anni, la sua
carriera professionale è progredita fino a fargli assumere importanti incarichi dirigenziali. È di quel periodo il
suo coinvolgimento nelle inchieste di “Mani Pulite” degli anni ‘90. Gli storici revisionisti ormai concordano
unanimemente sul fatto che quelle malaugurate inchieste hanno ingiustamente colpito un’intera generazione
di politici onesti, dediti solo al bene comune dei cittadini della Repubblica. Solo pochi detrattori, che non si
rendono conto del senso del ridicolo, si ostinano a considerare la classe dirigente di allora come una banda di
corrotti che, con la scusa di finanziare i propri partiti, si
arricchivano personalmente e senza alcun ritegno.
Lo stesso Aldo Ciapèr fu vittima di quelle purghe di
stampo stalinista, tanto che, nell’assolvimento dei suoi
incarichi, fu accusato di falso in bilancio e finanziamento illecito ai partiti. Fu costretto a passare ben tre mesi
in prigione in compagnia della peggior feccia della società: ladri e malfattori. Quella prima accusa si risolse
comunque a favore del Ciapèr che, prima scarcerato per
decorrenza dei termini di custodia cautelare, poi con1
Nella traduzione di questa centuria di Nostradamus dal francese antico, sono rimasti alcuni punti incerti. In particolare, il
termine usato per il cognome del ministro può essere interpretato in vari modi. L’unica certezza è che abbia attinenza col
verbo “prendere, acchiappare”, ma con inflessione dialettale,
perciò si potrebbe tradurre con ciapèr, piglièr, o meno probabilmente con branchèr. Noi abbiamo scelto la prima accezione
(N.d.T.)
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dannato in primo grado e in appello, vide risolversi la
sua situazione in cassazione, perché uno dei capi di imputazione cadde in prescrizione e l’altro venne depenalizzato. C’è voluto il suo tempo, ma alla fine la Giustizia, quella con la ‘G’ maiuscola, ha trionfato.
Purtroppo, nel primo decennio di questo secolo, quando
ormai il Ciapèr aveva abbandonato la carriera imprenditoriale per dedicarsi all’impegno in politica, un’altra assurda accusa lo colpiva proditoriamente.
Prima di analizzare l’infondatezza dell’impianto accusatorio, ricordiamo con quanta fatica e senso del dovere
l’attuale ministro sia riuscito a entrare a far parte della
compagine di governo. Come è noto, sono necessari alcuni requisiti fondamentali che agli inizi della sua carriera non gli venivano pienamente riconosciuti. Ad
esempio, è consentito solo ai membri dell’opposizione,
in particolare quelli di estrazione ex-comunista, di essere sposati regolarmente in chiesa e vivere felicemente
con la stessa donna, senza mai divorziare. In effetti,
solo gli oppositori soggiacciono a questa consuetudine
così fuori moda e limitante. Invece, è noto che per essere ammessi nell’attuale maggioranza è indispensabile
essere divorziati, conviventi e risposati, possibilmente
più volte. Solo per rarissime eccezioni è stata concessa
una speciale dispensa, con la clausola che tale situazione anomala venga regolarizzata al più presto. Nel caso
dell’Aldo Ciapèr, sembrava che questo requisito mancasse, ma il Collegio che esaminò la sua domanda accertò per prima cosa l’indispensabile requisito di essere
stato in prigione per più mesi facendola franca e, successivamente, la condizione di prete spretato. Si è pensato infatti di equiparare la profanazione del Sacramento del matrimonio e la conseguente scomunica alla profanazione dell’Ordine sacro da parte di un prete spretato.
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Superato questo scoglio ed eletto alla Camera dei Deputati, Aldo Ciapèr poteva finalmente dedicarsi con abnegazione alla sua missione in favore del benessere dell’Italia, ma ecco profilarsi un nuovo subdolo attacco della
solita Magistratura orientata politicamente. Un’assurda
accusa di ricettazione di soli 300 mila euro ostacolava
nuovamente la sua opera meritoria.
Ci sono voluti molti anni di sofferenze e di impegno per
uscirne fuori immacolato e vedere riconosciuta la propria innocenza.
Una provvidenziale, quanto prevista da tempo, nomina
a Ministro – non è ancora ben chiaro a quale dicastero –
permise di utilizzare a fasi alterne la norma garantista
del “legittimo impedimento a procedere”. In quel frangente, il ministro dichiarò con uno sfogo ormai famoso:
“Perché tanta cattiveria e odio contro di me? Se la nazionale di pallanuoto è stata eliminata alle Olimpiadi,
non è colpa mia, eppure se la prendono con me”.
Nel successivo decennio, attraverso tre legislature e altrettanti governi Berlusconi, ad Aldo Ciapèr fu assegnata la guida di importanti dicasteri, come il ministero dell’Inviluppo degli Sviluppi, quello dell’Accentramento
dei Decentramenti ed, infine, l’attuale Surroga ai Surrogati. Ma ogni volta che una nazionale di pallamano,
hockey su prato o ping pong non superava la fase eliminatoria di un torneo internazionale, la magistratura tornava all’attacco.
Finalmente, verso la fine del 2020, quando ancora il
processo per ricettazione si trascinava attraverso impedimenti e rinvii, fu approvata, col ricorso alla fiducia
d’ufficio, una legge fondamentale che è stata ribattezzata “salva-Ciapèr” dall’opposizione, con lo spirito di patata che sempre la contraddistingue. Questa prevedeva
che “I processi per ricettazione di TUTTI i cittadini italiani col cognome che inizia per C e il nome per A, nati
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verso la fine della seconda guerra mondiale nel Triveneto, preti spretati, debbano essere giudicati da una
Corte di togati ultraottantenni; nel caso malaugurato
che tutti i membri della Corte debbano passare a miglior vita prima della conclusione del processo, il procedimento terminerà con il proscioglimento dell’imputato per ESTINZIONE DELLA CORTE”. L’evenienza
prevista dalla legge si è finalmente verificata nella giornata di ieri e oggi la stenografa ha proceduto a emettere
la sentenza.
Numerose sono state le attestazioni di solidarietà e le
felicitazioni giunte al ministro Ciapèr. I deputati della
maggioranza hanno intonato in Aula il canto “Giustizia
è fatta, finalmente” su colonna sonora di Ennio Morricone e coreografie di Marco Garofalo, mentre i commessi sgomberavano i banchi dell’opposizione i cui
membri tentavano di stonare e sbagliare i passi di danza.
La notizia era così sentita e attesa da tutti gli italiani
che, appena è giunta la velina con la dipartita dell’ultimo togato della Corte, il TG1 ha interrotto la normale
programmazione di Quiz e Reality Show con un’edizione straordinaria a reti unificate. È comparso in video il
direttore Augusto Minzolini che, con sguardo sicuro e
fronte volitiva, ha annunciato: “Nuntio vobis gaudium
magnum! La Giustizia ha trionfato, il ministro alla Surroga ai Surrogati Aldo Ciapèr è stato assolto con formula piena”.
Non tutte le voci però concordano nell’apprezzare l’esito del processo. Alcuni gemiti al di sotto della soglia di
udibilità, sono stati espressi da Marco Bavaglio, il direttore del giornaletto scandalistico “La porcata quotidiana”. Ha osato affermare che l’annuncio del TG1 era inesatto: il proscioglimento è avvenuto per “Estinzione
della Corte” e non c’è stata alcuna assoluzione con for21
mula piena. Immediatamente l’attuale ministro della
Giustizia, Niccolò Ghedini, ha replicato con solide e articolate argomentazioni: «Bavaglio sta zitto! Tu non capisci niente! Taci! Sta zitto! Tu non sai niente! Sta zitto!
Taci!». Ha quindi aggiunto: “Due sono i principali problemi del nostro Paese. Come tutti sapete, il primo è il
traffico che soffoca le nostre città, mentre il secondo è
la lentezza della giustizia! Non è accettabile che ci sia
voluto più di un decennio per vedere la conclusione di
questo processo, ma fortunatamente il governo ha già
fatto tanto per rendere più veloce la macchina della giustizia. Grazie ai recenti provvedimenti, se un padre di
famiglia ruba una mela per sfamare i propri figli, sarà
subito processato per direttissima, incarcerato a doppia
mandata e si butterà via la chiave. Gli italiani non possono che esserne rassicurati”.
Noi ci associamo alla gioia del Paese per l’esito positivo di una vicenda che ha tenuto tutta la nazione con il
fiato sospeso. Oggi, finalmente, possiamo ancora affermare a gran voce che la giustizia è uguale per tutti!
Dal nostro esperto in materie giuridiche
2012: Bertolaso ferma la Marea Nera
con un tappo di stoppa
New Orleans, 29 giugno 2012.
In questi giorni di fine giugno, mentre il campionato europeo di calcio è alle battute finali e numerosi tifosi italiani si sono ridotti a fare i pendolari sui carri bestiame
per assistere alle partite della nazionale tra la Polonia e
l’Ucraina, un folto team di esperti internazionali è al lavoro per risolvere l’annosa questione della Marea Nera
che affligge il Golfo del Messico.
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Come è noto a tutti, nel 2010 una piattaforma petrolifera della British Petroleum (BP) al largo delle coste della
Luisiana subì uno spaventoso incidente che ha causato
il secondo disastro ecologico della storia dell’umanità
per ordine di importanza (il primo risulta essere l’esplosione a catena delle 13 centrali nucleari francesi situate
in Provenza e Alta Savoia avvenuta l’anno scorso).
Da allora un pozzo di profondità riversa nelle acque del
Golfo dai 50 ai 100 mila barili di petrolio al giorno. Un
danno incommensurabile che provoca gravi ripercussioni sia economiche che ecologiche; una piaga che gli innumerevoli tentativi posti in essere dalla BP non sono
ancora riusciti a sanare.
Il disastro ha avuto gravi ripercussioni sull’industria ittica, in particolare quella della pesca del gambero, che
ha portato al tracollo finanziario la nota compagnia di
pesca “Bubba-Gump Gamberi”. In compenso, però, il
costo dell’asfaltatura delle strade della Luisiana è crollato, visto che il catrame può essere raccolto in grande
quantità direttamente sulle spiagge. Inoltre, sono sorte
piccole compagnie petrolifere specializzate nell’estrazione degli idrocarburi dalle acque del mare con un notevole risparmio. Anche per questa ragione il prezzo del
petrolio al barile è il più basso degli ultimi vent’anni.
Nonostante gli indubbi vantaggi, i lobbisti della “Bubba-Gump Gamberi” hanno operato notevoli pressioni
sui senatori della maggioranza e il Presidente degli Stati
Uniti d’America, Barak Obama, ormai a fine mandato e
in piena campagna elettorale, è costretto a trovare una
soluzione per l’annosa questione. Ha quindi deciso di
riunire il Think Tank mondiale a New Orleans con il
motto: “Non chiedete che cosa la BP può fare per fermare la Marea Nera, ma che cosa potete fare voi per
fermare la BP”. Quindi, per minimizzare i danni, i diri23
genti della BP sono stati inviati ad effettuare una serie
di regate nella Manica.
Le riunioni del team internazionale voluto da Obama si
svolgono nella New Orleans Arena e un gruppo di
esperti si occupa di esaminare le proposte degli scienziati invitati.
Per prima cosa, si è valutata l’idea di un gruppo di ricerca russo. Il geologo Nicolaj Koymasky ha proposto di
far brillare in profondità una testata nucleare. Sembra
che i test effettuati nel Mar Bianco abbiano riscosso un
notevole successo e il team iraniano ha offerto, in segno
di collaborazione, una delle 27 bombe atomiche possedute dall’Iran. L’idea è stata per il momento accantonata nella speranza di trovare qualcosa di meglio, perché
l’astrologo di Obama ha scoperto che Koymasky è del
capricorno e con la luna nel leone non si scherza.
Un fisico del MIT, invece, ha proposto di contattare il
noto regista James Cameron perché si ricordava di un
film dell’89, “The Abyss”, che gli era piaciuto molto.
Svegliato nel cuore della notte, Cameron ha risposto:
“Sono contento che abbiate pensato a me, ma devo deludervi: non c’è nessuna civiltà di alieni buoni che vive
nelle profondità degli oceani... era solo un film! Scordatevi l’aiuto degli alieni”.
Accantonata questa promettente possibilità, a un matematico dell’UCLA è venuto in mente un vecchio film
con Kevin Costner. Contattato telefonicamente Kevin
ha dichiarato: “Waterworld? Sì, quel maledetto film mi
è costato una montagna di soldi e non ci ho guadagnato
nulla. Il peggior flop della mia carriera”, poi alla successiva domanda ha risposto: “No, non ho le branchie e
non so nuotare come un pesce... era solo un film! Scordatevi del mio aiuto”.
Dopo una serie di altre idee poco percorribili, comprese
reti ricolme di pannoloni doppio strato, un ragioniere
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del Wisconsin si è ricordato della Protezione Civile italiana e di quanto sia ritenuta all’avanguardia. Al sentirne parlare, il segretario di Stato, Hillary Clinton, si rammentò di un tal Guido Bertolaso che, nel lontano 2010,
si era presentato ad Haiti dopo il terremoto mettendo in
discussione l’operato degli Stati Uniti e aveva definito
la situazione patetica. A quel tempo, la Clinton aveva
risposto che si trattava di critiche da bar dello sport,
perché con tutto il rispetto per i morti, “Haiti non è
L’Aquila”. Il segretario quindi si chiedeva come ricucire lo strappo, ora che Bertolaso sembrava davvero l’ultima risorsa rimasta.
Il marito Bill, amico di Bertolaso perché spesso suonano il sassofono insieme, con il suo caratteristico accento
dell’Arkansas disse: “Ghe pensi mi” e preso il telefono,
come risulta agli atti, compose il numero. Dopo qualche
istante disse: “Guido? Scusa se ti disturbo a quest’ora...
sì lo so, da te sono le due di notte, ma è questione di
vita o di morte. Si tratta della BP... certo, sono più di
due anni e potevo aspettare domattina, hai ragione, scusa... beh, ti volevo dire che qui ci sarebbe bisogno di
te... Come non se ne parla neanche?... Cosa c’entra
quella strega di mia moglie?... Senti, ti faccio una proposta. Sai quel problema alla schiena che continua ad
affliggerti?... Sì, lo so, è la tensione, lo stress, beh, io ho
trovato un buon rimedio. Te lo rivelo se mi prometti di
fare un salto qui a sentire cosa deve dirti questa gente!...
Grazie, sei un amico! Ero certo che ci saremmo intesi.
Allora ti spiego. Sai che a Cuba c’è la miglior assistenza sanitaria del mondo? Beh, il mio amico Fidel mi ha
indirizzato ad un Centro Benessere di Las Tunas dove
fanno dei massaggi che risuscitano i morti. Laggiù ho
conosciuto un massaggiatore brasiliano che ha una
mano delicatissima, te lo consiglio vivamente! Si chiama Samantha... è una mano santa per liberarti dallo
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stress. Vacci a nome mio. Non importa quando arrivi,
anche a mezzanotte o se è chiuso, per te è sempre aperto. Non te ne pentirai, uscirai felice e rilassato, te lo dice
uno che se ne intende”.
L’opera di convincimento di Samantha deve aver sortito
il suo effetto perché qualche giorno dopo, con un raid
della sua flotta di Canadair antincendio, Guido Bertolaso e il suo staff, tutti con la caratteristica polo della Protezione Civile, sono giunti negli Stati Uniti e sono stati
ricevuti alla New Orleans Arena.
Dopo aver ascoltato i dettagli, Bertolaso ha subito definito la situazione patetica e, mentre Hillary Clinton si
mordeva il labbro per non dirgliene quattro, ha aggiunto: “Per risolvere il problema basta un po’ di stoppa”.
Tutti i presenti nell’Arena si passavano la parola... stoppa, stoppa... tanto che Obama chiese: “Stoppa? What’s
stoppa?”
Lo staff del direttore della Protezione Civile distribuì
quindi i progetti dettagliati del piano. Si stimava di dover utilizzare 300 tonnellate di stoppa, già disponibili a
prezzi di favore presso l’azienda “Anemone’s Cascami”
di Gallarate. La posa del materiale sarebbe stata effettuata da un sommergibile della Protezione Civile. Tempo due settimane e la Marea Nera si sarebbe arrestata.
Nella New Orleans Arena era sceso un silenzio irreale.
Lo stesso Cristoforo Colombo doveva aver vissuto un
momento simile, quando alla corte di Isabella di Castiglia gli fu chiesto: “Ma se la terra è rotonda, perché non
rotola?”. Certo, a quella domanda, intorno a Colombo,
tutti risero, ma quando prese l’uovo che portava sempre
in tasca, per ogni evenienza, e lo appoggiò rompendone
delicatamente il guscio, ecco che l’uovo rimase in equilibrio. Tutti si zittirono e capirono che il polo sud doveva essere leggermente schiacciato. C’era una semplice
spiegazione che nessuno fino ad allora aveva mai intui26
to. Ecco cosa stava vivendo Bertolaso in quel momento:
istanti di gloria indimenticabili.
Dopo qualche attimo di silenzio, nell’assemblea attonita, Obama iniziò ritmicamente a battere le mani e tutta
l’Arena lo seguì in uno scrosciante applauso. L’ovazione continuò per tre quarti d’ora mentre gli abbracci e le
strette di mano si sprecavano.
Come sempre la terra dei santi, dei navigatori e dei poeti, nonché degli stagnini, ha saputo stupire il mondo. Il
pianeta è stato salvato ancora una volta grazie alla geniale intuizione di un audace italiano... e grazie anche a
Samantha.
Dal nostro esperto in ecologia
e problemi ambientali
2013: Emendata la legge antiintercettazioni: salva la prossima
stagione del Grande Fratello
Roma, 30 giugno 2013.
Mentre alcuni italiani sono già in vacanza, i deputati e i
senatori della Repubblica, con encomiabile spirito di
abnegazione, sono ancora in piena attività. I lavori parlamentari prevedono la terza revisione della legge per la
tutela della privacy che l’opposizione, con il solito spirito di patata che la contraddistingue, si ostina a chiamare “proteggi-mariuoli”.
Tutti i cittadini sanno quanto sia importante la loro privacy. Immaginate cosa potrebbe accadere se fosse intercettata la telefonata di un marito che chiama la moglie
per informarla di essere uscito dall’ufficio e di buttare
la pasta, oppure l’SMS di un pendolare che scrive a
casa perché il treno è in ritardo di mezz’ora. Sono tutte
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informazioni sensibili che se venissero pubblicate sui
giornali violerebbero in modo irrimediabile quella sfera
protettiva invalicabile a cui ognuno di noi ha diritto.
Il governo è al lavoro da anni su questo tema e, seduta
dopo seduta, le leggi vengono migliorate e affinate per
evitare tutti gli escamotages che biecamente i magistrati
orientati politicamente con i loro complici giornalisti di
sinistra riescono di volta in volta a escogitare.
Ecco quindi che, proprio mentre le ferie incombono, sta
per essere varato un “pacchetto giustizia” che contiene
numerosi provvedimenti mirati a rendere l’azione investigativa e giudiziaria più rapida, efficiente e giusta, sulla linea della depenalizzazione del falso in bilancio.
Nelle prime votazioni la maggioranza è stata battuta su
un emendamento che prevedeva il “proscioglimento per
estinzione della corte” e la “depenalizzazione del reato
di associazione mafiosa”, che approfondiremo in un altro articolo. Una parte del governo si è stupita del fatto
che due commi così poco significativi abbiano suscitato
tanta opposizione anche tra i propri parlamentari, ma
per il momento ha accettato la sconfitta.
Per evitare altre debacle la commissione giustizia presieduta dai senatori Ghedini, Previti jr. e Dell’Utri ha
perfezionato e blindato gli altri articoli.
In conferenza stampa, il relatore ha dichiarato: "La
commissione ritiene che i punti nodali individuati siano
condivisibili da tutti: la magistratura non può disporre
intercettazioni ambientali sulle utenze i cui proprietari
abbiano cognomi che inizino per ‘B’, ‘G’, ‘P’ e ‘D’.
Inoltre, nel caso che una comunicazione in uscita contatti persone che rientrino nella suddetta tipologia, l’intercettazione deve essere sospesa. In ogni caso, non è
consentito ascoltare o registrare la prima mezz’ora di
conversazione. Il magistrato deve rinnovare il mandato
ogni giorno alzandosi alle tre e mezza di notte. Infine, i
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giornalisti e le testate che dovessero pubblicare le trascrizioni prima della scadenza del copyright (70 anni
dalla morte dell’autore rinnovabili dagli eredi) saranno
condannati alla pena capitale con tutta la famiglia sino
al sesto grado di parentela. Ci sembrano i requisiti minimi perché la legge possa considerarsi efficace”.
A una domanda del giornalista del Manifesto, che faceva notare che l’articolo 27 della Costituzione italiana
non ammette la pena di morte, veniva prontamente risposto: “Con le vostre domande tendenziose, voi dimostrate di essere il solito comunista. Non meritereste risposta, ma colgo l’occasione per evidenziare quanto la
Costituzione abbia bisogno di una profonda revisione”.
Dopo il passaggio in commissione, la legge è ora all’esame della Camera e in questo momento si sta dando
lettura delle dichiarazioni di voto. Il tempo è contingentato per evitare il solito sterile ostruzionismo dell’opposizione.
Mentre scrivo, ha già da tempo terminato di parlare, nei
72 secondi concessi ai partiti dell’opposizione, il deputato Pier Luigi Tafazzi. Ha dichiarato: “Noi tutti riteniamo che questa legge si profili come l’ennesima legge
ad personam che non...”, interviene il Presidente della
Camera: “Onorevole Tafazzi, mancano 30 secondi”,
continua: “Sì, grazie, stavo dicendo che si tratta di una
legge che non serve agli italiani perché...”, interrompe il
Presidente: “Onorevole Tafazzi, non le è consentito di
sforare in questo modo. Ha avuto ampio margine per argomentare...” e mentre dai banchi dell’opposizione si
solleva un timido mormorio, aggiunge martellando ripetutamente il banco: “Silenzio! Devo far sgomberare
l’aula?”. La calma viene subito ripristinata appena i
commessi minacciano di sguinzagliare i dobermann.
“Bene”, dice il Presidente, “è iscritto a parlare il Presi29
dente del Consiglio, ne ha facoltà. Le chiedo solo di rimanere entro i suoi 72 minuti”.
Il testo che segue, al momento in cui scrivo, è già entrato nella storia come il “discorso di Molly Pucci e Cippa
Lippa” ed è stato trasmesso in mondovisione, a reti unificate, dal TG1:
«Signori! Il discorso che sto per pronunziare dinanzi a
voi forse non potrà essere, a rigor di termini, classificato come un discorso parlamentare. Un discorso di siffatto genere può condurre, ma può anche non condurre ad
un voto politico. Si sappia ad ogni modo che io non cerco questo voto politico. Non lo desidero: ne ho avuti
troppi. Nessuno mi ha negato fino ad oggi queste tre
qualità: una discreta intelligenza, molto coraggio e un
sovrano disprezzo del vile denaro. Eppure non mi sono
mancate occasioni di dare prova della mia energia. Non
sono ancora stato inferiore agli eventi. Si obietta che la
legge cita la pena di morte: Pena di morte? Ma qui si
scherza, signori. Prima di tutto, bisognerà introdurla nel
Codice penale, la pena di morte; e poi, comunque, la
pena di morte non può essere la rappresaglia di un Governo. Deve essere applicata dopo un giudizio regolare,
anzi regolarissimo, quando si tratta della vita di un cittadino! Fu alla fine di marzo, il mese che ha segnato profondamente la mia vita, che io dissi: “voglio che ci sia
la pace per il popolo italiano”; e volevo stabilire la normalità della vita politica. Poi con una campagna giornalistica durata nei mesi di aprile, maggio, giugno, campagna immonda e miserabile che ci ha disonorato per tre
mesi, le più fantastiche, le più raccapriccianti, le più
macabre menzogne sono state affermate diffusamente
su tutti i giornali! C’era veramente un eccesso di necrofilia! Si facevano inquisizioni anche di quel che succede
sotto terra: si inventava, si sapeva di mentire, ma si
mentiva. E io sono stato tranquillo, calmo, in mezzo a
30
questa bufera, che sarà ricordata da coloro che verranno
dopo di noi con un senso di intima vergogna. Tuttavia
io continuo nel mio sforzo di normalizzazione e di normalità. Reprimo l’illegalismo. Si inscena la questione
morale, e noi conosciamo la triste storia delle questioni
morali in Italia.
Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto
l’arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano,
che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o
meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il
palo e fuori la corda!
In questi ultimi giorni molti cittadini si domandavano:
c’è un Governo? Ci sono degli uomini o ci sono dei fantocci? Questi uomini hanno una dignità come uomini? E
ne hanno una anche come Governo? Io ho voluto deliberatamente che le cose giungessero a quel determinato
punto estremo, e, ricco della mia esperienza di vita, in
questi sei mesi ho saggiato il Partito; e, come per sentire
la tempra di certi metalli bisogna battere con un martelletto, così ho sentito la tempra di certi uomini, ho visto
che cosa valgono e per quali motivi a un certo momento, quando il vento è infido, scantonano per la tangente.
Ma un popolo non rispetta un Governo che si lascia vilipendere! Il popolo vuole specchiata la sua dignità nella
dignità del Governo, e il popolo, prima ancora che lo dicessi io, ha detto: Basta! La misura è colma! L’Italia, o
signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa.
Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela
daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se
sarà necessario. Tutti sappiamo che ciò che ho in animo
non è capriccio di persona, non è libidine di Governo,
31
non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato
e possente per la patria.1
E ora veniamo al nocciolo della questione: l’onorevole
Tafazzi dice che per lui le intercettazioni non sono un
problema. Intercettatemi pure, dice, non ho nulla da nascondere io! Questo grida... e lo credo bene. Dei 102
milioni di italiani intercettati dal primo vagito emesso
nella culla all’esalazione dell’ultimo respiro nella tomba, non ce n’è nessuno, dico nessuno, che sia noioso
come l’onorevole Tafazzi. Ho avuto modo di parlare io
stesso con l’appuntato dei carabinieri che ne controlla le
utenze. Povero disgraziato! È sull’orlo del suicidio. Mai
una discussione interessante, sempre politica, sempre
l’interesse degli italiani, sempre il bene dell’Italia. Ma
basta! Fatti un’amante. Come fai a vivere da trent’anni
sempre con la stessa donna. Non ti sei ancora stufato?
Io stesso proporrò un emendamento alla legge: chi ha la
sventura di intercettare Tafazzi deve avere diritto al
pensionamento anticipato, come i minatori del Sulcis
che soffrono di silicosi, è uno dei pochi lavori usuranti
rimasti. Il massimo della trasgressione c’è stato un paio
di mesi fa quando Tafazzi e la moglie si sono augurati
buon anniversario di matrimonio chiamandosi Molly
Pucci e Cippa Lippa. L’appuntato è stato ricoverato per
un attacco acuto di diabete. Ma come si fa? Non è vita
questa! Dove sono i festini a luci rosse? Dove sono le
telefonate dei pusher?
Per concludere, onorevoli colleghi, in cosa consiste la
vera libertà? Nell’imbavagliare la stampa! Nel limitare
lo strapotere della magistratura! Solo così gli italiani
potranno fare quello che gli pare e piace, sempre e co-
1
Tratto dal discorso di Mussolini sul delitto Matteotti alla Camera dei Deputati (3 gennaio 1925)
32
munque. Questo vi prometto e io le promesse le mantengo, perché sono un imprenditore e non un politico!»
Ai 72 minuti di discorso seguirono 144 minuti d’applausi. I banchi dell’opposizione vennero sgomberati
perché i deputati tentavano di non applaudire a tempo.
C’era grande entusiasmo nell’aula, ma un sottosegretario fece notare che un comma della legge poteva impedire la trasmissione della prossima stagione del Grande
Fratello. Con celerità venne emendato prima della plebiscitaria votazione finale con l’usuale ricorso alla fiducia d’ufficio.
Ora possiamo affermare che l’iter, durato vari anni, della cosiddetta legge “proteggi-mariuoli” è giunto all’epilogo. Gli italiani ne sono finalmente certi: la loro privacy è tutelata. Potranno dirsi Molly Pucci e Cippa Lippa
al telefono senza tema di essere presi in giro sul giornale, ma soprattutto potranno ancora assistere alle prossime puntate del Grande Fratello.
Dal nostro inviato in Parlamento
2015: Alemanno protesta contro i dazi
doganali imposti sul
Grande Raccordo Anulare
Roma, 1 luglio 2015.
Questa mattina si è tenuta nella piazza del Campidoglio
la prevista manifestazione a cui ha partecipato il sindaco Gianni Alemanno con tutta la giunta comunale. Se
non fosse stato per il comizio, si sarebbe trattato del solito anonimo inizio di una afosa giornata di luglio e, invece, a riscaldare ancor di più gli animi ha provveduto
una norma doganale di cui si è avuta notizia nei giorni
scorsi. Infatti, il Governo Federale, competente in mate33
ria fiscale, ha deciso di imporre l’ennesimo balzello alle
già fragili economie dei nostri comuni. Si tratta del dazio doganale esteso a tutti i varchi nelle cinte murarie
dei comuni con più di 3.000 abitanti.
Appena è giunta la notizia, il sindaco Alemanno si è subito attivato perché nelle nuove mura romane, costruite
due anni fa a tempo di record all’altezza del Grande
Raccordo Anulare (GRA), sono presenti 32 porte, corrispondenti alle uscite dello stesso raccordo, e queste
vengono attraversate da milioni di cittadini romani ogni
giorno. Secondo le prime indiscrezioni, la nuova imposta vorrebbe imporre un pagamento per il diritto di passaggio e quindi colpirebbe tutti, dai trasporti commerciali ai privati cittadini.
Durante la manifestazione, il sindaco ha dichiarato:
“Questo provvedimento del Governo Federale è un nuovo attacco leghista alla nostra città. Ho già protestato
con energia nei mesi scorsi perché sulle carte topografiche e sui cartelli di segnalazione autostradali del Nord
Italia, la nostra bella città viene segnalata come ‘Roma
Ladrona’, ma ora si sta passando il segno. Ho già contattato i miei colleghi sindaci interessati dal provvedimento per concertare un’azione comune, non si capisce
infatti perché il balzello sia imposto solo alle città a sud
di Grosseto, o meglio, si capisce benissimo! Noi non ci
piegheremo: non faremo pagare ai nostri cittadini l’incompetenza del governo centrale. Nel caso le risposte
fossero insoddisfacenti, mi impegno io stesso con la
mia guardia civica: armati di ariete abbatteremo le porte
di Roma”.
Il sindaco, al suo secondo mandato, è accompagnato da
Renata Polverini, Presidente della Confederazione delle
terre di Ciociaria, dell’Agro Pontino e dei Colli Albani,
anch’ella riconfermata al secondo mandato. La Polverini ha dichiarato: “Ho voluto essere presente per solida34
rietà al sindaco Alemanno. Questo è un nuovo segnale
di prevaricazione delle Confederazioni del Nord nei
confronti di quelle centro-meridionali. Se queste sono le
premesse del neonato federalismo, non mi stupisco che
molti intellettuali del Sud Italia stiano affermando con
sempre più forza il diritto alla secessione”.
La manifestazione, partita dalla piazza del Campidoglio, si muoverà a piedi verso l’uscita 17 di Tor Bella
Monaca per poi proseguire lungo tutto il GRA, opera
monumentale che ha ispirato a grandi artisti romanze
indimenticabili. Durante il tragitto, i manifestanti marciano al ritmo di alcune di queste canzoni. La più gettonata è quella dedicata nel 2001 da Venditti-Guzzanti
proprio al raccordo:
All’uscita dar flaminio c’è: “a cassia bisse”,
pe via due ponti c’è ‘n pezzo contromano,
mejo ‘na murta dell’ingorgo,
c’è ‘npo de ghiaia ce poi morì de vecchiaia...
E allora vieni con me, amore,
sul Grande Raccordo Anulare,
che circonda la capitale,
e nelle soste faremo l’amore,
e se nasce una bambina poi
la chiameremo Roma!
e er fratello... CUPPOLONE!
Il percorso, seguendo il raccordo, si snoda attraverso le
32 uscite e lambirà quindi la nuova cinta muraria di
Roma.
Come è noto, le mura che circondano ormai gran parte
dei centri abitati italiani, molte delle quali ancora in costruzione, sono state volute all’inizio del decennio dal
ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, in accordo
con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Alte35
ro Matteoli. L’idea era quella di ridare slancio all’economia italiana, piegata da anni di crisi finanziaria, per
mezzo di un poderoso ricorso alla costruzione di opere
pubbliche, sulla falsariga del New Deal del presidente
americano Roosevelt che segnò la fine della grande Depressione degli anni ‘30. L’innalzamento delle cinte
murarie ha impiegato un notevole numero di disoccupati ed è stato necessario ricorrere anche a immigrati extracomunitari irregolari. Questa iniziativa ha fatto da
volano a tutta l’economia italiana. Ne ha tratto giovamento l’indotto dell’edilizia, l’industria automobilistica
delle macchine di movimentazione terra, le società di
catering, le agenzie di lavoro interinale e gli scafisti
nordafricani.
Le nuove mura di Roma e le accessorie che circondano
l’enclave vaticana sono state innalzate dalla società
“Anemone’s Walls”, che si è aggiudicata gran parte degli appalti nelle città con più di 15.000 abitanti. Poco
importa se il costo previsto è più che raddoppiato: ora
Roma possiede un’opera fondamentale per il suo sviluppo.
Purtroppo, appena le prime costruzioni sono giunte alla
conclusione, ci si è accorti che le porte di accesso potevano costituire una nuova fonte di approvvigionamento
per le esangui casse federali. Ecco, quindi, comparire in
molti comuni la figura dell’armigero addetto all’esazione dei dazi doganali. Questo impiegato comunale, esecrato dai cittadini che hanno la necessità di muoversi da
un comune all’altro, ferma tutti i veicoli a trazione animale e i veicoli a motore, dal TIR al Ducato, e richiede
il pagamento del dazio, dopo aver posto le consuete domande: “Chi siete? Dove Andate? Cosa portate? Un fiorino!”
Questa situazione aveva fino ad ora risparmiato i pedoni, così nelle regioni del sud sono sorte cooperative di
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camalli i cui braccianti si caricano sulla schiena le merci permettendone il passaggio gratuito. La nuova norma
prevede che anche i pedoni siano tassati ed è per questo
che Alemanno e la Polverini protestano.
La discussione è accesa anche nel Senato Federale.
L’opposizione sostiene timidamente che il provvedimento sia un’ulteriore concessione della maggioranza
alle richieste della Lega. A queste critiche infondate,
hanno risposto, a reti unificate sui canali della RAFI
(Radio Audizioni della Federazione Italiana) i portavoce della maggioranza. Fabrizio Cicchitto sostiene che le
critiche dell’opposizione sono pretestuose e non fanno
che confermare le difficoltà presenti nella stessa minoranza. Roberto Calderoli dichiara: “L’arte di arrangiarsi
dei meridionali trova sempre nuovi modi per evadere le
tasse. Nessun padano si sarebbe sognato di camallarsi
un intero TIR di ‘Kinder Pinguì’, come invece so che è
accaduto alle porte di Napoli”. Roberto Cota, invece,
dice: “Il Governo si è appena sbarazzato dell’esercito di
immigrati irregolari che ha illegalmente partecipato alla
costruzione delle mura romane. È ora che anche i vucumprà, con in spalla i loro falsi oggetti firmati, paghino le tasse”.
Il sindaco Alemanno è ora in marcia oltre l’uscita 12
della Centrale del Latte. Mentre seguo il corteo, le bandiere garriscono al vento sullo sfondo di un limpido cielo azzurro. A questa vista nasce la speranza di un avvenire senza ingiusti pedaggi e senza più frontiere. Forse
ci vorranno vent’anni, ma un giorno Tremonti scoprirà
che le demolizioni possono ridare slancio all’economia
e allora, finalmente, crolleranno i muri che dividono i
nostri comuni, però in attesa di quel giorno dovremo
sentirci chiedere ancora per molto: “Chi siete? Dove
Andate? Cosa portate? Un fiorino!”
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Dal nostro corrispondente da Roma
2013: Scandalo!
TAFAZZI sorpreso con un trans
Roma, 2 luglio 2013.
Un ennesimo scandalo a sfondo sessuale colpisce il
mondo politico della capitale. ‘Libero’, il quotidiano diretto da Vittorio Feltri, esce con un’edizione straordinaria e riporta in prima pagina a caratteri cubitali un titolo
di cui si vociferava già nella serata di ieri: TAFAZZI è
stato sorpreso in compagnia, per usare un eufemismo, di
un transessuale.
Lo scandalo esplode proprio nel momento in cui il segretario del PDSC, l’ex-PD Pier Luigi Tafazzi, aveva
appena lanciato una campagna moralizzatrice, risollevando la questione morale dopo le malversazioni, ma
sarebbe più corretto definirle ragazzate, che hanno coinvolto esponenti del centro-destra e, soprattutto, dopo la
recente approvazione della legge anti-intercettazioni.
Questa nuova notizia boccaccesca è solo l’ultima di una
lunga serie che ha colpito personaggi più o meno noti di
ogni ambiente. Per segnalare solo gli avvenimenti più
significativi, possiamo iniziare ricordando la vicenda
drammatica di Lapo Elkann, uno degli eredi della famiglia Agnelli, che nel 2005 fu ricoverato nel reparto di
rianimazione dell’Ospedale Mauriziano di Torino in seguito a una overdose di stupefacenti (cocaina ed eroina)
che lo colse in casa del transessuale allora cinquantasettenne Patrizia. Fortunatamente Lapo si è brillantemente
ristabilito dopo quell’episodio, ma sulla guida Michelin
dei personaggi più in vista, il “VIP’s Who’s Who”, viene ancora citato come “l’uomo che ha ridefinito il concetto stesso di figura di merda”.
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Come è noto, anche il mondo politico non si esime dal
fare la sue belle figure. È del 2007 la serie di foto che
ritrae Silvio Sircana, il portavoce dell’allora Presidente
del Consiglio Romano Prodi, mentre nella sua automobile scambia due parole con un trans appoggiato al finestrino. Pare che volesse solo chiedere per curiosità alcune informazioni, insomma era solo un’indagine di mercato, ma la vicenda ebbe comunque i suoi poco edificanti strascichi.
Si arriva quindi al caso più noto, quello che coinvolse
nel 2009 l’ex-Governatore della Regione Lazio, Piero
Marrazzo. A distanza di tanti anni, l’inchiesta presenta
ancora molti punti oscuri che non è il caso di discutere
in questa sede. Fatto sta, comunque, che i giornali uscirono con la notizia di un Marrazzo ricattato da quattro
persone, tutte appartenenti all’arma dei Carabinieri, in
possesso di un video che mostrerebbe un incontro tra
l’ex-Governatore, con apparente presenza di sostanze
stupefacenti, e un transessuale, Brenda, deceduto successivamente in circostanze sospette. Grazie a questo
fatto, Piero Marrazzo, per il momento, ha strappato a
Lapo Elkann la nomination per “l’uomo che ha ridefinito il concetto stesso di figura di merda” del secolo.
Dopo aver citato due politici di sinistra, solo per par
condicio, ricordiamo anche la vicenda che ha interessato nel 2010, esattamente tre anni fa, un esponente marginale del Pdl, il consigliere della provincia di Roma
Paolo Zaccai, ricoverato in ospedale dopo un festino a
base di trans e coca. La lista quindi è lunga e non comincia né si ferma qui.
Ora è la volta di Tafazzi. Il segretario si è immediatamente dichiarato estraneo ai fatti e ha querelato ‘Libero’
per diffamazione. Il direttore Vittorio Feltri, già noto
per aver montato anni fa il caso Boffo nei confronti del
quale ha poi chiesto scusa, si è detto tranquillo e sereno.
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Intervistato dal direttore Augusto Minzolini in diretta al
TG1, ha risposto: “Io e i miei cronisti non dobbiamo
rimproverarci nulla. Abbiamo solo ottemperato al diritto di cronaca. I fatti parlano chiaro: nel pomeriggio di
ieri due investigatori dell’arma dei Carabinieri, con regolare mandato, hanno fatto irruzione nell’appartamento romano di un transessuale noto come Samantha. Nell’appartamento hanno reperito stupefacenti di vario genere e nel letto in compagnia del trans, stordito dalla
droga, hanno trovato un uomo. Verificate le generalità
per mezzo della carta d’identità plastificata, che era stata usata per prepararsi le piste di cocaina, l’uomo è risultato essere Gian Luigi Tafazzi...”, il direttore del
TG1 ha interrotto Feltri e lo ha corretto: “Vorrai dire
Pier Luigi Tafazzi!”, ma il direttore di ‘Libero’ ha replicato: “No, Gian Luigi Tafazzi, ragioniere di Agrate
Brianza a Roma per un convegno”. Minzolini perplesso
ha insistito: “Ma sul tuo giornale c’era scritto...” e Feltri
ha concluso: “... che Tafazzi è stato sorpreso con un
trans. Mica si parlava di Pier Luigi Tafazzi, non c’è
scritto da nessuna parte nell’articolo. L’avete letto l’articolo, vero?”.
Il caso quindi si è rivelato una bolla di sapone, ma il dibattito politico ha continuato a infuriare.
Anche se il segretario Pier Luigi Tafazzi ha subito ritirato la denuncia per diffamazione e ha porto le sue scuse al direttore Vittorio Feltri, numerosi esponenti del
centro-destra hanno colto l’occasione per esprimere le
loro perplessità.
Il ministro per i Beni e le Attività Culturali, Sandro
Bondi, sostiene: “È un malcostume diffuso nella sinistra
quello di leggere i titoli ma di non approfondire i contenuti degli articoli”. Il portavoce del Pdl, Daniele Capezzone, dice invece: “Tafazzi ha la coda di paglia, altrimenti non avrebbe reagito in quel modo”. Fabrizio Cic40
chitto dichiara: “Ora che Tafazzi è colpito in prima persona, si renderà conto finalmente di quanto fosse necessaria la cosiddetta legge-bavaglio, fortemente voluta dal
nostro Governo”. Gaetano Quagliariello dice: “La privacy degli italiani è ancora violata ogni giorno; urgono
ulteriori severi provvedimenti per tutelarla, provvedimenti che il nostro Governo non tarderà ad assumere”.
Umberto Bossi interviene con orgoglio: “Solo i leghisti
escono sempre immacolati da queste vicende. Noi non
ci mescoliamo mai con questi... questi... come dite a
Roma? Froci?”. Infine, Maurizio Gasparri: “No comment. Quando ci sono di mezzo dei trans mi avvalgo
della facoltà di non rispondere”.
Solo Silvio Berlusconi, chiudendo questa rassegna di
interventi, offre la sua solidarietà: “Anch’io sono stato
ingannato. In effetti, mi sembrava strano un colpo d’ala
di Tafazzi, ma l’articolo di ‘Libero’ era così ben confezionato. Complimenti al direttore. È un peccato, perché
Tafazzi aveva acquistato dei punti, ma ora ricade nel
suo alone di mediocrità. Pier Luigi, non pensare solo
alla politica, fatti una vita!”
Dopo queste parole di incoraggiamento e di sostegno
nei confronti del segretario Tafazzi, duramente colpito
dallo scandalo, rimane un solo dubbio. Chi sarà il prossimo a dover soccombere, sopraffatto dall’ingerenza del
mondo dell’informazione, sotto i colpi della stampa?
Noi auspichiamo che venga potenziata la legge che
l’opposizione, con il suo solito spirito di patata, si ostina a chiamare “legge bavaglio”. Solo allora i giornali
non potranno che risplendere della purezza della legalità e la virilità della classe politica italiana non sarà più
messa in discussione.
Dal nostro corrispondente da Roma
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2013: Il Dr. House e
il delirio del Presidente
Roma, 3 luglio 2013.
Dopo le ultime fatiche causate dai lavori parlamentari e
dalle attività di governo, il Presidente si è preso un paio
di giorni di vacanza per riposare ed effettuare il suo
consueto check-up periodico.
I comunicati ufficiali si fermano qui: tre righe relegate nelle pagine interne dei giornali. Grazie alle
nostre fonti bene informate, possiamo invece rivelare ai nostri lettori che cosa è accaduto veramente...
Il Presidente riposa supino sul letto della sua stanza d’ospedale. Intorno a lui gli amici più cari gli tengono
compagnia, scherzano, ridono, ricordano i vecchi tempi.
A un tratto entra il suo medico personale che, con un
cenno, invita i presenti ad allontanarsi. Questi salutano
e lasciano rapidamente la stanza.
Il medico è visibilmente preoccupato. Prima di parlare,
alza ancora una volta la lastra che tiene in mano e la osserva attentamente contro la luce del neon che illumina
la stanza.
Il Presidente, che fino a quel momento era molto allegro, si fa scuro in volto e chiede preoccupato: «Cosa
c’è? Qualcosa non va?»
«Nulla» risponde il medico, «c’è solo una macchiolina.
Compare e sparisce periodicamente. L’ultima volta credevo che si trattasse di un falso positivo, ma ora è ricomparsa.»
«Che cosa significa? Può essere un tumore?»
«Non sono un esperto del campo, lo sai, io sono un cardiologo. Qualcosa c’è, ma occorre uno specialista.»
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SIGLA del Dr. HOUSE…
Il primario di neurologia e quello di oncologia dell’ospedale furono chiamati d’urgenza. Di fronte alla lastra
rimasero perplessi, ordinarono una TAC, una risonanza
e altri sei diversi tipi di analisi ciascuno, ma si vedeva
chiaramente che non avevano idea di cosa potesse trattarsi. Fecero inoltre i nomi di alcuni esperti che era opportuno chiamare a consulto, svizzeri e americani, ma i
due primari non erano d’accordo su quale fosse la specializzazione più adatta a chiarire il problema.
Il Presidente, già esasperato per essere relegato in quel
letto, era infastidito dal fatto di non avere la situazione
sotto controllo, quindi sbottò dicendo: «Ci penso io.
Voglio il miglior diagnosta del mondo.»
«Certo» disse il primario di neurologia, «tutti i medici
che abbiamo citato sono dei luminari nel loro campo...»
«No» replicò perentorio, «io voglio il migliore. Chiamatemi il dottor House! Non importa quanto costa, me
lo posso permettere. Chiamatelo! Anzi, fate venire tutta
l’equipe!»
Il primario balbettando chiese: «Il... il dottor House?
Ma...»
Lo interruppe il medico personale: «Certo, certo. Come
abbiamo fatto a non pensarci prima. Il dottor House,
certamente!» e così dicendo trascinò i colleghi fuori
dalla stanza.
Chiuse la porta e spiegò: «Scusate, ma quando fa così
bisogna assecondarlo. Deve essere un effetto di quella
macchiolina: gli provoca delirio di onnipotenza e non
riesce più a distinguere la realtà dalla fantasia. Può affermare con convinzione qualcosa e, dopo pochi giorni,
sostenere esattamente il contrario con altrettanta convinzione, per giunta dimenticando che prima la pensava
in un altro modo.»
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Uno dei primari commentò preoccupato: «Te n’eri già
accorto? Perché non hai detto nulla? Se quello che dici
è vero, non si può lasciare in mano a una persona così
instabile la guida del paese.»
«Perché non l’ho detto? L’ho fatto presente! L’ho comunicato al ‘grande vecchio’ ma lui mi ha fatto capire
che la situazione era sotto controllo... e comunque vi
consiglio di tenere tutto per voi: può essere molto pericoloso rivelare certi segreti. Io non vi ho detto nulla.»
Nel frattempo, i più stretti collaboratori del Presidente
erano in agitazione. La richiesta era precisa: bisognava
contattare il dottor House e convincerlo a effettuare una
visita su un caso che poteva non interessargli. Di per sé
l’impresa era già titanica, ma diventava impossibile dal
momento che il dottor House non esiste! È solo il personaggio immaginario di una serie televisiva.
Gli esperti dell’Unità di Crisi non riuscivano a trovare
una soluzione accettabile. Per il momento il Presidente
era trattenuto nella sua camera, ma se fossero trapelate
le sue richieste pazzesche, le conseguenze per il governo sarebbero state drammatiche.
Alla fine, il più recente acquisto dell’Unità, un giovane
ragioniere, propose la sua idea con la spavalderia della
gioventù: «Il Presidente vuole il dottor House. Pensavamo che dopo qualche ora avrebbe cambiato idea, ma insiste. Non resta che assecondarlo. Diamogli il dottor
House!»
Gli altri membri dell’unità si guardarono esterrefatti,
convinti ormai che quella forma di pazzia fosse contagiosa. Il ‘grande vecchio’, che era presente alla riunione
e aveva ascoltato tutto ma non aveva detto nulla, interruppe la discussione e disse: «Giusto! Chiamiamo il
dottor House!» e, prima di uscire dalla sala, camminan44
do appoggiato al suo bastone, aggiunse: «Il ragazzo ha
delle buone idee. Promuovetelo ragioniere capo.»
Non fu facile convincere Katie Jacobs, la produttrice
esecutiva della serie “Dr. House - Medical Division”, a
interrompere le riprese della decima stagione che erano
in pieno corso. Non si trattava solo di una questione di
denaro, ma anche di scadenze. Alla fine, la produzione
si convinse a lasciar partire una parte del cast: Hugh
Laurie, Robert Sean Leonard, Omar Epps e Peter Jacobson. Nel frattempo, avrebbero continuato la lavorazione
con gli attori rimasti. Il costo fu notevole, il solo Hugh
Laurie guadagna 400 mila dollari a episodio e, vista la
richiesta così particolare, fu necessario anticipare il
70% dell’onorario e accendere un mutuo per il resto.
Fortunatamente, il sistema sanitario nazionale prevede
che queste prestazioni siano interamente a suo carico e
quindi non fu un problema reperire i fondi.
Quella sera stessa l’aereo presidenziale decollò dal New
Jersey con a bordo i quattro attori. Il mattino dopo erano già pronti per prendere servizio in ospedale.
Roma, 4 luglio 2013.
Chris Taub (interpretato da Peter Jacobson) ed Eric Foreman (Omar Epps) si ritrovarono di fronte alla porta a
vetri dello studio di House su cui era riportata la scritta
‘Gregory House – MD’.
«Però! Hanno fatto le cose per bene, è tutto come sul
set» disse Taub.
Foreman aggiunse: «È perfino troppo realistico. Senza
la confusione della troupe e le telecamere mi sento a disagio.»
Entrarono nello studio. All’interno House (Hugh Laurie), James Wilson (Robert Sean Leonard) e il medico
personale del Presidente stavano già discutendo. Taub
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indossava il camice, mentre Foreman e Wilson erano in
giacca e cravatta.
Anche House aveva la giacca, ma senza cravatta e la camicia aperta mostrava una t-shirt blu. Era seduto alla
scrivania e giocherellava con il suo bastone. Come sempre Hugh Laurie era immediatamente entrato nella parte.
Il medico del Presidente si era appena presentato: «È un
grande onore conoscerla. Ho seguito tutte le puntate del
suo telefilm e le trovo molto istruttive» disse tendendo
la mano.
House osservò la mano tesa e facendo roteare il bastone
con la destra disse: «Ti ringrazio per il benvenuto e ti
stringerei volentieri la mano, se la mia non fosse occupata.»
Il medico perplesso ritirò la mano e osservando gli assistenti che erano appena entrati aggiunse: «Benvenuti!
Sono molto contento che abbiate accettato di darci...
ehm... una mano per risolvere il nostro ‘piccolo’ problema. Troverete tutta la documentazione in questi
faldoni» disse indicando una pila di cartelle, «e il paziente è a vostra disposizione per le visite. È impaziente
di conoscervi.»
«Carina questa!» disse House. «A quanto pare il paziente è impaziente... che sottile senso dell’umorismo.»
Wilson, sorvolando sulla battuta di House, disse: «Grazie di tutto. Ora ci riuniremo per discutere il da farsi. Se
avremo bisogno la chiameremo.»
Il medico sembrava titubante a lasciare lo studio. Dopo
qualche istante si decise e disse: «Prima di lasciarvi, volevo sottoporvi un mio piccolo problema personale.»
House smise di far roteare il bastone e replicò: «Ci piacerebbe tanto risolverlo, ma non siamo ginecologi.»
Wilson lanciò un’occhiataccia a House e disse: «Ci
dica, saremo felici di esserle d’aiuto.»
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Il medico prese coraggio e iniziò a raccontare. Mentre
parlava, House aveva l’aria di un uomo la cui pratica
della misantropia, ormai esercitata da una vita, era prossima al conseguimento della massima perfezione.
«Ecco, ho questo dolore...» iniziò a dire.
«Un momento» lo interruppe House, «facciamo un passo alla volta. Sei malato?»
«Beh, non lo so, era appunto per questo...»
«Non divaghiamo, non ho tutta la giornata. Ho fatto una
domanda molto semplice, sei malato sì o no?»
«Penso di sì.»
«È già qualcosa. E quali sono i sintomi?» chiese House
con il tono di chi sta pensando a qualcosa di più interessante.
Il medico prese coraggio e cominciò a elencare: «Bene,
dottore, ho un terribile mal di testa, la mia schiena mi
sta uccidendo, ho problemi nel camminare ed è comparso un grosso bubbone sotto l’ascella destra.»
Wilson, Foreman e Taub si guardarono allarmati, mentre House con tranquillità disse: «Non ti preoccupare,
sarai morto entro la settimana e poi non ti farà più
male.»
Il medico più sorpreso che preoccupato replicò: «Speravo in qualcosa di più ottimistico!»
«Non lavoro nel ramo della speranza.»
«Ma non mi potrebbe dare qualche suggerimento su
come ridurre il dolore, rimanere in vita, o cose utili
come queste?»
House sospirò e disse: «Il dolore è un toccasana per l’anima. Ritieniti fortunato.»
«Ma mi permetta di parlarle degli altri miei sintomi...»
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House sbottò: «Non farlo, sono sicuramente molto noiosi. Il tuo non è un caso interessante dal punto di vista
clinico. Ora lasciaci lavorare.»1
Wilson più comprensivo chiese: «C’è qualcos’altro che
possiamo fare?»
«No» disse il medico sconsolato, «penso che il dottor
House mi sia già stato abbastanza utile.»
«Faccio del mio meglio» disse House, «e chiudi la porta
prima di andartene.»
Il medico personale del Presidente tolse il disturbo e
chiuse la porta dietro di sé. Wilson rimproverò House:
«Per 400 mila dollari potevi almeno stringergli la
mano.»
«Wilson, mi stupisco di te. Sai perché ci hanno chiamati: perché io sono il dottor Gregory House! Perciò devo
comportarmi da Gregory House. Violerei il contratto altrimenti. Devo fare quello che si aspettano da me e mi
ha teso la mano solo perché si aspettava che non gliela
stringessi.»
Allora Foreman intervenne: «Io mi sto chiedendo che
cosa ci stiamo a fare qui il 4 luglio. È festa! È l’unico
giorno libero dalle riprese e saremmo potuti stare con le
nostre famiglie. Invece ci ritroviamo qui, mi sento come
un pesce fuor d’acqua e non c’è lo straccio di un copione.»
Pure Taub aveva qualcosa da dire: «Anch’io mi chiedo
che cosa ci sto a fare qui. Sono morto alla fine della
nona stagione e ho superato i provini per ‘CSI: Chicago’. Mi sento fuori luogo.»
Wilson rispose: «Non preoccuparti, in questo paese
hanno appena iniziato a trasmettere gli episodi della sta1
Dialogo da “Doctor Kilpatient”, tratto da un esempio del
Conversation Package, un’estensione di Eric Eve a Inform7
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gione scorsa, per loro sei ancora vivo. Però anch’io mi
sto chiedendo cosa ci facciamo qui tutti quanti noi.»
«Ti rispondo io, Wilson» disse House.
«Io sono qui perché ho dei vizi molto costosi e devo
guadagnare abbastanza per mantenerli. I vizi costosi
sono più esigenti delle ex-mogli. Tu invece mi hai accompagnato perché sei un buon amico e non volevi che
mi annoiassi qui tutto solo. Foreman è venuto perché
non vuole togliermi il piacere di smascherare le sue diagnosi sbagliate e Taub è qui perché... non lo so, perché
sei qui Taub? Tu sei morto!»
Taub rispose sinceramente: «La produzione si è privata
volentieri di me, visto che non sono più nel cast. Inoltre,
le riprese di ‘CSI: Chicago’ iniziano il mese prossimo e
quindi sono libero.»
«Bene, ora che tutti sappiamo perché siamo qui» disse
Wilson, «come ci regoliamo? Dobbiamo davvero studiare tutte queste cartelle cliniche? Senza copione mi
trovo anch’io un po’ a disagio.»
«Non vedo il problema» disse House, «dopo dieci anni
di episodi qualche tecnica di pronto soccorso l’avrà imparata pure Foreman! Per conseguire una laurea in medicina con relativa specializzazione ci vuole molto
meno tempo.»
Detto questo, si mise a cancellare la lavagna, mentre i
tre attori si accomodavano al tavolo occupando i loro
soliti posti. Wilson, prese la lastra dove compariva la
macchiolina nel cervello del Presidente e cominciò a osservarla controluce.
House disse: «Forza, elencate i sintomi!» e mentre li
dettavano prese a scrivere sulla lavagna.
- Manie di grandezza!
- Mania di persecuzione!
- Dice una cosa poi ne fa un’altra!
- Promette cose assolutamente irrealizzabili!
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- Si convince di aver mantenuto le promesse fatte!
House si fermò a riflettere e disse: «Noi, anche noi siamo un sintomo. Crede che il Dr. House esista veramente. Confonde la realtà con la fantasia. Ma ci deve essere
ancora un altro sintomo nascosto, che non riusciamo a
vedere. Servono delle analisi. Cosa proponete?»
Foreman azzardò: «Per me è sifilide. Ho sentito dire che
il Presidente conduce una vita sessuale sregolata. La sifilide porta alla pazzia e tutti i sintomi la confermano.»
House rispose: «Deve sperare che lo sia perché è curabile. Tu che hai dei trascorsi da scassinatore, andrai a
casa del Presidente e la perquisirai. Ogni indizio può essere determinante.»
Era il turno di Wilson: «Potrebbe essere un falso positivo. Io propongo di rifare la TAC.»
«Sei tu l’oncologo. Una macchia è sempre una macchia,
ma meglio che si trovi sull’obiettivo piuttosto che nel
cervello. Ti occuperai della TAC.»
Infine, venne il turno di Taub: «L’unica cosa che mi
viene in mente è che sia un tumore maligno con metastasi nel cervello non ancora diffuse nel resto del corpo.»
«Questa diagnosi non serve a nulla» disse House, «perché se fosse così non ci sarebbe più niente da fare.
Quell’incompetente del medico personale ha sottovalutato i segnali e ora potrebbe essere tardi. Ma non può
essere come dici, Taub, perché manca un sintomo: l’allopecia androgenetica da cui il Presidente non è assolutamente affetto. Aiuterai Wilson con la TAC. Io invece
rimarrò qui a guardare la TV, a quest’ora trasmettono le
repliche della prima stagione del Dr. House e doppiate
nella lingua locale... uno spasso!»
I collaboratori uscirono rapidamente dallo studio ognuno con il suo compito da svolgere. House rimase solo e
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ripeteva tra sé e sé: «Manca un solo sintomo... l’allopecia androgenetica...»
Roma, 5 luglio 2013, mattina.
Taub si trovava accanto alla macchina della TAC vicino
al Presidente, che era disteso sul lettino, pronto per essere introdotto nel solenoide. Nella sala di controllo assistevano all’esame il ‘grande vecchio’, sempre appoggiato al suo bastone, il medico personale del Presidente
e il giovane ragioniere appena promosso ragioniere
capo, mentre Wilson era seduto di fronte ai monitor.
Taub chiese: «Presidente, le hanno già fatto queste domande, ma è bene essere sicuri. Ha qualche oggetto di
metallo addosso, o chiodi nelle ossa, oppure otturazioni?»
Il Presidente osservò Taub, sfoderò un sorriso che sembrava composto da 36 denti e disse con tono affabile:
«Dottor Taub, le sembra che con questo camicione io
abbia la possibilità di nascondere oggetti metallici? Per
il resto non ho fratture chiodate e i miei denti sono impianti in pura ceramica.»
«Vedo» disse Taub, «lo chiedo solo perché la TAC...»
«Io, invece, mi chiedevo dottor Taub, perché un professionista come lei insiste a lavorare per il dottor House.
Non mi pare che dimostri di apprezzare le sue qualità.
Lei invece, a quanto mi risulta, era uno stimato chirurgo
plastico.»
«Sì, è così, però...»
«Secondo lei, c’è qualcosa che potrei migliorare nel
mio aspetto? Ho 77 anni, anche se non li dimostro per
nulla, e i miei concorrenti politici sono molto più giovani di me. Devo sostenere una competizione serrata.
Cosa ne pensa?»
Taub rifletté per qualche istante, pensava tra sé e sé che
il Presidente rischiava di essere seriamente malato, ma
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continuava a preoccuparsi solo per il suo aspetto esteriore. È proprio vero, il mondo della politica è tutta apparenza e nessun contenuto. Poi si scosse e disse: «Non
lo so, Presidente. Lei fisicamente mi sembra in piena
forma. Forse le orecchie, sì le orecchie sono un po’
sproporzionate...»
«Le ho già fatte sistemare. Mi hanno assicurato che di
più non si può fare.»
«Allora, l’altezza» ritentò Taub, «si potrebbero segare i
femori e con degli inserimenti in osso antirigetto si possono recuperare fino a 10 centimetri.»
«È un’operazione che si può ripetere più volte?»
«No.»
«Anche questa l’ho già fatta» concluse il Presidente deluso, poi cambiò discorso: «Quando potrò vedere il dottor House? Sono impaziente di conoscerlo di persona.»
Intervenne Wilson attraverso l’interfono: «Se è pronto,
Presidente, iniziamo l’esame. Deve rimanere immobile
per i prossimi dieci minuti.»
Il lettino cominciò a scivolare all’interno del solenoide.
«Se dovesse provare un senso di claustrofobia, è sufficiente che faccia un cenno e interromperemo immediatamente l’esame.»
Mentre la macchina cominciava l’analisi, House entrò
nella sala controllo: «Come stiamo andando?»
«Abbiamo appena iniziato» rispose Wilson.
House notò il ‘grande vecchio’ che osservava tutto in
disparte e pensò che avesse un gran bel bastone, in fibra
di titanio, leggerissimo. Aerografato a dovere sarebbe
stato perfetto.
All’improvviso entrò anche Foreman, tutto trafelato.
«Che è successo?» chiese sorpreso House. «Sembra che
tu sia stato rincorso da una muta di rottweilers.»
Foreman era infuriato: «Questa è l’ultima volta che
vado a ispezionare l’abitazione di un paziente per te!
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Prima ho dovuto scoprire dove abitava il Presidente.
Nel paese ha 18 ville e 9 palazzi, altrettanti all’estero.
Così ho scelto la residenza più vicina. Mi sono introdotto furtivamente dall’entrata secondaria come facciamo
sempre, ma sono stato immediatamente illuminato dalle
fotoelettriche, è comparso dal nulla un reggimento di teste di cuoio e una muta di rottweilers mi ha inseguito
per chilometri. Sono vivo per miracolo!»
«C’è un lato positivo: ora hai qualcosa da raccontare,
quando qualche studente ti dirà che ha scelto medicina
perché fare il medico è un lavoro tranquillo.»
Il ‘grande vecchio’ intervenne: «Perché non avete chiesto le chiavi? Non ci sarebbero state obiezioni.»
House rispose: «Avreste fatto sparire gli indizi più compromettenti, mentre noi abbiamo bisogno di scoprire
come stanno veramente le cose. I pazienti hanno una
strana abitudine: mentono sempre e se hanno qualcosa
da nascondere... la nascondono. Ironia della sorte, è
proprio ciò che nascondono che li fa stare male.»
«Questo vale anche per i politici: nascondono quello
che sono perché la verità fa perdere loro voti» aggiunse
il ‘grande vecchio’, «ma è quello che sono che fa stare
male il paese.»
Poi continuò: «Io non ho problemi a mostrarmi per ciò
che sono, un vecchio di 97 anni. Il mio corpo cade a
pezzi, ma il mio cervello è ancora pronto e reattivo
come quello di un settantenne. L’ho sempre tenuto allenato. Ho tramato nell’ombra per decenni, ho manovrato
come marionette tutti questi politici senza talento, questi bei sepolcri imbiancati utili solo per rastrellare i voti
degli allocchi.
Consideriamo il Presidente. La sua vita è tutta apparenza. Ha fatto da prestanome sin da quando ha iniziato la
sua attività d’impresario. Risulta multi-miliardario ma
in realtà i soldi non sono suoi. È anziano ma vuol sem53
brare giovane e così si è sottoposto a molti generi di tortura. Non ne sente più la necessità da anni, ma si fa sorprendere in compagnia di stuoli di belle donne come se
non potesse farne a meno. Si è fatto allungare i femori
per essere più alto, ma non gli basta e usa scarpe col
tacco rialzato. Ha un bel sorriso a 32 denti, in ceramica,
ma gli sembravano pochi e ne ha fatti aggiungere quattro. Ha rimosso borse e zampe di gallina con la chirurgia plastica, ma teme che si vedano ancora e si spalma
cerone a volontà. Ha nascosto la calvizie con un trapianto di capelli sintetici, ma...»
Lo interruppe House: «Capelli trapiantati?»
A quel punto, Wilson disse: «Analisi completata.
Ora...»
«… si vedono quattro macchie» disse House.
Wilson stupito chiese: «Come fai a saperlo?»
«L’allopecia androgenetica: il sintomo mancante, la
calvizie. Associata agli altri sintomi rende la diagnosi
evidente: il Presidente ha pochi giorni di vita.»
Quindi House premette il pulsante dell’interfono:
«Taub! Avevi i capelli sintetici a mezzo metro e non te
ne sei accorto? Ma che chirurgo plastico sei? Sei licenziato! Anzi, come non detto, dimenticavo che sei già
morto!»
Taub scosse le spalle come per dire: «Non sono un vero
chirurgo estetico, sono solo un attore e poi adesso sono
nel cast di ‘CSI: Chicago’.»
Il medico personale chiese: «Allora non c’è più nulla da
fare?»
«Sì» disse House, «si potrebbe radiarti dall’albo! Se
fosse stato diagnosticato in tempo, poteva bastare una
sonda per sistemare tutto, ma adesso è troppo diffuso.
Per ora è solo nel cervello, ma presto interesserà gli altri
organi. Un paio di giorni e poi...»
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Wilson confermò: «Purtroppo, come oncologo... beh sì,
interpretando un oncologo, non posso che confermare la
diagnosi di House. Lo comunicherò io al paziente, ci
sono abituato. Non c’è davvero più nulla da fare.»
Il giovane ragioniere, che era rimasto in disparte e aveva seguito tutto, intervenne: «Non si potrebbe eseguire
un trapianto di cervello?»
House e Foreman risero, mentre Wilson spiegò pazientemente: «Un trapianto di cervello non presenta al giorno d’oggi difficoltà insormontabili, neppure per quanto
riguarda il possibile rigetto, ma non si risolverebbe nulla trapiantando il cervello malato in un altro corpo
sano.»
Il ‘grande vecchio’, che aveva ascoltato la spiegazione
in silenzio, lo interruppe: «Questo ragazzo è un genio!
Da questo momento siete tutti vincolati dal segreto di
stato. Quello che ci vuole è proprio un trapianto di cervello! Non dite nulla al Presidente e preparate la sala
operatoria!»
Roma, 5 luglio 2013, sera.
La sala operatoria era pronta. L’ingresso era presidiato
da guardie armate. Tutto si stava svolgendo nella massima segretezza, come aveva disposto il ‘grande vecchio’.
House osservava la sala dall’alto. Poteva vedere i lettucci bianchi su cui erano distesi i due pazienti. Su uno
di essi giaceva il Presidente. Chissà cosa gli avevano
raccontato per convincerlo, forse che era possibile una
nuova riduzione delle orecchie? Quella situazione non
gli piaceva per niente, ma allo stesso tempo era eccitato
e voleva assistere all’operazione: non gli era mai capitato di seguire un vero trapianto di cervello.
Al piano di sotto, nell’anticamera della sala operatoria.
Foreman, Taub e Wilson si stavano preparando.
Taub era preoccupato: «Perché proprio noi?»
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Wilson cercava di rassicurarlo: «Te l’ho già spiegato.
Vogliono che tutto rimanga ristretto a poche persone. Il
tempo stringe e non c’è nessuno abilitato a questo genere di operazioni in tutto il paese.»
«Noi invece lo siamo?» chiese Taub, ma era una domanda retorica.
Foreman, che aveva appena finito di prepararsi, disse
con orgoglio: «Io sì. Nella settima stagione ho assistito
proprio a questo tipo di operazione.»
«Ma sei impazzito? Era per finta, non sei un vero medico, tanto meno un chirurgo!»
«Certo» disse Foreman, «avremmo dovuto portarci
Chase: è lui il chirurgo dell’equipe. Io comunque gli ho
fatto da assistente durante il trapianto di cervello della
settima stagione. Sai come ci tengono i produttori esecutivi al realismo della serie. Mi avevano fatto seguire
un corso di ben due settimane!»
Wilson interruppe il battibecco: «È inutile litigare, ci
tocca. Chase non c’è, e forse è meglio perché ha il vizio
di far fuori i dittatori. Il tempo stringe e dobbiamo arrangiarci. Foreman che è più pratico eseguirà il trasferimento, io assisto e tu ti occuperai dell’anestesia. House
farà il tifo al piano di sopra. Andiamo!»
House vide i tre chirurghi entrare nella sala. Prima iniziarono a preparare il Presidente. Taub monitorava l’anestesia, mentre Foreman radeva i costosi capelli sintetici. Poi prese la sega circolare e... ma questi particolari
tecnici non sono interessanti, fatto sta che il cervello
malato fu rimosso e riposto nel congelatore.
Ora toccava al secondo paziente. Si avvicinarono al lettuccio su cui giaceva il donatore addormentato dall’anestesia.
House aveva cercato di dissuaderlo. Era un’operazione
difficile e il suo corpo malandato non sarebbe sopravvissuto, ma il ‘grande vecchio’ era stato irremovibile.
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Era quella l’unica soluzione: avrebbe donato il proprio
cervello perché il Presidente potesse vivere e continuare
la sua opera. Nessuno meglio di lui poteva farlo, perché
erano decenni che ne guidava le scelte. Lo avrebbe sostituito egregiamente e, finalmente, avrebbe agito in prima persona, non avrebbe più dovuto muovere i fili di
una marionetta inanimata che, per giunta, spesso lo metteva in imbarazzo con i suoi comportamenti al di sopra
delle righe.
Wilson, con voce tremante, chiese a Foreman: «Sei
pronto? Da questo punto in poi non si può più tornare
indietro. Ripetimi come farai a eseguire correttamente i
collegamenti.»
Foreman rispose: «Questi sono particolari tecnici di cui
non ti devi preoccupare, basta seguire i codici dei colori
delle connessioni.»
Wilson non osò più chiedere altro.
L’operazione durò undici ore, fino al mattino seguente.
Al termine, riposizionate le calotte, Taub procedette alla
rianimazione dei pazienti, mentre Foreman si accasciava su una sedia, distrutto.
Per il ‘grande vecchio’ però non ci fu nulla da fare. Il
suo fisico debilitato non aveva retto allo stress dell’operazione e ne venne dichiarata la morte. Il Presidente invece aveva ripristinato autonomamente le funzioni vitali.
Ore dopo, nel reparto di terapia intensiva, gli infermieri
si agitavano intorno al letto del Presidente. Erano presenti anche alcuni suoi amici intimi. Uno di questi conversava sottovoce con House: «Il Presidente rimarrà
sconvolto dalla notizia. Lui e il ‘grande vecchio’ erano
così legati! La sua dipartita ci ha colti tutti di sorpresa.
Morire così a soli... beh sì, aveva 97 anni ma li portava
bene... beh, diciamo che li portava. Il Presidente invece
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è stato fortunato, la rimozione della cisti benigna sembra che abbia un decorso positivo.»
A un tratto, il Presidente riprese conoscenza e si guardò
intorno. Ci volle qualche minuto, ma sembrava riconoscere i volti e le persone. Quando vide House, sorrise
con i suoi 36 denti e disse, con una voce ancora impastata dall’anestesia: «Signori, lasciateci. Devo parlare
da solo con il dottor House.»
Rimasti soli, House si sedette sul bordo del letto e chiese: «Come va?»
«Ho un cerchio alla testa, ma mi sento vent’anni di
meno» disse il Presidente sorridendo.
«Prova a muovere la mano destra.»
Dopo qualche istante, il Presidente riuscì a muovere la
sinistra.
«Non ti preoccupare, può succedere. È questione di alcune connessioni intrecciate, ma con qualche seduta di
fisioterapia tornerà tutto normale.»
«Non so come...»
«Niente ringraziamenti. Questo era l’unico modo per
salvare la vita al Presidente. Qualcuno si è dovuto sacrificare, ma era l’unico modo. Non è da tutti avere una
seconda occasione, non sprecarla.»
Poi, dopo aver riflettuto per qualche secondo, House
disse: «Ho due richieste.»
«Tutto quello che volete.»
«La prima è da parte di Taub. Ha paura di doversi guardare le spalle per tutto il resto della sua vita. In effetti,
qualche preoccupazione ce l’ho anch’io. Nessuno ha saputo della sostituzione... a parte noi. Il fatto che il medico personale e il ragioniere capo non si siano più visti in
giro ci preoccupa un po’, perché anche loro sapevano.»
Il Presidente rispose: «Voi non dovete preoccuparvi. Il
medico aveva sbagliato e ha dovuto pagare. La sua negligenza poteva avere gravi conseguenze, o meglio le
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ha avute, ma ci abbiamo messo una pezza. Il giovane,
invece, era intelligente, troppo intelligente, forse anche
più di me. Meglio non correre rischi. Voi invece potete
stare tranquilli, se anche ne parlaste con qualcuno, chi
mai vi crederebbe?»
Quindi domandò: «Qual è la seconda richiesta?»
House voltò lo sguardo verso un angolo della stanza.
Laggiù era appoggiato il bastone del ‘grande vecchio’.
Il Presidente capì: «House, prendilo pure. Te lo regalo,
a me non serve più.»
Dal nostro consulente medico
2013: La stagista e
l’intervista al Presidente
Roma, 6 luglio 2013.
Le voci che descrivevano un Presidente gravemente
malato, dopo alcuni giorni di assenza dalla scena politica, si sono rivelate clamorosamente infondate. Ecco la
trascrizione dell’intervista a cui la giornalista Clara Bonucci ha sottoposto il Premier, il quale, nel rispondere
alle domande, si è dimostrato come sempre in ottima
forma. L’intervista è stata proposta in sintesi ai telegiornali della sera e in forma completa negli approfondimenti in seconda serata. [Segue l’intervista]
Questo è il comunicato ufficiale, ma grazie alle nostre fonti bene informate, possiamo rivelare ai lettori che cosa è accaduto veramente...
Lo staff dell’Unità di Crisi era riunito per fronteggiare
l’emergenza. Tre giorni senza mostrarsi in pubblico
sono troppi, soprattutto quando la situazione del paese
richiede interventi continui. Inoltre, sarebbero trascorse
alcune settimane prima di poter garantire una presenza
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efficace. I nemici interni ed esterni ne avrebbero sicuramente approfittato.
Il direttore dell’Unità di Crisi percorreva con lunghi
passi nervosi l’intera lunghezza della sala, mentre gli altri membri dello staff ne seguivano con apprensione le
evoluzioni. A un tratto si fermò e disse: «Qui ci vuole
un’idea geniale. Dov’è il ragioniere capo?»
Nessuno lo sapeva e il neoassunto ultima-ruota-del-carro, un ragioniere di Redipuglia, con la spavalderia della
gioventù, azzardò: «Sarà in licenza premio.»
Il direttore non ci fece caso, riprese a misurare la sala
un passo dopo l’altro e, mentre camminava, pensava ad
alta voce: «L’ideale sarebbe un’intervista da far trasmettere nei prossimi giorni a tutti i telegiornali. Deve
essere rassicurante. Non il solito comunicato registrato
che lascerebbe insoddisfatti tutti, non questo. Piuttosto
una vivace intervista dialogata, magari con una bella
donna. Il Presidente dovrebbe parlare un po’ di tutto,
essere affabile come sa fare, magari anche galante, ma
senza esagerare... non deve esagerare come al solito,
dobbiamo farglielo presente. Che ne dite?»
Un consigliere gli fece notare che sarebbe stato l’ideale,
ma non era possibile.
«Certo» continuò il direttore, «l’intervista che risolverebbe il nostro problema non è possibile, perché se lo
fosse non ci sarebbe un problema da risolvere...»
Quando iniziava questi discorsi, gran parte dello staff
perdeva il filo.
«Ci sarebbe una possibilità!» disse il ragioniere di Redipuglia, sempre con l’incoscienza dell’ultimo arrivato.
Il direttore si fermò e tutto lo staff si mise a fissare il
giovane con uno sguardo inquisitore che diceva: “Eccone un altro che pensa di sapere tutto. Chissà quanto durerà questo.”
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Dopo aver attirato l’attenzione, troppa attenzione, si
sentiva un po’ a disagio, ma preso coraggio cominciò a
spiegare: «Sapete che la tecnologia ha fatto passi da gigante, ora nelle tasche abbiamo dei cellulari che autonomamente ci pianificano la giornata secondo i nostri impegni, rispondono per noi alle telefonate, addirittura ci
prenotano le ferie...»
Il direttore intervenne: «Non mi dica niente! Il mio telefonino mi ha prenotato una vacanza a Courmayeur. Io
non ci voglio andare, odio la montagna, ma lui dice che
mi fa bene alla pressione... la pressione! Va beh, continui pure» e lasciò la parola al ragioniere, mentre dalla
tasca usciva un bip-bip di rimprovero.
«Bene, stavo dicendo che ormai l’intelligenza artificiale
ha fatto passi da gigante: riconoscimento vocale e facciale, contestualizzazione del linguaggio, scelta della
reazione più appropriata, sono tutte tecniche ormai accessibili...»
Il direttore ci rimise il becco: «Non ho capito un’acca,
ma continui.»
«Dunque, all’Università...»
Interruppe ancora il direttore: «Ma lei non è
ragioniere?»
«Sì, ma sono anche laureato. Nel curriculum non l’ho
scritto perché i laureati costano troppo e non mi avreste
assunto.»
«Molto bene» replicò il direttore lanciando un’occhiata
fulminante al responsabile assunzioni, «si vede che ha
spirito d’iniziativa. Continui e concluda!»
«Dunque, all’Università Roma Quattro ho seguito il
corso del professor De Giorgis sull’Intelligenza Artificiale applicata alla comunicazione. Una telecamera riprendeva un soggetto umano, l’immagine veniva elaborata da un cluster di computer e su uno schermo era sintetizzata la rappresentazione di un interlocutore che ri61
spondeva a tono alle domande. Non solo, ma ne proponeva a sua volta e riusciva in questo modo a sostenere
una conversazione. Si possono utilizzare anche parti
preregistrate, ma il sistema può improvvisare su una serie di parametri programmati. È stato il primo automatismo al mondo a superare il test di Turing: il sistema artificiale veniva riconosciuto come umano molto più
spesso delle stesse cavie umane.»
Il direttore stupito chiese: «Ho intuito dove vuole arrivare, ma chi è questo professor De Giorgis? Non l’ho
mai sentito nominare.»
Il ragioniere spiegò l’arcano: «Quando il suo sistema si
è dimostrato efficace e le prime attestazioni di merito
hanno cominciato a giungere dalla comunità scientifica
internazionale, il professore ha interrotto le ricerche
perché temeva che il ministero gli togliesse i fondi e di
doversi trasferire all’estero.»
«Molto bene» disse il direttore, «anche questo De Giorgis si dimostra una persona dotata di intelligenza. Contattiamolo e proviamo il sistema. Per quanto riguarda
l’intervista dobbiamo trovare una giornalista giovane e
di bella presenza. Qualcuno che non abbia problemi ad
accettare una videoconferenza con il Presidente, ma che
farebbe i salti mortali per ottenerla, magari una stagista.
Le lasceremo carta bianca per quanto riguarda le domande, perché la solita intervista a senso unico potrebbe sembrare sospetta. La facciamo trasmettere in sintesi
al TG1 e al TG5 e poi completa in seconda serata.»
«Se mi posso permettere» disse ancora il ragioniere, «la
mia fidanzata ha appena terminato la scuola di giornalismo e sta svolgendo uno stage presso il giornale ‘La
porcata quotidiana’ di Antonio Pataccaro e Marco Bavaglio. Secondo me è molto brava.»
«Non importa se è brava, ma è fondamentale che sia carina. E poi lavora per un giornale, se così si può chia62
mare, che non è tenero con il Presidente. Potrebbe essere un’ottima scelta. Le faremo un provino. Come si
chiama?»
«Clara Bonucci.»
«Il nome suona bene» disse il direttore, poi rivolto ai
collaboratori ordinò: «Trovatemi questo De Giorgis!»
Roma, 7 luglio 2013.
Il professor Alberto De Giorgis stava ultimando la preparazione del suo sistema cibernetico nella cabina di regia. Si sentiva a disagio, perché alle sue spalle il direttore dell’Unità di Crisi spiava tutte le sue mosse.
«Manca molto?» chiese il direttore.
«No» rispose, «ho ultimato l’inserimento di tutte le registrazioni del Presidente, dai filmini in super8 di quando faceva il piazzista di creme di bellezza fino ai kolossal tridimensionali trasmessi nell’ultima campagna elettorale. Il sistema sta completando l’elaborazione delle
informazioni e creando la personalità virtuale che risponderà alle domande dell’intervista. La potenza di
calcolo necessaria è enorme, ma per le prossime due ore
ho prenotato i mainframes del CERN di Ginevra. Dovranno sospendere per tre giorni i loro esperimenti sulla
fisica delle particelle elementari e la scoperta del bosone di Higgs potrebbe slittare di settimane, ma il disturbo
se lo fanno pagare bene.»
Il direttore replicò: «È una fortuna che la RAI abbia una
voce di bilancio apposita nel capitolo della divulgazione
scientifica, altrimenti non ce lo saremmo potuti permettere.»
Nel frattempo, sui monitor della regia si vedeva Clara
Bonucci, la fidanzata del ragioniere di Redipuglia, che
si stava preparando. La truccatrice dava gli ultimi ritocchi, ma non c’era molto da sistemare: il Presidente virtuale l’avrebbe sicuramente trovata di suo gusto.
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Il direttore prese il suo cellulare e gli disse: «Quel giovane... come si chiama, quello di Redipuglia... è promettente. Ricordati di proporlo per una promozione.
Ragioniere capo potrebbe andare bene.»
Il telefonino confermò con una sensuale voce femminile: «Ho già provveduto! La pratica è in amministrazione», ma il direttore si arrabbiò: «Quante volte ti dico di
non rispondere con questa voce? Mi fa impressione!
Usa i bip» e la risposta fu: «bip-bip.»
Di fronte alle telecamere Clara Bonucci sfogliava le
note con le domande e se le ripeteva mentalmente.
«Vedrai che andrà tutto bene» disse il fidanzato. Era
stato deciso di tenerla all’oscuro del fatto che fosse
un’intervista artificiale. Il realismo ne avrebbe giovato.
«Non so se andrà bene. Alcune domande di sicuro non
piaceranno al Presidente, ma non ho intenzione di abbassarmi a compromessi.»
«Questa è un’occasione che non capita tutti i giorni. Bisogna capire quando è il caso di abbassarsi, perciò sfruttala bene. Anche a me potrebbe garantire un passo in
avanti nella mia carriera e poi potremo sposarci.»
«Sì, certo» disse Clara, ma con poca convinzione.
Dalla regia giunse una voce gracchiante: «Siamo pronti!
Un minuto al collegamento!»
Il ragioniere e la truccatrice si dileguarono e Clara rimase da sola nello studio. Illuminata da un occhio di bue,
aveva di fronte a sé uno schermo scuro che rifletteva la
sua immagine. Intorno a lei tre telecamere. La fissavano
accendendo a turno il loro occhio rosso.
Clara si chiedeva che cosa ci facesse lì. Diventare giornalista, quello era sempre stato il suo sogno. Voleva
emulare le giornaliste RAI d’assalto, come Giovanna
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Botteri o Monica Maggioni, che aveva seguito in televisione dieci anni prima con i loro reportages dall’Iraq
durante le fasi della seconda guerra del Golfo. Era sempre stata quella la sua aspirazione e si era impegnata a
fondo per conseguire le competenze necessarie. Aveva
addirittura imparato quattro lingue, compreso l’arabo.
Ora, però, senza alcuna fatica, si trovava già a poter intervistare il Presidente: cosa avrebbero detto i suoi colleghi più anziani? Per sua fortuna si trattava di una videoconferenza e c’era uno schermo di mezzo, altrimenti
chissà cosa avrebbero pensato che fosse successo prima
o dopo l’intervista. Tutto poi per colpa di un fidanzato
che voleva lasciare da mesi. Quella carta doveva giocarsela bene o sarebbe stata ricordata per il resto della sua
carriera come la stagista che, tra le altre cose fatte con il
Presidente, lo aveva anche intervistato.
«Tre, due, uno!» contarono dalla regia e dopo qualche
istante sullo schermo apparve Lui. Era seduto con disinvoltura dietro una scrivania. Alle sue spalle la bandiera
italiana e quella dell’Unione Europea facevano bella
mostra di sé. La schermata divenne tremolante per qualche istante, ma poi si stabilizzò.
«Buongiorno, signorina!» disse l’immagine del Presidente sfoderando un sorriso a 36 denti, sì, proprio quattro più del normale.
«Buo... buongiorno, Presidente!» rispose Clara balbettando.
Vederselo di fronte, così all’improvviso, l’aveva lasciata senza fiato. L’immagine nel mega-schermo tridimensionale era a grandezza naturale. Era davvero come
averlo di fronte di persona, si poteva quasi toccare. Lo
sguardo era magnetico, il sorriso sfolgorante, la pelle
abbronzata e liscia come quella di un bambino. L’età
65
era indefinibile, sembrava di vedere una sovrapposizione omogenea dei suoi ultimi vent’anni.
Nell’assistere a quella reazione, il direttore si chiese se
la scelta fosse stata azzeccata. Il provino era andato
bene, ma non era stata verificata la reazione a uno stress
emotivo. Ci sarebbero stati tanti giornalisti di esperienza che avrebbero dato qualunque cosa, anche la più intima, per quell’intervista: qualche direttore di TG sarebbe
forse arrivato anche a strisciare per ottenerla. Ma era
toccato a quella stagista e ora sembrava non essere all’altezza.
Dalla regia dissero: «Iniziate pure. Cerchiamo di fare un
piano sequenza, ma non preoccupatevi se si dovrà tagliare qualcosa. Al montaggio penseremo dopo. Signorina, salti pure l’introduzione, la registriamo alla fine.»
Il Presidente, mentre la fissava con quel suo sguardo penetrante, disse: «Grazie, regia. Signorina è pronta? La
vedo turbata.»
«Tutto bene, grazie. Ora iniziamo» disse lei deglutendo
e riprendendo fiato.
Si schiarì la voce, mise l’introduzione dietro il blocco,
diede una rapida occhiata al secondo foglio e iniziò.
«Signor Presidente, nei giorni scorsi sono state formulate molte ipotesi sul suo stato di salute. A vederla così,
faccia a faccia, mi sembra in ottima forma. Cosa ci può
dire in proposito?»
L’immagine fu attraversata da un disturbo impercettibile, poi riprese nitidezza. Lo sguardo, che si era offuscato per un istante, divenne nuovamente vivo e consapevole.
«Lei, signorina, sa giudicare bene gli uomini. Mi consenta prima di tutto di ringraziarla per il suo apprezzamento e lo ricambio con altrettanta considerazione nei
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suoi confronti. Se tutte le giornaliste fossero belle come
lei, mi farei intervistare tutti i giorni. Molti hanno osato
insinuare che fossi malato. Cosa rispondere...
malato io? Sono Superman, anzi Superman a me mi fa
ridere...1
In realtà ho dovuto effettuare un check-up per una tendinite alla mano che mi perseguita da qualche anno.
Forse ha ragione chi dice che sono troppo vecchio per
governare un Paese moderno. Ma ho il merito di affidarmi a persone competenti.2
L’età a volte fa dei brutti scherzi, ma mi consenta una
battuta.
Stamani in albergo volevo farmi una ciulatina con una
cameriera. Ma la ragazza mi ha detto: “Presidente, ma
se lo abbiamo fatto un’ora fa”. Vedete che scherzi che
fa l’età?3
Spero che questa innocente storiella non l’abbia messa
in imbarazzo» disse il Presidente sfoderando un sorriso
disarmante.
«No, no, ci mancherebbe. La primavera scorsa sono stata in Afghanistan e in caserma i soldati si raccontano
storielle come la sua» rispose Clara senza battere ciglio.
«È stata già in Afghanistan. Credevo fosse una giornalista precaria.»
«È così» rispose, «ma ho già avuto modo di lavorare sul
campo e mi sono resa conto di cosa voglia dire operare
in una zona di guerra. Una guerra in cui sono coinvolti
anche i nostri militari italiani.»
«Lei, signorina, si lascia trasportare troppo dalla sua
sensibilità. Dal tono che usa sembra che dia la colpa di
tutto a me.
1
La Stampa, 2 settembre 2009
Adnkronos, 27 marzo 2008
3
l’Unità, 4 luglio 2010
2
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Io non sono mai stato convinto che la guerra fosse il sistema migliore per arrivare a rendere democratico un
paese e a farlo uscire da una dittatura anche sanguinosa.
Io ho tentato a più riprese di convincere il presidente
americano a non fare la guerra. Ho tentato di trovare altre vie e altre soluzioni anche attraverso un’attività congiunta con il leader africano Gheddafi. Non ci siamo
riusciti e c’è stata l’operazione militare, ma io ritenevo
che si sarebbe dovuta evitare un’azione militare. 1
e comunque se lo lasci dire, lei è giovane e bella, ma è
precaria, perché sprecare la sua vita nel tentare una carriera faticosa?
Da padre, il consiglio che le do è quello di ricercarsi il
figlio di Berlusconi o di qualcun altro che non avesse di
questi problemi. Con il sorriso che ha potrebbe anche
permetterselo.2
È un consiglio che mi viene dal cuore, da vero padre di
famiglia.»
«Grazie, Presidente, sono certa che molte italiane che
hanno un bel sorriso ne approfitteranno. Io, per il momento, voglio realizzarmi facendo affidamento solo sulle mie capacità. Comunque, non divaghiamo, ci sono
tante altre domande che meritano una risposta.»
«Come sta andando?» chiese preoccupato il professor
De Giorgis al direttore dell’unità di crisi.
«Benissimo! È da non credere, sembra proprio lui in
persona, solo che risulta più bello, affascinante e pure
ringiovanito. Ha proprio fatto un buon lavoro!»
De Giorgis insistette: «Però, mi sembra che stia un po’
esagerando.»
1
2
Omnibus-La7, 29 ottobre 2005
Tg2, 12 marzo 2008
68
«Macché! Anzi, si sta trattenendo! Lasci i parametri
come sono. È perfetto!»
Roma, 8 luglio 2013.
L’intervista procedeva senza intoppi. Ogni tanto l’immagine del Presidente sembrava tremolante, mentre in
certi momenti lo sguardo appariva assente, ma riacquistava subito dopo vivacità. Insomma, Clara Bonucci si
sentiva a disagio, a volte credeva di trovarsi di fronte a
un automa, però immediatamente si ricredeva nel constatare la coerenza delle risposte e la luce nello sguardo.
Clara riprese l’argomento emerso nella risposta precedente, perché non voleva fargliela passare troppo liscia:
«Questa sua dichiarazione, sul fatto che una bella donna
dovrebbe pensare ad accasarsi piuttosto che impegnarsi
in una carriera, non trova che sia offensiva? Lei divide
le donne in belle e brutte e ritiene che solo queste ultime debbano essere intelligenti?»
Il Presidente sorrise e socchiuse le palpebre lasciando
balenare un’occhiata d’intesa: «Ora non mi metta in
bocca parole che non ho detto. Mi viene in mente una
signora dell’opposizione che...
quando si alza la mattina e si guarda allo specchio si è
già rovinata la giornata...1
oppure un’altra che...
ravviso che è sempre più bella che intelligente. 2
Intendo dire, se non si fosse capito, che se una donna è
brutta non è detto che sia intelligente. Certo queste possono essere...
battute di spirito conosciute e di largo consumo. Andate
a vedere gli insulti che hanno fatto alle mie ministre che
1
2
Si riferisce a Mercedes Bresso, 23 marzo 2009
Si riferisce a Rosy Bindi, 23 marzo 2009
69
sono persone bravissime e assolutamente diverse da ciò
che si vuol far pensare che siano.1
Ad esempio, ho una speciale predilezione per...
Mara Carfagna. Faccio i complimenti a Mara, che è bella, dolce e intelligente, ma anche una donna con le palle.2
E ho questa stima per tante altre belle donne impegnate
in politica nella mia coalizione che si dimostrano intelligenti quanto belle. Mi piacerebbe avere un governo di
sole donne.
Zapatero ha fatto un governo troppo rosa che noi non
possiamo fare anche perché in Italia c’è una prevalenza
di uomini.3
Ritengo però che sia un peccato.»
«D’altra parte lei, Presidente, non ha mai fatto mistero
di essere attratto dal fascino femminile. Ma è certo di
essere apprezzato per quello che lei è, come persona e
come uomo, e non solo per il suo denaro?»
«Non ne ho alcun dubbio, anche recentemente ho dovuto rispolverare le mie doti di playboy con donne presidente di rango pari al mio e il successo che ho ottenuto
è stato evidente.»
Clara cambiò quindi discorso: «Abbiamo capito che ha
una grande stima delle donne del suo governo. E degli
uomini cosa ci dice? Bossi e Fini, ad esempio.»
Un velo di tristezza scese sul Presidente:
«Bossi è un uomo coriaceo, come sanno tutti, ma è sempre stato un realista: senza il suo realismo il Polo delle
libertà non sarebbe mai nato.4
Nonostante atteggiamenti volutamente devastanti, il
Bossi è un buon italiano: è diverso dai vecchi e nuovi
1
24 marzo 2009
24 marzo 2009
3
Radio Montecarlo, 15 aprile 2008
4
la Repubblica, 5 novembre 1995
2
70
marpioni della politica. E in questo me lo sento fratello.
1
A Fini invece sta stretto il ruolo di presidente della Camera e coglie ogni occasione per ritagliarsi uno spazio,
per avere visibilità.2
Ci sono tante possibilità di impegnarsi per il bene del
Paese, per cui c’è gloria per tutti.3»
Clara quindi chiese: «Tra le tante categorie che si impegnano per il bene del paese, secondo lei, non sembra esserci l’ordine giudiziario...»
Il Presidente rispose: «Non posso che ripetere concetti
espressi più volte. Secondo me...
il pubblico accusatore dovrebbe essere sottoposto periodicamente a esami che ne attestino la sanità mentale. 4
Io non ho mai attaccato i giudici, anzi è il contrario. 5
L’anomalia italiana non è Silvio Berlusconi, lo sono i
PM comunisti e i giudici comunisti di Milano. Solo da
quando Silvio Berlusconi è sceso in politica e ha sottratto il potere ai comunisti ha subito 103 processi. 6
Questi giudici sono doppiamente matti! Per prima cosa,
perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente
disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno
quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi
dal resto della razza umana.7
La magistratura è una malattia della nostra democrazia,
dobbiamo assolutamente cambiare l’ordine giudiziario,
1
Panorama, 4 febbraio 1994
Corriere della sera, 12 maggio 2009
3
la Repubblica, 21 dicembre 2003
4
8 aprile 2008
5
la Repubblica, 27 dicembre 2008
6
Reuters, 28 ottobre 2009
7
la Repubblica, 5 settembre 2003
2
71
non lascerò la politica finché un cittadino non potrà andare davanti a un giudice che sia veramente imparziale.1
Ma queste cose le ho già ripetute troppe volte che ormai
solo pochi non ne saranno ancora convinti.»
Clara allora provò a ribattere: «Eppure quella di cui parla non è la stessa magistratura che ha riscosso grandi
successi sul fronte della lotta alla mafia?»
Il Presidente si rabbuiò ancora di più: «Ecco...
dobbiamo finire parlando di mafia. Io se trovo però
quelli che hanno fatto nove serie de La Piovra e quelli
che scrivono i libri sulla mafia, che vanno in giro in tutto il mondo a farci fare così bella figura, giuro li strozzo.2
Non si meriterebbero altro per il danno che hanno fatto
e fanno al paese.»
«Vuole dire che la Mafia non esiste?» disse Clara cercando di non far esplodere la sua indignazione.
«Non dico questo» sostenne il Presidente, «ma...
se c’è una persona che per indole, sensibilità, mentalità,
formazione, cultura ed impegno politico, è lontanissima
dalla mafia questa persona sono io.3
E ho detto tutto.»
«C’è un’altra categoria che secondo lei non si impegna
per il bene del paese: quella dei giornalisti. Mi
sbaglio?»
«Non si sbaglia...
in Italia c’è un regime, sì, cari giornalisti: i dittatori siete voi. Il futuro è digitale; i giornali hanno fatto il loro
tempo. Le vostre battaglie sembrano quelle dei costruttori di carrozze che volevano impedire la diffusione delle auto. Non potete fermare il progresso. Non so indi1
Matrix-Canale 5, 10 marzo 2006
la Repubblica, 28 novembre 2009
3
la Repubblica, 29 novembre 2009
2
72
carvi io la soluzione, ma quando ci sono prodotti che diventano obsoleti bisogna prendere altre strade. 1
Su 5 milioni di copie di quotidiani vendute ogni giorno
(esclusi i giornali sportivi), solo 250 mila sono favorevoli all’esecutivo e 750 mila neutrali: quattro milioni
sono contro. Mi sono rivolto più volte agli organismi internazionali per un intervento, ma questa verifica non
viene fatta e continuo a leggere sugli organi d’informazione internazionali che in Italia c’è una reale preoccupazione per la libertà di stampa.2
È da non credere.»
«Ammesso che sia vero, è un fatto anche che la maggior parte delle televisioni sia in mano sua» replicò Clara.
Lo sguardo del Presidente mostrò un’evidente delusione: «Non mi aspettavo questo argomento trito e ritrito
da una persona intelligente come lei si è dimostrata finora.
Diciamolo, avere tre televisioni mi ha danneggiato. 3
In tv, ogni giorno, su tutti i canali, in prima serata mi
prendono per il culo. Questa abitudine sta diventando
insopportabile. Deve finire.4
C’è una sola cosa che non mi ha penalizzato...
il pubblico italiano non è fatto solo di intellettuali, la
media è un ragazzo di seconda media che nemmeno siede al primo banco. È a loro che devo parlare.5
Loro mi possono capire.»
«Quindi lei ritiene di essere un uomo che riesce a comunicare con la gente comune, questo significa che si ritiene un uomo del popolo?» chiese Clara.
1
10 dicembre 2003
Quotidiano nazionale, 7 novembre 2003
3
maggio 1994
4
la Repubblica, 12 novembre 2008
5
Corriere della sera, 10 dicembre 2004
2
73
«Non so se sono un uomo del popolo, ma sicuramente
sono un uomo per il popolo. Che cosa ho fatto per il popolo?
Solo Napoleone ha fatto di più.1
Su Napoleone ovviamente scherzo: io sono il Gesù Cristo della politica, una vittima, paziente, sopporto tutto,
mi sacrifico per tutti.2
Hanno fatto una prova anche su di me, sulla mia funzionalità cerebrale e fisica e hanno deciso che sono un miracolo che cammina.3
Mi sta venendo un complesso di superiorità tanto che
dico: “Meno male che ci sono io”. Non so un altro che
cosa avrebbe fatto. Nessuno avrebbe potuto fare meglio
di quello che ho fatto io.4
Quando sono entrato in carica ho trovato un Paese che
non contava niente sulla scena internazionale. L’Italia,
che non contava, ha ora uno smalto internazionale e un
suo peso specifico anche in situazioni determinanti.5
Non c’è nessuno sulla scena mondiale che può pretendere di confrontarsi con me, nessuno dei protagonisti
della politica che ha il mio passato, che ha la storia che
ho io. Da un punto di vista personale se c’è qualcuno
che ha una posizione di vantaggio questo qualcuno sono
io. Quando mi siedo a fianco di questo o quel premier o
capo di stato, c’è sempre qualcuno che vuole dimostrare
di essere il più bravo, e questo qualcuno non sono io. La
mia bravura è fuori discussione. La mia sostanza umana, la mia storia, gli altri se la sognano. 6
Ecco chi sono.»
1
Matrix-Canale 5, 10 febbraio 2006
ANSA, 12 febbraio 2006
3
ANSA, 5 ottobre 2002
4
Adnkronos, 3 dicembre 2002
5
Rainews24, 30 dicembre 2002
6
ANSA, 7 marzo 2001
2
74
Clara era rimasta a bocca aperta. Non si aspettava una
dichiarazione finale su Napoleone, Gesù Cristo e il miracolo che cammina, ma colse l’occasione al balzo e
disse: «Nessuno può affermare che lei non abbia fiducia
nelle sue capacità e una grande opinione di se stesso.
Mi permetta un’ultima domanda prima di congedarla.
Poco fa ha detto che lei è un miracolo che cammina...
ma dove cammina? Sulle acque?»
I riflettori nello studio persero un po’ di luminosità,
sembrava che una grande quantità di energia fosse assorbita chissà da quale congegno elettronico. Anche
l’immagine del Presidente divenne un po’ opaca, il volto paonazzo, quasi si poteva vedere una goccia di sudore colare sulla fronte, ma poi la luce si stabilizzò e lo
schermo riprese luminosità. Allora il Presidente sfoderando un sorriso sfolgorante rispose: «Sulle acque? Non
ancora, signorina, ma ci sto lavorando.»
Clara sorrise a sua volta, uno a uno e palla al centro. In
quell’istante lo schermo si oscurò e dalla regia dissero:
«Molto bene signorina, la registrazione è terminata.»
Nella sala di regia il direttore si stava complimentando
con il professor Alberto De Giorgis: «Un’intervista eccezionale. La mandiamo ai telegiornali così com’è.
Quando il Presidente la vedrà, quasi si convincerà di
averla sostenuta davvero lui. Ne registreremo altre durante la convalescenza, magari anche dichiarazioni sull’attualità. Avete fatto un ottimo lavoro!»
De Giorgis si scherniva, sospettava che potesse derivarne qualche fregatura per lui e il suo tranquillo posto di
libero docente.
«Il sistema sarebbe perfetto se non fosse limitato ad apparizioni in video. Certo al giorno d’oggi la TV è fondamentale, ma ci sono anche occasioni in cui bisogna
75
apparire di persona. Mi riferisco al G20 prossimo» disse
il direttore quasi come se pensasse ad alta voce.
De Giorgis inizialmente non aveva intenzione di esporsi
così tanto, ma ormai era in ballo e forse era opportuno
andare fino in fondo.
Fece cenno al direttore di seguirlo. Uscirono dalla sala
di regia e scesero una scaletta al fondo di un corridoio.
Si trovarono in uno scantinato buio e molto ampio. Si
potevano intravedere le pareti di una sala vuota con al
centro un tavolo e su questo una figura indistinta. All’improvviso, con uno schiocco, si accesero le fotoelettriche tutt’intorno e la sala si illuminò: sul tavolo ora si
poteva vedere una figura umana coperta da un lenzuolo.
«Lei voleva qualcosa di più» disse De Giorgis nei pressi
del tavolo.
Senza aggiungere altro di scatto tolse il lenzuolo e scoprì il corpo. Il direttore riconobbe subito il Presidente,
era il corpo nudo del Presidente! Solo che... con raccapriccio, vide che un braccio, il ventre e parte della testa
erano privi di pelle. Al di sotto si potevano vedere cavi
elettrici, barre d’acciaio e attuatori pneumatici.
De Giorgis disse con orgoglio: «Quando sarà completo,
nessuno potrà accorgersi della differenza.»
«È incredibile! È... è fantastico! Chi ne è a
conoscenza?»
«Io, lei e il mio allievo di Redipuglia» rispose il professore.
Il direttore prese il cellulare con mano tremante e gli
disse: «Annulla la promozione per il ragioniere e...», si
ricordò in quell’istante che De Giorgis lo stava ascoltando, «e... mandalo in ‘licenza premio’ nello stesso posto dove è andato l’altro ragioniere capo.»
Il telefonino rispose bip-bip.
Dal nostro esperto in cibernetica
76
09/07/2010
Giornata del silenzio
dell’informazione italiana
COMUNICATO SINDACALE DELLA FNSI
I giornalisti italiani sono chiamati a una forma di protesta straordinaria che si esprimerà in un “rumoroso” silenzio dell’informazione nella giornata di venerdì 9 luglio, contro le norme del “ddl intercettazioni” che limitano pesantemente il diritto dei cittadini a sapere come
procedono le inchieste giudiziarie, infliggendo gravi interruzioni al libero circuito delle notizie. Quanti lavorano nel settore della carta stampata si asterranno dalle
prestazioni nella giornata di oggi, per impedire l’uscita
dei giornali nella giornata di domani. Tutti gli altri,
giornalisti dell’emittenza nazionale e locale, pubblica e
privata, delle agenzie di stampa, del web, dei new media e degli uffici stampa non lavoreranno nella giornata
di domani. Free lance, collaboratori e corrispondenti si
asterranno dal lavoro secondo le modalità previste per
la testata presso la quale prestano la loro opera. I giornalisti dei periodici, infine, si asterranno dal lavoro domani, ma assicurando, già da ora, la pubblicazione sui
numeri in lavorazione delle proprie testate di comunicati sulle motivazioni della giornata del silenzio. Lo sciopero è una protesta straordinaria e insieme la testimonianza di una professione, quella giornalistica, che vuole essere libera per offrire ai cittadini informazione leale
e la più completa possibile. Una protesta che si trasforma in un “silenzio” di un giorno per evidenziare i tanti
silenzi quotidiani che il “ddl intercettazioni” imporrebbe se passasse con le norme all’esame della Camera,
imposte sin qui dal governo e dalla maggioranza parlamentare. Molte notizie e informazioni di interesse pub77
blico sarebbero negate giorno dopo giorno fino a cambiare la percezione della realtà, poiché oscurata, “cancellata” per le norme di una legge sbagliata e illiberale
che ne vieterebbe qualsiasi conoscenza. Giornalisti, ma
anche gli editori e migliaia di cittadini, da mesi denunciano le mostruosità giuridiche del “ddl intercettazioni”.
Sono state anche avanzate proposte serie per rendere
ancora più severa e responsabile l’informazione nel rispetto della verità dei fatti e dei diritti delle persone:
udienza filtro per stralciare dagli atti conoscibili le parti
relative a persone estranee e soprattutto alla dignità dei
loro beni più cari protetti dalla privacy; giurì per la lealtà dell’informazione che si pronunci in tempi brevi su
eventuali errori o abusi in materia di riservatezza delle
persone; tempi limitati del segreto giudiziario; accessibilità alle fonti della informazione contro ogni dossieraggio pilotato. Nessuna risposta di merito. Lo sciopero,
con la giornata del silenzio, è espressione di indignazione, di partecipazione, di richiamo responsabile a principi e valori che debbono valere in ogni stagione. Lo sciopero è un momento della protesta e dell’azione incessante che proseguirà, fino al ricorso della Corte europea
di Strasburgo per i diritti dell’uomo, qualora la legge
fosse approvata così com’è. Lo sciopero è anche segnalazione di un allarme per una ferita che si aggiungerebbe a un sistema informativo che patisce già situazioni di
oggettiva difficoltà e precarietà non solo per la crisi
economica, ma anche per una politica di soli tagli che
rischiano di allargare bavagli oggi altrimenti invisibili.
L’informazione è un bene pubblico, non è un privilegio
dei giornalisti, né una proprietà dei padroni dei giornali
e delle televisioni, né una disponibilità dei governi. E
per i giornalisti non è uno sciopero tradizionale contro
le aziende, ma un atto di partecipazione e di sacrificio
della risorsa professionale per la difesa di un bene pre78
zioso, dei cittadini, proclamato con un silenzio che vuol
parlare a tutti.
Fnsi (Federazione nazionale stampa italiana)
2015: Frattini:
“Come ho impedito lo scoppio della
III Guerra Mondiale”
Amman (Giordania), 10 luglio 2015.
Nei giorni scorsi il mondo si è trovato sull’orlo di una
catastrofe senza precedenti. La crisi dei missili iraniani
ha tenuto l’umanità con il fiato sospeso per settimane e
ha quasi causato lo scoppio della terza guerra mondiale.
Ce lo rivela il ministro degli Esteri, Franco Frattini, che
si trova ad Amman per la stipula del trattato di collaborazione e non belligeranza tra Israele e Iran della cui
stesura è il principale artefice.
I colloqui tra il Presidente della Repubblica Islamica
dell’Iran, Mahmud Ahmadinejad, e il Primo Ministro
dello Stato d’Israele, Benjamin Netanyahu, rappresentano una pietra miliare nella storia del XXI secolo e sono
mediati con grande autorevolezza proprio dal nostro ministro degli Esteri.
Mai nella storia dell’umanità si è assistito a un vertice a
tre più rappresentativo degli equilibri mondiali. Sicuramente i colloqui a Camp David tra il presidente Carter,
l’israeliano Begin e l’egiziano Sadat sono stati di minore importanza. Senza timore di essere smentito, mi azzardo a paragonare l’azione di Frattini a quella diplomatica di Papa Giovanni XXIII, che portò alla risoluzione
della crisi dei missili cubani tra il presidente Kennedy e
il Primo Segretario del Comitato Centrale del Partito
Comunista dell’Unione Sovietica, Nikita Krusciov.
79
Abbiamo la fortuna di poter intervistare il ministro, in
una pausa prima della firma del trattato, e di sentire dalla sua viva voce come si è svolta la drammatica vicenda.
Il ministro ci ha ricevuti in una saletta della sua suite al
trentesimo piano de “Le Royal Hotel” di Amman. Lo
troviamo seduto su una delle poltrone, ma affabilmente
si alza e ci viene incontro. Dopo esserci accomodati, arriviamo subito al punto cruciale dell’intervista: «Ministro, nelle scorse settimane tutti abbiamo avuto l’impressione che il mondo si sia trovato sull’orlo del baratro. Lei, che ha assunto un ruolo cruciale nella vicenda,
che cosa ci può raccontare?»
Il ministro dopo aver riflettuto lungamente con la destra
appoggiata sul mento, accavallò le gambe e, appoggiando la sinistra al mento, meditò nuovamente. Poi disse
sorridendo amabilmente: «Lei mi attribuisce un merito
eccessivo. Certo, se la guerra fosse scoppiata ora ci troveremmo in guerra. Essere in guerra non è come essere
in pace. Mentre durante un periodo di pace gli uomini
vivono nella concordia fraterna, durante un periodo di
guerra gli uomini si combattono con odio fratricida. Secondo noi e il governo che rappresentiamo è meglio che
regni la pace piuttosto che la guerra: per questo è un dovere fare tutto ciò che è in nostro potere per scongiurare
le guerre e far regnare la pace. Infatti quando regna la
pace...»
«Mi pare che il concetto sia chiaro e assolutamente condivisibile» dissi interrompendolo con garbo, «ma i nostri lettori sono impazienti di conoscere lo svolgimento
dei fatti e il fondamentale ruolo che lei ha svolto.»
Il ministro dopo aver riflettuto lungamente con la sinistra appoggiata sul mento, scavallò le gambe e, appog80
giando la destra al mento, meditò nuovamente accavallando le gambe (al contrario rispetto a com’erano prima). Poi disse: «Mi lasci pensare.»
Quindi dopo aver meditato a lungo con la destra appoggiata sul mento, scavallò le gambe e, appoggiando la sinistra al mento, rifletté nuovamente accavallando le
gambe. Infine, iniziò a raccontare (nel seguito sono eliminate le meditazioni, i cambi di postura e gli accavallamenti di gambe): «Come dicevo, lei mi attribuisce un
merito eccessivo. Certo, se la guerra fosse scoppiata...
ah, ma questo l’abbiamo già detto. Lei invece vuole conoscere lo svolgimento dei fatti.»
Il ministro parlò quindi per un paio d’ore della sua vita,
iniziò a mostrare le carte delle caramelle regalate dalla
maestra d’asilo perché era stato un bravo bambino e terminò con le diapositive del matrimonio di cinque anni
fa. Alla fine arrivò al dunque: «La settimana scorsa mi
trovavo a Roma durante una breve pausa tra le mie innumerevoli missioni in tutto il mondo, di cui appunto le
raccontavo prima, e fui convocato d’urgenza alla Farnesina. Quando arrivai mi resi subito conto che qualcosa
non andava per il verso giusto...»
La Farnesina, il palazzo sede del ministero degli Esteri,
ha al suo interno una sala denominata War Room. L’accesso a questa sala è consentito solo allo staff dell’Unità
di Crisi. Il ministro arrivò trafelato e fu fermato all’ingresso dalla sicurezza. Disse: «Sono il ministro Frattini,
devo conferire con il direttore dell’Unità di Crisi.»
Il militare di guardia rispose ridendo: «Sì, e io sono il
generale Custer.»
Un commilitone aggiunse: «Ma mi faccia il piacere,
sono otto anni che presto servizio di guardia al palazzo
e il ministro non l’ho mai visto. Adesso arriva questo,
81
dice di essere il ministro e vuole entrare. Vedi d’andartene prima che ti pigli a calci in culo.»
«Ma io...» interruppe le proteste perché il militare mise
mano al mitragliatore. Girò quindi intorno al palazzo ed
entrò dall’ingresso secondario. La scena si ripeté varie
volte. All’entrata della War Room, grazie al test del
DNA, le guardie si convinsero e riuscì ad accedere.
Lo accolse il direttore: «Finalmente è arrivato! La situazione sta precipitando! C’è bisogno del suo intervento
immediato!»
Le pareti della War Room erano tappezzate di pannelli
luminosi che mostravano le zone più calde del mondo.
Nella semioscurità spiccavano i segnalini dei sommergibili nucleari russi, americani e cinesi disseminati per
tutti gli oceani, le lucine dei bombardieri in volo, le basi
missilistiche in allerta, le unità d’assalto e da sbarco che
combattevano in tutte le missioni di pace del pianeta.
Non ci voleva un genio per capire che bastava poco per
scatenare la terza guerra mondiale e, infatti, anche il ministro lo capì. Era in atto un’escalation militare nel Medio Oriente che vedeva i bombardieri israeliani, armati
di bombe atomiche, fronteggiare i 27 missili iraniani
dotati di testate nucleari multiple. Nel caso di un conflitto, gli USA avrebbero attaccato l’Iran, la Cina avrebbe attaccato gli USA, la Russia, per non sbagliare,
avrebbe attaccato sia la Cina che gli USA e, intanto che
c’era, anche il Giappone, così l’Unione Europea si sarebbe trovata come al solito nel mezzo e solo l’olocausto nucleare avrebbe interrotto l’escalation.
Alla fine, gli unici soddisfatti della situazione sarebbero
stati gli scarafaggi: dopo i dinosauri e gli uomini, finalmente toccava a loro dominare il pianeta!
«Perché non interviene il Presidente? Ha buoni rapporti
con tutti i potenti della terra! Con la sua credibilità può
82
certamente cambiare il corso degli eventi» chiese il ministro per togliersi dagli impicci.
«Purtroppo ora il Presidente è impegnato» si giustificò
il direttore.
«A quest’ora di notte?»
«Sì, mi ha comunicato che ha in vista un rimpasto di
governo e ora si trova a palazzo Grazioli per i provini
delle future ministre. Ha anche aggiunto che per una
volta doveva sbrigarsela lei e che non la paga solo per
farsi dei bei viaggi in giro per il mondo!»
«Ma ha detto proprio così?»
«Testuali parole.»
Il ministro si sedette al tavolo della War Room di fronte
ai telefoni in comunicazione diretta con i grandi della
terra. Dopo aver meditato lungamente con la destra appoggiata sul mento, accavallò le gambe e, appoggiando
la sinistra al mento, disse: «Mi lasci pensare.»
Dopo un’altra lunga pausa di riflessione, chiese: «Che
cosa devo fare?»
Il direttore spiegò pazientemente: «Questi telefoni sono
in contatto con tutti i potenti del mondo. I governanti
degli Stati Uniti, della Russia, della Cina, della Gran
Bretagna, della Francia, della Germania, di Israele, dell’Iran e dello Zimbabwe sono all’altro capo del filo e attendono una sua telefonata. Appena alzerà la cornetta
un cicalino avvertirà l’interlocutore che risponderà immediatamente. Queste sono tutte linee rosse, con precedenza assoluta.»
Una responsabilità enorme stava schiacciando il ministro. Da ciò che avrebbe detto sarebbero dipese le sorti
dell’umanità e doveva riflettere bene.
Dopo un’adeguata pausa di meditazione, il ministro
chiese: «Qual è il telefono che mette in contatto con la
Russia?»
83
Il direttore, che si era appisolato, si svegliò di soprassalto e disse: «Russia? Il telefono bianco, blu e rosso.
Come la bandiera russa.»
Il ministro prese l’apparecchio e dall’altra parte sentì
uno scocciato: «Allò!?»
«Putin? Sono il ministro Frattini, volevo... Perché rompo a quest’ora di notte? Ma è questione di vita o di morte... Come non sei Putin?... Sarkozy?... Devo aver sbagliato numero, scusa... Saluti anche alla signora Carlà...
Scusa ancora e buonanotte!»
Il direttore, con le mani nei capelli, ripeté: «Bianco, blu
e rosso! Bianco, blu e rosso! Come la bandiera russa,
non blu, bianco e rosso, come la bandiera francese!»
«Ah, ecco.»
Quindi prese l’apparecchio giusto: «Pronto, Vladimir?...
Non c’è?... Sta facendo i provini alle candidate per decidere chi sarà la prossima miss Russia? A quest’ora di
notte? Ma chi parla?... Ah, Dimitri Medvedev! Penso di
poterti lasciare questa ambasciata... Dimitri, non sento
molto bene. Ti dispiacerebbe abbassare un po’ il giradischi? Adesso è molto meglio, sì. Eh... Sì, sì, bene. Ti
sento alla perfezione, Dimitri. La voce mi arriva chiara
e senza il minimo disturbo. Anch’io non sono disturbato, vero? Bene, bene... Allora vuol dire che né io né te
siamo disturbati. Bene. Sì, è una bella cosa che tu stia
bene e anch’io. Sono dello stesso parere. È bello stare
bene. Senti un po’, Dimitri... Ti ricordi che noi... noi abbiamo sempre parlato di questa possibilità che succedesse qualche inconveniente con la bomba? La bomba,
Dimitri. La bomba atomica. Beh, insomma, è successo
questo: c’è un po’ di attrito tra Israele e l’Iran e, come
sai, è meglio che nel mondo regni la pace piuttosto che
la guerra, perché se scoppia la guerra... Ah! Hai capito!
Ma lasciami finire, Dimitri! Lasciami finire. Ma cosa
credi, che io mi stia divertendo? Tu te l’immagini quel84
lo che sto passando io, Dimitri? E se no perché t’avrei
telefonato? Per dirti “ciao”? Certo che mi fa piacere
parlarti! Mi fa molto, moltissimo piacere... Non adesso
però, un’altra volta. Adesso ti ho chiamato per dirti che
è successo qualcosa di... di veramente terribile... È una
telefonata amichevole, sicuro che è amichevole... eh...
senti, se non fosse amichevole... eh... non te l’avrei fatta
proprio. Allora cosa ne pensi?... Ah, devi raggiungere
Vladimir ai provini delle aspiranti miss Russia... Dispiace anche a me Dimitri... Mi dispiace molto... Va bene,
dispiace più a te che a me, però dispiace anche a me... A
me dispiace quanto a te, Dimitri! Non devi dire che a te
dispiace più che a me, perché io ho il diritto di essere
dispiaciuto quanto lo sei tu, né più né meno... Ci dispiace ugualmente, va bene?... D’accordo. Allora sistemo
tutto io. Buoni provini!»1
Dopo aver riattaccato, senza concludere nulla, chiese:
«Qual è il telefono degli USA?»
«Quello a stelle e strisce» disse esasperato il direttore.
Dopo averlo individuato e confrontato più volte con gli
altri, alzò il ricevitore: «Pronto, W?... Ciao, sono Franco! Come sta Laura?... La prossima settimana vengo a
Camp David e ci facciamo una partitina a golf... Sì, ho
sentito la situazione, infatti ti telefono proprio per questo... Lo so che hai un dovere nei confronti degli elettori
americani... Lo so che sei stato rieletto dopo Obama
perché gli americani vogliono che prendi a calci in culo
gli iraniani... Tu invece vuoi evitare la guerra? E perché?... Non vuoi che finisca come in Iraq e in Afghanistan e vuoi stare altri quattro anni alla Casa Bianca. Mi
sembra un discorso sensato!... A quanto pare, quattro
anni a pascolare le vacche sono serviti... Lo so che Ah-
1
Dal film “Il dottor Stranamore” di Stanley Kubrick
85
madinejad ti vede come il fumo negli occhi. Guarda,
non preoccuparti, gli parlo io. Ci penso io.»
«Si mette bene» disse il ministro, «lo scoglio più duro è
superato. Qual è il telefono cinese?»
«Quello rosso» disse sconfortato il direttore.
«Pronto, Hu Jintao? Sono Franco Frattini... Come chi?
Flanco Flattini... No, non volevo prenderti per il culo...
No, mi è venuta così! Scusa... ti chiedo scusa! Senti,
mettiamoci una pietla sopla... ehm, una pietra sopra!
C’è un problema con l’Iran... Come ti sei rotto? Non ne
puoi più dell’Iran?... Sì, quando ci siamo spartiti il mondo ti abbiamo lasciato l’Africa... No, l’Iran non è in
Africa... Pronto? Ci sei ancora?»
Il ministro constatò: «Ha messo giù, sembra che la cosa
non gli interessi.»
Il direttore fece il punto della situazione: «Si sta mettendo davvero bene. A quanto pare, nessuno ha intenzione
di scatenare un conflitto mondiale. Sono convenienti
solo i conflitti regionali, per tenere intere zone del mondo nel loro degrado e depredarle dei loro tesori, oppure
le operazioni di pace per salvare la faccia. Le rimangono solo tre telefoni: quello verde è di Gheddafi, quello
con la stella di David è israeliano e quello con scritto
sopra ‘Iran’ è iraniano. Ci abbiamo scritto ‘Iran’, perché
a causa dei colori ci si confondeva sempre con il Messico, la Bulgaria e, talvolta, anche con l’Irlanda.»
«Non penso che per questa volta sia il caso di disturbare
Gheddafi. A quest’ora sarà nella sua tenda con le
Amazzoni. Piuttosto sentiamo i diretti interessati. Qual
è il telefono israeliano?»
«Quello con la stella di David!!!»
Seguì un’intensa opera di convincimento diplomatico
da parte del ministro. Gli argomenti erano solidi e articolati: se la guerra fosse scoppiata ci si sarebbe ritrovati
in guerra ed essere in guerra non è come essere in pace,
86
infatti, mentre durante un periodo di pace gli uomini vivono nella concordia fraterna, durante un periodo di
guerra gli uomini si combattono con odio fratricida; non
è meglio che regni la pace piuttosto che la guerra? Per
questo è nostro dovere di governanti scongiurare le
guerre e far regnare la pace. Infatti, quando regna la
pace... Alla fine per sfinimento, i due contendenti si
convinsero.
Netanyahu si accontentò di una fornitura di vino dei
colli Albani, proveniente dai vigneti del ministro, imbottigliato con metodo Kosher, mentre Ahmadinejad
accettò una fornitura di cravatte. Per sancire l’accordo
si sarebbero ritrovati in zona neutrale, ad Amman, ospiti
del re di Giordania.
Alla fine, il ministro chiuse l’intervista dichiarando:
«Tutto è bene quel che finisce bene e non tutto il male
viene per nuocere. A buon intenditor poche parole: a chi
non vuol far fatiche il terreno produce ortiche.»
«Grazie, ministro, per le sue parole. Io aggiungerei
solo: forbici, coltellini e accendini non sono per i bambini.»
Un altro pericolo che incombeva sull’umanità è stato
scongiurato e ancora una volta grazie a un ingegno nato
in Italia, la terra di Guicciardini e Macchiavelli, la terra
dove sono nati il diritto e la diplomazia, la patria del volemose bene e dove, troppo spesso, tutto finisce a tarallucci e vino.
Dal nostro inviato in medio oriente
87
Mondiale 2014: La nazionale della Padania
giunge in finale e contende al Brasile
la Coppa del Mondo
Rio de Janeiro (Brasile), 11 luglio 2014.
Il giorno tanto atteso è arrivato. Come si pronosticava
sin dall’inizio del mondiale, la nazionale brasiliana più
forte di tutti i tempi è arrivata in finale, subendo una
sola sconfitta nel girone eliminatorio. Il tecnico Leonardo ha liquidato quella partita persa 4 a 1 contro la squadra della Padania come un incidente di percorso 1. Oggi,
17 giorni dopo, avrà modo di dimostrarlo, perché le due
nazionali si incontrano nuovamente proprio nella finalissima.
A Rio De Janeiro è una bellissima giornata di sole e i tifosi brasiliani si accalcano già da ore attorno allo stadio
Maracanã. Danze e balli al ritmo di samba e al rumore
delle maracas proseguono da giorni. Tutti si aspettano
una vittoria e la sesta Coppa del Mondo, ma i tifosi padani la pensano diversamente. Mescolati alla folla con
le loro casacche verdi si sono convertiti all’uso delle
maracas e festeggiano fraternamente con i variopinti carioca, ma tra poco i cori delle opposte tifoserie si fronteggeranno per sostenere le rispettive squadre.
Il numero di persone accalcate è notevole. Lo Stadio
Mário Filho, più noto per il suo originario nome di Maracanã, era inizialmente previsto per una capienza di
150 mila spettatori, ma si raggiunsero nel passato anche
i 200 mila accessi. Dopo le ristrutturazioni che prevedevano solo posti a sedere, la capienza si è ridotta a circa
130 mila persone, però gli organizzatori confermano
una cifra doppia, mentre la questura la metà.
1
v. l’articolo a pag.5 per la cronaca di quella partita.
88
Nella conferenza stampa che tradizionalmente precede
gli incontri, Leonardo Nascimento de Araújo, meglio
noto solo come Leonardo, allenatore della nazionale
brasiliana, si è detto sicuro della vittoria: “Non commetteremo gli errori fatti nel girone eliminatorio. Abbiamo
sottovalutato i nostri avversari. La Padania è una squadra con pochi talenti ma bene organizzata, quindi punteremo a ingabbiarne le manovre e a colpire di rimessa
con il gioco fantasioso dei nostri attaccanti.”
Il mister Giovanni Mazzini, tecnico della Padania, dice
invece: “La nostra è una squadra giovane ma quest l’è
on vanto per nun. Abbiamo dimostrato di saper lottare
ad armi pari con le più forti squadre del mondo e la nostra tecnica è pari alla loro, ai Todisch gh’è piasuu la
partida anca se persa. La nostra forza è nel gioco di
squadra, infatti nun lavorom per fà stà mej tutti e ‘l lavorà de tucc nun l’è faa mai per vun. Certo, abbiamo
anche avuto degli infortuni, però mi disaria che l’è minga el caso che abbiom de fa ona malattia seria, ve
par?”
Queste sono le dichiarazioni prepartita. Stasera vedremo chi avrà avuto ragione, sebbene un fatto sia già stato
appurato: nella prima fase eliminatoria la Padania, che
era capitata in un girone di ferro con il favorito Brasile,
si è classificata prima con tre vittorie, mentre il Brasile
secondo, subendo una sconfitta proprio da parte della
nazionale verde. Il cammino delle due squadre si è
quindi separato, parte alta del tabellone per la Padania e
bassa per il Brasile. Potevano incontrarsi nuovamente
solo in finale ed è avvenuto.
Ora il tecnico Leonardo sa di quale pasta sia fatto l’undici padano e non sottovaluterà più i suoi schemi. Assisteremo a una partita vera.
Dal canto suo la Padania ha battuto tutte le nazionali
che hanno tentato di sbarrarle il passo: agli ottavi la
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Spagna, vincitrice dell’ultima Coppa Del Mondo (2-0),
ai quarti l’Argentina (3-1), in semifinale la Germania
(4-3) in una rocambolesca partita che ha fatto impallidire anche il ricordo dei leggendari tempi supplementari
di Italia-Germania nei mondiali di Messico ‘70.
Anche dal punto di vista politico le aspettative sono notevoli. Il presidente della Repubblica Federativa del
Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, più noto solo come
Lula, ha da tempo messo in atto il suo programma di innalzare il Brasile al livello delle più potenti nazioni del
mondo. Le grandi manifestazioni sportive, che comprendono oltre a questi Mondiali di calcio anche le
Olimpiadi del 2016, sono finalizzate allo stesso scopo e
un successo delle squadre sportive brasiliane coronerebbe questo sforzo.
Ma anche per il Presidente della Padania, Umberto Bossi, l’obiettivo non è meno importante. Ha recentemente
dichiarato: “Il mio scopo era quello di portare una nazione che quattro anni fa ancora non esisteva, una Padania libera dal giogo di Roma Ladrona, sul tetto del mondo. Ci sono voluti trent’anni ma alla fine ci sono quasi
riuscito. Ora manca solo l’ultimo passo”.
Sempre Bossi, nella giornata di ieri, aveva tenuto alla
squadra un discorso di incitamento: “Niente parolai che
dopo, al momento opportuno, si tirano indietro; qui per
fare marciare le cose ci vogliono ragazzi con gambe
forti come a Varese”, e poi rivolto al tecnico Mazzini:
“Te lo dico in lombardo che è una lingua a cui sono
molto affezionato. Dobbiamo farti un grande applauso,
tegn’ dür, mai molar.”
Ma è giunto il momento cruciale. Le due squadre sono
pronte sul terreno di gioco. Dopo l’inno del Brasile è
stato eseguito il “Va’ pensiero” di Giuseppe Verdi, l’inno della Padania. I giocatori e i tifosi sugli spalti hanno
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cantato con un solo fiato, molti piangevano con la mano
sul cuore.
Il Brasile schiera i suoi più grandi campioni. Vediamo
disposti in campo Giorginho in porta, con i due difensori João Victor e Valente, mentre in attacco spiccano
Leonardinho, Platones e Pelinho.
Mazzini sceglie invece lo stesso undici che si è imposto
nelle partite precedenti: il portiere Brambilla, i difensori
Biadego, Cattaneo e Cazzaniga, i centrocampisti Colombo, Fumagalli, Tinelli e Bixio, per finire con gli attaccanti Gorlin, Perasso e Borromeo.
Sugli spalti le tifoserie sono nettamente sbilanciate a favore dei brasiliani. In tribuna d’onore, seduti uno vicino
all’altro, possiamo vedere il presidente Lula e il presidente Bossi. Accanto a Bossi ha preso posto il ministro
della Cultura del governo padano, ovvero il figlio Renzo, recentemente laureatosi in Informatica con specializzazione in Intelligenza Artificiale honoris causa alla
LUP, la Libera Università della Padania.
L’arbitro fischia. La nazionale verde-oro e la nazionale
verde e basta iniziano la finale del Campionato Mondiale 2014.
Nella prima mezz’ora la squadra brasiliana ingabbia
con un potente catenaccio gli attaccanti padani. Gli stessi tifosi brasiliani fischiano sonoramente la propria
squadra delusi dal gioco privo di fantasia dei carioca.
Ma ecco che al 35’ Borromeo si impossessa del pallone
nel cerchio di centrocampo e, dopo aver dribblato tre
avversari, si presenta di fronte a João Victor. Il difensore tenta di arpionare il pallone in scivolata ma Borromeo con una finta di corpo evita l’insidia, quindi Giorginho si avventa sul pallone ma Borromeo con un doppio passo si libera anche dell’estremo difensore e, con
un elegante colpo di tacco, insacca con decisione la pal91
la all’incrocio dei pali. Tutti i tifosi, sia padani che brasiliani, sono in estasi. Questo gol, che ha fatto impallidire la cavalcata di Maradona ai mondiali di Messico ‘86,
verrà studiato per decenni nelle scuole di calcio.
Dopo la rete, tutta la panchina ha esultato abbracciando
gli undici eroi padani in campo. In tribuna d’onore il
presidente Bossi ha urlato un sonoro “Ciapa” a Lula facendogli più volte il gesto dell’ombrello in mezzo alle
personalità ospiti allibite.
Il sogno del Brasile di conquistare il sesto titolo si sta
trasformando in un incubo. Per il resto del primo tempo
i carioca hanno difeso il risultato: la loro preoccupazione è stata quella di arrivare all’intervallo evitando una
possibile goleada.
Nella ripresa i brasiliani sembravano rinvigoriti. Il tecnico Leonardo deve aver saputo trovare le parole giuste
per vincere l’apatia dei propri giocatori. Ecco quindi
che al 15’ Platones recupera una palla presso il corner
destro e lo ripropone al centro dove Leonardinho, lasciato colpevolmente libero da Cazzaniga, gira di testa
alle spalle del pur vigile Brambilla.
Il Maracanã è quasi crollato per l’esultanza dei 200 mila
tifosi brasiliani (per gli organizzatori, solo 100 mila per
la questura).
Alla vista di quel pareggio così atteso il presidente Lula
ha urlato un sonoro “Tiè” al Bossi facendogli ripetutamente il gesto dell’ombrello, appena imparato, in mezzo alle personalità ospiti esultanti.
Il resto del secondo tempo è stato uno scoppiettante e ripetuto cambiamento di fronte, con numerosi contropiede. Le reti però rimanevano inviolate e le squadre sembravano ormai terrorizzate dalla mezz’ora d’agonia dei
tempi supplementari e, probabilmente, rassegnate alla
lotteria dei rigori. Ma il mister Mazzini aveva un’asso
nella manica. Al primo dei cinque minuti di recupero,
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sostituisce Borromeo con il più fresco Valpreda. Quest’ultimo raccolto il pallone nel cerchio di centrocampo,
dribbla tre avversari evitando i loro letali tackle, e si
presenta di fronte a João Victor. Il difensore, memore di
quanto avvenuto con Borromeo, rimane piantato a terra
in attesa dell’attaccante e proprio in quell’istante, con
un tunnel, Valpreda beffa lui e l’incolpevole Giorginho.
Quel 2 a 1 sancisce la fine della partita e le speranze del
Brasile di una vittoria fortunosa ai calci di rigore.
I giocatori e i tifosi padani festeggiano, mentre 200 mila
brasiliani in lacrime lasciano lo stadio piangendo il sesto titolo mancato.
I telecronisti si assiepano intorno al mister Mazzini: “Ci
dica mister, ora i suoi ragazzi sono campioni del mondo. Cosa prova?”
Mazzini con lacrime di gioia agli occhi e stringendo la
coppa tra le mani è senza parole, poi si fa forza e dice:
“I miei bauscia se lo meritano. Hanno tanto lavorato.
Dedico questa coppa a tutti loro, alla mia famiglia e a
Renzo Bossi che ha tanto creduto in noi.”
Un altro telecronista disse: “Questo è certamente il giorno più bello della sua vita!”
Mazzini senza pensarci rispose: “No, l’ho sempre sostenuto in passato, ma è ancora così. Il giorno più bello
della mia vita non è stato il giorno del mio matrimonio,
non è stata la nascita di mio figlio Stefano, non è stato
neppure oggi vincere la Coppa del Mondo. No, il più
bel giorno è stato quello dell’umiliazione sette reti a
zero della nazionale della Terronia a Roma Ladrona durante le fasi di qualificazione. Vedere l’inconcludente
tecnico Caputo e i suoi undici scansafatiche sconfitti,
non ha prezzo.”
Dopo questa dichiarazione, il mister Mazzini è diventato il testimonial di una nota carta di credito.
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Ora è tempo di festeggiamenti, ma presto rivedremo
Mazzini e i suoi undici bauscia nuovamente al lavoro,
questa volta per salire sul tetto d’Europa e vincere gli
europei di calcio con all’attivo, però, la loro prima Coppa del Mondo.
Dal nostro inviato in Brasile
2013: Malacoda e
l’anima del Presidente
Giorno I – Malebolge
Roma, 12 luglio 2013.
Ieri si è spento, all’età di *** anni, dopo una breve ma
inesorabile malattia, il senatore *** ***. Ne danno il
triste annuncio la moglie ***, la figlia ***, il figlio ***,
onorevole, e i familiari tutti.
Ricordiamo doverosamente l’impegno che ha sempre
contraddistinto l’attività politica del senatore, ma soprattutto la sua umanità e la disponibilità nei confronti
dei suoi concittadini. [Segue l’intero coccodrillo]
Questo è l’annuncio ufficiale, ma grazie alle nostre
fonti bene informate, possiamo rivelare ai lettori
che cosa è accaduto veramente...
Bolgia V (Inferno), stesso giorno.
L’Inferno, proprio quello con la ‘I’ maiuscola, che Dante attraversò condotto da Virgilio più di settecento anni
fa, è un pozzo interminabile, immenso, oscuro, scavato
nelle profondità della terra. Non si può immaginare un
luogo così ricolmo di sofferenza e di dolore, ma allo
stesso tempo così vuoto d’amore e di pietà. Le urla dei
dannati lo riempiono in ogni sua parte; gridano la loro
disperazione, la perdita di ogni speranza; aspettano
come una liberazione la fine dei tempi, il giudizio fina94
le, che, ricongiungendo l’anima al corpo, porrà fine alla
loro attesa e chiuderà per l’eternità gli accessi al dominio di Lucifero.
Malacoda, uno dei diavoli noti come malebranche, ad
ali spiegate, ammirava librato nell’aria cupa quello spettacolo terrificante, ne veniva corroborato e, esaltato da
quella visione, affondava ancor più strettamente gli artigli nell’anima sventurata che stava trascinando con sé
sempre più in basso. Solo un sottile gemito usciva da
quell’anima, ma il tormento degli uncini non era nulla
rispetto all’angoscia che quel dannato aveva provato
poco prima di fronte a Minosse. Solo la vista di quel
giudice inflessibile lo aveva spinto a riconoscere e a
confessare tutti i propri peccati più nascosti. In quel momento era una liberazione farlo; poi, però, la consapevolezza della propria condizione, il comprendere di aver
sciupato la propria vita per ottenere cose senza importanza, lo stava trascinando nella più nera disperazione,
cieca come l’abisso in cui veniva tuffato a capofitto.
Malacoda poteva percepire tutte le sensazioni, i rimorsi,
i rimpianti che attanagliavano quella povera anima e sapeva che era solo l’inizio. Cominciavano tutti così: acquistavano lentamente consapevolezza della loro condizione, una realtà che avevano finto per tutta la vita di
non riconoscere, tanto da aver perso l’occasione per redimersi, mentre ora avevano l’intera eternità per pentirsene inutilmente, un giorno dopo l’altro, per sempre.
Il demonio alato sorvolò i primi cerchi dell’Inferno.
Passò nel turbine dei lussuriosi accompagnandoli per un
breve tratto nelle loro evoluzioni, poi attraversò la pioggia eterna di acqua fetida, grandine e neve, che tormenta i golosi e venne inseguito dal latrare di Cerbero. Planò quindi sugli avari e i prodighi, che cozzano gli uni
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contro gli altri facendo rotolare inutilmente enormi pesi,
e giunse sulla scura palude dello Stige che gorgoglia incessantemente e nelle cui acque i dannati si mordono e
percuotono a vicenda.
Ecco, finalmente, nell’aria scura, al di sopra della spessa nebbia, le torri arroventate della città di Dite e sulle
mura merlate l’orda senza numero dei diavoli guardiani
che al suo passaggio lo salutavano sguaiatamente cantando: «... alato malebranche, quante fiate / viaggiasti in
suso e in giuso portando / sulle spalle...», ma fu un attimo e subito riprese quota, osservò dall’alto la necropoli
di tombe infuocate degli eretici, poi, più giù, la riviera
di sangue del fiume Flegetonte, sorvolò la selva dei suicidi e, per ultima, attraversò la pioggia di fuoco che flagella senza fine il deserto di sabbia dei bestemmiatori.
Malacoda, che aveva descritto nei minimi particolari
quel terrificante paesaggio all’anima dannata che portava artigliata sulle spalle, già sentiva aria di casa. Ammirava l’ordine spietato che regnava nei dieci enormi fossati, attraversati a raggiera da lunghi ponti, del cerchio
ottavo. In quell’ultimo tratto volò su schiere di dannati
frustati spietatamente da diavoli cornuti e, dopo aver
lambito lungamente un canale ricolmo di fetido sterco,
planò infine sulle sponde della quinta Bolgia. Era davvero giunto a casa.
La quinta Bolgia non è cambiata molto negli ultimi settecento anni, da quando la visitò un Dante trepidante.
Alte sponde circondano un ampio fiume di pece in continua ebollizione. Il puzzo e l’elevata temperatura lo
rendono un luogo aspro e inospitale, ma Malacoda lo
considera dopo tanti secoli come casa sua. È tutto quello che gli rimane dopo che, come gli altri angeli ribelli,
è stato cacciato dai cieli del Paradiso. Non c’è nulla che
possa eguagliare la vicinanza della sorgente dell’Amore
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e dissetare per l’eternità come il risplendere della Sua
Luce, eppure, accecato dall’orgoglio della propria nullità, aveva creduto di poterne fare a meno, di bastare a se
stesso. Quell’idea era subito diventata una certezza in
lui e, in quello stesso momento, veniva precipitato sulla
terra con Lucifero e i suoi seguaci: era stata una scelta
che in lui, puro spirito, non poteva che essere assunta
per l’eternità, immediatamente irrevocabile.
Ora conduceva quel suo ufficio a contatto con i dannati
con solerzia e una compiaciuta abnegazione, tanto che
era tenuto in considerazione tra i malebranche come un
capo, e allo stesso tempo cercava di evocare il meno
possibile il ricordo della sua condizione originaria. Invidiava gli uomini, perché avevano tutta una vita davanti
per redimersi, riconoscere la rovina a cui conduce il
peccato e rinunziare ad esso, mentre per lui e gli altri
nella sua situazione era bastato un attimo per perdersi
completamente. Proprio a causa di quell’invidia per
l’imperfezione umana, quando si trovava tra gli artigli
una di quelle anime sventurate, provava un malsano
piacere a saggiarne la consistenza.
Giunto sul ponte che attraversava tutta la quinta Bolgia
e consentiva, un tempo, il passaggio dalla quarta alla sesta, ma che ormai era diroccato da quasi due millenni,
Malacoda si posò leggero e trattenne davanti a sé il dannato, proprio di fronte al baratro.
Gli spiegò compiaciuto: «Osserva il tuo nuovo mondo.
Abiterai qui per sempre. Questo fiume di pece bollente
e maleodorante ti inghiottirà per l’eternità. Solo una
cosa cambierà un giorno: alla fine dei tempi, il tuo corpo, ora disfatto, risorgerà e tu, con l’anima ricongiunta
al corpo, soffrirai ancora di più. Guarda tutto con attenzione, perché tra poco non vedrai che il nero della
pece.»
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Il dannato, di fronte a quella visione, dimenticò per un
attimo i momenti del giudizio, in cui egli stesso aveva
riconosciuto le proprie colpe, e si rivolse al demone
piangendo e dibattendosi: «Abbi pietà, ti prego! Non
merito tutto questo! Cosa ho fatto di male nella mia
vita? Niente di più di quello che tanti altri politici e amministratori hanno fatto e continueranno a fare!»
Malacoda ascoltando quelle parole non provava alcuna
pietà, ma solo disprezzo per quel pusillanime. Gli rinfacciò: «Tu chiedi pietà a me? Dovevi farlo a suo tempo
rivolgendoti a chi te l’avrebbe concessa senza chiederti
nulla in cambio, se non questo pentimento. Ora è troppo
tardi...» e così dicendo lo sollevò oltre il bordo del ponte.
«No! Aspetta! Almeno una cosa concedimela... avverti
la mia famiglia, fai sapere ai miei figli dove mi ha portato la mia condotta... non devono finire così, seguendo
il mio esempio. Ti scongiuro! Il sono il senatore...», ma
Malacoda lo scaraventò dal ponte giù nella pece; lo
guardò girare su se stesso mentre agitava le braccia e
precipitava. L’impatto fu rovinoso e la dura pece fagocitò il dannato in un attimo. La superficie viscosa, turbata da quel tuffo, si calmò per qualche istante ma riprese a bollire rapidamente. Intorno a quel punto si radunarono in volo alcuni malebranche, i demoni dalle
pesanti ali, assegnati al tormento dei dannati della quinta Bolgia.
Dall’alto del ponte, Malacoda, che in quei momenti si
concedeva di essere didascalico, pensava tra sé e sé:
“Caro dannato senza nome, questo amore per i tuoi figli
dovevi dimostrarglielo in vita, con l’esempio di una
condotta retta. Ora è inutile che io mi presenti a loro
portandogli i tuoi ammonimenti, perché non hanno
ascoltato gli insegnamenti di maestri ben più credibili.
Penso invece che, se mi mostrassi loro, più che spaven98
tati per le tue parole, sarebbero attratti dalla seduzione
della mia potenza e finirebbero per adorarmi. Come siete ciechi!”
Passati lunghi momenti d’attesa, lo sventurato senza
nome riemerse dalla pece come se avesse la pelle ustionata dall’elevata temperatura e spalancò la bocca e gli
occhi, come se gli fosse mancata l’aria. Subito i malebranche, che l’aspettavano al varco volando lentamente
in cerchio come avvoltoi sulla carogna di cui vogliono
cibarsi, lo uncinarono senza pietà e lo ricacciarono sotto
la crosta bollente, mentre lo insultavano e ridevano
sguaiatamente.
Malacoda compiaciuto osservava dall’alto la scena e in
quel momento gli si avvicinò Barbariccia, uno dei malebranche più considerati, il quale disse: «Eccone un altro. Sembra che non ci sia mai fine a questo scempio.
Poco male, per noi il divertimento è assicurato.»
Malacoda rispose: «Più ne scoprono e più ne nascono.
C’è stato un periodo, qualche anno fa, in cui questi barattieri venivano smascherati a mazzi. Per un po’ sono
rimasti tranquilli, in apparenza, ma poi hanno ricominciato peggio di prima. Sembra che lo facciano apposta:
dovrebbero sapere che possono essere colti con le mani
nel sacco, ma per loro è come se niente fosse. D’altra
parte, quei pochi sventurati che per sbaglio finiscono in
galera escono subito. Purtroppo per loro, alla fine ci siamo noi!» concluse con un ghigno rivolto al compagno.
Barbariccia aggiunse: «Mi hanno raccontato che ora
non si chiamano più barattieri, ma concussori.»
Malacoda si ripeté mentalmente la parola poi disse:
«Suona bene, sembra un appellativo meno lurido, però
la sostanza non cambia. Saranno sempre spirito e carne
per i nostri artigli.»
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In quell’istante si udì in lontananza un rumore assordante come di trombe e timpani: un intenso bagliore si stava avvicinando impetuosamente da oriente. I due malebranche si volsero con curiosità verso di esso. Era ancora indistinto ma già non lo si poteva osservare direttamente, perché quella luce accecante squarciava le tenebre e quel suono rompeva la monotonia di gemiti e lamenti. Il bagliore e il rombo aumentavano sempre più,
tanto che i due demoni si coprirono gli occhi con gli artigli e si dovettero accovacciare sul ponte riparandosi
con le ali. Poi tutto cessò all’improvviso.
Malacoda non osava alzare lo sguardo, ma udì una voce
che lo chiamava, una voce che non sentiva da secoli.
Era talmente soave e dolce che il suo spirito ne fu trafitto dolorosamente da parte a parte e gli fece ricordare
quel tormento che teneva represso dentro di sé, ma che
lo angosciava incessantemente dall’inizio dei tempi.
Giorno II – L’Arcangelo
Roma, 13 luglio 2013.
Un terremoto di magnitudo 1,8 ha colpito la provincia
di Roma. L’epicentro è stato individuato in direzione di
Ciampino a 4 km di profondità. Data la lieve entità della scossa non sono stati registrati danni a persone o
cose.
Questo è il comunicato ufficiale, ma grazie alle nostre fonti bene informate, possiamo rivelare ai lettori che cosa è accaduto veramente...
Bolgia V (Inferno), stesso giorno.
Malacoda e Barbariccia erano in cima al ponte diroccato che attraversava tutta la quinta Bolgia. Si erano rannicchiati al suolo e riparati con le loro pesanti ali a causa di un turbine di fuoco che li aveva investiti improvvisamente. Ora il vortice aveva perso d’intensità e Mala100
coda si sentiva chiamare per nome, il suo vero nome,
quello che nessuno aveva più osato o saputo pronunciare da migliaia di anni.
La voce, quella voce! Era così soave che il suo suono lo
accarezzava e poteva sentire un brivido sfiorare la sua
pelle coriacea. Da quella presenza emanava un calore,
non quel caldo soffocante che la pece bollente sbuffava
continuamente ribollendo, ma quel calore accogliente
che ti ristora nelle fredde sere d’inverno, quando ti siedi
di fronte al camino in cui arde un grosso ceppo acceso.
Malacoda sentì pronunciare per la terza volta il suo
nome, il suo vero nome, e trovò il coraggio di alzare lo
sguardo. Aprì lentamente gli occhi e, abituandosi al bagliore, cominciò a distinguere i lineamenti di chi lo stava chiamando. Si trovava in piedi, fermo davanti a lui.
Quel volto! Non lo vedeva da millenni e ne provava
un’immensa nostalgia, ma adesso era come se l’avesse
potuto ammirare da sempre, per tutti i giorni della sua
esistenza, perché un tempo erano stati una cosa sola.
Si alzò. Gli sembrò di impiegarci un’eternità, ma quando fu in piedi, era ancora sovrastato in altezza e doveva
faticare a tenere gli occhi aperti per l’intensa luminosità
che veniva emanata. In quel momento, finalmente, lo riconobbe: era uno dei sette Arcangeli, uno dei primi
messaggeri di Dio. La sua bellezza era indescrivibile,
proprio perché le sue qualità non possono essere catalogate con le categorie umane. Né maschio né femmina,
possedeva nei suoi tratti la bellezza di entrambi i sessi,
dolcezza e forza, pazienza e fermezza, fecondità e capacità di fecondare. Eppure, tentando di scrutare in quella
presenza, quasi ti accorgevi che il suo splendore, la sua
essenza, non erano altro che un riflesso del vero Splendore e della vera Essenza.
Malacoda in piedi di fronte all’Arcangelo ne veniva
schiacciato, ma anche sostenuto, ne era avvolto, ma allo
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stesso tempo poteva abbracciarlo. In quei lenti istanti,
avevano continuato a comunicare, ma non erano parole
quelle che Malacoda credeva di udire, era invece la sostanza stessa della volontà che gli veniva trasmessa e
così comprese che era chiamato per compiere una missione. Come già gli era capitato altre volte nei secoli
passati avrebbe dovuto risalire nel mondo degli uomini,
dei vivi, e compiere ciò che gli veniva chiesto, o almeno
tentare di farlo. Già, perché Dio lasciava sempre un’ultima possibilità agli uomini, quegli esseri imperfetti che
per quanto potessero toccare il fondo della loro misera
esistenza, conservavano sempre in loro stessi una scintilla di divinità.
Quando tutto fu chiaro nell’intelletto del malebranche,
l’Arcangelo impercettibilmente iniziò ad allontanarsi da
lui, senza mai voltarsi. Stava tornando da dove era venuto. Malacoda cominciò subito a percepire il gelo dell’Inferno attanagliarlo nuovamente e d’improvviso lo
assordò il silenzio fatto di gemiti e lamenti. Si sentì perduto, non poteva tornare già cieco e sordo, dopo aver
assaporato per quei pochi istanti cosa significava vedere
e udire. Disperatamente si mise a correre lungo il ponte
verso la luce che si allontanava e lo illuminava ancora
debolmente, poi si lanciò nel buio. Scuotendo le sue pesanti ali tentò di seguire il più possibile quella stella che
gli indicava la direzione, ma presto sparì. L’Inferno
sembrava ancora più buio e muto di come lo ricordava
prima di quell’incontro.
Planò sul ponte e tornò dal compagno che si era appena
risollevato.
«Che cosa ti ha detto?» chiese Barbariccia. «Io ho sentito solo un frastuono assordante. Per fortuna è durato
poco!»
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«Già, per fortuna è durato poco» constatò rattristato
Malacoda. «Mi ha assegnato una missione su, nel mondo dei vivi.»
Barbariccia al sentire la notizia si entusiasmò subito:
«Non sei contento! A me è capitato un paio di secoli fa.
Dovevo prendere il posto di un tizio, sai di quelli che finiscono nel nono cerchio; aveva tradito la fiducia di non
so quante persone, amici e parenti. In quei casi, prima
ancora che sia giunto il momento della morte, se ne rapisce l’anima, perché non abbia la possibilità di pentirsi
delle sue azioni. Il corpo rimane lassù, guidato da un
demonio, ma l’anima è già quaggiù che paga per la sua
condotta. Non mi sono mai divertito tanto in vita mia.
Chi devi sostituire?»
«Non si tratta di questo» spiegò Malacoda, «ma di un’anima che doveva presentarsi a Caronte qualche giorno
fa, però non si è fatta vedere. Deve essere successo
qualcosa di strano lassù e devo controllare, forse è il solito pasticcio causato dalla medicina moderna: non è facile per gli uomini capire qual è la linea che separa la
vita dalla morte. Comunque vedrò come stanno davvero
le cose quando sarò là. Vuoi venire su con me?»
Barbariccia si fregava già le mani per la soddisfazione,
perché si divertiva molto a lanciare i tranelli delle tentazioni nel mondo dei vivi, sembrava che gli uomini fossero fatti proprio per caderci dentro, ma si ricordò di un
impegno e rispose con un po’ di rammarico: «Non posso! Sai quel dannato che è arrivato la settimana scorsa?
Ogni sera ci racconta una parte della sua vita giù al ponte diroccato. Io e qualche amico gli permettiamo di rifiatare e lui ce ne racconta delle belle. Ieri è arrivato al
suo terzo matrimonio e mi dispiacerebbe perdermi l’episodio.»
Malacoda disse perplesso: «Ma hai tutta l’eternità per
fartelo raccontare!»
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«Certo, hai ragione. Ma è più forte di me! Devo scoprire come va a finire e devo saperlo al più presto. È tutto
il giorno che ci penso. Se venissi con te, non sarei concentrato e farei dei gran pasticci. Ma ora ti devo salutare... si stanno quasi per riunire. Buon viaggio!» e detto
questo si tuffò giù dal ponte planando verso il suo appuntamento.
Malacoda guardò oltre il parapetto, verso la pece bollente, e vide due malebranche che litigavano per ottenere un buon posto da cui arpionare i dannati, allora gridò:
«Alichino! Calcabrina! Venite qui!»
A quell’urlo i due malebranche guardarono in su e,
mentre erano distratti, un dannato ne approfittò per
emergere, prendere fiato e rituffarsi. A quella vista Alichino e Calcabrina cominciarono ad accusarsi a vicenda
dell’appostamento fallito e dalle parole passarono rapidamente ai fatti. Mentre si radunavano altri malebranche che tifavano per l’uno o per l’altro, piombò Malacoda tra di loro riducendoli entrambi a mal partito: «La
prossima volta vi affogo nel canale di sterco, altro che
pece bollente!»
Ristabilito l’ordine e chiarita la gerarchia, i tre iniziarono il cammino. Era una strana compagnia: il capo si
muoveva spedito e aveva ancora in testa l’incontro con
l’Arcangelo, che gli avrebbe riscaldato il cuore per i
prossimi secoli, mentre i gregari non perdevano occasione per farsi sgambetti e darsi spintoni.
A un tratto Alichino chiese: «Capo, dove stiamo andando?»
«Ecco» disse Calcabrina, «sei il solito stupido. Non
vedi dove stiamo andando?»
Alichino ci pensò un attimo, ma non ci arrivava proprio,
così chiese: «No, dove?»
«E che ne so io!» rispose Calcabrina. «Chiedilo al
capo!»
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«Riuscite a stare zitti per qualche minuto? Mi sono già
pentito di aver portato voi! Stiamo andando a Roma,
perché là abbiamo una missione da compiere.»
Alichino disse soddisfatto: «Mi piacciono le capitali dei
grandi imperi. Ci sono stato... quand’era? Boh! Saranno
un paio di millenni... era una città depravata e lussuriosa, vi abitavano milioni di persone da ogni parte del
mondo, una vera bolgia infernale.»
Calcabrina lo derise: «Sei rimasto un po’ indietro, ne è
bollita di pece sotto ai ponti da allora!»
I tre malebranche volarono per ore, poi raggiunsero la
volta della crosta terrestre. Trovarono un anfratto e cominciarono la dura risalita. A un tratto il passaggio era
talmente ostruito che fu necessario farsi largo a forza e
richiedere l’intervento dei grossi calibri.
Dopo la potente scossa, Calcabrina disse: «Una bella
botta! Pensi che là sopra abbiano sentito qualcosa?»
«Penso proprio di sì» rispose Malacoda.
Giorno III – Cinzia
Roma, 14 luglio 2013.
Un macabro furto è stato perpetrato all’Istituto di Medicina Legale. Tre salme sono state trafugate nel corso
della notte. Gli inquirenti, intervenuti prontamente sul
posto, non stanno escludendo nessuna pista compresa
quella, particolarmente esecrabile, del traffico di organi.
I corpi trafugati non erano ancora stati identificati al
momento della scomparsa e quindi solo nei prossimi
giorni sarà possibile formulare ipotesi più precise.
Questo è il comunicato ufficiale, ma grazie alle nostre fonti bene informate, possiamo rivelare ai lettori che cosa è accaduto veramente...
Malacoda precedeva la terna dei malebranche. Dopo
aver strisciato nei meandri delle viscere della terra, non
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era difficile attraversare quell’ampio tunnel. A intervalli
regolari si aprivano pozzetti e caditoie sulla volta della
fogna. Attraverso di essi filtrava una debole luce. Non
che ne avessero bisogno: i malebranche sono abituati a
scrutare nel buio grazie all’allenamento di secoli d’oscurità, che preferiscono di gran lunga alla luce abbagliante del sole. Neppure il fetido fiume che scorreva in
quelle fogne dava loro noia, perché il suo puzzo non era
nulla in confronto alle esalazioni arroventate che rilasciava la pece bollente.
«Che galleria ben costruita!» disse Malacoda ammirato,
mentre camminava a passo spedito con la melma al ginocchio.
«A quanto pare, in questi ultimi secoli, le tecniche di
costruzione sono migliorate notevolmente» aggiunse
Alichino, che lo seguiva poco distante.
Calcabrina spense subito l’entusiasmo dei compagni dicendo: «Non mi sorprende che i nostri clienti siano aumentati così tanto negli ultimi tempi, infatti queste opere devono smuovere molto denaro e credo proprio che
la maggior parte rimanga appiccicata alle mani degli
amministratori comunali.»
Calcabrina chiamava clienti i dannati che ogni giorno, a
frotte, venivano precipitati nella pece bollente della
quinta bolgia. Quando le anime, ancora inesperte, riemergevano per trovare sollievo dalle temperature estreme che sembravano cuocerne la pelle e le carni, i malebranche si divertivano a ripescarli con i loro uncini e,
dopo averli tormentati con graffi e mutilazioni, ascoltavano le loro patetiche storie. I più avevano vissuto arricchendosi senza alcun ritegno e approfittando della loro
posizione. Erano amministratori di città o stati che vendevano permessi di qualsiasi genere al miglior offerente
o pretendevano denaro per servizi che invece erano dovuti. Dante li chiamava barattieri, noi li definiamo più
106
pomposamente concussori. Tanti politici che in vita,
quelle poche volte che venivano scoperti, si giustificavano dicendo che, in fondo, tutti erano ladri come loro,
non trovavano molto sollievo nel ritrovare nella loro
stessa situazione tanti altri ladri, come loro, tuffati nella
pece bollente e tormentati dagli artigli di demoni spietati.
Malacoda interruppe le chiacchiere e ordinò la ricerca
di una via discreta per salire in superficie. I compagni si
arrampicarono lungo le trombe dei pozzetti facilitati
nella scalata dagli uncini di cui erano dotati e così ispezionarono meticolosamente numerosi tombini. Era notte
e la luce che filtrava dalle grate era prodotta dai lampioni che illuminavano la strada soprastante. A quell’ora di
notte, i luoghi circostanti non erano molto frequentati,
ma sempre troppo per tre malebranche corpulenti che
volevano passare inosservati. Si vedevano ai lati della
strada lunghe file di vetrine illuminate a giorno. Poi, finalmente, dopo aver perso da tempo il conto dei pozzetti ispezionati, Calcabrina annusò nell’aria l’odore caratteristico della carne inanimata. Era quello che stavano
cercando, l’ideale per nascondersi e non dare nell’occhio: prendere possesso di un ordinario corpo umano
non occupato.
«Qui intorno ci sono dei cadaveri freschi», annunciò ai
compagni. Malacoda aveva pensato di portarsi il fido
Cagnazzo per individuare corpi incustoditi, ma il fiuto
di Calcabrina si stava dimostrando all’altezza del compito.
Dopo aver rimosso con qualche difficoltà alcune sbarre
d’acciaio e una grata di protezione, il gruppo, ripiegate
le ali, salì in superficie attraverso la stretta apertura.
Nell’oscurità della notte, non si vedeva anima viva. Gli
edifici intorno sembravano disabitati e le loro sagome si
107
disegnavano indistinte contro il cielo colorato di un rosso cupo tenebroso. Si trovavano all’interno di un cortile
circondato da basse mura sulla cui sommità, per evitare
l’ingresso di eventuali intrusi, erano fissati spuntoni metallici e un robusto reticolato.
«Seguitemi!» disse Calcabrina e guidò il gruppo verso
una delle porte che si aprivano lungo il perimetro. Su
una targa c’era scritto ‘Obitorio 4 - Ufficio del Medico
Legale’.
«Cosa significa?» chiese Alichino.
Malacoda rispose: «Ho già visto questo genere di scrittura l’ultima volta che sono salito in missione nel mondo dei vivi, ma ignoro il significato di queste parole. È
certo, però, come ormai sentirete tutti, che all’interno ci
sono dei corpi disponibili.»
I malebranche, approfittando delle sbarre divelte e della
loro forza sovrumana, forzarono la porta e penetrarono
all’interno dell’edificio. Camminando a passo spedito
sul freddo pavimento, si spostavano lungo il corridoio
seguendo la traccia disegnata nell’aria che il loro olfatto
finissimo riusciva a percepire. Avevano l’aspetto di segugi intenti a seguire la traccia odorosa della loro preda
e il ticchettio dei loro artigli sulle mattonelle rafforzava
la suggestione di quell’immagine.
A un tratto Malacoda si arrestò e fermò al contempo i
compagni. Aveva appena provato la netta sensazione
che dietro l’angolo del corridoio qualcosa, nella semioscurità delle luci di cortesia, stesse osservando con pazienza il locale deserto. Poteva percepire degli occhi assonnati che distrattamente osservavano la scena immobile, per poi tornare a concentrarsi nella lettura di una
rivista.
«Ora!» ordinò improvvisamente Malacoda e svoltò
l’angolo di corsa, mentre il resto del gruppo era in atte108
sa del segnale. In alto, sopra la porta, si poteva notare
una telecamera di sicurezza, ma in quel momento era
cieca perché la guardia di sorveglianza, distratta, non
stava guardando i monitor. I malebranche passarono velocemente sotto la telecamera chiedendosi di cosa si
trattasse ed entrarono nel locale attiguo spingendo le
maniglie antipanico. La porta si spalancò.
Al centro della stanza semibuia, illuminata da un solo
neon che talvolta si spegneva a intermittenza, c’era un
freddo tavolo autoptico in acciaio. Era pulito, ma i demoni potevano sentire chiaramente che su quel tavolo
erano stati sezionati innumerevoli corpi e che, nel canale di scolo che lo circondava interamente, era scorso il
sangue ormai indistinto di uomini e donne. Incrostazioni delle loro vite terrene si erano accumulate su quel tavolo, molte gridavano ancora vendetta, mentre altre
chiedevano solo pace.
Su un lato della stanza, si aprivano numerosi loculi frigoriferi e i malebranche capirono che ciò che stavano
cercando era chiuso al loro interno.
Malacoda di avvicinò a uno di essi, senza sapere perché
fosse attirato proprio da quel particolare loculo. Un’etichetta riportava un codice e un nome che lesse a fatica:
John Doe, maschio, caucasico, 60 anni. Non comprendeva quello che c’era scritto, ma intuì che le prime parole potessero corrispondere al nome.
«Questo è mio!» disse perentoriamente e, agendo sulla
maniglia, aprì lo sportello. Assieme al carrello, su cui
c’era un corpo coperto da un lenzuolo, uscì un zaffata di
aria gelata. Alichino e Calcabrina si disposero intorno,
mentre Malacoda rimuoveva il lenzuolo, e si misero a
osservare il corpo nudo.
«Sembra in buone condizioni» disse Alichino, «ma non
vuoi vedere gli altri prima di scegliere?»
Malacoda rispose: «No, è lui che ha già scelto me.»
109
«Bene, vediamo cosa resta» disse Calcabrina e aprì uno
dopo l’altro i loculi, scoprendo i corpi conservati all’interno.
Una prima serie era troppo danneggiata. Erano crivellati
di colpi e il medico legale aveva già portato a termine il
suo lavoro, infatti una vistosa cicatrice a ‘Y’ si apriva
sul loro torace. Non era possibile usarli senza dare troppo nell’occhio ed era piuttosto laborioso rimetterli in
piena efficienza. Altri invece erano semplicemente troppo vecchi.
Calcabrina, infine, scelse un uomo di colore corpulento.
Era attirato dall’aspetto sicuro e fiero che ancora incuteva pur in quella posizione estrema. Sull’etichetta c’era
scritto: Jim Doe, maschio, centrafricano, 30 anni.
«A me piace questo!» disse e aggiunse: «Che strano! Si
chiama quasi come il tuo, Malacoda, Jim Doe. Deve essere un cognome comune... oppure questi sono tutti parenti. E tu Alichino, hai trovato?»
Alichino era immobile di fronte al corpo di una giovane
e rimaneva in silenzio. Calcabrina si avvicinò e lesse a
fatica l’etichetta: Jane Doe, femmina, slava, 20 anni.
«Un’altra della famiglia!» disse, più beffardo che stupito.
Malacoda interruppe le chiacchiere e fece cenno agli altri che lui sarebbe stato il primo. Avrebbero occupato
quei corpi, li avrebbero rimessi in efficienza e, dopo
averli utilizzati per muoversi nel mondo dei vivi senza
dare nell’occhio, li avrebbero restituiti al termine della
loro missione. Si trattava solo di un prestito, infatti i
loro veri proprietari li avrebbero riavuti intatti alla fine
dei tempi.
Il mattino dopo, Marcello Mastroianni, il medico legale,
giunse in ufficio un’ora prima del solito. Era stato svegliato all’alba da una telefonata della polizia che lo ave110
va informato dell’accaduto. Preoccupato dall’evento decisamente insolito si era vestito in fretta e in moto aveva
raggiunto l’Istituto. Non si era rasato e la barba ispida
gli dava un aspetto vissuto che lo rendeva più interessante del solito, ma lo invecchiava parecchio. Lo avresti
detto più vicino ai cinquanta che ai quaranta.
Posteggiò la moto tra due volanti con i lampeggianti accesi. Ai poliziotti che volevano allontanarlo si qualificò,
così fu invitato a raggiungere il commissario Contini
che stava eseguendo un primo sopralluogo. Salì le scale
di corsa, attraversò il corridoio seguito dall’occhio indiscreto della telecamera e si introdusse nella sala delle
autopsie.
Appena entrato vide un uomo e una donna che ispezionavano l’ambiente in cerca di tracce. Si presentò all’uomo e disse: «Commissario? Sono Mastroianni, il...»
«No» lo interruppe l’uomo, «io sono ispettore. Il commissario Cinzia Contini è lei.»
Imbarazzato strinse la mano alla donna e, ora che la osservava meglio, notò che era veramente una bella donna. Non più alta di lui, elegante, un bel sorriso sincero e
uno sguardo diretto. Di solito nelle donne osservava con
attenzione ben altro e anche in quel caso aveva già notato che c’era molto altro da guardare, ma aveva di fronte
un commissario e si sforzò di non abbassare gli occhi al
di sotto del mento. Stringendole la mano provò a giustificarsi: «Mi scusi, avevo pensato...»
«Non si preoccupi, mi capita spesso. Tutti si aspettano
un uomo.»
«Volevo dire che mi aspettavo qualcuno più vecchio.»
Cercò di farle un complimento, ma era sincero, infatti
non dimostrava ancora quarant’anni.
«La ringrazio. Come le ha detto il collega, sono il commissario Cinzia Contini. È stato convocato così presto
perché dobbiamo porle alcune domande.»
111
«Sono a sua disposizione» rispose lasciandole a malincuore la mano e passando il dorso sulla barba di due
giorni.
«So che si chiama Marcello, come l’attore» disse la
Contini sorridendo.
«Sì, mia madre era appassionata di cinema. Mio padre
invece faceva Mastroianni di cognome» disse nel vano
tentativo di sembrare un tipo simpatico, dato che la carta del fascino l’aveva già sprecata.
«Non era di questo che volevo parlarle, ovviamente.
Abbiamo già effettuato i primi rilievi e consultando il
registro i corpi che risultano scomparsi sono tre.»
«Vedo, infatti» constatò il dottore, «che le celle frigorifere aperte sono tre.»
Il commissario precisò: «Anche le altre erano aperte,
ma nulla sembrava manomesso, a parte i lenzuoli sul
pavimento, e le abbiamo richiuse.»
Poi aggiunse quasi ridendo: «Ho notato le etichette:
John Doe, con fratelli e sorelle, e poi quel ‘caucasico’.
È un appassionato di CSI?»
Il medico si vergognò di quel suo vezzo e spiegò: «Sì,
ehm... ecco, lo trovo comodo. Appiccico un’etichetta
con una descrizione sommaria prima di compilare il registro e invece di scrivere ‘ignoto’, ‘sconosciuto’, ‘nn’ o
‘nomen nescio’, riporto il nome putativo che si usa negli Stati Uniti. Mi sembra meno freddo.»
Quindi chiese: «Chi ha scoperto il... rapimento?»
Il commissario spiegò che una delle donne delle pulizie
aveva sentito degli strani rumori nel ripostiglio degli armadietti. Insospettita, ma per nulla intimorita, era entrata all’improvviso. Pensava di sorprendere l’autore dei
piccoli furti che da qualche tempo venivano commessi
ai danni dei dipendenti e, invece, si trovò di fronte tre
persone che si stavano vestendo con gli indumenti tro112
vati negli armadietti. Pare che fossero due uomini e una
ragazza. Dopo essere stati sorpresi, sono fuggiti.
«Due uomini e una ragazza?» disse il medico. «Se ieri
sera non avessi visto i corpi chiusi nelle celle, avrei
pensato che...»
La Contini lo interruppe e gli fece cenno di seguirla. Attraversato a ritroso il corridoio raggiunsero l’ufficio del
custode. L’ispettore, che li aveva seguiti, azionò un videoregistratore e sul televisore centrale della stanza cominciarono a scorrere le immagini della sera prima. A
un tratto, sullo schermo si videro passare tre enormi figure scure, indistinte. L’ispettore fece ripetere la scena
più volte anche al rallentatore e disse: «Eccoli! Sono tre
ed entrano nella sala. È troppo scuro, l’immagine è disturbata e non si distinguono. Comunque l’aspetto è decisamente inquietante.»
«La guardia non si è accorta di nulla?» chiese Mastroianni.
«No» rispose la Contini, «ma il bello deve ancora venire.»
L’ispettore fece avanzare il nastro ed, ecco, a un certo
punto, tre figure nude, un uomo bianco, uno di colore e
una ragazza, uscire dalla sala. Camminavano lentamente e la telecamera li riprendeva di spalle, poi improvvisamente, senza fermarsi, la ragazza voltò la testa e li fissò negli occhi. Quello sguardo gelò il sangue a Mastroianni.
«È lei» disse con un filo di voce.
«La riconosce?»
«Sì, è lei. L’hanno portata ieri sera. Strangolata e gettata
nel Tevere. A un primo esame era rimasta in acqua dalla notte precedente. Oggi avrei dovuto farle l’autopsia.»
«A quanto pare non ce n’è più bisogno» disse la Contini. «Mi raccomando, finché le indagini sono in corso,
nessuno ne deve sapere nulla. Mi riferisco a chiunque,
113
ma soprattutto ai giornali. Io invece diramerò un avviso
di ricerca per tre persone scomparse.»
Mastroianni annuì, mentre la ragazza del video lo fissava ancora negli occhi.
Giorno IV – Isabel
Roma, 15 luglio 2013.
Un nuovo scandalo sta per sconvolgere la Roma bene. Il
noto avvocato *** ***, dirigente del ministero della
***, è stato coinvolto in un incidente con la sua auto blu
al Km 20 dell’Appia Nuova in direzione Roma. L’avvocato, che era alla guida in stato di ebbrezza, ha subito
alcune fratture ed è in stato di choc. Dalle prime indiscrezioni trapelate sembra che un cadavere, di cui non si
conosce ancora l’identità, sia stato ritrovato nel bagagliaio dell’auto. Non disponiamo di altre informazioni e
gli inquirenti per il momento si sono chiusi nel più stretto riserbo.
Questa è la notizia di cronaca pubblicata dai giornali, ma grazie alle nostre fonti bene informate,
possiamo rivelare ai lettori che cosa è accaduto veramente...
I tre malebranche si godevano il caldo di quel mezzogiorno di luglio in uno dei parchi cittadini. Dopo aver
assunto le loro nuove identità, formavano un trio ancor
peggio assortito di prima: un sessantenne brizzolato che
dimostrava più dei suoi anni (Malacoda), un trentenne
di colore (Calcabrina) e una slava quasi diciottenne
(Alichino). Gli indumenti che avevano trovato negli armadietti, t-shirt con scritte di ogni tipo e improbabili
bermuda, non sfiguravano al confronto con l’abbigliamento dei turisti che vagavano, nella calura di quella
afosa giornata di luglio, alla ricerca del refrigerio di una
fontana.
114
«Queste strane scarpe sono comode» disse Calcabrina
alzando una gamba e osservando il sabot bianco che
aveva al piede. «Ora che siamo ben mimetizzati per entrare in azione, si può sapere che cosa dobbiamo fare?»
«Prima mangiamo! Io muoio di fame» disse Malacoda e
si avviò verso un chiosco in fondo al parco.
Il proprietario di quel chiosco aveva una cattiva abitudine: quando riceveva i pagamenti dei turisti, incassava la
banconota e restituiva il resto per un taglio inferiore. Se
il malcapitato non se ne accorgeva era un bel guadagno,
altrimenti aveva la faccia tosta di fingersi mortificato
per l’errore. Con questo sistema aveva imbrogliato già
tante nonnine che compravano il gelato ai nipotini, proprio come quella che precedeva Malacoda e diceva al
nipote: «Eccoti il gelato, ma stai attento e non ti sporcare», mentre dopo aver dato 50, riceveva il resto di 20.
Malacoda che nel frattempo si era servito disse al barista: «Tre hot dog, uno con senape, uno con maionese,
uno con ketchup e poi tre diet coke.»
«Sono 18 euro» disse il proprietario che nel frattempo
pensava: “Se mi da 20 pazienza, ma con 50 ritento il
giochetto. A giudicare da come è vestito, questo vecchio non dev’essere molto sveglio... ma cosa aspetta?”
I demoni sanno leggere nella mente dei comuni mortali,
soprattutto quando progettano qualche malefatta.
Il barista ripeté: «18 euro!»
«Sì» disse Malacoda, «te ne ho appena dati 50, li hai in
mano.»
«Ehm, no» rispose sottovoce, «questi me li ha dati la signora.»
La nonnina, che era anziana e svampita, ma non sorda,
intervenne: «No, io le ho dato 20, ecco qui il mio resto
di 20» e poiché le disgrazie non capitano mai da sole,
erano comparsi anche due poliziotti di quartiere che
115
avevano ordinato due caffè al bancone e distrattamente
osservavano la scena.
«Hai sentito la signora? Allora dov’è il mio resto?»
Non ci volle molto. Malacoda ricevette i suoi 32 e si
porto via lattine e fagotti.
«Chi voleva il ketchup?»
«Io» disse Calcabrina. «Adesso possiamo sapere perché
siamo qui?»
Alichino, che era stato in silenzio fino ad allora, gustando il suo hot dog alla maionese, intervenne: «Prima volevo parlarvi di una cosa che mi sta molto a cuore.»
I due compagni si guardarono stupiti, infatti Alichino
tutto poteva avere fuorché un cuore, ma quelle erano
cose che potevano capitare, quando prendevi in prestito
un corpo come avevano fatto loro. Nel bene o nel male,
i ricordi e i sentimenti del loro ospite potevano farsi
strada nel loro animo. Non si può credere quanto le ultime volontà rimangano appiccicate, restando addosso
inespresse: non puoi liberartene se non soddisfandole.
Accadeva la stessa cosa a tutti e tre, ma Alichino si stava rivelando il più sensibile. Aveva sbagliato a scegliere
una ragazza, sono le più difficili da gestire.
Malacoda, che aveva capito il problema e sapeva che
bisognava risolverlo o avrebbe dovuto fare a meno di
Alichino, con rassegnazione e comprensione chiese:
«Che cosa ti assilla?»
«Già» disse Calcabrina, «oggi non sei il solito stupido
rompiscatole. Così combinato mi sei perfino simpatico,
hai un certo sex-appeal che mi smuove dentro sentimenti sopiti da...»
«Zitto! È una cosa seria. Ascoltiamolo!»
Alichino iniziò a raccontare con la voce di una ragazza
quasi diciottenne ma che dimostrava più della sua età:
«Mi chiamo Isabel e provengo dalla Romania. I miei mi
116
hanno mandata in Italia per trovare un lavoro e far fronte ai problemi economici della famiglia. Sapete, mio padre è invalido e ho sei fratelli più piccoli. Bene, un lontano parente, una specie di cugino, aveva promesso di
trovarmi un lavoro. L’unica cosa che ha fatto è stata
quella di picchiarmi e di sfruttarmi facendomi lavorare
in strada. Di ciò che guadagno lui si tiene quasi tutto e
manda qual poco che rimane a mio padre. Quanta brutta
gente ho conosciuto...»
Malacoda intervenne: «È triste, lo so, ma ne abbiamo
sentite di peggiori. Vieni al dunque.»
«Due giorni fa, ero con un cliente, una persona distinta,
un avvocato. Non era mai stato troppo violento, ma
quella notte gli prese un raptus. Forse aveva assunto più
droga del solito e, quella sera, aveva avuto anche una
discussione con la moglie, credo. Beh, a un tratto, nella
foga del momento, mi ha strangolata. Ho ancora sul collo i segni delle sue mani.»
«È vero!» disse Calcabrina osservandole la gola.
«In realtà non ero ancora morta. Nella sua follia si era
fermato appena in tempo, ma avevo perso conoscenza.
Quello che segue l’ho saputo dopo: lui era fuori di sé e
chiamò quella mia specie di cugino, perché non sapeva
cosa fare. Forse avrebbero potuto salvarmi, ma credendomi in fin di vita, insieme decisero che era più conveniente liberarsi subito del mio corpo e perciò mi gettarono nel Tevere.»
«Che bastardi!» disse Calcabrina e, rivolto a Malacoda,
aggiunse: «Non ti fa rivoltare lo stomaco certa gente?»
Malacoda rispose: «No questa schifezza non mi disturba; sparatorie, accoltellate, pestaggi... povere vecchie
massacrate e derubate della pensione... insegnanti sbattuti giù dal sesto piano perché bocciano i ragazzi; no
tutto questo non mi disturba affatto. Non mi disturba
per niente sguazzare nella melma di questa città, travol117
to dalle ondate sempre più fetide della corruzione, apatia, burocrazia. No tutto questo non mi disturba; sai
cosa mi disturba? Sai che cosa mi rivolta veramente lo
stomaco? Vederti ingozzare avidamente quel salsicciotto, nessuno, ripeto, nessuno ci mette il ketchup, ci vuole
la senape!»1
Poi aggiunse, rivolto a Isabel: «È davvero una storia triste, ma noi cosa possiamo farci?»
«Non lo so, ma io sento forte dentro di me un impulso
irrefrenabile: questa sera a un’ora precisa devo trovarmi
al Km 20 dell’Appia Nuova.»
Non c’era nulla da fare, quegli impulsi bisogna seguirli
o non te ne liberi. Avrebbero accontentato Alichino.
L’avvocato era fuori di sé. Aveva appena letto il giornale del mattino e nella pagina della cronaca locale aveva
trovato la foto di Isabel, quella ragazza per la quale aveva perso la testa e che aveva ucciso pochi giorni prima.
Nell’articolo c’era scritto che era scomparsa, chiunque
avesse avuto informazioni era pregato di contattare la
polizia.
In quel momento il telefonino squillò. Era il suo pusher
romeno che gli diceva di accendere la TV sul TG regionale. Lo speaker stava ripetendo la stessa notizia.
«Dobbiamo vederci» disse il pusher, «io ti ho dato una
mano, ma non ci ho ancora guadagnato nulla e la famiglia di Isabel ha perso la sua fonte di reddito. Per il momento portami 25 mila euro al solito posto così ne parliamo.»
«Sono troppi! Dove li trovo a quest’ora... non eravamo
d’accordo così.»
1
Dal film “Coraggio… fatti ammazzare” di Clint Eastwood
118
«Arrangiati. L’altra sera ho scattato delle foto. Del corpo ce ne siamo liberati, ma le foto sono sufficienti per
incriminarti. 25 mila stasera e trattiamo sul resto.»
I due si incontrarono nel luogo convenuto e la trattativa
ebbe luogo. L’avvocato aveva capito che non si sarebbe
più liberato di quel ricattatore, ma non aveva idea di
come fare per toglierselo dai piedi. Ci avrebbe pensato
domani.
Ora i due si trovavano sul fuoristrada dell’avvocato di
ritorno verso Roma.
«Vai piano» disse il pusher, «non c’è fretta.»
Aveva sulle ginocchia la valigetta con i 25 mila in banconote di piccolo taglio e la stava soppesando.
«Tutto è bene quel che finisce bene» disse nel suo italiano approssimativo. «Gli errori si pagano, ma per fortuna hai trovato un buon amico come me.»
L’avvocato che aveva bevuto parecchio per smaltire la
tensione, spinse ancora di più sull’acceleratore.
Era buio e non c’era traffico ma l’asfalto era reso viscido da una leggera pioggerellina. A un certo punto, ad
alta velocità, il fuoristrada giunse al Km 20 dell’Appia
Nuova. Sembrava ci fosse qualcosa in lontananza al
centro della carreggiata e in un istante se la trovarono
davanti, troppo tardi per frenare. Gli abbaglianti illuminarono la bianca figura di una ragazza in piedi al centro
della corsia, la riconobbero, era Isabel. L’avvocato terrorizzato scartò improvvisamente e il fuoristrada si
schiantò contro un albero.
Il commissario Cinzia Contini fu svegliata alle tre di
quella notte. Amava alzarsi presto, ma era decisamente
troppo presto. Quando giunse al Km 20 dell’Appia
Nuova c’era ancora un’ambulanza e due volanti con i
lampeggianti accesi. C’era anche un uomo accanto a
119
una moto, che riconobbe essere il dottor Mastroianni,
ma rimaneva lontano in disparte.
«Che cosa è successo? Perché mi avete fatta chiamare
dalla Centrale?»
Un agente stava esaminando l’interno dell’abitacolo,
mentre un altro rispose: «C’è stato un incidente. Questo
fuoristrada ha sbandato. Fortunatamente non ci sono altri veicoli coinvolti. Il conducente è rimasto seriamente
ferito e ora è ricoverato nel vicino ospedale. Si tratta di
un noto avvocato della città. Ci doveva essere anche
una seconda persona come passeggero. A giudicare dal
parabrezza sfondato e dal sangue perso, secondo il dottor Mastroianni, deve essere deceduto, ma il corpo non
si trova. Infine, ecco il motivo per cui l’abbiamo chiamata...»
Il poliziotto si spostò sul retro del fuoristrada seguito
dalla Contini e aprì, con qualche fatica, il bagagliaio.
Alla luce del lampione, il commissario vide il corpo
nudo di una ragazza. La osservò da vicino e, mentre le
guardava il volto, notò sul collo anche i segni evidenti
di uno strangolamento. Non sarebbe stato difficile fare
un raffronto con le impronte di un sospettato. Ma quel
viso! Ricordava di averlo già visto.
Il poliziotto concluse: «È senza dubbio la ragazza di cui
avete segnalato la scomparsa ieri. Tenevo l’avviso che
avete diramato sul cruscotto e l’ho riconosciuta subito.»
«È vero, è lei» confermò la Contini.
A quell’ora di notte, non riusciva a collegare bene i fatti. Una ragazza che era già all’obitorio se n’era andata
in giro per Roma ed era finita in un portabagagli. E poi
anche un secondo corpo mancava all’appello, senza
contare gli altri due fuggiti dall’obitorio.
«Dite alla scientifica di rilevare al più presto le impronte sul collo. Chiederò un mandato per confrontarle con
le mani del conducente.»
120
Mentre il poliziotto tornava al suo lavoro, la Contini
guardò un’ultima volta il viso della ragazza. Sembrava
sereno. Si tolse l’impermeabile e coprì il corpo.
Il dottor Mastroianni nel frattempo si era avvicinato, le
mise la sua giacca sulle spalle e disse: «È tutto così...
incredibile.»
Quella notte piovigginava e faceva freddo per essere luglio. Cinzia Contini rabbrividì e si strinse nella giacca
di Marcello, il dottor Mastroianni. Poi lo guardò e disse:
«È troppo tardi per tornare a dormire, ma non è presto
per un caffè. Andiamo, offro io!»
Giorno V – Shopping
Roma, 16 luglio 2013.
Anche oggi a Roma le temperature hanno superato di
gran lunga le medie stagionali. I turisti ne hanno approfittato per dare l’assalto alle fontane della capitale, mentre pochi fortunati si sono rinfrescati all’aria condizionata delle boutique del centro facendo shopping. Tra i
numerosi VIP presenti in questi giorni a Roma, segnaliamo George Clooney, Fabrizio Corona e il principe
Akeem di Zamunda.
Questa è la notizia pubblicata dai giornali, ma grazie alle nostre fonti bene informate, possiamo rivelare ai lettori che cosa è accaduto veramente...
Il bar aveva appena aperto. Nel locale non c’era anima
viva e il barista si aspettava che non arrivasse nessuno
per un bel pezzo in quella mattinata così poco estiva.
Invece la porta a vetri si aprì tintinnando ed entrarono
tre tipi strani in maglietta, bermuda e zoccoli.
«Buongiorno, signori, in cosa posso servirvi?»
«Per me cappuccino e cornetto» disse Malacoda sedendosi al bancone.
121
Calcabrina accompagnò Alichino a un tavolo appartato
e poi raggiunse Malacoda al bancone: «Pure per me un
cappuccino e anche per il mio amico laggiù.»
Il barista accese le televisione, poi azionò la macchina
per il caffè e mentre manovrava disse: «Che brutta giornata! La pioggia di stanotte è insolita per luglio, vediamo cosa dicono le previsioni del tempo.»
Servì due cappuccini e si apprestò a portare il terzo ad
Alichino. Calcabrina lo fermò: «No, grazie. Glielo portiamo noi.»
«Il vostro amico ha una brutta cera. È pallido come un
morto e poi quei tagli sul volto... Non sta bene?»
Malacoda rispose: «Non si preoccupi, stamattina ha litigato col rasoio. Quando si alza troppo presto, ci mette
sempre parecchio a svegliarsi. Rimane in coma fino al
caffè, ma dopo il cappuccino sarà un altro.»
Quindi raggiunsero il compagno al tavolo appartato,
mentre il barista dubbioso si mise a sciacquare i bicchieri.
«Ha ragione» disse Malacoda sottovoce, «hai una brutta
faccia! Questo corpo era troppo danneggiato dall’incidente. Ho condiviso con te l’idea di fare lo scambio e
lasciare Isabel a terminare la sua vendetta, ma ora non
vorrei dovermi trascinare un morto vivente per tutta
Roma.»
«Te l’ho già detto, ho solo bisogno di un po’ di tempo.
Intanto date un’occhiata a questa valigetta. Il rumeno...
ah, sì! Non ve l’ho ancora detto, sembra che io adesso
sia quella specie di cugino di cui ha parlato Isabel... il
rumeno, dicevo, la teneva così stretta che ho faticato a
lasciare la presa.»
Aprirono e videro i 25 mila euro.
«Sembra una bella somma. Propongo di comprare dei
vestiti decenti. Sono stanco di sentirmi addosso gli occhi di tutti» disse Calcabrina.
122
Nel frattempo in televisione trasmettevano le ultime notizie. Le previsioni dicevano che nel pomeriggio sarebbe tornato il caldo. Si parlò anche dell’incidente automobilistico capitato poco distante da lì all’avvocato. Infine, comparve in video l’uomo per cui i tre malebranche erano stati mandati in missione.
Malacoda lo riconobbe subito e, sorpreso, chiese al barista che cosa dicesse il servizio.
Il barista alzò il volume e poi spiegò: «Il Presidente dopodomani parlerà al Midas, ma non ho capito a quale
convegno.»
«Al Midas?»
«Sì, è un hotel qui a Roma, lungo l’Aurelia.»
Allora Malacoda spiegò ai compagni in cosa consisteva
la loro missione: a quanto pare quel Presidente, o meglio la sua anima, doveva presentarsi a Caronte più di
una settimana prima, ma non si era fatto vedere. A quel
punto era chiaro che qualcosa di imprevisto era accaduto, infatti, a giudicare dalle immagini, il Presidente era
ancora vivo e vegeto.
«Per sincerarci di come stanno veramente le cose, potremmo andare dopodomani al convegno» propose Calcabrina, «ma è necessario rimetterci in sesto prima», poi
aggiunse riferendosi alla televisione: «Interessante quell’apparecchio. L’ultima volta che sono venuto quassù
non c’era. Sono cambiate un sacco di cose. Le automobili ad esempio! Chissà che fine hanno fatto i cavalli,
non ne ho ancora visto uno. Adesso che ci penso, i dannati ci raccontavano di carrozze senza cavalli, di uccelli
d’acciaio e cose simili. Erano racconti divertenti, ma
credevo che ci prendessero per il culo...»
In quel momento Cinzia Contini, il commissario, e Marcello Mastroianni, il medico legale, entrarono nel bar,
ma erano troppo concentrati nei loro discorsi per fare
caso al terzetto in fondo alla sala. Solo dopo che i tre
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furono usciti dal locale e la porta a vetri si richiuse dietro di loro con il suo solito tintinnio, il barista disse:
«Che tipi strani! Per come sono conciati devono lavorare dal fornaio qui vicino, ma non li avevo mai visti prima.»
La Contini si voltò verso la vetrina, ma ormai avevano
girato l’angolo.
La mattinata si era scaldata presto. Durante le notte la
pioggerellina aveva rinfrescato l’aria, ma in quel primo
pomeriggio l’afa cominciava già a farsi sentire. Malacoda aveva comprato delle bende in una parafarmacia per
fasciare la testa di Alichino e coprire i tagli sul viso e
sul collo che il rumeno, a quest’ora ormai imbarcato sul
traghetto di Caronte, si era procurato la notte precedente
contro il parabrezza del fuoristrada. Dopo aver avvolto
metri di garza, rimanevano liberi solo gli occhi e la bocca.
«Così fasciato dai molto meno nell’occhio e hai anche
un colorito migliore» disse Calcabrina ridendo. Proprio
in quel momento passò un tale in motorino che data
un’occhiata ad Alichino gridò: «Andovai uomo invisibbile!»
Avevano anche preso alloggio presso un alberghetto in
centro. Il portiere, grazie a una cospicua mazzetta, chiuse un occhio sui documenti mancanti. Poi, dopo aver
approfittato delle comodità dei bagni moderni e aver
riacquistato una forma umana, uscirono alla ricerca di
abiti decenti. Si erano fatti consigliare da un gruppo di
turisti giapponesi sullo shopping nella capitale e avevano saputo che i migliori negozi di abbigliamento si trovavano in via Condotti. Eccoli quindi passeggiare per la
via guardando le vetrine.
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Dopo aver camminato a lungo decisero di entrare in una
boutique esclusiva e molto elegante.
Le commesse guardarono i tre con un malcelato disgusto. Si fece avanti la più coraggiosa e chiese: «In cosa
possiamo servirvi?»
Malacoda, frugando tra le memorie del suo ospite per
cercare di essere convincente, rispose: «Volevamo tre
completi da uomo. Sì, abiti eleganti. Siamo arrivati oggi
e dopodomani abbiamo un convegno al Midas. Purtroppo all’aeroporto ci hanno perso i bagagli e ora siamo rimasti solo con questi stracci.»
La commessa, guardando la maglietta con su scritto
‘Italians do it Better’ e la testa fasciata di Alichino, disse: «Vedo. Temo che abbiate sbagliato atelier. Se mi
permettete posso consigliarvi un centro commerciale
qui vicino. Troverete sicuramente qualcosa di adatto a
voi.»
Allora intervenne Calcabrina. Sovrastava in altezza la
commessa di un paio di palmi e in quel momento era di
un nero che più nero non si poteva: «Da dove proveniamo non siamo abituati ad essere trattati in questo modo!
Io sono il principe Akeem di Zamunda ed esigo rispetto.
Voglio parlare immediatamente con il direttore.»
«Che succede? Cos’è questo chiasso?» chiese un signore distinto con un simpatico pizzetto. «Dove vi credete
di essere all’Emporio Armani? Sono il direttore, dite
pure.»
«Ecco, noi abbiamo tutti questi soldi da spendere per
comprarci dei vestiti» disse Malacoda aprendo la valigetta e mostrando i 25 mila, «ma la sua commessa ci
vuole consigliare un centro commerciale qui vicino.»
«Sicuramente la signorina voleva esservi utile e ci deve
essere stato un malinteso» replicò il direttore, mentre
faceva segno alla commessa di sparire, «ma ditemi: che
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somma pensavate di spendere?» e fece capire a Malacoda che non c’era bisogno di tenere la valigetta aperta.
«Dobbiamo essere eleganti, diciamo che possiamo
spendere una sfacciata somma di denaro.»
Il direttore ci tenne a una precisazione: «Per sfacciata
intende disinvolta o spudorata?»
«Spudorata! Certamente.»
Il direttore pensò: “Come amo quest’uomo!” e con un
discreto battimani fece accorrere tutte le commesse.
«Mi raccomando, ogni desiderio di questi signori è un
ordine! Ci tengono al servizio. Da ora sono nostri buoni
clienti e vogliono il trattamento. Fatevi in quattro per
loro!»
Iniziarono quindi a vedere, toccare e indossare camicie,
giacche, pantaloni, scarpe e cravatte. Ci vollero ore e lo
sfinimento di tutto il personale del negozio, ma alla
fine, splendidi come modelli dell’ultima collezione
uomo primavera/estate, dalla boutique uscirono nell’ordine: un interessante sessantenne con un elegante principe di Galles, scarpe britanniche e cravatta Regimental;
un vigoroso trentenne di colore con completo di seta in
tinta unita pastello e foulard al collo; un individuo non
meglio identificato con giacca e pantaloni abbinati pied
de poule e la testa completamente fasciata.
Mentre tornavano in albergo, Alichino disse: «Ragazzi,
non mi sono mai divertito tanto. Ora capisco perché tutta questa gente si impegna tanto per fare shopping!»
«Io ho una proposta per domani» disse Calcabrina.
«Sì, facciamo ancora shopping...»
«Ecco, ha parlato la mummia! Lasciami finire. L’obiettivo della nostra missione, il Presidente, l’abbiamo individuato e lo intercettiamo dopodomani. Ieri abbiamo accontentato Alichino e le ultime volontà di Isabel, così
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domani vorrei approfittarne per togliermi un peso dallo
stomaco.»
«Anche tu!» disse sconsolato Malacoda. «Di che si tratta?»
«Ti spiego stasera. Domani la vendetta sarà compiuta e
Benoît sarà soddisfatto.»
«Chi è questo Benoît?»
«Sono io» rispose Calcabrina.
Alichino, che non aveva capito nulla, chiese stupito:
«Ma non sei il principe Akeem di Zamunda?»
Proprio in quel momento passò un tipo in motorino che
data un’occhiata ad Alichino gridò: «A uomo invisibbile! Andò vai? Te vai a sposà?»
Giorno VI – Boris
Roma, 17 luglio 2013.
Una bomba è esplosa alle 22 di oggi nel ristorante
“Saint Petersburg’s”. Tre persone sono rimaste dilaniate
a causa dello scoppio e non sono ancora state identificate. Il bilancio poteva essere molto più pesante se non
fosse stato il giorno di chiusura del locale. Si ritiene che
le vittime siano dipendenti del ristorante. Gli inquirenti
stanno valutando tutte le piste, ma è probabile un coinvolgimento della criminalità organizzata, infatti il proprietario del ristorante, il georgiano Boris Strelnikov, è
sospettato di far parte della mafia russa. L’esplosione
quindi farebbe parte di quella catena di regolamenti di
conti tra cosche rivali che ha recentemente scosso la capitale.
Questa è la notizia letta dagli speakers nei telegiornali della notte, ma grazie a fonti bene informate,
possiamo rivelare ai nostri lettori che cosa è accaduto veramente...
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Nella tranquillità della sua camera d’albergo, Calcabrina cominciò a raccontare la sua storia: «Il mio nome è
Benoît N’kane. Sono camerunense, ma ho anche la cittadinanza statunitense da parte di madre. Grazie a una
borsa di studio, ho potuto studiare negli Stati Uniti alla
Columbia University. Volevo diventare medico per poi
tornare in Africa e allestire un’equipe specializzata nella cura dei mali endemici, invece mi solo laureato in
chimica industriale e biologia molecolare, così sono finito a produrre armi biologiche nel New Jersey. Si tratta
di un lavoro segretissimo, infatti molto di quello che
creano è proibito dalle leggi federali. Sei mesi fa sono
stato contattato da un esponente della malavita newyorkese, Andrew D’Angelo della famiglia Buonocore, che
era interessato a comprare le formule frutto delle ultime
ricerche dell’industria per cui lavoravo. Ho pensato che
fosse la mia occasione per mettere da parte abbastanza
denaro, tornare in Africa e coronare il mio vecchio sogno.»
«Tutto a fin di bene, quindi» commentò Malacoda.
Alichino invece disse: «Che bella storia! Quando torneremo a casa e la racconterai, spopolerai la bolgia.»
«Veniamo al dunque» tagliò corto Malacoda, «che ci fai
qui in Italia e perché ti hanno sparato una revolverata?»
«Avevo sentito dire che se avessi trattato direttamente
con il compratore avrei fatto molti più soldi, e ce ne vogliono tanti per allestire un ospedale...»
«D’accordo, vai avanti!»
«Il compratore, un russo, si trovava in Italia. Opera in
tutta Europa, ma soprattutto a Roma dove attraverso le
sue molteplici attività ricicla il denaro della mafia e dirige il traffico degli stupefacenti per il cartello balcanico. Tutto questo me lo confidò lo stesso Andrew D’Angelo, perché non credeva che io avessi il fegato di tentare l’avventura da solo. Il mese scorso presi un volo per
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Roma. Non fu difficile trovare il compratore e neppure
convincerlo che il materiale che potevo offrire valeva il
prezzo che chiedevo. Evidentemente aveva preso le sue
informazioni e si era reso conto della mia buona fede...»
«Io la chiamerei stupidità! Tratti con un mafioso tentando di fregare la mafia e pensi di uscirne vivo?» chiese
retoricamente Malacoda, mentre Alichino disse: «Non
interromperlo, ora dovrebbe arrivare il bello!»
«Sì, sono alla fine. Combinammo lo scambio, mi presentai all’appuntamento, ma prima che fosse effettuato,
qualcuno mi sparò alla schiena.»
«Non sai chi è stato?»
«No, mi ha colpito alle spalle.»
«Così ora non sai di chi devi vendicarti e, per giunta, sei
stato rapinato dei segreti che volevi vendere?»
«No, ecco la merce!», disse mostrando due schedine di
memoria. «Qui sono contenuti 512 gigabytes di segreti
militari. Valgono svariati milioni di dollari, ma io mi
ero accordato per 2 milioni di euro.»
«Beh, gli hai fatto un buon prezzo» disse Malacoda,
«ma mi rimane un dubbio. Da dove diavolo arrivano
quelle schedine di memoria? Quando ti abbiamo recuperato all’obitorio eri nudo come un verme. Non li avrai
mica nascosti...»
«Sì, proprio lì. Per questo, dopo avermi ucciso, non li
hanno trovati. Il sicario mi ha frugato nelle tasche, ma è
dovuto fuggire perché qualcuno aveva assistito alla scena e ha chiamato la polizia.»
Malacoda rifletté per qualche istante, poi tirò le somme:
«Immagino che tu sospetti del compratore. Ora, se noi
avessimo tempo, potremmo ricontattarlo facendogli credere di voler portare a termine l’affare e tu potresti consumare la tua vendetta.»
Calcabrina precisò: «Io non posso ricontattarlo, sicuramente sa che sono morto e scoprirmi ancora vivo lo al129
larmerebbe. Lo contatterai tu: ti presenterai come un inviato della famiglia Buonocore, magari ti potresti presentare proprio come Andrew D’Angelo, e dopo esserti
sincerato della sua colpevolezza lo sistemerai.»
Malacoda scocciato rispose: «Non è facile quello che
mi chiedi, ma siamo amici da così tanto tempo che, per
te, lo farò. Se dopo questo ti sentirai meglio, sarà tanto
di guadagnato, potremo finalmente portare a termine la
nostra missione e tornarcene a casa.»
«C’è ancora una cosa che devi sapere: il russo che devi
contattare si chiama Boris Strelnikov, ma in realtà è un
georgiano. Possiede vari locali in tutta Roma ed è un individuo molto pericoloso.»
Malacoda non sembrava impressionato e disse sghignazzando: «Non sa ancora con chi ha a che fare, ma se
devo impersonare questo D’Angelo, qualcosa di lui dovrò sapere.»
«Non preoccuparti. È lo stereotipo del mafioso italo-americano. Ne abbiamo conosciuti tanti all’Inferno che
non faticherai a impersonarlo. Ha più o meno la tua età,
o meglio l’età del tuo ospite, ma ha i capelli bianchi.
Una sola particolarità: sua madre è di origine polacca.»
Era la sera del 16 luglio. Malacoda, utilizzando il numero suggerito da Calcabrina, chiamò Boris sfoderando il
suo migliore accento italo-americano e si fece passare
per Andrew D’Angelo. Spiegò che Benoît aveva tentato
di imbrogliare entrambi, ma che il materiale era tornato
in suo possesso ed era ancora interessato allo scambio.
Si sarebbero incontrati alle tre di notte all’Hell’s Pleasures, uno dei locali di Boris. Dato che non era credibile, per un mafioso di un certo peso, andare a un appuntamento da solo, Alichino si trovò a interpretare la parte
di Nick Sollozzo, guardaspalle di Andrew.
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Il locale di Boris Strelnikov, l’Hell’s Pleasures, era quel
genere di bolgia infernale in cui gli uomini amano perdersi. Se avevi la fortuna di essere tra gli eletti a cui era
consentito l’accesso, potevi trovare qualunque cosa di
cui tu avessi bisogno, secondo i tuoi gusti: dai passatempi più innocenti, come la musica ad alto volume e
gli energy drinks, a quelli più trasgressivi, come ogni
genere di droga, dalla cocaina alle anfetamine, e donne
o uomini disponibili, di ogni genere e rotti a qualsiasi
esperienza. Tutto era accomunato da una certa dose di
classe, perché di Boris, il cui soprannome era “lo
schiaccianoci”, si poteva dire tutto, ma non che fosse
privo di gusto.
Il taxi si era appena fermato di fronte all’entrata del locale, dove una lunga fila di persone, vestita alla moda,
aspettava il proprio turno per entrare, affrontando il caldo della notte e con la remota speranza di non essere respinta dai buttafuori. All’interno del taxi c’erano Andrew D’Angelo, o meglio il sessantenne che ospitava
Malacoda, e Nick Sollozzo, o meglio il rumeno che era
quasi cugino di Isabel, l’ospite di Alichino.
«Sono 19 euro e 50» disse il tassista.
«Ecco buon uomo e tenga il resto» rispose prodigo Nick
passandogli 20 euro.
«Grazie, me ce strafogherò» rispose il tassista e se ne
andò sgommando, mentre aggiungeva qualche simpatico complimento in romanesco.
Nick diede un’occhiata alla lunga fila e commentò:
«C’è molta confusione.»
Andrew guardò distrattamente l’entrata e rispose: «Meglio così, passeremo inosservati.»
In piedi sul marciapiede Andrew, nel suo completo
principe di Galles in fresco lana, era più alto del compagno e, così sistemato, dimostrava meno dei suoi sessan131
t’anni. Non ostentava un’eleganza appariscente, ma non
passava certo inosservato. Nick invece, se non fosse stato per le cicatrici ormai ben rimarginate sul volto e per
il suo abbinato pied de poule, si sarebbe potuto confondere tra la folla e non avreste notato la sua mancanza.
Entrato nel suo ruolo, si sarebbe tenuto sempre un passo
indietro rispetto al suo capo e lo avrebbe seguito con discrezione.
Uno dei buttafuori all’ingresso, quello più robusto, si
avvicinò alla coppia e disse: «Mister D’Angelo? Da
questa parte, il direttore la sta aspettando.»
I due si scambiarono uno sguardo d’intesa divertito:
«Non dovevamo passare inosservati?»
Il terzetto si introdusse da un ingresso laterale evitando
la fila di quello principale. All’interno la temperatura
era confortevole. Il buttafuori li perquisì attentamente e,
per essere più comodi, lasciarono le giacche a una guardarobiera dal fisico decisamente interessante, come si
poteva notare sotto la buona volontà di cui era vestita.
L’ampio locale era occupato dalla pista da ballo, illuminata da luci intermittenti e fasci laser, dove si trovava
assiepata una folla indistinta di gambe e braccia che si
agitavano a tempo di musica. Tutt’intorno si vedevano
divani e bassi tavoli su cui era appoggiata un’infinità di
bicchieri, riempiti a ciclo continuo da tre isole-bar,
mentre più in alto c’era la postazione dei DJ e, su cubi
distribuiti in tutta la sala, ballavano numerose ragazze
che tentavano di tutto per farsi notare.
Il buttafuori attirò l’attenzione di Andrew e gli indicò
un privè in un angolo tranquillo del locale, dove avrebbe incontrato Boris, e iniziò a fendere la folla. Attraversò la sala, incontrando difficoltà solo nel dividere alcuni
gruppi di ragazze assatanate, e dopo aver scortato gli
ospiti disse laconico: «Sono puliti» e si dileguò.
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«Benvenuti! Sedetevi qui accanto a me e prendete da
bere. Avrete sicuramente sete» disse Boris, mentre indicava due poltrone intorno al basso tavolino.
Non avresti mai detto che Boris fosse russo, se non per
quel suo forte accento. Dall’aspetto e dall’abbigliamento raffinato l’avresti scambiato per un francese. Era seduto tra due ragazze, una asiatica e l’altra probabilmente dell’Europa dell’est, che si comportavano con lui con
estrema familiarità, per non dire con spudorata intimità.
Non avresti neppure detto che avesse già cinquant’anni,
perché in quel contesto dimostrava la vitalità di un ventenne.
«Bene, passiamo alle presentazioni» disse il russo stringendo la mano ai due ospiti e facendo solo il cenno di
alzarsi. «Io sono Boris e so chi sono. Voi invece chi siete?»
Andrew rispose sfoderando un accento italo-americano
piuttosto approssimativo: «Io sono Andrew D’Angelo
della famiglia Buonocore, mentre lui è Nick Sollozzo,
uno dei miei uomini.»
«Sollozzo... Sollozzo...» disse Boris, «questo nome non
mi è nuovo.»
Poi osservando le cicatrici sul volto di Nick, disse a Andrew: «Sai cosa si dice dalle mie parti? Se hai bisogno
di uno che ti guardi le spalle, non assoldare un uomo
con le cicatrici, ma assumi quello che gliele ha fatte!» e
concluse con una sonora risata.
Nick, che sapeva di non avere un bell’aspetto, ma non
sopportava di essere preso in giro, si dimenticò di dover
restare in silenzio per tutto il tempo e replicò: «È difficile assumerlo, l’uomo che me le ha fatte è morto.»
«Ah, è spiritoso e sa anche parlare. Non è facile trovare
dei gorilla che sappiano parlare al giorno d’oggi!»
Boris disse quest’ultima battuta ad alta voce affinché gli
ospiti nei tavoli vicini sentissero, nonostante la musica,
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e tutti risero di gusto, tranne Nick. Poi con un gesto fece
portare da bere.
«Questi drink li dovete proprio provare. È il cocktail
della serata. Non so cosa ci abbia messo dentro il barman, ma quel cubano è un mago: i suoi intrugli farebbero resuscitare un morto. Dopo ordinate quello che volete, ma questi li dovete provare. Poi chiedete e vi sarà
dato» aggiunse ridendo. «Volete sniffare? Ho ottima
roba! Scegliete pure le ragazze che preferite, per due
ospiti di riguardo come voi, offre la casa»
Andrew lo interruppe dicendo: «Non siamo qui per divertirci, ma per parlare d’affari»
«Certo! Voi americani siete concreti, puntate subito al
sodo, mai confondere affari e piacere. Ma per me è diverso, per noi dell’ex-Unione Sovietica è diverso. Dobbiamo ricordarci perché facciamo affari: per permetterci
tutto questo, il piacere... la felicità. Cosa dice la vostra
Dichiarazione d’Indipendenza? Che ogni uomo ha diritto al perseguimento della felicità? La felicità non è un
diritto, nessuno te la regala, ma te la devi guadagnare...
e guadagnare a caro prezzo. Per questo bisogna ricordare il motivo per cui lavoriamo tanto duramente, soprattutto quando per la felicità si mette in gioco la stessa
vita.»
«Che cos’è la felicità?» chiese Andrew, che nel frattempo aveva scrutato Boris e soppesato ogni sua parola.
«Cos’è la felicità? Tu mi chiedi cos’è la felicità?» chiese a sua volta il russo ridendo. Mentre rideva strinse a
sé le due ragazze che ricambiarono prontamente.
Quindi sentenziò: «La felicità è essere liberi, poter fare
tutto ciò che si vuole, quando si vuole e con chi si vuole. Ma ora parliamo d’affari.»
Così dicendo divenne finalmente serio e con un cenno
congedò le due ragazze che si allontanarono veloce134
mente e si persero tra la folla che ballava al centro della
sala.
Andrew chiese: «Qui possiamo parlare liberamente?»
«In mezzo alla confusione creata da questa musica ci
sentiamo a stento e poi faccio bonificare il locale ogni
mattina, infatti mi stupirei se in questo momento non ci
fossero agenti della DIA là in pista che fingono di divertirsi, o forse si divertono veramente» concluse Boris
ridendo.
«Allora ecco uno dei pezzi di cui abbiamo parlato» disse Andrew reggendo tra pollice e indice una schedina di
memoria. «Sono affari delicati e vanno condotti personalmente.»
Boris disse ammirato: «L’hai portata con te senza alcuna precauzione! Evidentemente ritieni che tra uomini
d’affari ci si possa fidare, ma naturalmente non ti dispiacerà se ne verifico il contenuto» e con un cenno richiamò l’attenzione di un uomo che era stato fino a quel
momento in disparte.
Quell’uomo non poteva passare inosservato in quell’ambiente: era il classico pesce fuor d’acqua, con barba
e capelli lunghi, jeans sdruciti e maglietta dell’UCLA,
gli mancavano solo i sandali e sarebbe stato il perfetto
stereotipo di se stesso. Prese con sicurezza la schedina
dalle mani di Andrew e la inserì nel suo moderno
smartphone.
«La parola d’accesso è ‘mortenera’ minuscolo e tutto
attaccato» rivelò Andrew.
L’uomo con dispetto affermò: «Una password così
semplice l’avrei individuata in meno di cinque minuti.»
L’hacker armeggiò lungamente con i pollici sul touch
screen e nel frattempo pronunciava estasiato termini
tecnici incomprensibili. Sullo schermo venivano visualizzati genomi sequenziati, strutture proteiche, formule
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chimiche, progetti di macchinari e di impianti industriali.
Dopo qualche minuto di tensione, disse: «Ci vorranno
settimane per decifrare tutti questi giga, ma da quel
poco che ho verificato corrispondono a ciò che era stato
concordato. È del tutto inutile però senza la seconda
parte.»
Boris era entusiasta: «Molto bene! È un piacere fare affari con te e non ti chiederò come hai fatto a entrare in
possesso di questo materiale. Secondo il vostro governo
questi progetti non esistono, ma ora il segreto sarà custodito anche dal cartello che rappresento. Quando la
seconda schedina sarà nelle mie mani, trasferirò quanto
pattuito su un conto di tua scelta.»
Andrew disse: «Il prezzo però è aumentato. Ho sentito
della disavventura capitata a Benoît N’kane e mi sembra giusto alzare la posta: 3 milioni di euro e in contanti.»
«Contanti al giorno d’oggi! Vivi ancora nel XX secolo?
Ma sia come vuoi, non mercanteggerò con te. Se è quello che chiedi, è quello che avrai e vada anche per i contanti. Per quanto riguarda l’incidente capitato a Benoît,
devo dire che se l’è meritato. Trattare così per conto
suo, senza intermediari... sono cose che non si fanno,
ma per mia sfortuna si è rivelato un dilettante più furbo
del previsto. L’abbiamo eliminato pensando che avesse
con se la merce, ma non era così. Poco male, ora la
transazione è conclusa tra veri uomini d’onore. Però
permettimi di fissare almeno il luogo dell’ultimo scambio: il Saint Petersurg’s. È un mio ristorante qui in città.
Te lo consiglio, si mangia bene. Domani sera è chiuso e
potremo concludere il nostro affare in tutta tranquillità.
Ti invito a cena per le 21.»
Andrew rispose: «OK.»
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Boris poi continuò con un tono che dimostrava vero interesse: «Una cosa però non capisco. Pensavo che voi
gangsters americani foste patriottici. Ho faticato parecchio a trovare qualcuno che mi procurasse questa roba,
è roba che scotta e se finisse nelle mani sbagliate potrebbe procurare non pochi problemi al tuo paese.»
«Sono certo che tu avresti fatto la stessa cosa per me»
rispose Andrew.
«Se pensi questo, non hai capito nulla di Boris» disse il
russo. «Io e te siamo molto diversi.»
Andrew replicò divertito: «A me sembra che lavoriamo
entrambi nello stesso ramo.»
Boris rimase in silenzio per un attimo. Prese lo schiaccianoci che aveva sul tavolo e, con un colpo secco, frantumò una grossa noce, gettò il guscio e ne masticò il
gheriglio.
Dopo aver concluso la transazione, Boris si dimostrò
molto meno affabile di com’era all’inizio del colloquio
e così spiegò il suo punto di vista apertamente, come se
quello di domani sera fosse l’ultimo affare che avrebbero concluso insieme: «Vedi, come ho già detto, io e te
siamo molto diversi. Tutti i miei affari, di qualunque
genere siano, si svolgono con il tacito consenso del mio
governo, invece i tuoi sono contro il tuo governo. Io lavoro per uno scopo. Sono partito dal basso, devo emergere e sto costruendo qualcosa. Tu invece hai ereditato
ciò che possiedi, cerchi solo di conservarlo e vivi di
rendita. Forse è per questo che non ti sai godere ciò che
hai.»
«Ora sei tu a non aver capito nulla di me. Diventare
quello che sono mi è costato molto» disse Andrew, «e ti
stupiresti nel sapere quanto anch’io faccia affari con gli
uomini che rappresentano il mio governo.»
Boris allora continuò, come un fiume in piena: «La mia
padronanza della lingua è scarsa ed evidentemente devo
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spiegarmi meglio. Voi americani di origine italiana vi
siete dati da fare per arricchirvi, ma dopo esservi dimenticati di aver avuto la pancia vuota, vi siete imborghesiti e avete perso le palle. Ora pensate solo alla famiglia. Bisogna avere fame per afferrare il potere e tenerlo per i testicoli. Per questo cinesi, russi, sudamericani vi stanno togliendo quote di mercato: hanno più attributi di voi!»
«Mi sembra che tu abbia espresso il concetto molto
chiaramente» disse Andrew. «Io, però, sono italiano
solo a metà» aggiunse ricordandosi della sua copertura.
«Già! Ho preso le mie informazioni. Per l’altra metà sei
polacco» aggiunse con disprezzo Boris.
Poi, ad alta voce per farsi sentire nella confusione, rivolto ad alcuni ospiti seduti poco lontano, Boris disse:
«In America si raccontano tante barzellette divertenti
sui polacchi. Sentite questa: un uomo entra in un bar e
chiede al barista: “La sai l’ultima sui polacchi?”, allora
il barista gli risponde: “No, ma devi sapere che io sono
polacco” e l’uomo dice: “Non c’è problema, parlerò
lentamente.”»
Tutti quelli che erano a portata di voce e che, nonostante il rumore, avevano potuto ascoltare, risero compiacenti. Anche Andrew rise, mentre Boris gli rivolgeva
uno sguardo beffardo.
«Davvero divertente» disse Andrew e senza battere ciglio aggiunse: «Io ti posso raccontare questa sui georgiani: due georgiani parlano di un loro amico emigrato
in America: “Hai saputo di Sasha? Dopo solo un anno
ha aperto una gioielleria”, l’altro stupito chiede: “E
come ha fatto?” ed il primo gli risponde: “Ha usato un
piede di porco!”»
Quindi Andrew si alzò, seguito da Nick, tra gli ospiti
raggelati che fissavano Boris e andandosene disse:
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«Penso che a questo punto ci siamo detti tutto. A domani sera.»
Mentre si allontanava tra la folla che ballava al ritmo
martellante della musica, Andrew poteva sentire ancora
le risate di Boris. Lo immaginava di nuovo circondato
da ragazze, mentre si preparava una pista di cocaina e
assaporava il cocktail della serata. Nel frattempo pensava: “Sono contento che tu sia felice. Goditi i piaceri della vita, finché puoi. La vita è così breve...”
La mattina del 17, Malacoda aggiornò Calcabrina, il
quale ebbe la conferma del tradimento di Boris e quindi
il lavoro che aveva portato a termine, durante la notte
precedente, non era stato vano. Con le sue conoscenze
di chimica, o meglio le conoscenze di Benoît, aveva farcito i gusci di una grossa noce con una miscela esplosiva. È incredibile quanto possano essere pericolosi dei
detersivi quando vengono mescolati nelle giuste proporzioni. Una volta rotto il guscio, l’esplosione avrebbe investito il malcapitato che reggeva lo schiaccianoci provocandone la morte.
Alichino disse: «Non c’è un metodo più semplice per
vendicarsi? Potremmo lasciare una buccia di banana
fuori dal ristorante e sperare che Boris ci metta un piede
sopra.»
«Non cogli il contrappasso di questa vendetta» rispose
Calcabrina. «Un goloso deve morire a causa della sua
golosità, altrimenti che gusto c’è nella vendetta? È l’ultima cosa che vi chiedo.»
Malacoda meditava tra sé e sé di portare dei compagni
meno sensibili la prossima volta, se mai gli fosse capitata ancora un’avventura del genere. Dovevano recuperare un’anima che aveva perso la strada per l’Inferno e,
invece, si ritrovavano a compiere vendette, che in fondo
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in fondo erano delle buone azioni, per conto di persone
che ora magari se ne stavano belle comode in Paradiso.
Il ristorante di Strelnikov, il “Saint Petersburg’s”, si trovava in una traversa sul Lungotevere. Ci volle una buona mezz’ora per raggiungerlo in taxi. Andrew ebbe tutto
il tempo per riflettere su come comportarsi e, mentre
pensava, giocava con la noce farcita, la lanciava e la riprendeva, la faceva rotolare sul dorso della mano e l’afferrava al volo. Nick, che l’accompagnava, osservava la
scena perplesso.
«Non preoccuparti, è tutto sotto controllo» disse Andrew ridendo.
Nick rispose: «Ne sono certo, ma Benoît ha raccomandato di trattarla con cura. A proposito, come pensi di
portarla all’interno del locale? Sicuramente gli uomini
di Strelnikov ti perquisiranno con molta attenzione all’ingresso del ristorante e la noce è bella grossa.»
«Non lo so ancora, ma come ti ho detto, è tutto sotto
controllo. Nel locale mi fermerò un quarto d’ora al massimo. Aspettami in taxi poco lontano dall’ingresso, ma
non farti notare dagli uomini della sorveglianza.»
Nick annuì. Era più tranquillo ora che la noce era stata
riposta nella tasca interna della giacca, ma Andrew stava pensando a un posto più sicuro dove nasconderla.
Anche la scheda di memoria avrebbe dovuto essere nascosta, altrimenti non gli avrebbero dato il denaro, se ne
fossero entrati subito in possesso. Nasconderla... sì, ma
dove?
Dopo aver percorso ancora un bel tratto, il taxi si fermò
davanti all’entrata del ristorante. Era la serata di chiusura, ma la luce che filtrava faceva capire che all’interno
c’era movimento. I due gorilla in attesa all’esterno aprirono la porta e invitarono Andrew a entrare. Uno dei
140
due lo seguì e si prese la giacca, mentre altre due guardie del corpo iniziarono l’opera di perquisizione: uno
con un metal-detector portatile, l’altro, più sbrigativo, a
mani nude. Intanto un gruppo di persone, seduto a un
tavolo appartato in fondo al locale, era in paziente attesa. Il ristorante era arredato in modo tradizionale ed era
accogliente, un tipico ristorante francese in piena Roma.
D’altra parte, di Boris tutto si poteva dire, ma non che
fosse privo di gusto, o che non avesse a libro paga dei
bravi arredatori.
Come risultato dell’operazione, addosso ad Andrew non
fu trovato nulla.
Intorno al tavolo appartato erano seduti tre uomini, Boris Strelnikov e altri due commensali, uno giovane e
biondo e l’altro anziano con i capelli bianchi. Completavano il quadro alcune guardie del corpo assortite in un
tavolo separato e due camerieri in livrea bianca.
Il russo tese la mano a Andrew e quella stretta terminò
in una lotta tra due morse. Fu evidente il fatto che il soprannome di “schiaccianoci” non gli era stato affibbiato
solo per la sua nota passione per le noci.
Boris, senza presentare i due ospiti, disse: «Mio caro
Andrej, spero che il mio humor di ieri notte non ti abbia
infastidito. Sai, a volte mi lascio trascinare e dico quello
che non penso. Ma ora ceniamo. Si ragiona meglio
dopo aver mangiato e bevuto qualche bicchiere di buon
vino.»
«Io preferirei concludere subito l’affare.»
«Come sei impaziente, non sai goderti la vita! Come
vuoi» e, detto questo, fece cenno a una delle guardie del
corpo di portargli la valigia. All’interno c’erano i 3 milioni di euro che, pur suddivisi in parte in tagli da 500
euro, occupavano un volume notevole. Andrew fece un
rapido conto: c’era tutto.
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«Sarai contento. Ora dov’è l’ultima schedina di memoria? Mi aspettavo che tu non la portassi addosso. Per
quanto piccola, non sarebbe sfuggita ai miei uomini durante la perquisizione accurata a cui ti hanno sottoposto.»
Andrew si alzò e disse: «Se non ti dispiace, vado un attimo in bagno e la recupero.»
I presenti, dopo un attimo di perplessità, si guardarono e
risero di gusto.
Al ritorno consegnò la schedina a uno dei gorilla che la
prese in consegna adottando le necessarie precauzioni.
«L’esperto ne controllerà il contenuto, ma sono certo di
non dovermi aspettare delle sorprese da te. Però siediti
un attimo, ti voglio presentare un amico.»
Nel frattempo i camerieri avevano portato la frutta. Misero anche un cestino di noci della California di fronte a
Boris, che nella concitazione del momento non ci fece
caso.
Andrew si sedette con la valigia al fianco e disse: «Una
noce l’assaggio volentieri. Chi è questo tuo amico?»,
quindi allungò una mano prendendo una noce dal cestino di fronte a Boris, mentre, non visto, ne lasciava cadere un’altra. Poi, frantumando la noce, aggiunse: «Se è
tuo amico, deve essere di certo una persona interessante
da conoscere.»
«Come no» disse Boris, «vedi questo giovane biondo
sorridente? È il killer che ha ucciso Benoît N’kane. Invece quest’altro signore canuto e così simpatico si chiama Andrew D’Angelo della famiglia Buonocore.»
I tre commensali si lasciarono andare a una grassa risata
e Malacoda capì che la sua impostura era stata scoperta.
Andrew lasciò i pezzi della noce frantumata sulla tovaglia bianca.
«Caro Andrej, se a questo punto ti chiedessi di restituirmi la valigia, cosa mi risponderesti?»
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Mentre formulava questa domanda il vero Andrew
D’Angelo allungò la mano verso il cestino di fronte al
russo per prendere una noce, la noce più grossa che si
trovava in cima, ma Boris gli bloccò la mano: «No, vecchio mio, dovresti saperlo. La noce più grossa è riservata a me» e così dicendo la prese con avidità.
Nel taxi, poco distante dal ristorante, Alichino era preoccupato. Malacoda ci stava mettendo troppo, ma improvvisamente un forte spostamento d’aria investì il
taxi. Un’esplosione aveva frantumato le vetrine del ristorante e lo scoppio buttò a terra i due gorilla appostati
all’entrata.
Subito, dalla porta scardinata, saltando gli infissi, uscì
un tale correndo. Si riparava la testa con una grossa valigia e indossava un elegante principe di Galles in fresco lana. In un attimo saltò sul taxi, mentre Alichino diceva: «Presto, andiamocene di qui!» e il tassista terrorizzato partì sgommando.
Quando furono lontani, Alichino chiese: «È andato tutto
bene?»
Malacoda, un po’ strinato, rispose: «Sì, ma Calcabrina
deve aver esagerato col detersivo.»
Giorno VII – Il Golem
Roma, 18 luglio 2013.
Questo pomeriggio nella sala conferenze dell’Hotel Midas in Roma, il Presidente ha avuto un malore. Lo svenimento è avvenuto mentre intratteneva la platea di un
convegno di venditori di prodotti di bellezza, di cui era
l’ospite d’onore. Il Presidente, prontamente soccorso, è
stato trasferito al policlinico per accertamenti. Dalle prime analisi sembra trattarsi solo di un colpo di calore,
ma per precauzione non verrà dimesso prima di un paio
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di giorni. Numerosi attestati di solidarietà sono stati inviati dai rappresentanti di tutte le parti politiche.
Questa è la notizia letta dagli speakers nei telegiornali della sera, ma grazie a fonti bene informate,
possiamo rivelare ai nostri lettori che cosa è accaduto veramente...
Il commissario Contini arrivò sul luogo dell’esplosione
in mattinata, mentre il medico legale e i tecnici della
scientifica stavano ancora esaminando la scena del crimine. Il “Saint Petersbug’s” era seriamente danneggiato. Lo si poteva dedurre anche solo osservandone l’esterno. Il commissario, dopo aver calpestato metri di vetri infranti, scavalcò l’infisso che un tempo era la porta
ed entrò all’interno. Alcune lampade portatili illuminavano la sala. In fondo si potevano notare due uomini
con la casacca della scientifica che prendevano delle
misure con un metro a nastro. Un medico invece stava
esaminando uno dei corpi.
«Marcello!»
Il dottor Mastroianni si voltò: «Ciao, Cinzia! Ormai ci
si incontra tutti i giorni.»
«Dobbiamo smettere di incontrarci così» rispose sorridendo, «o forse è solo ora che i nostri colleghi tornino
dalle ferie.»
Poi, facendosi seria, aggiunse: «Che cosa abbiamo?»
«Tre cadaveri intorno a un tavolo sconquassato. Anche
quel tavolo laggiù era occupato, ma gli avventori si
sono procurati solo bruciature e lievi escoriazioni, così
come altri due uomini che si trovavano sulla strada. Più
gravi due camerieri, che sono stati ricoverati con ustioni
piuttosto estese e una commozione, perché l’esplosione
li ha investiti e sbalzati a qualche metro di distanza.»
«Questi tre invece non sono stai così fortunati. Da cosa
è stato generato lo scoppio?»
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«Quest’uomo doveva avere la bomba in mano» disse
Mastroianni indicando un corpo ormai irriconoscibile.
«Stando a quanto ci hanno riferito i sopravvissuti, era il
proprietario del locale, Boris Strelnikov.»
«Ne avevo sentito parlare in questura. Non mi stupisco
che abbia fatto questa fine, ma sono incidenti da mettere
in conto per certa gente: inconvenienti del mestiere.»
«Quest’altro non si sa ancora chi sia, perché non portava documenti. Il terzo, invece, questo più anziano, è stato identificato proprio grazie ai documenti. Era cittadino
americano e si chiamava Andrew D’Angelo. L’esplosione l’ha investito, ma è sicuramente un danno collaterale, perché posso affermare con certezza che l’obiettivo era Boris ed è stato colpito in pieno... si tratta sicuramente di professionisti.»
«Vedo. Un lavoro fatto per bene. Ho un dubbio, però.
Da come erano disposti a tavola ci dovrebbe essere un
quarto cadavere, ma non ce n’è traccia» disse la Contini
dopo aver girato intorno al tavolo.
«Forse ha avuto la fortuna di andarsene in tempo. Tutti i
sopravvissuti sono stati molto reticenti. Sembra che non
abbiano ancora capito cosa sia opportuno riferire e cosa
no, ma farli parlare è il tuo mestiere.»
Uno dei tecnici intervenne: «Abbiamo recuperato le registrazioni da un bancomat e dai negozi vicini. Sono già
in centrale. Dovrebbero chiarire il quadro.»
«Ho ancora una domanda sull’ordigno» disse la Contini. «Avete idea di che tipo sia?»
Il tecnico scrollò le spalle e disse: «Piuttosto rudimentale a giudicare dall’esplosione. Se si tratta di professionisti, avevano a disposizione materiali poveri. Come reagenti potrebbero aver usato miscele di detersivi...»
«Detersivi?» domandò Mastroianni.
«Sì, determinate miscele con un adeguato innesco sono
dirompenti. Basta uno studente al primo anno di chimi145
ca per confezionarle e... una connessione a internet per
scaricare le istruzioni.»
Allora Mastroianni prese un attrezzo che aveva trovato
esaminando il corpo di Boris.
«A giudicare da come è danneggiato, io credo che abbia
avuto a che fare direttamente con l’esplosione.»
«Che cos’è?» chiese la Contini, che non riconosceva
l’oggetto da come era contorto, e Mastroianni rispose:
«Uno schiaccianoci.»
In quel momento entrò nella sala un uomo in borghese
vestito di grigio. I tecnici cercarono di fermarlo gridandogli: «Non può entrare, è la scena di un crimine!», ma
l’uomo esibì un tesserino della DIA e disse: «Commissario Contini? Devo mostrarle una cosa, vuole seguirmi? Venga anche lei dottor Mastroianni.»
Il funzionario della DIA li accompagnò nel palazzo di
fronte. Salirono fino al secondo piano ed entrarono in
un appartamento spoglio. C’erano solo alcune sedie
sparse, un tavolino con gli avanzi di una cena cinese per
due, una scrivania con un computer portatile e due telecamere alle finestre, con i vetri infranti, che davano sulla strada. C’era anche un altro uomo in borghese vicino
a una delle finestre, pure lui vestito di grigio e con un
binocolo in mano. Nel vederli entrare, li salutò.
«Buongiorno» disse il commissario, «vi siete sistemati
bene qui. Da quanto dura l’appostamento?»
«Tre mesi. Stavamo monitorando l’attività di Strelnikov. Ci sono postazioni come queste in prossimità di
tutti i suoi locali. Ancora un mese e avremmo avuto elementi sufficienti per far crollare tutta la sua organizzazione...»
«Ma qualcuno vi ha preceduti» disse il dottore, «però
l’importante è che il problema sia stato risolto, giusto?»
146
«No» rispose uno degli uomini in grigio, «Strelnikov
era solo una pedina, ma grazie a lui potevamo arrivare
ai pezzi più importanti. Forse tre mesi sono stati buttati
via e la colpa è vostra.»
«Nostra?» disse la Contini stupita.
«Non c’è bisogno che visioniate le registrazioni del
bancomat e dei negozi vicini. Abbiamo ripreso tutto
noi. Guardate!»
L’uomo si spostò al computer ed eseguì un video. Si vedeva l’arrivo, registrato la sera precedente, del falso Andrew D’Angelo in completo di fresco lana, alias Malacoda, di fronte al ristorante. Fece avanzare il filmato e si
vide l’esplosione, poi quasi immediatamente lo stesso
falso D’Angelo, con una grossa valigia sulla testa,
schizzare fuori dalla porta tra le schegge di vetro, mentre i gorilla di guardia cadevano a terra. Poi la corsa verso il taxi e la sua sgommata. La ripresa era stata disturbata dall’esplosione e una telecamera era caduta, ma
l’individuo in fuga era perfettamente riconoscibile.
La Contini disse: «Quell’uomo è il nostro primo sospetto attentatore. Ha avuto del sangue freddo ad aspettare
l’ultimo momento per fuggire. Ma perché ci accusa di
aver mandato a monte mesi d’appostamenti?»
«Abbiamo svolto delle ricerche sulle registrazioni video
di tutta la città. Noi della DIA possiamo fare questo e
altro, ma tenetelo per voi, e abbiamo scoperto alcune
corrispondenze.»
Armeggiò sul portatile e mostrò in sequenza alcuni filmati.
Nel primo si vedevano Malacoda, Calcabrina e Alichino
uscire da una boutique eleganti come damerini. L’uomo
in grigio disse: «Questo è l’uomo sfuggito all’esplosione» e indicò Malacoda.
Nel secondo i tre entravano nella boutique in t-shirt,
bermuda e zoccoli. L’uomo commentò: «I commessi
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che abbiamo interrogato questa mattina presto, hanno
detto che erano tipi strani. Hanno pagato in contanti.»
Nel terzo filmato si vedevano il commissario Contini e
il dottor Mastroianni entrare in un bar e, poco dopo, il
terzetto uscire in bermuda e zoccoli. Mastroianni stupito
disse: «Questo bar lo ricordo! Ci siamo stati l’altro giorno, ma i tre non li avevo notati.»
Infine, il quarto filmato proveniva dall’obitorio. Si vedevano tre persone nude di spalle attraversare il corridoio. A Mastroianni gelò il sangue nelle vene quando rivide Isabel che si voltava a fissarlo.
«Cosa c’entra quest’ultimo filmato?» chiese la Contini.
«Le analisi dicono che c’è una corrispondenza del 95%
tra la corporatura degli uomini dell’ultimo filmato, con
due degli uomini del secondo e, comunque, le foto segnaletiche dei cadaveri che avete diramato corrispondono. Sul terzo uomo stiamo ancora indagando. In poche
parole, se non vi foste lasciati sfuggire quei tre cadaveri» disse l’uomo in grigio, «ora Strelnikov sarebbe ancora vivo.»
Non faceva una grinza, il povero Boris era morto per
colpa loro.
Nel frattempo, il terzetto di malebranche si era organizzato per raggiungere l’Hotel Midas. Calcabrina era contento perché si era liberato della volontà di vendetta di
Benoît N’Kane che lo angustiava; Alichino era felice
perché aveva imparato tante nuove storie da raccontare
nelle noiose giornate infernali; Malacoda era soddisfatto
perché finalmente erano tutti concentrati sulla missione.
Il taxi li depositò all’entrata del Midas. I cartelloni annunciavano una convention dei rappresentanti di una
nota marca di prodotti di bellezza.
Malacoda entrò per informarsi. Aveva ancora con sé
l’ingombrante valigia con i 3 milioni di euro.
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«Prodotti di bellezza?» lesse stupito Alichino. «Cosa
c’entrano i prodotti di bellezza con un Presidente.»
«Boh, magari è uno dei testimonial» disse Calcabrina.
«Testimonial?»
«Sì» spiegò Calcabrina, «me l’ha raccontato un dannato
della bolgia dei mentitori. In pratica si tratta di persone
importanti o famose che dicono di usare un prodotto anche se non è vero e ne decantano le qualità anche se
quel prodotto non ne ha.»
«Che bugiardi!»
«A chi lo dici! La bolgia dei mentitori è piena di questi
testimonial. Dicono è una bugietta che non fa male a
nessuno, ma una bugia è una bugia poche ciance!»
Malacoda tornò e spiegò ai compagni che non aveva capito bene, ma sembrava che il Presidente molto prima di
entrare in politica, parecchio prima di comprare una
squadra di calcio, e anche prima di fare l’impresario
edile, aveva fatto per un certo tempo il musicista sulle
navi da crociera.
«Ma che c’entra?»
«Ah, scusate! Mi ero dimenticato che ha fatto anche il
rappresentante porta a porta di prodotti di bellezza, appunto.»
«Ora capisco» disse Alichino, «lo hanno invitato perché
è uno di loro che ha fatto carriera, uno dei pochi immagino.»
Non ebbero difficoltà a entrare nella sala convegni e si
accomodarono in una delle ultime file. Malacoda, con la
sua valigia, sembrava davvero un rappresentante con il
suo campionario. Intorno c’erano congressisti provenienti da ogni zona d’Italia, ognuno con il suo cappellino a punta e la lingua di Menelicche.
«Questi convegni sembrano divertenti» commentò Alichino che andò subito a procurarsi un cappellino e una
trombetta.
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Ma ecco entrare finalmente sul palco l’ospite d’onore.
Un grande applauso gli fu tributato da ogni angolo della
sala.
«Eccolo, è lui!» disse Malacoda, ma subito una strana
sensazione lo attanagliò. L’aspetto era quello del Presidente, ma aveva l’impressione di osservare una scatola
vuota, un corpo senz’anima. Com’era possibile?
Il Presidente prese posto dietro al leggìo e fece un cenno ai presenti che immediatamente si zittirono.
«Cari amici...» e subito un’ovazione salì dalla platea
che pian piano si quietò dopo ripetuti cenni di ringraziamento, «... e carissimi colleghi!»
A quelle parole il tripudio dei presenti toccò immediatamente vette irraggiungibili. Era già un trionfo e il discorso era stato solo di cinque parole.
Poi riprese a parlare sfoderando il suo solito sorriso, gigioneggiando a più riprese e gesticolando con sicurezza: «Vi ringrazio per avermi invitato. Io non dimentico
le mie origini. Non dimentico di essere stato uno di voi.
Poi, altre imprese hanno richiesto il mio intervento, ma
quello che ho imparato da gente come voi, mi ha forgiato per la vita.»
Gli fu tributata un’altra ovazione.
«Ora vi starete chiedendo che cosa voglio che voi facciate per me. Vi sbagliate, colleghi carissimi! Io sono
qui per dirvi che cosa IO farò per voi.»
Un altro trionfo coronò le sue parole. Mancava solo il
memento che gli ripetesse all’orecchio: «Ricordati che
sei solo un uomo», come ai generali romani di ritorno
da campagne militari vittoriose, e poi sarebbe sembrato
veramente un Cesare, un piccolo Cesare.
Durante il discorso, Malacoda lo scrutava con attenzione. Aveva sempre la sgradevole sensazione che si trattasse di una scatola vuota, ma non riusciva a darne una
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spiegazione. In effetti, talvolta lo sguardo sembrava assente, ma subito dopo riprendeva vita. La luce negli occhi si affievoliva, però l’istante successivo riacquistava
forza. Per il resto, nient’altro faceva dubitare che ci fosse qualcosa di strano.
«Che cosa posso fare per voi, dunque. Voi sapete che la
pubblicità è l’anima del commercio, lo sanno anche i
bambini delle medie che non siedono nei primi banchi.
Ecco, le mie sei televisioni, che presto diventeranno sette, avranno sempre spazi pubblicitari aperti per voi. Vi
domanderete: a prezzi di favore? E io vi risponderò: no,
purtroppo, altrimenti l’Unione Europea ci comminerebbe delle sanzioni per concorrenza sleale. Questa maledetta Europa è la causa di tutti i mali che ci affliggono.
Qualcosa va bene? È merito mio! Qualcosa va male?
Colpa dell’Europa!»
Dalla platea cominciarono ad alzarsi delle urla d’odio
nei confronti dell’Europa, ma il Presidente le calmò subito con magnanimità.
«In questi giorni si ricomincia a parlare di tetti pubblicitari. Alcuni si chiedono se le interruzioni degli spot
pubblicitari per colpa dei film siano poche.
A me vengono i brividi lungo la schiena quando penso a
proposte di controllo. Noi ci siamo battuti sul mercato.
Abbiamo trovato il nostro spazio, ma è soltanto la libera
scelta dei telespettatori ad assegnarcelo. Grazie a questi
risultati le aziende decidono liberamente di fare pubblicità sui nostri network. Quindi qualunque norma che
fissi dei limiti mi sembrerebbe incostituzionale, perché
andrebbe contro la libera scelta del pubblico e delle
aziende.
Ma io penso che non dovete preoccuparvi. Come vi ho
promesso, per voi gli spazi pubblicitari saranno sempre
assicurati.»
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Malacoda cominciò a notare un rivolo di sudore scendere sulla fronte del Presidente. Anche il colorito era passato dall’abbronzato al paonazzo e fu un crescendo durante quest’ultimo interminabile elogio di se stesso.
«Ma cosa garantisce che riuscirò a mantenere questa
promessa? Quello che io ho fatto in tutta la mia vita.
Solo Napoleone ha fatto di più… Su Napoleone ovviamente scherzo: io sono il Gesù Cristo della politica, una
vittima, paziente, sopporto tutto, mi sacrifico per tutti.
Hanno fatto una prova anche su di me, sulla mia funzionalità cerebrale e fisica e hanno deciso che sono un miracolo che cammina. Mi sta venendo un complesso di
superiorità tanto che dico: “Meno male che ci sono io”.
Non so un altro che cosa avrebbe fatto. Nessuno avrebbe potuto fare meglio di quello che ho fatto io. Quando
sono entrato in carica ho trovato un Paese che non contava niente sulla scena internazionale. L’Italia, che non
contava, ha ora uno smalto internazionale e un suo peso
specifico anche in situazioni determinanti. Non c’è nessuno sulla scena mondiale che può pretendere di confrontarsi con me, nessuno dei protagonisti della politica
che ha il mio passato, che ha la storia che ho io. Da un
punto di vista personale se c’è qualcuno che ha una posizione di vantaggio questo qualcuno sono io. Quando
mi siedo a fianco di questo o quel premier o capo di stato, c’è sempre qualcuno che vuole dimostrare di essere
il più bravo, e questo qualcuno non sono io. La mia bravura è fuori discussione. La mia sostanza umana, la mia
storia, gli altri se la sognano...»
L’elogio di se stesso raggiunse il parossismo. Non solo
Malacoda, ma anche altri presenti cominciavano a notare che il Presidente assomigliava sempre più a un disco
rotto e speravano che non cominciasse con la solita tiritera paranoica dei comunisti-magistrati-giornalisti che
ce l’avevano con lui, ma per fortuna non ce ne fu il tem152
po. Il Presidente, infatti, iniziò a farfugliare con lo
sguardo nel vuoto, poi strabuzzò gli occhi afferrandosi
al leggìo e rimase così, immobile. Sembrava andato in
tilt.
Subito gli uomini di scorta si avventarono su di lui e cominciò la bagarre dei fotografi. Anche in platea c’era
gran confusione. Qualcuno si sentì male per simpatia,
ma fu ignorato.
«Ma cosa gli è successo?» chiese Alichino mentre soffiava ancora una volta con la lingua di Menelicche.
«Te lo spiego dopo, ora non dobbiamo perderlo di
vista» ordinò Malacoda.
Mentre i malebranche raggiungevano l’uscita, la scorta
portò sulle spalle il Presidente irrigidito e, giunti all’esterno, lo caricò su un’ambulanza che partì immediatamente a sirene spiegate.
I tre, arrivati sulla strada, fermarono un provvidenziale
taxi e Malacoda, dopo aver scaraventato la valigia all’interno, intimò all’autista: «Segua quell’ambulanza!»
Lungo il tragitto, Alichino chiese ancora: «Si può sapere adesso che cosa è successo?»
«Già! Cos’è successo?» incalzò Calcabrina.
Malacoda spiegò: «Quello non era il Presidente! Quello
era un Golem!»
I due malebranche curiosi, al sentir parlare di Golem, si
zittirono subito terrorizzati.
Giorno VIII – Albert I
Roma, 19 luglio 2013.
Secondo gli amici più intimi, nel suo primo giorno di
convalescenza dopo il malore che lo ha colpito ieri, il
Presidente si è prontamente ristabilito. Ha appetito, è di
buon umore e ha immediatamente ripreso alcune delle
sue normali attività istituzionali. I medici curanti si di153
cono ottimisti e prevedono di dimetterlo dall’ospedale
dopo un’ultima serie di controlli.
Questa è la notizia pubblicata sui giornali, ma grazie alle nostre fonti, possiamo rivelare ai lettori che
cosa è accaduto veramente...
Il taxi dei tre malebranche raggiunse l’ambulanza mentre questa superava le sbarre del policlinico. Si introdussero nell’ospedale fingendosi normali visitatori e, quando Malacoda passò davanti alla portineria, fu scambiato
per un paziente in attesa di ricovero.
«Ehi, dico a lei» gridò il portiere, «lei con la valigia. In
che reparto deve essere ricoverato?»
«Ehm, non ricordo, ha un nome difficile» rispose Malacoda che, nel frattempo, si era girato verso Calcabrina
per un aiuto.
«Dobbiamo andare nel reparto dove ricoverano la gente
che sviene mentre tiene un discorso» suggerì Calcabrina.
Il portiere, sulla base di quell’informazione, azzardò
una diagnosi, diede ai tre un pass per il reparto di cardiologia e disse: «Secondo ascensore, quarto piano. Seguite la linea rossa.»
Seguirono per un tratto la linea rossa finché non furono
fuori vista.
Alichino, che fino a quel momento era quello dei tre
che si divertiva di più, si rivelò particolarmente preoccupato: «Non capisco perché stiamo inseguendo questo
Golem.»
Il Golem nella tradizione ebraica è un essere portato in
vita, se così si può chiamare, da rabbini con particolari
conoscenze magiche. Della semplice argilla inanimata,
modellata in sembianze umanoidi, si trasforma in un essere capace di obbedire agli ordini e diventa servo di chi
lo ha creato, che lo sfrutta per eseguire dei lavori di bas154
sa manovalanza. Si tratta solo di un corpo adatto al lavoro, ma privo di anima. Proprio per questo i malebranche si trovavano a disagio avendo a che fare con uno di
questi Golem. I demoni sono maestri nel manipolare le
coscienze, nel tormentare le anime e non hanno alcun
potere su un essere di quel genere.
Anche Calcabrina era perplesso e disse a sua volta:
«Dovevamo rintracciare un’anima dispersa e ora rincorriamo un corpo privo di anima? Quello che stiamo facendo non ha senso.»
Malacoda, il più coraggioso e intelligente del gruppo,
spiegò: «È probabile che il finto Presidente ci porti da
quello vero, ma ora ne abbiamo perso le tracce...»
Proprio in quel momento passò in fondo al corridoio il
seguito del Presidente con il Golem su una barella a
ruote e i tre si misero, con più o meno entusiasmo, al
suo inseguimento.
Dopo aver percorso vari corridoi e utilizzato l’ascensore, sempre fiutando la pista, il terzetto si ritrovò al piano
attico con sei fucili mitragliatori spianati contro.
Un plotone di teste di cuoio con anfibi, passamontagna
e pesanti giubbotti antiproiettili li stava attendendo all’uscita dell’ascensore. C’era anche un cecchino in fondo al corridoio che li teneva sotto tiro con un mirino laser e il suo fucile di precisione.
Alichino non trovò niente di meglio da dire e farfugliò:
«Veniamo in pace!» alzando le mani sopra la testa.
Il sergente delle teste di cuoio lesse il loro pass e disse:
«Signori, avete sbagliato strada.»
«Sì, sì! È vero! Cercavamo il reparto di cardiologia» affermò subito Alichino, «ma abbiamo perso la linea rossa. O dovevamo seguire la gialla? Beh, il fatto è che,
con lo spavento che ho preso, anch’io adesso ho bisogno di un cardiologo...»
155
Il sergente si toccò l’orecchio sinistro coperto dal passamontagna, mentre li teneva sotto tiro con la mitraglietta
nella destra. Sembrava ascoltare una comunicazione in
cuffia.
Alichino insistette: «Se ci potesse indicare gentilmente
la strada...», ma Calcabrina gli diede una discreta, benché dolorosa, gomitata e gli disse sottovoce: «Taci! Non
vorrei che gli partisse una sventagliata e mi rovinasse il
vestito.»
Dopo aver ascoltato in cuffia, il sergente si portò il polso alla bocca e disse: «Sissignore!»
Poi rivolto ai tre nell’ascensore ordinò: «Uscite! Il Presidente vi attende» e, mentre abbassava l’arma, ammorbidì il tono: «Prego, da questa parte. Non ci avevano avvertiti del vostro arrivo e la prudenza non è mai
troppa.»
«Non si preoccupi, cose che capitano» disse Alichino
con tono comprensivo, riprendendo fiducia.
Dopo aver seguito un dedalo di corridoi, vennero condotti in un’ampia sala dalle luci attenuate.
Malacoda disse sottovoce: «A quanto pare, il Presidente
ha trovato noi.»
All’interno della sala erano presenti tre persone. Si poteva riconoscere il Presidente che aveva tenuto il discorso all’Hotel Midas disteso su un letto e un altro Presidente in vestaglia in piedi vicino al letto. La terza persona non la conoscevano.
Il Presidente in vestaglia ringraziò il sergente e lo congedò, poi si rivolse al terzetto: «Vi stavo aspettando da
giorni. Quando vi ho visti ripresi dalle telecamere a circuito chiuso dell’ascensore, vi ho riconosciuti subito.
Siete la soluzione di un problema che mi assilla, ma prima devo sistemare una cosa. Innanzitutto, dovete scusare le mie cattive maniere, vi presento il professor Alber156
to De Giorgis dell’Università Roma Quattro, docente di
Cibernetica.»
Il terzo uomo fece un cenno di saluto con il capo e, senza fare troppo caso ai nuovi arrivati, disse: «Presidente,
non mi capacito. Dopo tutte le prove fatte, la prima
uscita in pubblico doveva essere un successo e
invece...»
I tre malebranche non capivano quello che stava accadendo, si stavano domandando perché i presidenti fossero due, uguali come gocce d’acqua, e non sapevano
per quale ragione fossero stati accolti con quel tono
amichevole, insomma, un bel po’ di misteri dovevano
essere svelati.
Il Presidente in vestaglia chiese: «Non può ipotizzare la
causa del malfunzionamento?»
«Può essere stato il caldo di questi giorni. Ha surriscaldato i circuiti e il cervello positronico si è fuso. L’odore
è quello» azzardò il professore.
Quindi il Presidente si rivolse a Malacoda: «Caro amico, devi sapere che ultimamente ho avuto qualche problema di salute e ho dovuto sottopormi a una operazione. Se i miei nemici sapessero in quali condizioni mi
trovo, avrei le ore contate. Ma grazie all’illustre professor De Giorgis avevo trovato un degno sostituto, che a
quanto pare non era così degno.»1
Malacoda disse ammirato: «In effetti, non si notava alcuna differenza. Solo un occhio allenato poteva notare
qualcosa di strano» e, mentre osservava con attenzione
l’uomo in vestaglia, Malacoda cominciava a notare di
nuovo qualcosa di sospetto.
Ma in quell’istante l’automa-sosia si riprese e, con uno
scatto, si alzò a sedere sul letto. Lo sguardo era assente
1
v. l’articolo a pag.59 per un resoconto delle vicende che hanno portato alla sostituzione del Presidente con un androide
157
e l’odore di circuiti bruciati si faceva sempre più intenso.
Il professor Alberto De Giorgis, dopo essersi allontanato di un passo, chiese con preoccupazione: «Androide
Albert I, che cosa è successo? Cosa sta succedendo?»
L’androide non rispose subito. Il programma diagnostico era in esecuzione e, quando fu completato, l’automa
rispose con la voce metallica d’emergenza: «A causa
delle elevate temperature d’esercizio il cervello positronico ha fuso il nocciolo.»
De Giorgis, che capiva solo in quel momento quanto
fosse grave la situazione, urlò: «Ma così esploderà entro
pochi minuti!» e prese a correre verso l’uscita.
«Entro quattro minuti e trentasette, per la precisione»
disse l’androide.
«Dove sta andando? Mi spiega che cosa sta succedendo?» chiese il Presidente.
Il professore si fermò di fronte all’uscita e disse sconsolato: «È inutile fuggire. L’esplosione nucleare raderà al
suolo tutta Roma. Non faremo in tempo ad allontanarci
abbastanza per sopravvivere. Il funzionamento del robot
richiede grandi quantità di energia e abbiamo utilizzato
una pila atomica miniaturizzata che ora è in avaria.»
Calcabrina si intromise, perché la faccenda dell’esplosione atomica lo preoccupava alquanto, più che altro
per il vestito nuovo, e chiese: «Ma non si può fermare
in qualche modo?»
«Solo l’androide può farlo! Disattivandosi, cioè morendo! Qualsiasi intervento dall’esterno non farebbe che
accelerare il processo di fusione» rispose De Giorgis ormai caduto in ginocchio.
Calcabrina commentò: «Ma guarda che situazione. Caronte dovrà fare gli straordinari: gli sta per arrivare
qualche milione d’anime tutto d’un botto.»
158
L’androide però disse: «Non voglio morire io e altri sei
milioni di persone... vorrei che morissero solo gli altri
sei milioni di persone.»
De Giorgis strabuzzava gli occhi, era ammutolito, mentre i tre malebranche erano perplessi sul da farsi.
Il Presidente in vestaglia, invece, mantenne il suo sangue freddo. Sembrava che non gli importasse dell’esplosione, come in fondo non importava ai tre malebranche, ma provò ad articolare un ragionamento: «Pensaci bene, Albert I. Se la bomba scoppierà, noi qui saremo tutti volatilizzati e nessuno saprà mai che sei esistito. Invece, se interromperai il processo, ti prometto, e
come ben sai le promesse le mantengo, che tutti i licei
d’Italia saranno intitolati al tuo nome e ti seguirà una
generazione di Albert II. Per te personalmente non cambierà nulla, sarai sempre morto, ma la seconda possibilità è più rosea, non credi?»
L’androide ci pensò qualche interminabile secondo e
poi disse: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Ho simulato tutti i possibili esiti del
torneo di scacchi tra Kramnik e Topalov del 2006... e
ho previsto le conseguenze storiche dell’ermeneutica di
Jürgen Habermas. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo... come lacrime... nella pioggia. È tempo di
morire» e sulla parola ‘morire’ reclinò il capo.
In quell’istante il silenzio divenne assoluto, come se il
ronzio di una piccola ventola di raffreddamento, forse
troppo piccola, fosse cessato improvvisamente.
Non si saprà mai perché quell’androide, quel Golem,
quella scatola vuota, salvò la vita a sei milioni di persone. Forse in quegli ultimi momenti amava la vita più di
quanto l’avesse mai amata... Non solo la sua vita: la vita
di chiunque, la vita di sei milioni di sconosciuti. Tutto
ciò che voleva erano le stesse risposte che tutti gli uo159
mini vogliono: da dove vengo? Dove vado? Quanto mi
resta ancora? Non si è potuto far altro che restare lì e
guardarlo morire.1
Il professor De Giorgis balzò in piedi, verificò lo stato
dell’androide e ricadde sulle ginocchia piangendo di
gioia.
Il Presidente disse: «Professore, la prossima volta, cerchi di rispettare con più attenzione le norme di sicurezza. Per queste negligenze non ci sono condoni edilizi
che tengano.»
Quindi si rivolse al terzetto: «Bene, cari amici. Dopo
aver risolto questa crisi, veniamo a noi. Come vi dicevo,
vi stavo aspettando. Seguitemi nei miei alloggi.»
Il passo del Presidente in vestaglia era molto incerto.
Spesso sembrava che i suoi movimenti fossero invertiti,
confondeva la destra con la sinistra e ci voleva qualche
istante perché imbroccasse la direzione giusta a un bivio.
Giunsero di fronte a una camera, ma prima di aprire la
porta, il Presidente si voltò e osservo i tre malebranche
negli occhi: «Sono passati tanti anni, cari amici, ma
davvero non mi riconoscete?»
Malacoda scrutò nel profondo di quegli occhi e infine lo
riconobbe: «Graffiacane!»
Calcabrina e Alichino si unirono in coro e stupiti ripeterono: «Graffiacane?»
Giorno IX – Graffiacane
Roma, 20 luglio 2013.
Oggi il Presidente si è affacciato alla finestra della sua
camera al piano attico del Policlinico. La folla oceanica
in attesa da ore ha inneggiato all’apparizione con un tifo
1
Dal film “Blade Runner” di Ridley Scott
160
da stadio. Questo saluto non ha soddisfatto le opposizioni che parlano di un Presidente ormai incapace di
svolgere le sue funzioni. Lo staff presidenziale ha dichiarato che una conferenza stampa verrà organizzata al
più presto per fugare tutti i dubbi residui.
Questa è la notizia pubblicata sui giornali, ma grazie alle nostre fonti, possiamo rivelare ai lettori che
cosa è accaduto veramente...
«Graffiacane, sei proprio tu?»
Malacoda non riusciva a capacitarsi, tanto meno Calcabrina o Alichino. Graffiacane era un malebranche come
loro, forse uno dei più accaniti e beffardi nei confronti
dei dannati. In effetti, da un po’ di tempo l’avevano perso di vista e non ricordavano di averlo incontrato nella
bolgia di recente.
«Cari amici e compagni d’avventure, sì! Sono proprio
io, Graffiacane. Ormai sono qui nel mondo dei vivi da
quasi cinquant’anni.»
«Cinquant’anni!?» ripeté sempre più stupito Alichino.
Tentò di controbattere: «Ma sembra ieri che...», però
non gli venne in mente nessun ricordo comune che non
fosse più vecchio di qualche secolo.
Malacoda disse: «A quanto pare il tempo è passato in
un lampo! Comunque devo dire che ti trovo bene e sono
contento di rivederti.»
Calcabrina troncò i convenevoli e venne al dunque tentando un riepilogo: «Cosa ci fai al posto del Presidente?
Non ci sto più capendo nulla. Ci mandano a recuperare
un’anima dispersa, ma scopriamo che il proprietario
non è ancora passato a peggior vita. Rintracciamo quello che crediamo il nostro obiettivo, ma scopriamo che è
solo un pezzo di latta che va in giro a tenere discorsi
come sosia del vero Presidente. Infine, finalmente pen161
siamo di aver trovato quello vero in carne e ossa, ma
dentro ci sei tu!»
«È una storia lunga» disse Graffiacane. «Non è il caso
di raccontarla qui in corridoio, meglio sedersi comodamente.»
Aprì la porta della stanza e il terzetto, ancora piuttosto
perplesso, si accomodò sulle poltrone di un piccolo salotto che faceva da anticamera alla vera stanza da letto.
Mentre Graffiacane serviva da bere, chiese com’era la
situazione della bolgia, perché dopo tanto tempo ne sentiva nostalgia.
Malacoda rispose: «Non ti sei perso nulla, è il solito
mortorio. L’unico vantaggio è che i clienti non ci mancano, ne arrivano sempre a frotte.»
Graffiacane, dopo averli serviti, si sedette a sua volta
con un Jack Daniel’s liscio nella destra. Fece per bere,
ma portò alla bocca la sinistra. I tre, vedendo la scena,
ne furono turbati.
«Scusate» disse il loro ospite, «sono i postumi di una
operazione che ho subito recentemente. Sono ancora
sottoposto a sedute di fisioterapia, ma andiamo con ordine.»
Graffiacane cominciò a raccontare e spiegò che a metà
degli anni ‘60 era stato inviato in missione per prendere
il posto di un personaggio importante che aveva agganci
con i politici più in vista, con il mondo degli affari e
con la criminalità organizzata. Aveva tradito, ricattato e
fatto eliminare talmente tanta gente, compresi amici e
parenti, che quel tale fu subito tradotto nel nono cerchio
dell’Inferno, benché avesse davanti a sé molti decenni
ancora da vivere, e lui prese il suo posto.
«Potevi almeno salutarci, quando sei partito» lo rimproverò Malacoda.
Graffiacane si giustificò dicendo che aveva pensato si
trattasse di un lavoro di poche settimane e, invece, dopo
162
cinquant’anni... comunque, riprendendo il filo del racconto, dopo alcuni anni, si rese conto di essere tagliato
per manovrare nell’ombra: i politici si rivolgevano a lui
per avere la sicurezza di essere eletti, gli affaristi per ottenere leggi che li favorissero, i mafiosi per ottenere
leggi che non li ostacolassero. Era un cerchio che si
chiudeva. Tutti dovevano qualcosa a tutti gli altri e lui
era l’intermediario. Non c’era periodo storico in cui si
trovasse in difficoltà: la fine del boom economico, l’austerity, gli anni del terrorismo, gli anni di fango di tangentopoli, fino all’attuale crisi economica globalizzata.
Non importava chi fosse al governo, o se fosse pro o
contro: lui tramava sempre nell’ombra, grazie ai ricatti,
alle offerte che non si potevano rifiutare, alle bombe,
otteneva sempre ciò che voleva. Con l’età era divenuto
una figura leggendaria, tanto che veniva soprannominato il ‘grande vecchio’ e nessuno ormai sapeva se esistesse veramente o se fosse solo una diceria.
«Il vero ‘grande vecchio’ sarebbe orgoglioso di me, se
non fosse nel Cocito a congelare» concluse Graffiacane.
Malacoda replicò stupito: «Vuoi dire che sei tu la causa
dei mali di cinquant’anni di storia italiana?»
«Se sostenessi questo, mi assumerei dei meriti che non
ho. Gli uomini spesso danno la colpa dei loro peccati al
diavolo tentatore, ma in realtà li hanno commessi loro
quei peccati, in piena consapevolezza. Io ho solo proposto, consigliato e suggerito, ma altri hanno apprezzato le
mie proposte, accettato i miei consigli e meditato sui
miei suggerimenti. Devo ammettere che quasi sempre i
risultati superavano le mie aspettative: il male che ne
derivava era centuplicato dal contributo degli uomini.»
Mancava però ancora un elemento e Malacoda lo fece
presente: «Un’ultima cosa non mi è chiara. Il Presidente
è troppo giovane e troppo in vista per essere il ‘grande
vecchio’, come tu lo hai descritto.»
163
«Infatti» confermò Graffiacane, «dopo cinquant’anni ho
finalmente la possibilità di agire in prima persona, non
più solo nell’ombra. Qualche tempo fa si è scoperto che
il vero Presidente era afflitto da un male incurabile che
aveva attaccato irrimediabilmente il cervello. Io ho subito ordinato di trapiantare il mio cervello, che era ospitato dal mio vecchio corpo ormai malandato, nel corpo
ancora giovane del Presidente.»1
«Incredibile» disse Alichino, «la medicina ha fatto passi
da gigante! Se penso agli inutili salassi di qualche secolo fa... però non capisco bene le implicazioni di un simile trapianto. C’è una tale commistione di organi... insomma, alla fine, chi è chi?»
«Ti posso assicurare che io sono io» disse Graffiacane.
«Sono io che penso, io che comando le azioni di questo
corpo. Ma purtroppo ci sono stati due inconvenienti.»
Calcabrina intervenne e disse: «Mi sembrava strano che
tutto potesse essere così facile. E poi non avresti potuto
trasferirti direttamente nel Presidente? Devo ammettere
che questa storia mi sta facendo venire l’emicrania.»
«No, non potevo, perché il mio ospite precedente non è
ancora morto. Il cervello che è qui dentro» disse indicandosi la testa, «è ancora quello originale e, per contratto, non posso abbandonarlo, se non interrompendo la
missione. Ma c’è ancora tanto bisogno di me qui, che
non posso lasciare tutto al suo destino e tornare all’ottavo cerchio.»
Malacoda riprese il filo del discorso: «Ci stavi dicendo
di due inconvenienti.»
«Ah, sì. I miei medici stanno cercando di risolvere il
primo. Sembra che il chirurgo che ha effettuato il trapianto abbia invertito alcuni collegamenti. Se penso di
1
v. l’articolo a pag.42 per un resoconto dell’operazione a cui
è stato sottoposto il Presidente
164
alzare la mano destra si alza la sinistra e viceversa. Finché non risolvo la situazione, non posso presentarmi in
pubblico, per questo ho fatto ricorso, con scarso successo, al sosia robotizzato. Ci vorrà tempo, ma la rieducazione alla fine risolverà la situazione, o almeno la migliorerà.»
«Bene» disse Malacoda, «sono contento per te. Deve
essere frustrante voler fare qualcosa mentre il tuo... corpo ne fa un’altra. Ma qual è il secondo inconveniente?»
Graffiacane guardò verso la stanza da letto e disse:
«Questo è il punto cruciale dove intervenite voi.»
Alzandosi dalla poltrona ordinò: «Seguitemi!»
Si diresse verso la camera da letto. La porta era socchiusa. Entrò con circospezione e gli altri malebranche
fecero altrettanto.
Nella stanza, illuminata dalla luce di una finestra, c’erano alcune suppellettili ordinarie e un letto singolo. Insomma, era una normale camera d’ospedale, magari un
po’ più lussuosa, ma non si notava nulla di insolito.
«Ascoltate!» disse Graffiacane.
I tre si misero in ascolto, ma sentivano solo il ticchettio
di una sveglia, lo stormire discreto delle foglie di un albero all’esterno, il cigolio di un carrello che passava in
corridoio. Poi, però, cominciarono a udire anche uno
strano suono, persistente, simile a un gemito, un indefinibile rantolo prolungato.
«Ma che è?» chiese Alichino.
«Mi capite adesso? Con le cure che faccio, io ho bisogno di riposare, ma è impossibile. Nel silenzio della
notte è ancora più fastidioso.»
«Non capisco cosa sia, ma è veramente... inquietante...
fa gelare il sangue nelle vene. Ti consiglio di cambiare
stanza» propose Calcabrina.
Graffiacane scosse la testa: «Ci ho provato, ma mi insegue, mi perseguita, non mi vuole lasciare in pace.»
165
«Insomma» disse Malacoda, «si può sapere cos’è!?»
«Guarda tu stesso! È sotto il letto!»
Malacoda era titubante. Guardò i due compagni, ma
quelli fecero come un passo indietro, più terrorizzati di
lui. Allora si fece coraggio, si chinò e diede un’occhiata
furtiva. Si tranquillizzò, perché a un primo sguardo non
c’era nulla. Probabilmente Graffiacane, dopo tanti anni
tra i vivi, cominciava a dare i numeri. Eppure quel suono, quel gemito era ancora nell’aria e sembrava provenire da... in quel momento si sentì toccare la spalla, si
voltò di scatto spaventato e vide il volto sfregiato di
Alichino.
«Accidenti a te!»
«Scusa non volevo spaventarti» si giustificò Alichino,
«volevo solo chiederti se hai visto qualcosa.»
«No! Lasciami il tempo di guardare bene» disse chinandosi di nuovo.
Riecco quel suono, sembrava proprio provenire da quell’angolo buio. “Se riuscissi ad avvicinarmi di più” pensava tra sé e sé Malacoda, “ma è così buio...”
Abituando gli occhi all’oscurità, cominciò a intravedere
qualcosa, una forma immobile contro la parete... no,
anzi, non era immobile, sembrava respirare... ah, se fosse riuscito ad avvicinarsi di più...
Poi, improvviso come il guizzo di una serpe, quella
cosa indefinibile cominciò ad avanzare verso di lui, e
mentre lui indietreggiava sempre più velocemente, incespicando, anche quella cosa avanzava correndo e se la
ritrovò addosso!
«Aaaargh! Per tutti i satanassi dell’inferno! Toglietemelo di dosso!»
Ma il suo appello cadde inascoltato perché Calcabrina
era saltato in piedi sul letto urlando: «Tizzone d’inferno!», mentre Alichino, dopo aver gridato: «Che io sia
166
dannato!», aveva guadagnato un angolo della stanza e
brandiva una sedia tremante, come se avesse dovuto domare un leone. L’unico preparato a ogni evenienza era
stato Graffiacane, che era prontamente fuggito nel salotto e guardava la scena da dietro la porta socchiusa.
Facendo appello a tutte le sue energie, Malacoda riuscì
a liberarsi di quella cosa che l’aveva artigliato e la scaraventò in un angolo, poi afferrò un portaflebo e cominciò a brandeggiarlo come se fosse stato un’alabarda.
La cosa, per il momento sconfitta, ansimava in un angolo della stanza. Era certamente un’ectoplasma, ma il suo
aspetto era raccapricciante, tanto che mancavano le parole per descriverlo.
«Per tutti i diavoli!», gridò ancora Malacoda. «Che cos’è quel mostro!»
Graffiacane, da dietro la porta socchiusa, disse: «È ciò
per cui siete stati inviati qui. È l’anima del Presidente!
Capisci perché non posso dormire la notte? Nel letto,
passo intere ore con gli occhi spalancati, mentre aspetto
che il gemito continuo si affievolisca, poi verso l’alba le
forze mi abbandonano e mi addormento. Ecco allora
che quella cosa mi assale e dice che rivuole il suo corpo, che è suo, che gli serve. Io mi sveglio di soprassalto,
mi difendo come posso e poi entrano le teste di cuoio
con i mitragliatori spianati. Allora lui si nasconde, loro
non lo vedono e credono che io abbia avuto un incubo.
Non gli ho spiegato nulla e li ho lasciati nel dubbio dell’incubo, altrimenti avrebbero creduto che fossi diventato completamente pazzo.»
Malacoda osservava la cosa nell’angolo, pronto a difendersi con il portaflebo. Guardandola meglio riconobbe
l’anima di un uomo, ma era talmente corrosa e abbrutita. Ne aveva viste di orribili in millenni di servizio, ma
quella proprio non sfigurava al confronto.
167
Quando guardi una persona a modo, posata, magari anche divertente, non puoi renderti conto di come sia veramente, ma se si potesse vedere l’anima! Oh, sì! Allora
sì che si capirebbe davvero com’è quella persona.
Se ti abbandoni ai piaceri della carne, forse anche crogiolandoti per tutta la vita nella lussuria, potrebbe non
rimanere una sola ruga sul tuo corpo. Se ti vanti di te
stesso umiliando gli altri, forse anche eccedendo nella
superbia più sfrenata, la patina dorata di cui ti ricopri
potrebbe resistere per anni. Se ti circondi di ricchezze
inutili, forse anche giustificandole con elemosine miserabili, le nefandezze con cui sono state rubate potrebbero restare nascoste per sempre. Il mondo potrà solo bramare la tua bellezza, tributarti ammirazione, invidiare la
tua ricchezza. Ma se si potesse vedere la tua anima!
Tutto l’opposto! Disgustosa, miserabile, pezzente. L’anima non può mentire, viene corrosa giorno dopo giorno dal peccato, la lebbra dei vizi ne intacca l’essenza e
il suo aspetto col tempo si decompone, diviene irriconoscibile, raccapricciante.
Alichino ruppe il silenzio: «Che facciamo?»
«Se tu avessi anche una frusta oltre alla sedia, potresti
provare a domarlo» gli rispose Calcabrina.
Malacoda, nel vedere quell’essere disperato, pensò a sé
stesso. Si ricordò che il suo aspetto non era poi così differente quando si trovava a svolgere le sue funzioni nella quinta bolgia. Se ti allontani dalla fonte dell’Amore,
finisci per odiare ciecamente; se ti allontani dalla Verità, non fai altro che nutrirti della menzogna. Per riportarti indietro ci vuole qualcuno che ti doni un po’ di
quell’Amore con il coraggio di dirti una parte di quella
Verità.
«Hai provato a parlargli?» chiese Malacoda a Graffiacane.
168
«A che servirebbe? Hai visto com’è ridotto.»
Malacoda disse: «E tu? Hai visto come sei ridotto? Vedi
come sono ridotto io? Un tempo abbiamo rincorso un
sogno, ma si è rivelato un incubo. Ora, prova a metterti
nei suoi panni... beh, in parte già ci sei... allora pensa
che cosa proveresti se ti fosse stato portato via tutto ciò
a cui tenevi di più. Ti sei affannato per anni a curare il
tuo corpo, ad adornare il tuo abito, ad aumentare il tuo
potere, a circondarti di persone che ti dicessero quanto
eri bello, splendido e potente. Poi un bel giorno ti rendi
conto che ti sei ingannato: hai inseguito il vento per tutta la vita, eri soltanto polvere, polvere e cibo per i vermi. A scoprirlo, come ti sentiresti?»
Alichino rispose: «Un po’ incazzato?»
Malacoda posò il portaflebo e cercò nei cassetti della
camera finché non trovò uno specchio. Poi si avvicinò
all’angolo dove la cosa stava ancora ansimando. Più si
avvicinava, più il gemito si trasformava in un ringhio
sempre più minaccioso. Malacoda si fermò quando vide
che la cosa era pronta ad assalirlo di nuovo e tese lo
specchio di fronte a sé. La cosa non ci fece caso subito,
era soltanto pronta ad azzannare alla gola, ma a un certo
punto si rese conto che la sua immagine era riflessa nello specchio e si riconobbe. Vide la corruzione, la lebbra
che la deturpava, si vide deforme, disgustoso, raccapricciante e, mentre acquisiva consapevolezza della propria
condizione, la crosta decomposta saltava via a grosse
scaglie. Quando Malacoda fu a un solo passo, un’anima
finalmente riconoscibile si guardò allo specchio e attraverso i suoi occhi vide una vita spesa nell’odio e nella
menzogna. Quegli stessi occhi furono alla fine capaci di
piangere.
169
Malacoda disse, come se parlasse a se stesso: «A volte
mi chiedo a cosa serve accumulare tutto l’oro del mondo se per farlo bisogna vendere la propria anima.»
«Ora la situazione sembra sotto controllo» constatò Calcabrina, che scese dal letto spolverando il suo completo
di seta.
Alichino posò la sedia che aveva in mano, ci si sedette
sopra con un sospiro e disse: «La prossima volta marco
visita. Cercatevi qualcun altro per queste missioni. Mi
sento invecchiato di duecento anni.»
«Per un momento» disse Graffiacane a Malacoda, «mi è
sembrato che tutto quel discorso lo facessi a noi.»
«Se fosse come dici, sarebbe stato fiato sprecato. Per
noi non c’è più nulla da fare. È un discorso che può capire solo un uomo, anche se ormai neppure per lui c’è
più nulla da fare.»
I quattro malebranche, portando con sé l’anima dispersa
ancora singhiozzante, si spostarono nel corridoio.
«Grazie a voi ora potrò dormire sonni tranquilli» disse
Graffiacane.
Malacoda commentò: «Sei fortunato perché non hai una
coscienza, altrimenti sai che incubi. Comunque riguardati e spero che quel tuo problema di coordinazione si
risolva presto. Ma ora dimmi, come facciamo ad andarcene di qui?»
«Prendete il mio ascensore privato. Noterete un pulsante con scritto ‘-666’. Porta dritto all’Inferno. L’ho preparato per quando, finalmente, me ne potrò andare.»
«Molto comodo!» disse Alichino. «Ricordati che noi
laggiù ti aspettiamo e non far passare altri cinquant’anni
per farci avere tue notizie!»
Calcabrina chiese dove potevano lasciare i loro corpi e
Graffiacane spiegò che, al quinto piano sotterraneo del
170
Policlinico, c’erano le caldaie. Gli inservienti avrebbero
pensato a far sparire tutte le tracce.
L’ascensore per l’Inferno scendeva velocemente, ma
Malacoda fece in modo che si bloccasse al piano terra. I
compagni stupiti gliene chiesero il motivo.
«Consegnate voi l’anima a Caronte» disse voltandosi
dopo essere uscito dall’ascensore. «Prima di lasciare il
mondo dei vivi, ho ancora una cosa da fare.»
I due malebranche, con l’anima dispersa sottobraccio, si
raccomandarono che non si perdesse per strada come
era capitato a Graffiacane.
«Non preoccupatevi, domani vi raggiungo» e così dicendo aspettò che l’ascensore ripartisse.
Quando le porte si richiusero, si vide riflesso sulla loro
superficie lucida. Vide un uomo sulla sessantina, brizzolato, vestito con un principe di Galles in fresco lana.
La missione di Malacoda era compiuta, ma quell’uomo
brizzolato gli aveva appiccicato la sua ultima volontà,
come era capitato agli altri malebranche.
Si guardò ancora una volta riflesso nelle porte, si aggiustò la cravatta, prese la grossa valigia che aveva posato
sul pavimento e uscì rapidamente dall’ospedale.
Giorno X – L’angelo custode
Roma, 21 luglio 2013.
Anche questo pomeriggio il corpo di un uomo è stato ripescato senza vita nel Tevere. È stato avvistato da un
gruppo di turisti giapponesi che si trovavano a passare
sul ponte di Castel Sant’Angelo. Una squadra del nucleo sommozzatori della Polizia di Stato è subito intervenuta. La vittima risulta essere un sessantenne, vestito
in modo elegante, di cui si ignora ancora l’identità perché privo di documenti.
171
Non passa settimana di questo luglio afoso senza che
disgrazie di questo tipo salgano alla ribalta della cronaca nera. Gli esperti dicono che il caldo eccessivo può
spingere individui già disturbati a comportamenti estremi. Non sappiamo ancora se anche in questo caso si
possa parlare di suicidio, perché le indagini sono ancora
in corso e gli inquirenti stanno vagliando tutte le ipotesi.
Questa è la notizia letta dallo speaker nel telegiornale regionale della notte, ma grazie alle nostre
fonti bene informate, possiamo rivelare ai lettori
ciò che è accaduto veramente...
Malacoda scese alla fermata dell’autobus di fronte a un
alto condominio. Si trattava di un palazzo fatto costruire
negli anni ‘30 per gli impiegati delle Poste. L’autobus
ripartì.
L’entrata del condominio era a pochi passi. Malacoda si
trovò di fronte al portone a vetri e rivide la propria immagine riflessa, sempre elegante, sempre con la valigia
in mano.
Di quell’uomo sapeva tutto. Si chiamava Giacomo
Lombardi, quasi laureato in farmacia, informatore
scientifico per un certo periodo della sua vita, rappresentante di articoli sanitari per un altro, sposato con
Chiara e padre di Francesca, poi disoccupato, ricoverato
per alcuni anni in un reparto psichiatrico e infine, nell’ultimo decennio, barbone costretto a vivere di espedienti e a dormire nelle stazioni, nei ricoveri, nei parchi
o sotto i ponti. Così vestito bene non si riconosceva,
così sbarbato e ripulito non sembrava lui. Chissà se sua
figlia l’avrebbe riconosciuto. No, certo che no.
Giacomo lesse i nomi sul citofono, ma non trovò quello
che cercava. Controllò il numero civico. Sì, è giusto, è il
48. Scorse nuovamente la lista dei nomi. Nulla. Non sapeva cosa fare.
172
A un certo punto, uscì un’anziana con un cagnolino, un
pechinese, vestito come se fosse suo figlio.
«Mi scusi, signora, sto cercando Francesca Lombardi.
Credevo che abitasse qui, ma non trovo l’interno.»
La donna, a cui non sembrava vero di poter scambiare
due parole con un signore così distinto, si rese subito
utile: «Sì, abita qui. Deve citofonare Trovaioli, perché
usa ancora il cognome dell’ex-marito anche se ormai è
divorziata da un anno. Dice che nessuno la cercherebbe
con il cognome da nubile, mentre le madri delle amichette della figlia citofonano Trovaioli. Io le ho fatto
presente che potrebbe aggiungere anche il suo...»
«La ringrazio per l’informazione» disse Giacomo tagliando corto e, individuato Trovaioli, provò a suonare.
L’anziana riprese: «Ma ora è inutile che provi. Non c’è
nessuno. La signora Francesca starà tornando dal lavoro
adesso, ma prima deve andare a prendere Chiara. Questione di venti minuti e sarà qui. Se mi dice il suo nome,
riferirò che...»
«Grazie ancora. Non si disturbi, aspetterò qui fuori.»
Salutò la donna, che se ne andò a malincuore, e si diresse lungo il marciapiede verso una panchina all’ombra di
due grandi platani. Su quella panchina era già seduto un
uomo di pelle scura, o forse solo molto abbronzato, che
portava occhiali da sole ed era vestito di nero. Giacomo
gli si sedette accanto e posò la valigia vicino a sé.
L’uomo in nero disse: «Oggi è una bella giornata, non
trovi?»
Giacomo pensò che proprio quel giorno tutti avessero
deciso di voler parlare con qualcuno e impicciarsi degli
affari degli altri. Rispose solo con un cenno del capo.
L’uomo ripeté: «Veramente! È proprio una bella giornata. Pensa, qualcuno può tornare a casa dal lavoro, felice perché tiene la propria bimba per mano e poi si presenta qualcuno... qualcuno che non si aspettava. Una
173
montagna di brutti ricordi le crolla addosso e la bella
giornata è rovinata.»
Malacoda a quelle parole si scosse e tenne a bada Giacomo per un po’, si voltò stupito verso l’uomo in nero e
gli chiese: «Chi sei?»
«Davvero non lo immagini?»
«Sì, è evidente. Sei l’angelo custode di... mia figlia? O
di mia nipote?»
«Non di Chiara, non sono così fortunato. Lo sai, gli angeli dei bambini contemplano continuamente il volto di
Dio, ma poi purtroppo i bimbi crescono. Io sono l’angelo di Francesca.»
Malacoda aveva trascorso quei dieci giorni tra i vivi e
non aveva ancora visto gli angeli che abitano tra gli uomini, anche se ne aveva sempre avvertito la presenza.
Vivono ben nascosti e intervengono solo quando serve,
questo significa che agiscono spesso, ma quasi sempre
la sordità delle persone ai loro richiami rende la loro
azione inutile. Eppure non si perdono d’animo, sono
sempre pronti a confortare nelle avversità, a essere d’aiuto nei momenti difficili.
L’angelo continuò: «Lo so perché sei qui. Pensi di fare
una buona azione, ma ragiona un attimo. Non farti trascinare da sentimenti che non sono tuoi. Voi demoni vi
lasciate travolgere da emozioni a cui non siete abituati e
finite per fare ancora più danni. Pensa a ciò che Isabel e
Benoît vi hanno...»
«Loro ce l’hanno fatto fare, ma voi non ci avete fermati.»
«Fermarvi, certo. Noi lo chiediamo continuamente al
Padrone della messe: vuoi che andiamo a raccogliere la
zizzania nel campo? La zizzania che ha sparso il Nemico? E Lui ci risponde: no, perché cogliendo la zizzania
rischiereste di estirpare anche il grano; lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e, giunta
174
la mietitura, legate la zizzania in fastelli per bruciarla, il
grano invece riponetelo nel mio granaio.»
«Questo risponde?»
«Sì, in ogni uomo c’è il male e c’è il bene, la zizzania e
il grano, ma Lui vuole che non si perda neppure una
spiga di grano. Lo so, questo discorso per te è duro.»
Malacoda confermò: «In questo momento ti invidio,
perché a suo tempo hai fatto la scelta giusta; ma tra poche ore so già che ti compatirò, perché ti riterrò una
schiavo.»
«Ognuno di noi ha potuto scegliere, ma questa possibilità non ci rende uguali. Io non ti invidio per la tua presunta libertà e neppure ti compatirò quando crederai di
averla, io invece continuerò ad amarti anche quando sarai tornato dove tu vorrai tornare. Tra di noi si è aperta
una voragine: voi l’avete scavata, noi non la possiamo
colmare.»
Malacoda questo non lo poteva capire, se avesse potuto
sarebbe stato da sempre al posto di quell’angelo. Ma le
pulsioni di Giacomo ripresero il sopravvento e chiese:
«Hai parlato di una bella giornata rovinata, perché?»
L’angelo disse: «Tu vuoi scaricarti la coscienza. Porti
una valigia piena di denaro e vuoi comprare l’affetto di
una figlia alla quale non hai mai saputo darne. Prima
l’hai ignorata e lasciata crescere a sua madre per coltivare la tua carriera, ma certo non era colpa tua se dovevi viaggiare; poi l’hai ignorata perché dovevi lavorare,
ma sicuramente non era colpa tua se dovevi mantenere
la famiglia; poi è arrivata la malattia di cui , questa volta sì, non avevi colpa. Hai perso i momenti più belli della sua vita: la laurea, il matrimonio, la nascita di Chiara;
ma soprattutto hai perso la possibilità di lasciarti amare
da chi di amore ne ha da dare tanto.»
Mentre l’angelo parlava, i sentimenti di Giacomo turbinavano in Malacoda che cominciò a capire perché aves175
se trovato quel corpo nel loculo di un obitorio. Sentiva
quanto potesse gravare una vita di fallimenti, una vita
che aveva finito per ritenere inutile.
«Non è mai inutile» disse l’angelo e aggiunse: «Guarda
laggiù!»
Giacomo vide Francesca che tornava a piedi lungo il
marciapiede. Teneva per mano Chiara. Erano bellissime. Ridevano. Erano felici ed era una bella giornata.
Le lacrime di Giacomo bruciavano negli occhi di Malacoda. Avrebbe voluto correre, abbracciarle e provare
anche lui quella loro gioia, ma l’angelo, ponendogli una
mano sulla spalla, lo trattenne. Francesca aprì il portone
che si richiuse dietro di loro.
L’angelo riprese: «Ora tu puoi fare ciò che vuoi, non
proverò più a fermarti, ma pensaci bene. Tu ricomparirai nella sua vita dopo tanti anni. Lei ti perdonerà, come
ha perdonato per anni quel suo stupido marito, ma poi
tu dovrai andartene di nuovo, così come alla fine se n’è
andato anche quel suo stupido marito. Non è stata fortunata con gli uomini.»
Malacoda sapeva quello che avrebbe dovuto fare, ma
per cinque minuti sarebbe stato ancora preda di Giacomo. Sentiva gli occhi dell’angelo su di sé, però prese la
valigia e, senza voltarsi, si diresse verso il condominio.
In quel momento uscì un tale e Giacomo si infilò nel
portone aperto, salì le scale di corsa, cercò affannosamente l’interno e alla fine lo trovò al terzo piano. Riprese fiato e suonò il campanello.
Dopo qualche istante si sentì chiedere da una vocina:
«Chi è?», ma non ci fu risposta.
«Mamma, non dice chi è.»
«Sarà qualcuno in vena di scherzi» disse Francesca
mentre attraverso lo spioncino vedeva un corridoio vuoto, così aprì la porta.
176
Non c’era davvero nessuno. Solo una valigia sullo zerbino che portava incisa la scritta ‘Per Chiara’.
Il gruppo di giapponesi continuava a vociare lungo i parapetti del ponte. I sommozzatori avevano faticato, ma
alla fine erano riusciti a trascinare quel corpo a riva. Sugli argini si formò il solito assembramento di curiosi,
mentre il medico legale constatava il decesso.
«Marcello, che cosa abbiamo?»
«Ciao Cinzia! Dobbiamo smettere...»
«di vederci così, lo so! Dopo ti invito a cena, offro io!»
disse sorridendo il commissario Contini.
Il dottor Mastroianni ridendo replicò: «Devi anche
smettere di offrire tu, la mia virilità ne soffre.»
Si intromise l’ispettore che, dopo essersi schiarito la
voce, disse: «Scusate, sono dispiaciuto di dover interrompere, ma qui sopra di sono decine di curiosi e un intero pullman di giapponesi. Se magari non diamo a vedere che un cadavere ormai non ci fa più né caldo né
freddo...»
I due assunsero un tono più adatto al momento e Cinzia
ripeté: «Allora, cosa abbiamo?»
«Dei tre fuggiaschi era il più vecchio. Vedi, ha ancora il
suo principe di Galles...»
«In fresco lana» aggiunse Cinzia.
Poi, dopo aver riflettuto sul da farsi, disse: «Ne mancano ancora due all’appello. Stanotte farò piantonare l’obitorio, non vorrei che i... redivivi fuggissero di nuovo
prima che l’indagine sia conclusa.»
Quella sera Cinzia invitò Marcello a casa sua per una
cena a lume di candela. Si sentiva sempre un po’ a disagio tra i fornelli, perché era abituata a mangiare spesso
fuori per lavoro, ma questa volta le sembrava tutto per177
fetto. Portò il vassoio in sala da pranzo dove Marcello,
in piedi, sorseggiava un aperitivo e guardava il TG.
«Aspetta, ti aiuto» disse posando l’aperitivo.
«C’è qualche notizia interessante?» chiese Cinzia.
«Le solite notizie estive. Dicono che fa caldo, come se
non lo sapessimo già.»
«Ci mancavano solo le candele!» aggiunse Cinzia ridendo.
«Parlavano anche del Presidente, della sua prima uscita
pubblica dopo il malore di qualche giorno fa. Pare che
sia successa una cosa strana: c’era non so quale commemorazione e una banda suonava l’inno, molti dei presenti hanno portato la mano al cuore e...»
«E cosa?» chiese Cinzia mentre si sedeva al tavolo.
«... e il Presidente ha portato la sinistra al petto» concluse Marcello. «Avrà voluto fare lo spiritoso come al solito. Ehi! Sembra tutto molto buono, complimenti alla
cuoca!»
«Ti ringrazio, ma per i complimenti è meglio che aspetti
la fine.»
Fine
Dal nostro redattore di cronaca nera
2013: Renzo Bossi si laurea in
Intelligenza Artificiale honoris causa
Milano, 22 luglio 2013.
Oggi si è laureato in Informatica con lode alla LUP di
Milano (la Libera Università Padana) il consigliere regionale Renzo Bossi, figlio di Umberto, l’attuale ministro per le Riforme e il Federalismo. Si tratta della sua
seconda laurea, dopo quella in Economia conseguita all’estero perché, come lui stesso aveva dichiarato, “non
178
voglio trovarmi i giornalisti in aula quando faccio gli
esami”. È evidente che si tratta di un ulteriore caso, purtroppo, di quella piaga, tutta italiana, dei cervelli in fuga
all’estero.
Il neodottore ha discusso una tesi di Intelligenza Artificiale ed è stato il primo ad essere ascoltato dalla commissione. Durante la proclamazione è giunto alla LUP
anche il ministro Bossi che, secondo quanto riferito dall’Università, si è semplicemente seduto ad ascoltare la
cerimonia. Al termine, dopo il bacio accademico e il
conferimento di una accessoria laurea honoris causa,
c’è stato il tradizionale lancio in aria del tocco, il cappello dei laureati.
Oltre al padre Umberto, che si è dichiarato orgoglioso
del suo trota, erano presenti anche altre personalità politiche, tra cui i ministri Maroni e Calderoli. Quest’ultimo era decisamente commosso e ha pianto per tutto il
tempo.
Durante la proclamazione il rettore *** ha proposto a
Renzo Bossi un posto come docente presso l’Università,
ma la richiesta ha suscitato un coro di polemiche. È stato subito evidente che tale proposta non faceva che sminuire le capacità del neodottore e gli strascichi di questo
incidente hanno portato alla rimozione dello stesso rettore dal suo incarico, che ricopriva da quando la LUP è
stata fondata, con la pena accessoria della cancellazione
del nome da tutti i documenti ufficiali e dalle lapidi
marmoree commemorative. Il rettore rimosso è stato
prontamente sostituito dallo stesso Renzo Bossi.
Numerosi sono i figli di politici che negli ultimi anni
hanno conseguito la laurea a pieni voti. Ricordiamo pochi anni fa la laurea in filosofia di Barbara Berlusconi,
figlia del Presidente Silvio Berlusconi, che ormai da tre
anni è docente alla facoltà di Economia dell’Università
179
San Raffaele di Milano. Inoltre, rimanendo in tema, nei
prossimi giorni si laureerà all’Accademia di Arte Drammatica anche Noemi Letizia, la giovane napoletana che
chiama “papi” il Presidente. Quest’ultima aveva dichiarato tempo fa: “Ho paura che la commissione d’esame
abbia dei pregiudizi quando saprà che io sono quella
Noemi di cui si parla per l’amicizia con Silvio. Chiedo
solo di essere trattata come tutti gli altri”. Questa dichiarazione aveva nuovamente fatto pensare a un reale
legame di parentela, suggerito anche dall’uso del nomignolo “papi”, vista la repulsione, che accomuna entrambi, a lasciarsi esaminare con serenità da organi preposti
a giudicare. Si è pensato infatti a una tara familiare, ma
l’ipotesi è stata smentita categoricamente dalle parti interessate.
Ma veniamo all’argomento della tesi discussa dal consigliere Bossi. Abbiamo chiesto al professor Alberto De
Giorgis dell’Università Roma Quattro, che era il relatore della tesi, di descriverci in parole povere in cosa è
consistito il contributo del neodottore.
Ci ha spiegato: “Come è noto, la Cibernetica e l’Intelligenza Artificiale, branche della Scienza dell’Informazione, hanno lo scopo di simulare comportamenti razionali in quei sistemi dove l’intelligenza è poca o nulla.
Noi relatori spesso proponiamo agli studenti ricerche di
frontiera utilizzandoli come cavie. Solo in questo modo
il progresso può avanzare.
Grazie al fondamentale contributo del nostro neolaureato, abbiamo sperimentato protesi cibernetiche, congegni
elettronici di sussidio alla mente umana, capaci di potenziare il quoziente intellettivo dei soggetti a cui vengono impiantati. I risultati delle ricerche sono stati eclatanti. Pensate: un individuo che, per varie ragioni, aveva
dovuto riprovare gli Esami di Stato per ben tre volte pri180
ma di superarli, quando invece il 97,95% dei candidati
ha successo, grazie agli impianti è riuscito a conseguire
ben due lauree. Questa è la più evidente dimostrazione
dell’efficacia della nostra linea di ricerca, di cui le lascio immaginare le notevoli ricadute.”
I miracoli della scienza e della tecnica non smettono
mai di stupirci. Ciò che un tempo sembrava impossibile
diventa spesso realtà. Speriamo che le nuove iniezioni
di intelligenza giovino agli italiani, popolo di poeti, di
santi, di navigatori e di intelligenti artificiali.
Dal nostro inviato a Milano
2060: Stefano Caldoro
santo subito
Roma, 23 luglio 2060.
A pochi mesi dai cento anni dalla nascita, è stato dato il
via al “procedimento per lo svolgimento dell’inchiesta
diocesana finalizzata alla raccolta delle prove per raggiungere la certezza morale sulle virtù eroiche”, in poche parole la procedura di beatificazione, del presidente
Stefano Caldoro, del quale, già da molto tempo, si chiede a furor di popolo la canonizzazione.
Come è noto, la causa di beatificazione riguarda un fedele cattolico che in vita, in morte e dopo morte abbia
goduto fama di santità, cioè l’opinione diffusa tra i fedeli circa la purezza e l’integrità della sua condotta, vivendo in maniera eroica tutte le virtù cristiane.
Il postulatore della causa, padre Anselmo Cercignani,
ha presentato il libello di domanda (supplex libellus)
che contiene, oltre alla biografia e agli scritti editi o
pubblicati, anche l’elenco, trattandosi di causa recente,
dei testimoni che possono contribuire ad accertare la ve181
rità sulle virtù, non trascurando coloro che potrebbero
impugnare tale fama.
Questo libello, oltre al materiale raccolto aggiuntivo,
cioè i pareri dei Censori teologi sugli scritti, è stato consegnato al Promotore di Giustizia, monsignor Nicola
Venturiello, che redigerà gli interrogatori per l’escussione dei testi. Sono state consegnate anche le dichiarazioni “ad futuram rei memoriam” rilasciate, ai tempi in
cui causa non era in corso, da persone in età avanzata
affinché le loro testimonianze non andassero perdute.
Ma ricordiamo come si è diffusa tra la gente comune la
fama di santità del presidente Caldoro. I fatti risalgono
al 2010, cinquant’anni fa esatti, quando Stefano Caldoro era candidato presidente della Regione Campania. A
quei tempi, pare che la sua candidatura fosse appoggiata
dal presidente della Camera dell’epoca, Gianfranco
Fini, ma osteggiata da altri esponenti dell’allora Popolo
delle Libertà, che avrebbero preferito un altro candidato.
Sembra che, al fine di screditare il Caldoro e quindi
spianare la strada alle alternative, un’associazione segreta del tempo, denominata P3 e composta da politici e
faccendieri guidati da un tal Flavio Carboni, in quel periodo piuttosto noto, si attivasse per trovare elementi
che potessero metterlo in cattiva luce presso i sostenitori e l’elettorato.
La pratica del ricatto era normale a quel tempo. In realtà, l’opinione pubblica era piuttosto flessibile: era solita
indignarsi solo quando veniva opportunamente aizzata
dai mezzi d’informazione, infatti alcuni personaggi assolutamente ignobili potevano permettersi azioni di
qualunque tipo e tale condotta veniva annoverata tra i
loro meriti, mentre altri, per molto meno, venivano
messi alla pubblica gogna e totalmente screditati.
182
Per fortuna, pare che l’impegno dell’associazione P3 sia
stato ripetutamente frustrato: non si trovò nulla, ma proprio nulla, nella vita integerrima e irreprensibile di Stefano Caldoro, tanto che l’estrema ratio fu quella di inventare di sana pianta un dossier farcito di false prove
in cui si denunciavano sue sordide, quanto false, frequentazioni con transessuali. Probabilmente l’idea era
stata presa pari pari da uno scandalo che aveva colpito
un presidente di regione proprio in quel periodo, o forse
si pensò ai transessuali solo perché quello era il vizio
più diffuso tra i politici dell’epoca.
Alla fine Caldoro la spuntò come candidato e il “dossier
froci” non fu utilizzato. Se ne venne a conoscenza solo
successivamente a causa di un altro scandalo in cui venne coinvolta l’associazione P3. Da questo nacque la
fama di santità di Stefano Caldoro tra i ceti popolari,
fama che lui stesso, dimostrando una grande umiltà, sosteneva essere infondata: “Eviterei la santificazione.
Sono un peccatore come tanti, ma non per i peccati che
mi attribuiscono”.
Ora finalmente, a cinquant’anni dai fatti, il processo di
beatificazione ha avuto inizio e presto i devoti italiani
potranno ottenere ciò che chiedono a gran voce da tempo: “Caldoro santo subito”.
Dal nostro vaticanista
183
2015: Marchionne liquida la FIAT e
fonda la SFAB
Srpska Fabrika Automobila Beograd
Belgrado, 24 luglio 2015.
Gli anni ‘90 del secolo scorso sono ormai lontani, così
come il miraggio accarezzato da Slobodan Miloševic di
una “Grande Serbia” destinata a dominare i Balcani.
Perciò, archiviata una delle pagine più nere in cui la pacifica Europa si è vista colpire al cuore con la guerra e
l’odio razziale, la Serbia è rinata e si è dimostrata uno
dei paesi più attivi e con maggiori potenzialità di sviluppo del vecchio continente. Un paese che ha saputo
approfittare della crisi economica in cui si sono dibattute le nazioni più industrializzate e che si è proposto
come serbatoio di operai a basso costo e senza pretese.
Grazie a queste caratteristiche gli investimenti delle
grandi imprese sono stati dirottati verso Belgrado, sottraendoli ai paesi d’origine.
Questo è anche il caso della FIAT Group Automobiles
S.p.A. che, nata in Italia a Torino nel 1899, dopo aver
attraversato con varie vicissitudini il novecento, si è ritrovata nei primi anni di questo secolo ad accorpare alcune industrie automobilistiche in difficoltà finanziarie,
come l’americana Chrysler, e ad espandere la sua influenza sui mercati mondiali.
Di pari passo con il risanamento e la crescita del gruppo, la società ha progressivamente ridotto la propria
produzione in Italia, approfittando però il più possibile
degli incentivi statali concessi per sostenere l’occupazione.
Lo sganciamento del gruppo dall’Italia ha coinciso anche con il declino del movimento sindacale, iniziato già
nei primi anni ‘80 a partire dalla marcia dei quarantami184
la. I diritti che i lavoratori si erano conquistati con decenni di sacrifici, scioperi e lutti sono stati sempre più
erosi. Il diritto a non essere licenziati senza giusta causa, o in caso di malattia, e il diritto di sciopero erano
malvisti dai dirigenti. È chiaro che se non puoi licenziare chi vuoi, in particolare gli ammalati, per far posto a
forze fresche, o se si perdono giornate di lavoro a causa
degli scioperi di protesta, i profitti calano, perciò si tratta di diritti che sono in modo evidente contro la logica
del profitto propugnata dal Capitalismo.
A parte alcune frange considerate estremiste, molti lavoratori, pur di difendere il loro posto, hanno accettato
di annacquare l’efficacia di questi diritti, previsti in
modo inalienabile nella carta costituzionale, che altri lavoratori in condizioni decisamente peggiori delle loro
avevano conquistato a caro prezzo, anche pagando con
la vita.
Neppure questo però è bastato. Quando le mammelle
statali non sono state più in grado di sostenere il ricatto
del “pagami o me ne vado”, l’azienda ha trasferito progressivamente le proprie attività verso mercati più promettenti. La Serbia è uno di questi: un serbatoio di operai senza pretese, che gode di investimenti a pioggia dei
gruppi finanziari che fiutano un mercato vergine da far
crescere, per poi roderlo fino all’osso.
C’era un solo particolare che fino ad ora teneva ancora
legata la FIAT all’Italia: il fatto che nel nome “Fabbrica
Italiana Automobili Torino” ci fosse la ‘I’ di Italia e la
‘T’ di Torino.
Dopo una lotta durata alcuni anni, il sindaco di Torino
ha vinto la causa che lo vedeva contrapposto all’ex-azienda del Lingotto. Il TAR piemontese ha sancito che
la FIAT non potesse più fregiarsi della ‘T’ di Torino,
visto che la sede era stata trasferita, e il TAR del Lazio
185
ha dedotto la stessa conclusione per quanto riguarda la
‘I’ di Italia.
L’amministratore delegato del gruppo FIAT, Sergio
Marchionne, noto anche alla gente comune per i suoi dimessi maglioncini scuri che indossa in ogni occasione,
è subito corso ai ripari e ha fondato in Serbia la SFAB,
ovvero la “Srpska Fabrika Automobila Beograd”, che
tradotto significa “Fabbrica Serba Automobili Belgrado”.
I lavoratori serbi hanno dovuto svolgere un elevato numero di ore di straordinario senza stipendio per produrre i nuovi loghi da sostituire a quelli vecchi, mentre i
delegati sindacali passavano nelle catene di montaggio
lodando l’amministrazione e dando la colpa di tutto
quel lavoro aggiuntivo alla FIOM-CGIL.
Rimane un solo dubbio. Una regola ferrea del Capitalismo giapponese dice che bisogna lasciare abbastanza
tempo libero agli operai perché consumino ciò che producono. La logica è semplice: i lavoratori producono,
guadagnano, comprano ciò che hanno prodotto, consumano, tornano a produrre e così via ciclicamente; il plusvalore della mano d’opera arricchisce l’azienda.
Il dubbio è che gli operai serbi non guadagnino abbastanza denaro per permettersi di acquistare la monovolume da loro prodotta: chi comprerà quindi quelle auto?
Dal nostro inviato nei Balcani
2018: Claudio Scajola:
“Mi dimetto per coerenza”
Roma, 27 luglio 2018.
Dopo 21 giorni di gogna mediatica, Claudio Scajola, il
ministro alla Logistica delle Politiche Federali, ha rassegnato le dimissioni e lo ha fatto con il suo consueto sen186
so di responsabilità: “Mi dimetto nonostante la mia
completa estraneità ai fatti contestati per potermi difendere senza impedimenti nelle sedi opportune, per tenere
fede alla mia coerenza e per non ostacolare l’azione di
governo”.
Il presidente del Consiglio, che le aveva ripetutamente
sconsigliate, ha accettato le dimissioni con gratitudine
per il lavoro svolto: “Abbiamo manifestato in più occasioni la nostra fiducia nell’operato del ministro, ma per
la stima, l’amicizia che ci lega e le solide motivazioni
addotte non possiamo respingere queste dimissioni. Le
accettiamo con i ringraziamenti per il fattivo contributo
apportato all’esecutivo.”
L’Affaire Pallavicini ha quindi immolato una nuova vittima sacrificale sull’altare del giustizialismo. Questo
scandalo, che da mesi scuote le fondamenta dei palazzi
romani, sembra non riuscire a placare la sua sete di capri espiatori, ma nei prossimi anni si passerà finalmente
dallo stillicidio di rivelazioni alla verità giudiziaria.
Sempre troppo tardi, purtroppo.
Le dimissioni del ministro giungono a sorpresa, ma l’effetto è quello di assistere a un deja-vù. In effetti, altre
due volte si era già verificata una situazione simile nella
storia della politica italiana. È un evento che sembra ripetersi ogni otto anni. Ma ripercorriamo brevemente la
cronaca dei precedenti.
Solo un cenno alla vicenda di sedici anni fa. Nel 2002,
il professore universitario Marco Biagi, consulente del
governo, fu assassinato dalle Brigate Rosse. Fu rinfacciato al ministro, allora agli Interni, di aver revocato la
scorta a Marco Biagi nonostante questi avesse manifestato preoccupazione per la propria vita. Scajola replicò
con una serie di considerazioni, ma due in particolare
furono messe sotto accusa.
187
La prima: “Biagi era senza protezione, ma se lì ci fosse
stata la scorta i morti sarebbero stati tre”.
Come dargli torto! Nella strage mafiosa in via D’Amelio del 1992, quella che uccise Paolo Borsellino, morirono con il magistrato anche sette agenti di scorta. Lo
stesso è accaduto in tante altre stragi di mafia o agguati
terroristici. Non è saggio, sulla base di queste drammatiche esperienze, revocare la scorta a chi è un obiettivo
conclamato di possibili attentati?
Ma la risposta che provocò all’epoca le dimissioni del
ministro riguardava l’importanza del consulente: “Figura centrale Biagi? Fatevi dire da Maroni se era una figura centrale: era un rompicoglioni che voleva il rinnovo
del contratto di consulenza”.
La frase suscitò un moto d’indignazione. In effetti, alcuni osservatori notavano una certa incongruenza tra la
scorta negata a Marco Biagi e le auto della polizia che
presidiavano a Imperia, città natale del ministro, alcune
abitazioni di opinabile rilevanza strategica.
Ma queste sono vicende ormai datate. Su di esse si è già
discusso molto e il giudizio morale che le accompagna
è lampante.
Più vicini a noi, invece, sono i fatti del 2010. In una sorta di regolamento di conti interno all’allora Pdl, si sono
susseguite una serie si rivelazioni-scandalo con cui
un’ala del partito ha cercato di liberarsi dell’altra parte
ritenuta corrotta, eversiva e mafiosa. Quanto questa
analisi fosse corretta è ormai un problema che devono
dibattere gli storici, ma fatto sta che il tentativo fallì e il
gruppo che si definiva dei “3-Anti” (anticorruzione, antieversivo e antimafioso), definito anche la “serpe nel
seno del Pdl”, nel giro di pochi mesi finì per essere epurato, sostituito negli equilibri parlamentari da altre forze
politiche in precedenza all’opposizione.
188
Proprio in quel periodo la Guardia di Finanza trovò
traccia di assegni circolari per circa 900 mila euro, tratti
da un conto corrente bancario intestato ad un professionista vicino al gruppo Anemone, che era coinvolto in
un’inchiesta di appalti pubblici ottenuti dalla Protezione
Civile con fraudolenza. Tali assegni sembra siano stati
utilizzati (il condizionale è d’obbligo perché il procedimento giudiziario, a otto anni di distanza, è ancora in
corso) per l’acquisto di un appartamento a Roma davanti al Colosseo a favore del ministro Scajola.
L’interessato ha smentito le circostanze, ribadendo in
più occasioni di aver pagato l’immobile di tasca propria
con i 600 mila euro attestati nell’atto notarile. Che il
fatto fosse avvenuto a sua insaputa, il ministro lo ha
giurato ripetutamente e per dimostrare la sua buona
fede, dopo essersi dimesso, ha dichiarato: “Se dovessi
acclarare che la mia abitazione fosse stata pagata da altri senza saperne io il motivo, il tornaconto e l’interesse,
i miei legali eserciterebbero le azioni necessarie per
l’annullamento del contratto”.
Da quel giorno molti politici si sono accorti di essere
proprietari di appartamenti, ville, vetture di lusso, imbarcazioni da diporto e titoli azionari, tutti acquistati a
loro insaputa da terzi. Si è verificata anche l’apertura di
conti bancari esteri in paradisi fiscali, sempre all’insaputa dei titolari, da parte di questi subdoli soggetti.
Negli anni successivi, il fenomeno si era talmente
espanso che il Parlamento fu costretto a varare un disegno di legge contro chi acquista beni all’insaputa dei
beneficiari, ma la legge è ancora al vaglio delle camere
e l’approvazione è lontana.
Il provvedimento sarà esteso anche a coloro i quali paghino le escort all’insaputa di chi gode delle loro prestazioni. Pare, infatti, che molti politici credano che
donne bellissime e sensuali, oppure procaci transessuali
189
a seconda dei gusti, siano attratte dalla loro prestanza fisica e non, come invece si scopre successivamente, abbiano ottemperato con disgusto perché pagate profumatamente per i loro servizi professionali da terzi soggetti
all’insaputa del cliente.
Grazie alle dimissioni e alle sue nobili dichiarazioni, il
ministro è quindi uscito a testa alta dalla vicenda di otto
anni fa, conservando il sostegno di tutto il suo elettorato. Lo dimostrano gli innumerevoli attestati di stima
millantati sul sito internet personale. Quanto fosse altruista l’atteggiamento di Scajola lo ha confermato anche la moglie che all’epoca dichiarò: “Se [mio marito]
non parla ancora, è per non creare problemi a persone
molto più coinvolte di lui in questa vicenda”. Naturalmente il ministro, con la sua consueta umiltà, ha smentito l’incauta dichiarazione della consorte.
Nulla comunque ha potuto incrinare il legame tra il ministro e l’incrollabile fiducia dell’elettorato di Imperia,
suo collegio elettorale. Nota è l’efficace preghiera che
alcuni postulanti sono soliti recitare, parafrasando san
Bernardo di Chiaravalle, prima di essere ricevuti: “Non
si è mai udito al mondo che qualcuno abbia ricorso al
tuo patrocinio, implorato il tuo aiuto, chiesto la tua protezione e sia stato abbandonato. Animato da tale confidenza, a te ricorro...”
Questo riferimento alla religione non è peregrino o fuori
luogo. È noto quanto Scajola sia un cristiano devoto.
Tutti gli imperiesi, infatti, sono a conoscenza di come il
ministro sia legato a sua moglie e alla sua famiglia. Mai
è giunta una notizia di uno screzio tra i coniugi o di avventure extra-coniugali che invece sono la regola per altri politici di moralità più elastica.
Non si è mai posto il problema, ma è nota la posizione
del ministro nei confronti della legge sul divorzio. È
190
una legge dello stato a cui, ovviamente, non dovrà mai
fare ricorso proprio grazie alla serenità che regna in famiglia. Analoghe considerazioni valgono per la legge
sull’aborto. Tutti gli imperiesi conoscono anche su questo punto l’opinione del ministro: mai e poi mai potrebbe arrivare a suggerire l’aborto a chicchessia.
Ma quali saranno gli effetti immediati delle dimissioni?
Sicuramente la prima conseguenza riguarda il volo Albenga-Fiumicino, collegamento fondamentale per lo
sviluppo del Ponente ligure.
Ogni volta che Scajola diventa ministro, l’Alitalia o la
consociata Air One attivano un volo tra l’aeroporto di
Albenga, a pochi chilometri da Imperia, e Roma Fiumicino. Poco importa se il numero massimo di passeggeri
registrato sulla tratta è stato, in tanti anni di esercizio, di
soli 18, è innegabile che un volo del genere può fare da
volano all’intera economia ligure e non per niente ha
potuto usufruire dei contributi statali a disposizione per
i collegamenti aerei delle aree più disagiate.
Come è accaduto nei due eventi precedenti, il primo a
risentire delle dimissioni sarà proprio il volo AlbengaFiumicino, che purtroppo sarà cancellato, con grande
disagio di 18 passeggeri al massimo.
N.B. In ottemperanza al comma 29 della cosiddetta
“legge bavaglio”, che recita: “per i siti informatici, ivi
compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via
telematica, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso
al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”, la presente pagina pubblica immediatamente la
preventiva doverosa rettifica in blocco a tutto quanto è
stato scritto.
191
Dal nostro inviato in Parlamento
192