Un`estate con Nostradamus
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Un`estate con Nostradamus
Leonardo Boselli Nostradamus in signo Cancri Cronache dal prossimo futuro tra satira, parodia e grottesco A Isabella AVVERTENZE Questi racconti fanno riferimento a eventi storici, personaggi, luoghi e organizzazioni esistenti, ma le vicende narrate sono opera di fantasia. Eventuali azioni di singoli, gruppi, istituzioni o organizzazioni possono rientrare in stereotipi consolidati, ma potrebbero non avere alcuna attinenza con la realtà. Quindi ogni riferimento a fatti veramente accaduti o a persone e cose realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale e dovuto alle esigenze della narrazione. Nella finzione artistica, si suppone che gli articoli siano frutto dell’interpretazione di alcune centurie scritte da Nostradamus nel XVI secolo. Ovviamente l’autore non si assume alcuna responsabilità sul reale potere predittivo degli articoli. Non c’è alcuna garanzia che i fatti presentati si avverino effettivamente. Inoltre, le dichiarazioni virgolettate non sono mai state espresse dai personaggi a cui sono attribuite o sono state rilasciate in altro contesto. Copyright © 2010 Leonardo Boselli PREMESSA Chi dovesse leggere questa raccolta di racconti si potrebbe chiedere, a un certo punto, cosa c’entrano Nostradamus e il segno del Cancro riportati nel titolo. Per quest’ultimo c’è una semplice spiegazione: le date degli articoli cadono tutte, più o meno, sotto il segno del Cancro, ed ecco quindi motivata la sua citazione. Il riferimento a Nostradamus, invece, è frutto di una serie di eventi. Tutto è cominciato il 24 giugno 2010. Era il giorno della partita dei mondiali di calcio tra Italia e Slovacchia, conclusa 2 a 3. Con quella clamorosa sconfitta la nazionale italiana terminò ultima nel suo girone e non poté accedere agli ottavi. In quel periodo era sorta una polemica che ha coinvolto alcuni esponenti della Lega e Radio Padania che dichiaravano esplicitamente di tifare contro l’Italia. Da questi fatti è nata spontanea una previsione: ipotizzando un 2014 in cui la secessione è avvenuta e l’Italia è ormai divisa in due, era facile immaginare una nazionale padana iscritta a partecipare ai prossimi mondiali. Naturalmente, visti i proclami leghisti, sarebbe stata una nazionale vincente che non avrebbe avuto problemi ad accedere agli ottavi infliggendo una sonora sconfitta al favorito Brasile. Dopo aver scritto l’articolo, che lì per lì mi sembrava divertente, ci voleva una pagina internet su cui pubblicarlo. Ma come intitolarla e in che modo era stata ottenuta quella improbabile previsione? Si era fatto ricorso a una sfera di cristallo, ai tarocchi, o a una macchina del tempo? La scelta è caduta su Nostradamus, al quale, grazie all’interpretazione delle sue oscure centurie, sono state attribuite previsioni di ogni genere. Così su Facebook comparvero le “notizie dal futuro” del “Nostradamus Network”, Nostradamus Network News, con un 3 logo, NNN, che richiamava esplicitamente quello della CNN (Cable News Network). Da quel 24 giugno, un giorno dopo l’altro, sono seguite altre notizie che ho raccolto in questo libretto. Alcune satiriche, altre parodistiche, altre ancora orientate al grottesco. Ad esempio, da qualche anno si sente ripetere che la crisi economica sta volgendo al termine, che il peggio è passato, che bisogna essere ottimisti. Così arriva Tremonti, nel 2020, che dichiara di intravedere segnali di ripresa. Sempre sulla stessa linea seguono le vacanze “fatte in casa” del 2014. Ma perché non premiare gli ingegni di casa nostra? E così nel 2013 Giovanni Masotti, il corrispondente da Londra della RAI, vincerà il premio Pulitzer. Prendendo ispirazione dalla cronaca d’inizio estate 2010, le notizie da parodiare erano tante. Alcune sono state subito superate dagli eventi, ma al momento hanno avuto qualche risonanza: le vicissitudini giudiziarie di ministri e politici, la Marea Nera, la legge sulle intercettazioni, le tariffe per l’accesso al GRA, gli scandali sessuali, la fine diplomazia della Farnesina, i laureati eccellenti, i maneggi della P3, la politica industriale della FIAT, l’informazione parziale dei TG. E poi, più grottesche che satiriche, si inseriscono, tra le pieghe dell’attualità, le disavventure del “Presidente” al quale ne avvengono di tutti i colori, a cominciare dalla costruzione di un androide-sosia, passando per un improbabile trapianto di cervello, fino a un blitz dei malebranche, i diavoli della quinta bolgia. Alcuni racconti sono un po’ particolari, spero però che nessuno si offenda. Naturalmente, si fa per sorridere, mettere alla berlina alcuni nostri difetti e magari rifletterci sopra, ma allo stesso tempo si vuole anche esorcizzare certe nostre paure. Buona lettura. 4 Mondiale 2014: La nazionale della Padania supera il turno battendo il Brasile e accede agli ottavi Rio de Janeiro (Brasile), 24 giugno 2014. Oggi è un grande giorno per i tifosi padani. La nazionale, contro tutte le critiche e i pronostici degli allibratori della perfida Albione, ha passato il turno battendo con il risultato di 4 a 1 il Brasile, in quel tempio del calcio che è il Maracanã. Salgono così a tre le vittorie: un punteggio pieno che il Presidente della Padania, Umberto Bossi, ha salutato con un “Noi ce l’abbiamo duro!”. La compagine padana, guidata dal tecnico Mazzini, schierava un audace 3-4-3. La rosa era composta dal portiere Brambilla, i difensori Biadego, Cattaneo e Cazzaniga, i centrocampisti Colombo, Fumagalli, Tinelli e Bixio, per finire con gli attaccanti Gorlin, Perasso e Borromeo. Fin dalle prime battute, la partita si è subito dimostrata a senso unico. L’assalto iniziale dell’undici padano a un Brasile votato alla difesa è stato immediatamente fruttuoso: al quarto minuto del primo tempo un preciso calcio d’angolo di Fumagalli incontrava la testa del decisivo Borromeo che insaccava in rete. Gli attacchi continuavano e, approfittando della scarsa fantasia di gioco del Brasile, un tiro da fuori area del millimetrico Cazzaniga si insinuava sotto l’incrocio dei pali neppure sfiorato dall’impotente portiere avversario. Alla mezz’ora, dopo un inutile tentativo in contropiede dei variopinti carioca, un rapido uno-due di Gorlin e Perasso portava il punteggio sul tre a zero. Nella ripresa Mazzini sostituiva Gorlin con Valpreda. L’attaccante è uscito dal campo acclamato dall’oceanica 5 tifoseria padana al rumore delle fastidiose maracas. Appena entrato, il virile Valpreda ha segnato una rete di testa su passaggio di Biadego. Non paghi delle quattro reti, gli eroi padani hanno continuato a insidiare la porta avversaria fino a quando un vile contropiede brasiliano portava un attaccante carioca di fronte al sicuro Brambilla. Con una meschina finta di corpo, il truce mezzosangue scagliava un viscido tiro tra i pali nostrani. Il generoso Brambilla, pur di non lasciare la rete all’avversario, è riuscito a sfiorare la palla con le sue mani, forgiate dal duro lavoro, affinché fosse segnata come autorete. Le celebrazioni per la vittoria della tifoseria verde sono iniziate al canto di tipiche canzoni padane tra cui “E mì la donna bionda” e “O mia bela Madunina”. Le cene dei festeggiamenti, che continuano tuttora, sono a base di cassoeula, riso con lo zafferano alla milanese, fettine impanate alla milanese, annaffiate da gioiose degustazioni di Barbera e Lambrusco. Per finire un amaro Ramazzotti. Le dichiarazioni del tecnico Mazzini sono state di elogio per la squadra: “I gan la ghigna di brav ragas”. Al cronista che gli chiedeva se questa fosse la vittoria più bella della sua carriera, il tecnico ha dichiarato che un’altra partita è incisa a lettere di fuoco sul suo cuore: ha sostenuto, infatti, che vincere con il Brasile nello stadio Maracanã non è paragonabile ad aver umiliato sette reti a zero la nazionale della Terronia a Roma Ladrona durante le fasi di qualificazione, vittoria che ha escluso dal mondiale l’inconcludente Terronia del tecnico Caputo. Ora i “bauscia” di Mazzini, come è simpaticamente soprannominato l’undici padano, dovranno affrontare la Spagna negli ottavi, partita di ordinaria amministrazione vista l’attuale pochezza fisica e tecnica della squadra 6 che ha vinto l’ultima Coppa del Mondo. Il Brasile invece, secondo nel girone, incontrerà l’Olanda. Il cammino verso la finale del mondiale è spianato. Dal nostro inviato in Brasile 2020: Tremonti: “Si intravedono segnali di ripresa” Milano, 25 giugno 2020. Oggi, al Congresso dei Giovani Industriali, il Ministro delle Finanze Giulio Tremonti ha tenuto il suo atteso discorso sullo stato dell’economia. Nel suo incisivo intervento, durato due ore e mezza comprensive della cena di lavoro, non ha nascosto le difficoltà che attendono ancora il Paese, ma ha anche dichiarato con il convincente realismo che lo contraddistingue: “Il peggio è passato, si intravedono segnali di ripresa”. L’uditorio ha dimostrato la sua approvazione con uno scrosciante applauso. In platea era presente tutto il gotha dei giovani imprenditori. Nelle prime file si potevano notare Lucrezia Berlusconi, figlia di Pier Silvio Berlusconi, che sta seguendo le orme del padre, e Leone Elkann, figlio di John, che si occupa dell’industria del riciclo, in particolare della rottamazione di vecchie automobili. La dichiarazione di Tremonti ha dato respiro alla Borsa di Milano, il cui indice MIBAL è salito immediatamente del 12,5%. Avevano pesato sulla fiducia degli investitori due vicende importanti per il destino del Paese. In primo luogo, la finanziaria in discussione proprio in questi giorni alla Camera delle Regioni 1 prevede l’in1 La Camera delle Regioni, istituita con la riforma del 2012, ha sostituito la Camera dei Deputati e il Senato della Repub- 7 nalzamento dell’età pensionabile a 75 anni per gli uomini e 80 anni per le donne. Questa modifica è richiesta dall’Unione Europea che, preoccupata per la discriminazione nei confronti degli uomini che mediamente vivono meno, ha preteso un adeguamento dell’Italia agli standard europei. Il ministro Tremonti, obtorto collo ma con entusiasmo, si è attivato e ha deciso di far corrispondere l’età pensionabile alla durata media della vita di uomini e donne. La maggioranza ha poi imposto alcuni emendamenti alla legge, per tenere conto anche di tutti quei lavoratori, e sono ben il 50%, che dovessero superare l’età pensionabile, decurtando la loro pensione del 50%. Grazie a questi provvedimenti, l’INPS prevede un risparmio del 75% sulle pensioni erogate nel primo anno. Queste decisioni hanno messo in fermento il mondo del lavoro e le borse ne hanno risentito, ma la dichiarazione ottimistica del ministro ha subito calmato gli animi. In secondo luogo, gli operatori economici sono stati turbati da alcune polemiche in cui la politica italiana si è trovata invischiata recentemente. Il delegato Antonio Di Pietro ha chiesto ripetutamente al Presidente della Repubblica, Silvio Berlusconi, di non firmare, per palese incostituzionalità, la legge, nota come “lodo Brambilla”, che prevede un’indulgenza plenaria a “TUTTI i cittadini italiani il cui cognome inizi per B e il nome per S, nati nel 1936, Cavalieri del Lavoro nel 1977, iscritti alla Loggia P2 nel 1978, almeno quattro volte Presidenti del Consiglio, proprietari di almeno tre emittenti televisive, proprietari di una squadra di calcio che abbia vinto, sotto la loro gestione, almeno 7 scudetti e 5 Champions League (l’Europa League non imblica. Prevede 1501 delegati scelti, secondo il loro censo, in proporzione al PIL di ogni regione italiana con un premio di maggioranza per le regioni con più delegati (N.d.R.) 8 porta), sposati almeno due volte e divorziati altrettanto”. La richiesta di Di Pietro ha trovato vasta eco nel mondo politico. Il capo del partito PDSC, l’ex-PD Pier Luigi Tafazzi, sostiene l’evidente incostituzionalità del provvedimento e scrive sul suo blog, ospitato su un server dello Zimbabwe ma oscurato in Italia: “Nonostante gli ultimi emendamenti alla Costituzione, una legge che riguardi un numero esiguo di italiani come il lodo Brambilla non può comunque superare il vaglio della Corte Costituzionale Riformata”. Fanno eco alle dichiarazioni di Tafazzi, intervistati a reti unificate sul TG1 di Augusto Minzolini, il Presidente del Consiglio, Noemi Letizia: «Tafazzi non sa di cosa parla"; il portavoce del PDLA, Paolo Bonaiuti: “Tafazzi è in pieno marasma, come il partito che porta allo sbando”; il portavoce del PDLB, Daniele Capezzone: “Siamo preoccupati, Tafazzi fa del male al suo partito”; il portavoce del PDLC, Maurizio Gasparri: “Quando parla Tafazzi, non lo capisco”. Anche questo conflitto istituzionale ha influito sull’andamento dell’economia, infatti se il Lodo Brambilla non dovesse essere approvato, le ripercussioni sulle buste paga delle famiglie sarebbero rilevanti. Le parole di Tremonti, che recentemente ha anche scritto il best-seller “Dopo la crisi c’è sempre la ripresa”, hanno comunque rasserenato gli animi e tutti guardano con più fiducia al futuro. Dal nostro consulente economico 9 Estate 2014: Il boom delle vacanze “fatte in casa” 26 giugno 2014. I Mondiali volgono al termine e gli italiani cominciano a pensare alle vacanze. Abbiamo già due certezze: il tormentone dell’estate sarà il ballo Tuki-Tuki e saremo costantemente perseguitati dal rumore delle maracas. Quest’ultimo flagello ci ha accompagnati per tutte le partite del mondiale brasiliano, ma sicuramente ci inseguirà anche sulle spiagge. Infatti, sembra che in Brasile le scorte siano esaurite e ci giungono notizie di navi trasporto cariche di container pieni di maracas in rotta verso l’Italia, per soddisfare gli ordini dei tifosi nostrani. A parte queste certezze, pare che gli italiani non sappiano ancora dove passare le vacanze. Ormai l’industria del turismo ha rinunciato a proporre sconti sulle prenotazioni, perché le famiglie non riescono più a pianificare le loro spese sul lungo periodo e vivono alla giornata. L’offerta che dilaga è quella della vacanza last minute. Le agenzie pubblicano i loro cataloghi il 27 del mese e li fanno distribuire dalle banche con lo stipendio. Chi si prenota entro una decina minuti ha diritto a forti riduzioni. È di ieri la notizia di un ragioniere di Busto Arsizio che ha ottenuto una vacanza di due settimane alle Maldive per sette persone in albergo cinque stelle tutto compreso per soli 50 euro. Purtroppo, quando è tornato a casa dopo aver pagato la bolletta della luce, del gas, del telefonino della figlia, della moglie e della suocera, la rata dell’automobile e il mutuo della casa, si è accorto che dello stipendio non restava nulla e ha dovuto rinunciare al viaggio. L’agenzia ha imposto quindi il pagamento 10 della penale di 15 mila euro, così il ragioniere è stato costretto a ipotecare la casa, vendere l’automobile e cedere il quinto dello stipendio, per far fronte anche al pagamento degli alimenti per mantenere moglie, figlia e suocera, che nel frattempo hanno chiesto il divorzio. A parte queste disavventure, le vacanze last minute stanno riscuotendo un grande successo. Solo una categoria si sta lamentando, quella dei disoccupati che protestano perché, dopo tanti anni di attesa, ritengono che la loro situazione sia senza sbocchi. A questo proposito, il ministro del Turismo, Michela Vittoria Brambilla, ha dichiarato di non comprendere il problema: “Non hanno lavoro? Vadano in ferie”. Oltre alle vacanze last minute, gli italiani si stanno orientando anche verso le vacanze fatte-in-casa, nel senso che resteranno proprio a casa. Effettivamente, non c’è niente di meglio d’estate che rimanere in città: le strade son deserte, deserte e silenziose, un’ultima familiare rombando se ne va e poi, la pace, la quiete assoluta... niente più maracas! Solo pochi supermercati aperti dove prendere il fresco dell’aria condizionata, ma per il resto la desolazione totale, neppure un prete per chiacchierar. Cosa c’è di meglio? Se lo sono chiesti molti italiani che si stanno organizzando per rimanere a casa e hanno preso d’assalto i negozi ancora aperti per fare scorta di alimentari e generi di prima necessità. Rimane un solo dubbio: se quasi tutti restano, addio pace, addio quiete assoluta, addio desolazione e liberazione dalle maracas. A questo proposito, il ministro del Turismo, Michela Vittoria Brambilla, ha dichiarato di non comprendere il problema: “Milioni di stranieri vengono in Italia per ammirare le nostre bellezze artistiche e naturali! Gli italiani sono già qui, di cosa si lamentano?” Una categoria avvantaggiata per quanto riguarda la scelta del luogo per le vacanze è quella dei tifosi che 11 ora si trovano in Brasile per le partite del mondiale. La maggior parte ha deciso di continuare le ferie sul posto. L’inconveniente è che sono partiti in bermuda e canottiera senza tenere conto che laggiù è inverno e il clima di alcune zone non è particolarmente mite. A Porto Alegre, nel mezzo di una tormenta di neve, sono stati avvistati famelici gruppi di tifosi italiani con le infradito: cercavano riparo in prossimità dello stadio in attesa della partita. Il giorno dopo si sono contati 64 dispersi. Un’altra categoria che non ha problemi è quella dei VIP. Al termine di una conferenza stampa semi-deserta, Fabrizio Corona, anche se nessuno gliel’aveva chiesto, ha dichiarato di partire con la sua nuova fiamma per Tahiti. I pochi presenti hanno colto l’occasione per augurargli buon viaggio e gli hanno anche educatamente suggerito di restarci. Come è noto, invece, il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non va mai in ferie. Per l’estate, il suo staff prevede soltanto una vacanza-di-lavoro nella villa di Arcore, una vacanza-di-lavoro a villa Certosa in Sardegna, una vacanza-di-lavoro sulla barca alle Bahamas, che si lamenta sempre di sfruttare poco, una vacanza-dilavoro ad Antigua e, infine, sarà invitato dal Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, per una vacanza-di-lavoro sul Baltico. Ha anche un invito per una crociera-di-lavoro nel Mediterraneo con il Presidente della Repubblica Francese, Nicolas Sarkozy, e la moglie, ma non sa ancora se gli impegni già presi gli consentiranno di accettare. Per uno strano contrappasso, il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, sarà invece accompagnato sull’isola di Ventotene in compagnia di Italo Bocchino. Per finire questa carrellata di VIP, chiudiamo con il capo dell’opposizione Pier Luigi Tafazzi che passerà le 12 sue ferie a Gallipoli invitato da Massimo D’Alema. L’ente del turismo pugliese ha protestato perché, come è noto, il segretario Tafazzi in vacanza è costantemente perseguitato da una nuvola temporalesca, ormai ribattezzata la “nuvoletta di Tafazzi”, e il servizio meteorologico prevede perciò tre settimane di pioggia e grandine su Gallipoli. Intervistati sul problema della Puglia a reti unificate dal TG1, i portavoce della maggioranza hanno rilasciato le seguenti dichiarazioni. Paolo Bonaiuti: “Tafazzi è in pieno stato confusionale, come il partito che sta conducendo alla rovina”; Daniele Capezzone: “Siamo angosciati per l’opposizione, Tafazzi la sta portando al disastro”; Maurizio Gasparri: “Quando parla Tafazzi, mi addormento”. L’unica voce favorevole è stata quella del Presidente della regione Puglia, Nichi Vendola: “Sono lieto di ospitare il compagno Tafazzi nella mia bella regione. Lo inviterò a visitare il tavoliere. Quest’anno la siccità ha fatto molti danni e un po’ di pioggia non può fare male”. La Protezione Civile è stata allertata. Naturalmente le vacanze sono già iniziate per milioni di studenti. Il ministro dell’Istruzione Università e Ricerca, Mariastella Gelmini, ha augurato loro di trovare ristoro dopo le fatiche dello studio e ha aggiunto con tono rassicurante: “Ho in mente grandi cambiamenti. Al vostro ritorno, cari studenti, non riconoscerete più la vostra scuola di sempre. Buone vacanze a tutti!” Dal nostro opinionista di costume 13 2013: Giovanni Masotti vince il premio Pulitzer Londra, 27 giugno 2013. Oggi è un grande giorno per il giornalismo italiano: il corrispondente da Londra della RAI, Giovanni Masotti, ha vinto il Premio Pulitzer, la prestigiosa onorificenza per il giornalismo e i successi letterari. Dopo un attento discernimento, la Columbia University di New York non ha trovato nessun candidato che incarnasse più fedelmente la figura del cronista dedito alla causa dell’informazione pubblica e, quindi, lo ha insignito del premio per la categoria Public Service. Le motivazioni che accompagnano l’onorificenza dicono, tra le altre cose, che la decisione è stata presa dopo la visione di alcuni servizi in cui spiccava “il suo giornalismo di denuncia, sempre pronto a informare la pubblica opinione con imparzialità e senso di abnegazione”. Sono noti al grande pubblico gli scoop con cui negli ultimi anni il corrispondente ha informato gli italiani sulle vicende più importanti del Regno Unito. Solo per citarne alcuni, ricordiamo il servizio di denuncia sugli anziani inglesi afflitti perché non potevano più permettersi una crociera, sui bancomat difettosi che distribuivano denaro ai passanti, sui fantasmi che infestano la metropolitana di Londra, per finire con il servizio sull’ultima tendenza della moda londinese: l’ombrello fluorescente. Due notizie in particolare hanno orientato la Columbia University nell’assegnazione del premio. La prima era relativa alla malasanità inglese: un medico aveva diagnosticato ad un tale un male incurabile con prognosi di pochi mesi. Il paziente aveva quindi lasciato il lavoro e donato tutti i suoi averi a parenti e organizza- 14 zioni umanitarie, per poi scoprire che la diagnosi era errata. La seconda notizia, che ha tolto ogni dubbio e consentito il conferimento dell’onorificenza all’unanimità, riguardava invece la condizione della terza età britannica: ha informato la pubblica opinione della protesta di un’associazione di pensionati contro i cartelli stradali nei pressi degli attraversamenti pedonali, perché gli anziani vengono ritratti come vecchietti ricurvi e col bastone. Ma Giovanni Masotti si è soprattutto distinto per il suo incomparabile fiuto per la notizia che i direttori dei telegiornali hanno sempre apprezzato. Mentre infuriava uno sciopero di protesta degli insegnanti contro i tagli alla scuola, che ha portato a notevoli ritardi nell’effettuazione di migliaia di scrutini, il direttore del TG1, Augusto Minzolini, ha subito compreso, con grande professionalità, che la notizia da Londra fosse di maggiore rilevanza, ed ecco apparire in video il volto rassicurante di Giovanni Masotti che ci ha informati su un curioso ritrovamento da parte di un meccanico: un serpente era nascosto nel motore dell’automobile che stava riparando. L’opinione pubblica, sconvolta dall’evento, è stata subito tranquillizzata, si trattava, infatti, di un serpente costrittore, quindi non velenoso, di soli 60 cm. Ma torniamo alle reazioni seguite all’assegnazione del premio. Appena le agenzie di stampa hanno battuto la notizia, siamo riusciti a raggiungere telefonicamente Giovanni Masotti per conoscere dalla sua viva voce quali emozioni lo pervadessero. Essere riconosciuto come uno dei migliori cronisti internazionali, sempre dentro la notizia, non capita tutti i giorni. Paradossalmente, abbiamo scoperto che lui non ne sapeva ancora nulla quando, subito dopo l’annuncio, ci ha risposto: “Ma che? Mi prendete per il culo?” 15 Dopo la nostra, sono giunte numerose telefonate di congratulazioni. In particolare, il ministro per i Beni e le Attività Culturali, Sandro Bondi, ha commentato negativamente il fatto che una risorsa del giornalismo italiano fosse costretta a lavorare all’estero: «L’Italia è afflitta da due gravi problemi che ne soffocano lo sviluppo: il primo è il traffico. Del secondo è invece un esempio il nostro insigne Giovanni Masotti: la fuga dei cervelli all’estero». Certo, lo sappiamo, nessuno è profeta in patria. Lo stesso è capitato al Nostro quando anni fa, chiamato a sostituire un insulso programma di intrattenimento di Michele Santoro, aveva ideato la trasmissione di approfondimento giornalistico “Punto e a Capo”. Gli ascolti purtroppo erano crollati: il pubblico italiano non si è dimostrato pronto a riconoscere le doti di un giornalista-conduttore che ora il mondo ci invidia. Giovanni Masotti comunque ha fatto buon viso a cattivo gioco. Grazie alla sua abnegazione, ha risalito la china e dimostrato le sue doti sul difficile terreno dei corrispondenti da Londra, la cui solida tradizione passa per Sandro Paternostro fino a giungere ad Antonio Caprarica. Nonostante questi punti di riferimento inarrivabili, ha saputo imporsi con la sua impeccabile dizione (alcuni ricercatori in Scienze della Comunicazione stanno studiando approfonditamente la sua caratteristica cadenza) e la sua ricercata eleganza (Dolce & Gabbana hanno lanciato un’intera linea di moda-uomo ispirata ai suoi foulard). Non tutte le voci però concordano nell’elogiare quest’uomo di cui mi pregio di essere collega. Alcuni flebili toni dissenzienti sono stati emessi dal capo dell’opposizione, Pier Luigi Tafazzi, che ha osato insinuare, contro la lungimiranza della Columbia University di New York, che gli scoop di Masotti siano in realtà semplici 16 servizi di colore di scarso interesse, ingrossati solo per nascondere le vere notizie sullo stato del Paese che non devono giungere alle orecchie degli italiani. Fanno eco a queste poco significative considerazioni i pareri autorevoli dei portavoce della maggioranza, trasmessi dal TG1 a reti unificate. Paolo Bonaiuti: “Tafazzi è in pieno delirium tremens, come il partito che sta trascinando alla distruzione”; Daniele Capezzone: “Tafazzi è il solito disfattista, trova scuse ridicole mentre dovrebbe gioire per il successo di un italiano”; Maurizio Gasparri: “Quando parla Tafazzi, mi appisolo”. Noi non possiamo che associarci al tripudio di tutto il Paese per questa ulteriore conferma della supremazia dell’ingegno italiano nel mondo e attendiamo, con impazienza, il prossimo scoop da Londra del premio Pulitzer Giovanni Masotti. Dal nostro corrispondente da Londra 2023: La Giustizia trionfa: Il ministro Ciapèr è prosciolto dalle accuse per estinzione della Corte Roma, 28 giugno 2023. Dopo anni di attesa, il ministro Aldo Ciapèr ha finalmente vista riconosciuta la propria innocenza. Oggi, all’udienza conclusiva del quinto grado di giudizio del processo che lo vedeva accusato di ricettazione, la stenografa ha dichiarato l’imputato prosciolto da ogni addebito per “estinzione della Corte giudicante”. Ma ripercorriamo la carriera e l’iter giudiziario dell’attuale ministro della Surroga ai Surrogati, per porre l’accento sulla lentezza e la farraginosità della macchina giudiziaria italiana. 17 Aldo Ciapèr1 nasce verso la fine della seconda guerra mondiale nel Triveneto e sin da piccolo scopre la sua vocazione sacerdotale. Dopo il seminario e la consacrazione a sacerdote, ha avuto una crisi vocazionale. Ha ritenuto di riuscire a servire meglio il Signore facendosi assumere da un noto gruppo imprenditoriale e, quindi, è tornato allo stato laicale. Nel corso degli anni, la sua carriera professionale è progredita fino a fargli assumere importanti incarichi dirigenziali. È di quel periodo il suo coinvolgimento nelle inchieste di “Mani Pulite” degli anni ‘90. Gli storici revisionisti ormai concordano unanimemente sul fatto che quelle malaugurate inchieste hanno ingiustamente colpito un’intera generazione di politici onesti, dediti solo al bene comune dei cittadini della Repubblica. Solo pochi detrattori, che non si rendono conto del senso del ridicolo, si ostinano a considerare la classe dirigente di allora come una banda di corrotti che, con la scusa di finanziare i propri partiti, si arricchivano personalmente e senza alcun ritegno. Lo stesso Aldo Ciapèr fu vittima di quelle purghe di stampo stalinista, tanto che, nell’assolvimento dei suoi incarichi, fu accusato di falso in bilancio e finanziamento illecito ai partiti. Fu costretto a passare ben tre mesi in prigione in compagnia della peggior feccia della società: ladri e malfattori. Quella prima accusa si risolse comunque a favore del Ciapèr che, prima scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare, poi con1 Nella traduzione di questa centuria di Nostradamus dal francese antico, sono rimasti alcuni punti incerti. In particolare, il termine usato per il cognome del ministro può essere interpretato in vari modi. L’unica certezza è che abbia attinenza col verbo “prendere, acchiappare”, ma con inflessione dialettale, perciò si potrebbe tradurre con ciapèr, piglièr, o meno probabilmente con branchèr. Noi abbiamo scelto la prima accezione (N.d.T.) 18 dannato in primo grado e in appello, vide risolversi la sua situazione in cassazione, perché uno dei capi di imputazione cadde in prescrizione e l’altro venne depenalizzato. C’è voluto il suo tempo, ma alla fine la Giustizia, quella con la ‘G’ maiuscola, ha trionfato. Purtroppo, nel primo decennio di questo secolo, quando ormai il Ciapèr aveva abbandonato la carriera imprenditoriale per dedicarsi all’impegno in politica, un’altra assurda accusa lo colpiva proditoriamente. Prima di analizzare l’infondatezza dell’impianto accusatorio, ricordiamo con quanta fatica e senso del dovere l’attuale ministro sia riuscito a entrare a far parte della compagine di governo. Come è noto, sono necessari alcuni requisiti fondamentali che agli inizi della sua carriera non gli venivano pienamente riconosciuti. Ad esempio, è consentito solo ai membri dell’opposizione, in particolare quelli di estrazione ex-comunista, di essere sposati regolarmente in chiesa e vivere felicemente con la stessa donna, senza mai divorziare. In effetti, solo gli oppositori soggiacciono a questa consuetudine così fuori moda e limitante. Invece, è noto che per essere ammessi nell’attuale maggioranza è indispensabile essere divorziati, conviventi e risposati, possibilmente più volte. Solo per rarissime eccezioni è stata concessa una speciale dispensa, con la clausola che tale situazione anomala venga regolarizzata al più presto. Nel caso dell’Aldo Ciapèr, sembrava che questo requisito mancasse, ma il Collegio che esaminò la sua domanda accertò per prima cosa l’indispensabile requisito di essere stato in prigione per più mesi facendola franca e, successivamente, la condizione di prete spretato. Si è pensato infatti di equiparare la profanazione del Sacramento del matrimonio e la conseguente scomunica alla profanazione dell’Ordine sacro da parte di un prete spretato. 19 Superato questo scoglio ed eletto alla Camera dei Deputati, Aldo Ciapèr poteva finalmente dedicarsi con abnegazione alla sua missione in favore del benessere dell’Italia, ma ecco profilarsi un nuovo subdolo attacco della solita Magistratura orientata politicamente. Un’assurda accusa di ricettazione di soli 300 mila euro ostacolava nuovamente la sua opera meritoria. Ci sono voluti molti anni di sofferenze e di impegno per uscirne fuori immacolato e vedere riconosciuta la propria innocenza. Una provvidenziale, quanto prevista da tempo, nomina a Ministro – non è ancora ben chiaro a quale dicastero – permise di utilizzare a fasi alterne la norma garantista del “legittimo impedimento a procedere”. In quel frangente, il ministro dichiarò con uno sfogo ormai famoso: “Perché tanta cattiveria e odio contro di me? Se la nazionale di pallanuoto è stata eliminata alle Olimpiadi, non è colpa mia, eppure se la prendono con me”. Nel successivo decennio, attraverso tre legislature e altrettanti governi Berlusconi, ad Aldo Ciapèr fu assegnata la guida di importanti dicasteri, come il ministero dell’Inviluppo degli Sviluppi, quello dell’Accentramento dei Decentramenti ed, infine, l’attuale Surroga ai Surrogati. Ma ogni volta che una nazionale di pallamano, hockey su prato o ping pong non superava la fase eliminatoria di un torneo internazionale, la magistratura tornava all’attacco. Finalmente, verso la fine del 2020, quando ancora il processo per ricettazione si trascinava attraverso impedimenti e rinvii, fu approvata, col ricorso alla fiducia d’ufficio, una legge fondamentale che è stata ribattezzata “salva-Ciapèr” dall’opposizione, con lo spirito di patata che sempre la contraddistingue. Questa prevedeva che “I processi per ricettazione di TUTTI i cittadini italiani col cognome che inizia per C e il nome per A, nati 20 verso la fine della seconda guerra mondiale nel Triveneto, preti spretati, debbano essere giudicati da una Corte di togati ultraottantenni; nel caso malaugurato che tutti i membri della Corte debbano passare a miglior vita prima della conclusione del processo, il procedimento terminerà con il proscioglimento dell’imputato per ESTINZIONE DELLA CORTE”. L’evenienza prevista dalla legge si è finalmente verificata nella giornata di ieri e oggi la stenografa ha proceduto a emettere la sentenza. Numerose sono state le attestazioni di solidarietà e le felicitazioni giunte al ministro Ciapèr. I deputati della maggioranza hanno intonato in Aula il canto “Giustizia è fatta, finalmente” su colonna sonora di Ennio Morricone e coreografie di Marco Garofalo, mentre i commessi sgomberavano i banchi dell’opposizione i cui membri tentavano di stonare e sbagliare i passi di danza. La notizia era così sentita e attesa da tutti gli italiani che, appena è giunta la velina con la dipartita dell’ultimo togato della Corte, il TG1 ha interrotto la normale programmazione di Quiz e Reality Show con un’edizione straordinaria a reti unificate. È comparso in video il direttore Augusto Minzolini che, con sguardo sicuro e fronte volitiva, ha annunciato: “Nuntio vobis gaudium magnum! La Giustizia ha trionfato, il ministro alla Surroga ai Surrogati Aldo Ciapèr è stato assolto con formula piena”. Non tutte le voci però concordano nell’apprezzare l’esito del processo. Alcuni gemiti al di sotto della soglia di udibilità, sono stati espressi da Marco Bavaglio, il direttore del giornaletto scandalistico “La porcata quotidiana”. Ha osato affermare che l’annuncio del TG1 era inesatto: il proscioglimento è avvenuto per “Estinzione della Corte” e non c’è stata alcuna assoluzione con for21 mula piena. Immediatamente l’attuale ministro della Giustizia, Niccolò Ghedini, ha replicato con solide e articolate argomentazioni: «Bavaglio sta zitto! Tu non capisci niente! Taci! Sta zitto! Tu non sai niente! Sta zitto! Taci!». Ha quindi aggiunto: “Due sono i principali problemi del nostro Paese. Come tutti sapete, il primo è il traffico che soffoca le nostre città, mentre il secondo è la lentezza della giustizia! Non è accettabile che ci sia voluto più di un decennio per vedere la conclusione di questo processo, ma fortunatamente il governo ha già fatto tanto per rendere più veloce la macchina della giustizia. Grazie ai recenti provvedimenti, se un padre di famiglia ruba una mela per sfamare i propri figli, sarà subito processato per direttissima, incarcerato a doppia mandata e si butterà via la chiave. Gli italiani non possono che esserne rassicurati”. Noi ci associamo alla gioia del Paese per l’esito positivo di una vicenda che ha tenuto tutta la nazione con il fiato sospeso. Oggi, finalmente, possiamo ancora affermare a gran voce che la giustizia è uguale per tutti! Dal nostro esperto in materie giuridiche 2012: Bertolaso ferma la Marea Nera con un tappo di stoppa New Orleans, 29 giugno 2012. In questi giorni di fine giugno, mentre il campionato europeo di calcio è alle battute finali e numerosi tifosi italiani si sono ridotti a fare i pendolari sui carri bestiame per assistere alle partite della nazionale tra la Polonia e l’Ucraina, un folto team di esperti internazionali è al lavoro per risolvere l’annosa questione della Marea Nera che affligge il Golfo del Messico. 22 Come è noto a tutti, nel 2010 una piattaforma petrolifera della British Petroleum (BP) al largo delle coste della Luisiana subì uno spaventoso incidente che ha causato il secondo disastro ecologico della storia dell’umanità per ordine di importanza (il primo risulta essere l’esplosione a catena delle 13 centrali nucleari francesi situate in Provenza e Alta Savoia avvenuta l’anno scorso). Da allora un pozzo di profondità riversa nelle acque del Golfo dai 50 ai 100 mila barili di petrolio al giorno. Un danno incommensurabile che provoca gravi ripercussioni sia economiche che ecologiche; una piaga che gli innumerevoli tentativi posti in essere dalla BP non sono ancora riusciti a sanare. Il disastro ha avuto gravi ripercussioni sull’industria ittica, in particolare quella della pesca del gambero, che ha portato al tracollo finanziario la nota compagnia di pesca “Bubba-Gump Gamberi”. In compenso, però, il costo dell’asfaltatura delle strade della Luisiana è crollato, visto che il catrame può essere raccolto in grande quantità direttamente sulle spiagge. Inoltre, sono sorte piccole compagnie petrolifere specializzate nell’estrazione degli idrocarburi dalle acque del mare con un notevole risparmio. Anche per questa ragione il prezzo del petrolio al barile è il più basso degli ultimi vent’anni. Nonostante gli indubbi vantaggi, i lobbisti della “Bubba-Gump Gamberi” hanno operato notevoli pressioni sui senatori della maggioranza e il Presidente degli Stati Uniti d’America, Barak Obama, ormai a fine mandato e in piena campagna elettorale, è costretto a trovare una soluzione per l’annosa questione. Ha quindi deciso di riunire il Think Tank mondiale a New Orleans con il motto: “Non chiedete che cosa la BP può fare per fermare la Marea Nera, ma che cosa potete fare voi per fermare la BP”. Quindi, per minimizzare i danni, i diri23 genti della BP sono stati inviati ad effettuare una serie di regate nella Manica. Le riunioni del team internazionale voluto da Obama si svolgono nella New Orleans Arena e un gruppo di esperti si occupa di esaminare le proposte degli scienziati invitati. Per prima cosa, si è valutata l’idea di un gruppo di ricerca russo. Il geologo Nicolaj Koymasky ha proposto di far brillare in profondità una testata nucleare. Sembra che i test effettuati nel Mar Bianco abbiano riscosso un notevole successo e il team iraniano ha offerto, in segno di collaborazione, una delle 27 bombe atomiche possedute dall’Iran. L’idea è stata per il momento accantonata nella speranza di trovare qualcosa di meglio, perché l’astrologo di Obama ha scoperto che Koymasky è del capricorno e con la luna nel leone non si scherza. Un fisico del MIT, invece, ha proposto di contattare il noto regista James Cameron perché si ricordava di un film dell’89, “The Abyss”, che gli era piaciuto molto. Svegliato nel cuore della notte, Cameron ha risposto: “Sono contento che abbiate pensato a me, ma devo deludervi: non c’è nessuna civiltà di alieni buoni che vive nelle profondità degli oceani... era solo un film! Scordatevi l’aiuto degli alieni”. Accantonata questa promettente possibilità, a un matematico dell’UCLA è venuto in mente un vecchio film con Kevin Costner. Contattato telefonicamente Kevin ha dichiarato: “Waterworld? Sì, quel maledetto film mi è costato una montagna di soldi e non ci ho guadagnato nulla. Il peggior flop della mia carriera”, poi alla successiva domanda ha risposto: “No, non ho le branchie e non so nuotare come un pesce... era solo un film! Scordatevi del mio aiuto”. Dopo una serie di altre idee poco percorribili, comprese reti ricolme di pannoloni doppio strato, un ragioniere 24 del Wisconsin si è ricordato della Protezione Civile italiana e di quanto sia ritenuta all’avanguardia. Al sentirne parlare, il segretario di Stato, Hillary Clinton, si rammentò di un tal Guido Bertolaso che, nel lontano 2010, si era presentato ad Haiti dopo il terremoto mettendo in discussione l’operato degli Stati Uniti e aveva definito la situazione patetica. A quel tempo, la Clinton aveva risposto che si trattava di critiche da bar dello sport, perché con tutto il rispetto per i morti, “Haiti non è L’Aquila”. Il segretario quindi si chiedeva come ricucire lo strappo, ora che Bertolaso sembrava davvero l’ultima risorsa rimasta. Il marito Bill, amico di Bertolaso perché spesso suonano il sassofono insieme, con il suo caratteristico accento dell’Arkansas disse: “Ghe pensi mi” e preso il telefono, come risulta agli atti, compose il numero. Dopo qualche istante disse: “Guido? Scusa se ti disturbo a quest’ora... sì lo so, da te sono le due di notte, ma è questione di vita o di morte. Si tratta della BP... certo, sono più di due anni e potevo aspettare domattina, hai ragione, scusa... beh, ti volevo dire che qui ci sarebbe bisogno di te... Come non se ne parla neanche?... Cosa c’entra quella strega di mia moglie?... Senti, ti faccio una proposta. Sai quel problema alla schiena che continua ad affliggerti?... Sì, lo so, è la tensione, lo stress, beh, io ho trovato un buon rimedio. Te lo rivelo se mi prometti di fare un salto qui a sentire cosa deve dirti questa gente!... Grazie, sei un amico! Ero certo che ci saremmo intesi. Allora ti spiego. Sai che a Cuba c’è la miglior assistenza sanitaria del mondo? Beh, il mio amico Fidel mi ha indirizzato ad un Centro Benessere di Las Tunas dove fanno dei massaggi che risuscitano i morti. Laggiù ho conosciuto un massaggiatore brasiliano che ha una mano delicatissima, te lo consiglio vivamente! Si chiama Samantha... è una mano santa per liberarti dallo 25 stress. Vacci a nome mio. Non importa quando arrivi, anche a mezzanotte o se è chiuso, per te è sempre aperto. Non te ne pentirai, uscirai felice e rilassato, te lo dice uno che se ne intende”. L’opera di convincimento di Samantha deve aver sortito il suo effetto perché qualche giorno dopo, con un raid della sua flotta di Canadair antincendio, Guido Bertolaso e il suo staff, tutti con la caratteristica polo della Protezione Civile, sono giunti negli Stati Uniti e sono stati ricevuti alla New Orleans Arena. Dopo aver ascoltato i dettagli, Bertolaso ha subito definito la situazione patetica e, mentre Hillary Clinton si mordeva il labbro per non dirgliene quattro, ha aggiunto: “Per risolvere il problema basta un po’ di stoppa”. Tutti i presenti nell’Arena si passavano la parola... stoppa, stoppa... tanto che Obama chiese: “Stoppa? What’s stoppa?” Lo staff del direttore della Protezione Civile distribuì quindi i progetti dettagliati del piano. Si stimava di dover utilizzare 300 tonnellate di stoppa, già disponibili a prezzi di favore presso l’azienda “Anemone’s Cascami” di Gallarate. La posa del materiale sarebbe stata effettuata da un sommergibile della Protezione Civile. Tempo due settimane e la Marea Nera si sarebbe arrestata. Nella New Orleans Arena era sceso un silenzio irreale. Lo stesso Cristoforo Colombo doveva aver vissuto un momento simile, quando alla corte di Isabella di Castiglia gli fu chiesto: “Ma se la terra è rotonda, perché non rotola?”. Certo, a quella domanda, intorno a Colombo, tutti risero, ma quando prese l’uovo che portava sempre in tasca, per ogni evenienza, e lo appoggiò rompendone delicatamente il guscio, ecco che l’uovo rimase in equilibrio. Tutti si zittirono e capirono che il polo sud doveva essere leggermente schiacciato. C’era una semplice spiegazione che nessuno fino ad allora aveva mai intui26 to. Ecco cosa stava vivendo Bertolaso in quel momento: istanti di gloria indimenticabili. Dopo qualche attimo di silenzio, nell’assemblea attonita, Obama iniziò ritmicamente a battere le mani e tutta l’Arena lo seguì in uno scrosciante applauso. L’ovazione continuò per tre quarti d’ora mentre gli abbracci e le strette di mano si sprecavano. Come sempre la terra dei santi, dei navigatori e dei poeti, nonché degli stagnini, ha saputo stupire il mondo. Il pianeta è stato salvato ancora una volta grazie alla geniale intuizione di un audace italiano... e grazie anche a Samantha. Dal nostro esperto in ecologia e problemi ambientali 2013: Emendata la legge antiintercettazioni: salva la prossima stagione del Grande Fratello Roma, 30 giugno 2013. Mentre alcuni italiani sono già in vacanza, i deputati e i senatori della Repubblica, con encomiabile spirito di abnegazione, sono ancora in piena attività. I lavori parlamentari prevedono la terza revisione della legge per la tutela della privacy che l’opposizione, con il solito spirito di patata che la contraddistingue, si ostina a chiamare “proteggi-mariuoli”. Tutti i cittadini sanno quanto sia importante la loro privacy. Immaginate cosa potrebbe accadere se fosse intercettata la telefonata di un marito che chiama la moglie per informarla di essere uscito dall’ufficio e di buttare la pasta, oppure l’SMS di un pendolare che scrive a casa perché il treno è in ritardo di mezz’ora. Sono tutte 27 informazioni sensibili che se venissero pubblicate sui giornali violerebbero in modo irrimediabile quella sfera protettiva invalicabile a cui ognuno di noi ha diritto. Il governo è al lavoro da anni su questo tema e, seduta dopo seduta, le leggi vengono migliorate e affinate per evitare tutti gli escamotages che biecamente i magistrati orientati politicamente con i loro complici giornalisti di sinistra riescono di volta in volta a escogitare. Ecco quindi che, proprio mentre le ferie incombono, sta per essere varato un “pacchetto giustizia” che contiene numerosi provvedimenti mirati a rendere l’azione investigativa e giudiziaria più rapida, efficiente e giusta, sulla linea della depenalizzazione del falso in bilancio. Nelle prime votazioni la maggioranza è stata battuta su un emendamento che prevedeva il “proscioglimento per estinzione della corte” e la “depenalizzazione del reato di associazione mafiosa”, che approfondiremo in un altro articolo. Una parte del governo si è stupita del fatto che due commi così poco significativi abbiano suscitato tanta opposizione anche tra i propri parlamentari, ma per il momento ha accettato la sconfitta. Per evitare altre debacle la commissione giustizia presieduta dai senatori Ghedini, Previti jr. e Dell’Utri ha perfezionato e blindato gli altri articoli. In conferenza stampa, il relatore ha dichiarato: "La commissione ritiene che i punti nodali individuati siano condivisibili da tutti: la magistratura non può disporre intercettazioni ambientali sulle utenze i cui proprietari abbiano cognomi che inizino per ‘B’, ‘G’, ‘P’ e ‘D’. Inoltre, nel caso che una comunicazione in uscita contatti persone che rientrino nella suddetta tipologia, l’intercettazione deve essere sospesa. In ogni caso, non è consentito ascoltare o registrare la prima mezz’ora di conversazione. Il magistrato deve rinnovare il mandato ogni giorno alzandosi alle tre e mezza di notte. Infine, i 28 giornalisti e le testate che dovessero pubblicare le trascrizioni prima della scadenza del copyright (70 anni dalla morte dell’autore rinnovabili dagli eredi) saranno condannati alla pena capitale con tutta la famiglia sino al sesto grado di parentela. Ci sembrano i requisiti minimi perché la legge possa considerarsi efficace”. A una domanda del giornalista del Manifesto, che faceva notare che l’articolo 27 della Costituzione italiana non ammette la pena di morte, veniva prontamente risposto: “Con le vostre domande tendenziose, voi dimostrate di essere il solito comunista. Non meritereste risposta, ma colgo l’occasione per evidenziare quanto la Costituzione abbia bisogno di una profonda revisione”. Dopo il passaggio in commissione, la legge è ora all’esame della Camera e in questo momento si sta dando lettura delle dichiarazioni di voto. Il tempo è contingentato per evitare il solito sterile ostruzionismo dell’opposizione. Mentre scrivo, ha già da tempo terminato di parlare, nei 72 secondi concessi ai partiti dell’opposizione, il deputato Pier Luigi Tafazzi. Ha dichiarato: “Noi tutti riteniamo che questa legge si profili come l’ennesima legge ad personam che non...”, interviene il Presidente della Camera: “Onorevole Tafazzi, mancano 30 secondi”, continua: “Sì, grazie, stavo dicendo che si tratta di una legge che non serve agli italiani perché...”, interrompe il Presidente: “Onorevole Tafazzi, non le è consentito di sforare in questo modo. Ha avuto ampio margine per argomentare...” e mentre dai banchi dell’opposizione si solleva un timido mormorio, aggiunge martellando ripetutamente il banco: “Silenzio! Devo far sgomberare l’aula?”. La calma viene subito ripristinata appena i commessi minacciano di sguinzagliare i dobermann. “Bene”, dice il Presidente, “è iscritto a parlare il Presi29 dente del Consiglio, ne ha facoltà. Le chiedo solo di rimanere entro i suoi 72 minuti”. Il testo che segue, al momento in cui scrivo, è già entrato nella storia come il “discorso di Molly Pucci e Cippa Lippa” ed è stato trasmesso in mondovisione, a reti unificate, dal TG1: «Signori! Il discorso che sto per pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere, a rigor di termini, classificato come un discorso parlamentare. Un discorso di siffatto genere può condurre, ma può anche non condurre ad un voto politico. Si sappia ad ogni modo che io non cerco questo voto politico. Non lo desidero: ne ho avuti troppi. Nessuno mi ha negato fino ad oggi queste tre qualità: una discreta intelligenza, molto coraggio e un sovrano disprezzo del vile denaro. Eppure non mi sono mancate occasioni di dare prova della mia energia. Non sono ancora stato inferiore agli eventi. Si obietta che la legge cita la pena di morte: Pena di morte? Ma qui si scherza, signori. Prima di tutto, bisognerà introdurla nel Codice penale, la pena di morte; e poi, comunque, la pena di morte non può essere la rappresaglia di un Governo. Deve essere applicata dopo un giudizio regolare, anzi regolarissimo, quando si tratta della vita di un cittadino! Fu alla fine di marzo, il mese che ha segnato profondamente la mia vita, che io dissi: “voglio che ci sia la pace per il popolo italiano”; e volevo stabilire la normalità della vita politica. Poi con una campagna giornalistica durata nei mesi di aprile, maggio, giugno, campagna immonda e miserabile che ci ha disonorato per tre mesi, le più fantastiche, le più raccapriccianti, le più macabre menzogne sono state affermate diffusamente su tutti i giornali! C’era veramente un eccesso di necrofilia! Si facevano inquisizioni anche di quel che succede sotto terra: si inventava, si sapeva di mentire, ma si mentiva. E io sono stato tranquillo, calmo, in mezzo a 30 questa bufera, che sarà ricordata da coloro che verranno dopo di noi con un senso di intima vergogna. Tuttavia io continuo nel mio sforzo di normalizzazione e di normalità. Reprimo l’illegalismo. Si inscena la questione morale, e noi conosciamo la triste storia delle questioni morali in Italia. Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! In questi ultimi giorni molti cittadini si domandavano: c’è un Governo? Ci sono degli uomini o ci sono dei fantocci? Questi uomini hanno una dignità come uomini? E ne hanno una anche come Governo? Io ho voluto deliberatamente che le cose giungessero a quel determinato punto estremo, e, ricco della mia esperienza di vita, in questi sei mesi ho saggiato il Partito; e, come per sentire la tempra di certi metalli bisogna battere con un martelletto, così ho sentito la tempra di certi uomini, ho visto che cosa valgono e per quali motivi a un certo momento, quando il vento è infido, scantonano per la tangente. Ma un popolo non rispetta un Governo che si lascia vilipendere! Il popolo vuole specchiata la sua dignità nella dignità del Governo, e il popolo, prima ancora che lo dicessi io, ha detto: Basta! La misura è colma! L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. Tutti sappiamo che ciò che ho in animo non è capriccio di persona, non è libidine di Governo, 31 non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la patria.1 E ora veniamo al nocciolo della questione: l’onorevole Tafazzi dice che per lui le intercettazioni non sono un problema. Intercettatemi pure, dice, non ho nulla da nascondere io! Questo grida... e lo credo bene. Dei 102 milioni di italiani intercettati dal primo vagito emesso nella culla all’esalazione dell’ultimo respiro nella tomba, non ce n’è nessuno, dico nessuno, che sia noioso come l’onorevole Tafazzi. Ho avuto modo di parlare io stesso con l’appuntato dei carabinieri che ne controlla le utenze. Povero disgraziato! È sull’orlo del suicidio. Mai una discussione interessante, sempre politica, sempre l’interesse degli italiani, sempre il bene dell’Italia. Ma basta! Fatti un’amante. Come fai a vivere da trent’anni sempre con la stessa donna. Non ti sei ancora stufato? Io stesso proporrò un emendamento alla legge: chi ha la sventura di intercettare Tafazzi deve avere diritto al pensionamento anticipato, come i minatori del Sulcis che soffrono di silicosi, è uno dei pochi lavori usuranti rimasti. Il massimo della trasgressione c’è stato un paio di mesi fa quando Tafazzi e la moglie si sono augurati buon anniversario di matrimonio chiamandosi Molly Pucci e Cippa Lippa. L’appuntato è stato ricoverato per un attacco acuto di diabete. Ma come si fa? Non è vita questa! Dove sono i festini a luci rosse? Dove sono le telefonate dei pusher? Per concludere, onorevoli colleghi, in cosa consiste la vera libertà? Nell’imbavagliare la stampa! Nel limitare lo strapotere della magistratura! Solo così gli italiani potranno fare quello che gli pare e piace, sempre e co- 1 Tratto dal discorso di Mussolini sul delitto Matteotti alla Camera dei Deputati (3 gennaio 1925) 32 munque. Questo vi prometto e io le promesse le mantengo, perché sono un imprenditore e non un politico!» Ai 72 minuti di discorso seguirono 144 minuti d’applausi. I banchi dell’opposizione vennero sgomberati perché i deputati tentavano di non applaudire a tempo. C’era grande entusiasmo nell’aula, ma un sottosegretario fece notare che un comma della legge poteva impedire la trasmissione della prossima stagione del Grande Fratello. Con celerità venne emendato prima della plebiscitaria votazione finale con l’usuale ricorso alla fiducia d’ufficio. Ora possiamo affermare che l’iter, durato vari anni, della cosiddetta legge “proteggi-mariuoli” è giunto all’epilogo. Gli italiani ne sono finalmente certi: la loro privacy è tutelata. Potranno dirsi Molly Pucci e Cippa Lippa al telefono senza tema di essere presi in giro sul giornale, ma soprattutto potranno ancora assistere alle prossime puntate del Grande Fratello. Dal nostro inviato in Parlamento 2015: Alemanno protesta contro i dazi doganali imposti sul Grande Raccordo Anulare Roma, 1 luglio 2015. Questa mattina si è tenuta nella piazza del Campidoglio la prevista manifestazione a cui ha partecipato il sindaco Gianni Alemanno con tutta la giunta comunale. Se non fosse stato per il comizio, si sarebbe trattato del solito anonimo inizio di una afosa giornata di luglio e, invece, a riscaldare ancor di più gli animi ha provveduto una norma doganale di cui si è avuta notizia nei giorni scorsi. Infatti, il Governo Federale, competente in mate33 ria fiscale, ha deciso di imporre l’ennesimo balzello alle già fragili economie dei nostri comuni. Si tratta del dazio doganale esteso a tutti i varchi nelle cinte murarie dei comuni con più di 3.000 abitanti. Appena è giunta la notizia, il sindaco Alemanno si è subito attivato perché nelle nuove mura romane, costruite due anni fa a tempo di record all’altezza del Grande Raccordo Anulare (GRA), sono presenti 32 porte, corrispondenti alle uscite dello stesso raccordo, e queste vengono attraversate da milioni di cittadini romani ogni giorno. Secondo le prime indiscrezioni, la nuova imposta vorrebbe imporre un pagamento per il diritto di passaggio e quindi colpirebbe tutti, dai trasporti commerciali ai privati cittadini. Durante la manifestazione, il sindaco ha dichiarato: “Questo provvedimento del Governo Federale è un nuovo attacco leghista alla nostra città. Ho già protestato con energia nei mesi scorsi perché sulle carte topografiche e sui cartelli di segnalazione autostradali del Nord Italia, la nostra bella città viene segnalata come ‘Roma Ladrona’, ma ora si sta passando il segno. Ho già contattato i miei colleghi sindaci interessati dal provvedimento per concertare un’azione comune, non si capisce infatti perché il balzello sia imposto solo alle città a sud di Grosseto, o meglio, si capisce benissimo! Noi non ci piegheremo: non faremo pagare ai nostri cittadini l’incompetenza del governo centrale. Nel caso le risposte fossero insoddisfacenti, mi impegno io stesso con la mia guardia civica: armati di ariete abbatteremo le porte di Roma”. Il sindaco, al suo secondo mandato, è accompagnato da Renata Polverini, Presidente della Confederazione delle terre di Ciociaria, dell’Agro Pontino e dei Colli Albani, anch’ella riconfermata al secondo mandato. La Polverini ha dichiarato: “Ho voluto essere presente per solida34 rietà al sindaco Alemanno. Questo è un nuovo segnale di prevaricazione delle Confederazioni del Nord nei confronti di quelle centro-meridionali. Se queste sono le premesse del neonato federalismo, non mi stupisco che molti intellettuali del Sud Italia stiano affermando con sempre più forza il diritto alla secessione”. La manifestazione, partita dalla piazza del Campidoglio, si muoverà a piedi verso l’uscita 17 di Tor Bella Monaca per poi proseguire lungo tutto il GRA, opera monumentale che ha ispirato a grandi artisti romanze indimenticabili. Durante il tragitto, i manifestanti marciano al ritmo di alcune di queste canzoni. La più gettonata è quella dedicata nel 2001 da Venditti-Guzzanti proprio al raccordo: All’uscita dar flaminio c’è: “a cassia bisse”, pe via due ponti c’è ‘n pezzo contromano, mejo ‘na murta dell’ingorgo, c’è ‘npo de ghiaia ce poi morì de vecchiaia... E allora vieni con me, amore, sul Grande Raccordo Anulare, che circonda la capitale, e nelle soste faremo l’amore, e se nasce una bambina poi la chiameremo Roma! e er fratello... CUPPOLONE! Il percorso, seguendo il raccordo, si snoda attraverso le 32 uscite e lambirà quindi la nuova cinta muraria di Roma. Come è noto, le mura che circondano ormai gran parte dei centri abitati italiani, molte delle quali ancora in costruzione, sono state volute all’inizio del decennio dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, in accordo con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Alte35 ro Matteoli. L’idea era quella di ridare slancio all’economia italiana, piegata da anni di crisi finanziaria, per mezzo di un poderoso ricorso alla costruzione di opere pubbliche, sulla falsariga del New Deal del presidente americano Roosevelt che segnò la fine della grande Depressione degli anni ‘30. L’innalzamento delle cinte murarie ha impiegato un notevole numero di disoccupati ed è stato necessario ricorrere anche a immigrati extracomunitari irregolari. Questa iniziativa ha fatto da volano a tutta l’economia italiana. Ne ha tratto giovamento l’indotto dell’edilizia, l’industria automobilistica delle macchine di movimentazione terra, le società di catering, le agenzie di lavoro interinale e gli scafisti nordafricani. Le nuove mura di Roma e le accessorie che circondano l’enclave vaticana sono state innalzate dalla società “Anemone’s Walls”, che si è aggiudicata gran parte degli appalti nelle città con più di 15.000 abitanti. Poco importa se il costo previsto è più che raddoppiato: ora Roma possiede un’opera fondamentale per il suo sviluppo. Purtroppo, appena le prime costruzioni sono giunte alla conclusione, ci si è accorti che le porte di accesso potevano costituire una nuova fonte di approvvigionamento per le esangui casse federali. Ecco, quindi, comparire in molti comuni la figura dell’armigero addetto all’esazione dei dazi doganali. Questo impiegato comunale, esecrato dai cittadini che hanno la necessità di muoversi da un comune all’altro, ferma tutti i veicoli a trazione animale e i veicoli a motore, dal TIR al Ducato, e richiede il pagamento del dazio, dopo aver posto le consuete domande: “Chi siete? Dove Andate? Cosa portate? Un fiorino!” Questa situazione aveva fino ad ora risparmiato i pedoni, così nelle regioni del sud sono sorte cooperative di 36 camalli i cui braccianti si caricano sulla schiena le merci permettendone il passaggio gratuito. La nuova norma prevede che anche i pedoni siano tassati ed è per questo che Alemanno e la Polverini protestano. La discussione è accesa anche nel Senato Federale. L’opposizione sostiene timidamente che il provvedimento sia un’ulteriore concessione della maggioranza alle richieste della Lega. A queste critiche infondate, hanno risposto, a reti unificate sui canali della RAFI (Radio Audizioni della Federazione Italiana) i portavoce della maggioranza. Fabrizio Cicchitto sostiene che le critiche dell’opposizione sono pretestuose e non fanno che confermare le difficoltà presenti nella stessa minoranza. Roberto Calderoli dichiara: “L’arte di arrangiarsi dei meridionali trova sempre nuovi modi per evadere le tasse. Nessun padano si sarebbe sognato di camallarsi un intero TIR di ‘Kinder Pinguì’, come invece so che è accaduto alle porte di Napoli”. Roberto Cota, invece, dice: “Il Governo si è appena sbarazzato dell’esercito di immigrati irregolari che ha illegalmente partecipato alla costruzione delle mura romane. È ora che anche i vucumprà, con in spalla i loro falsi oggetti firmati, paghino le tasse”. Il sindaco Alemanno è ora in marcia oltre l’uscita 12 della Centrale del Latte. Mentre seguo il corteo, le bandiere garriscono al vento sullo sfondo di un limpido cielo azzurro. A questa vista nasce la speranza di un avvenire senza ingiusti pedaggi e senza più frontiere. Forse ci vorranno vent’anni, ma un giorno Tremonti scoprirà che le demolizioni possono ridare slancio all’economia e allora, finalmente, crolleranno i muri che dividono i nostri comuni, però in attesa di quel giorno dovremo sentirci chiedere ancora per molto: “Chi siete? Dove Andate? Cosa portate? Un fiorino!” 37 Dal nostro corrispondente da Roma 2013: Scandalo! TAFAZZI sorpreso con un trans Roma, 2 luglio 2013. Un ennesimo scandalo a sfondo sessuale colpisce il mondo politico della capitale. ‘Libero’, il quotidiano diretto da Vittorio Feltri, esce con un’edizione straordinaria e riporta in prima pagina a caratteri cubitali un titolo di cui si vociferava già nella serata di ieri: TAFAZZI è stato sorpreso in compagnia, per usare un eufemismo, di un transessuale. Lo scandalo esplode proprio nel momento in cui il segretario del PDSC, l’ex-PD Pier Luigi Tafazzi, aveva appena lanciato una campagna moralizzatrice, risollevando la questione morale dopo le malversazioni, ma sarebbe più corretto definirle ragazzate, che hanno coinvolto esponenti del centro-destra e, soprattutto, dopo la recente approvazione della legge anti-intercettazioni. Questa nuova notizia boccaccesca è solo l’ultima di una lunga serie che ha colpito personaggi più o meno noti di ogni ambiente. Per segnalare solo gli avvenimenti più significativi, possiamo iniziare ricordando la vicenda drammatica di Lapo Elkann, uno degli eredi della famiglia Agnelli, che nel 2005 fu ricoverato nel reparto di rianimazione dell’Ospedale Mauriziano di Torino in seguito a una overdose di stupefacenti (cocaina ed eroina) che lo colse in casa del transessuale allora cinquantasettenne Patrizia. Fortunatamente Lapo si è brillantemente ristabilito dopo quell’episodio, ma sulla guida Michelin dei personaggi più in vista, il “VIP’s Who’s Who”, viene ancora citato come “l’uomo che ha ridefinito il concetto stesso di figura di merda”. 38 Come è noto, anche il mondo politico non si esime dal fare la sue belle figure. È del 2007 la serie di foto che ritrae Silvio Sircana, il portavoce dell’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi, mentre nella sua automobile scambia due parole con un trans appoggiato al finestrino. Pare che volesse solo chiedere per curiosità alcune informazioni, insomma era solo un’indagine di mercato, ma la vicenda ebbe comunque i suoi poco edificanti strascichi. Si arriva quindi al caso più noto, quello che coinvolse nel 2009 l’ex-Governatore della Regione Lazio, Piero Marrazzo. A distanza di tanti anni, l’inchiesta presenta ancora molti punti oscuri che non è il caso di discutere in questa sede. Fatto sta, comunque, che i giornali uscirono con la notizia di un Marrazzo ricattato da quattro persone, tutte appartenenti all’arma dei Carabinieri, in possesso di un video che mostrerebbe un incontro tra l’ex-Governatore, con apparente presenza di sostanze stupefacenti, e un transessuale, Brenda, deceduto successivamente in circostanze sospette. Grazie a questo fatto, Piero Marrazzo, per il momento, ha strappato a Lapo Elkann la nomination per “l’uomo che ha ridefinito il concetto stesso di figura di merda” del secolo. Dopo aver citato due politici di sinistra, solo per par condicio, ricordiamo anche la vicenda che ha interessato nel 2010, esattamente tre anni fa, un esponente marginale del Pdl, il consigliere della provincia di Roma Paolo Zaccai, ricoverato in ospedale dopo un festino a base di trans e coca. La lista quindi è lunga e non comincia né si ferma qui. Ora è la volta di Tafazzi. Il segretario si è immediatamente dichiarato estraneo ai fatti e ha querelato ‘Libero’ per diffamazione. Il direttore Vittorio Feltri, già noto per aver montato anni fa il caso Boffo nei confronti del quale ha poi chiesto scusa, si è detto tranquillo e sereno. 39 Intervistato dal direttore Augusto Minzolini in diretta al TG1, ha risposto: “Io e i miei cronisti non dobbiamo rimproverarci nulla. Abbiamo solo ottemperato al diritto di cronaca. I fatti parlano chiaro: nel pomeriggio di ieri due investigatori dell’arma dei Carabinieri, con regolare mandato, hanno fatto irruzione nell’appartamento romano di un transessuale noto come Samantha. Nell’appartamento hanno reperito stupefacenti di vario genere e nel letto in compagnia del trans, stordito dalla droga, hanno trovato un uomo. Verificate le generalità per mezzo della carta d’identità plastificata, che era stata usata per prepararsi le piste di cocaina, l’uomo è risultato essere Gian Luigi Tafazzi...”, il direttore del TG1 ha interrotto Feltri e lo ha corretto: “Vorrai dire Pier Luigi Tafazzi!”, ma il direttore di ‘Libero’ ha replicato: “No, Gian Luigi Tafazzi, ragioniere di Agrate Brianza a Roma per un convegno”. Minzolini perplesso ha insistito: “Ma sul tuo giornale c’era scritto...” e Feltri ha concluso: “... che Tafazzi è stato sorpreso con un trans. Mica si parlava di Pier Luigi Tafazzi, non c’è scritto da nessuna parte nell’articolo. L’avete letto l’articolo, vero?”. Il caso quindi si è rivelato una bolla di sapone, ma il dibattito politico ha continuato a infuriare. Anche se il segretario Pier Luigi Tafazzi ha subito ritirato la denuncia per diffamazione e ha porto le sue scuse al direttore Vittorio Feltri, numerosi esponenti del centro-destra hanno colto l’occasione per esprimere le loro perplessità. Il ministro per i Beni e le Attività Culturali, Sandro Bondi, sostiene: “È un malcostume diffuso nella sinistra quello di leggere i titoli ma di non approfondire i contenuti degli articoli”. Il portavoce del Pdl, Daniele Capezzone, dice invece: “Tafazzi ha la coda di paglia, altrimenti non avrebbe reagito in quel modo”. Fabrizio Cic40 chitto dichiara: “Ora che Tafazzi è colpito in prima persona, si renderà conto finalmente di quanto fosse necessaria la cosiddetta legge-bavaglio, fortemente voluta dal nostro Governo”. Gaetano Quagliariello dice: “La privacy degli italiani è ancora violata ogni giorno; urgono ulteriori severi provvedimenti per tutelarla, provvedimenti che il nostro Governo non tarderà ad assumere”. Umberto Bossi interviene con orgoglio: “Solo i leghisti escono sempre immacolati da queste vicende. Noi non ci mescoliamo mai con questi... questi... come dite a Roma? Froci?”. Infine, Maurizio Gasparri: “No comment. Quando ci sono di mezzo dei trans mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. Solo Silvio Berlusconi, chiudendo questa rassegna di interventi, offre la sua solidarietà: “Anch’io sono stato ingannato. In effetti, mi sembrava strano un colpo d’ala di Tafazzi, ma l’articolo di ‘Libero’ era così ben confezionato. Complimenti al direttore. È un peccato, perché Tafazzi aveva acquistato dei punti, ma ora ricade nel suo alone di mediocrità. Pier Luigi, non pensare solo alla politica, fatti una vita!” Dopo queste parole di incoraggiamento e di sostegno nei confronti del segretario Tafazzi, duramente colpito dallo scandalo, rimane un solo dubbio. Chi sarà il prossimo a dover soccombere, sopraffatto dall’ingerenza del mondo dell’informazione, sotto i colpi della stampa? Noi auspichiamo che venga potenziata la legge che l’opposizione, con il suo solito spirito di patata, si ostina a chiamare “legge bavaglio”. Solo allora i giornali non potranno che risplendere della purezza della legalità e la virilità della classe politica italiana non sarà più messa in discussione. Dal nostro corrispondente da Roma 41 2013: Il Dr. House e il delirio del Presidente Roma, 3 luglio 2013. Dopo le ultime fatiche causate dai lavori parlamentari e dalle attività di governo, il Presidente si è preso un paio di giorni di vacanza per riposare ed effettuare il suo consueto check-up periodico. I comunicati ufficiali si fermano qui: tre righe relegate nelle pagine interne dei giornali. Grazie alle nostre fonti bene informate, possiamo invece rivelare ai nostri lettori che cosa è accaduto veramente... Il Presidente riposa supino sul letto della sua stanza d’ospedale. Intorno a lui gli amici più cari gli tengono compagnia, scherzano, ridono, ricordano i vecchi tempi. A un tratto entra il suo medico personale che, con un cenno, invita i presenti ad allontanarsi. Questi salutano e lasciano rapidamente la stanza. Il medico è visibilmente preoccupato. Prima di parlare, alza ancora una volta la lastra che tiene in mano e la osserva attentamente contro la luce del neon che illumina la stanza. Il Presidente, che fino a quel momento era molto allegro, si fa scuro in volto e chiede preoccupato: «Cosa c’è? Qualcosa non va?» «Nulla» risponde il medico, «c’è solo una macchiolina. Compare e sparisce periodicamente. L’ultima volta credevo che si trattasse di un falso positivo, ma ora è ricomparsa.» «Che cosa significa? Può essere un tumore?» «Non sono un esperto del campo, lo sai, io sono un cardiologo. Qualcosa c’è, ma occorre uno specialista.» 42 SIGLA del Dr. HOUSE… Il primario di neurologia e quello di oncologia dell’ospedale furono chiamati d’urgenza. Di fronte alla lastra rimasero perplessi, ordinarono una TAC, una risonanza e altri sei diversi tipi di analisi ciascuno, ma si vedeva chiaramente che non avevano idea di cosa potesse trattarsi. Fecero inoltre i nomi di alcuni esperti che era opportuno chiamare a consulto, svizzeri e americani, ma i due primari non erano d’accordo su quale fosse la specializzazione più adatta a chiarire il problema. Il Presidente, già esasperato per essere relegato in quel letto, era infastidito dal fatto di non avere la situazione sotto controllo, quindi sbottò dicendo: «Ci penso io. Voglio il miglior diagnosta del mondo.» «Certo» disse il primario di neurologia, «tutti i medici che abbiamo citato sono dei luminari nel loro campo...» «No» replicò perentorio, «io voglio il migliore. Chiamatemi il dottor House! Non importa quanto costa, me lo posso permettere. Chiamatelo! Anzi, fate venire tutta l’equipe!» Il primario balbettando chiese: «Il... il dottor House? Ma...» Lo interruppe il medico personale: «Certo, certo. Come abbiamo fatto a non pensarci prima. Il dottor House, certamente!» e così dicendo trascinò i colleghi fuori dalla stanza. Chiuse la porta e spiegò: «Scusate, ma quando fa così bisogna assecondarlo. Deve essere un effetto di quella macchiolina: gli provoca delirio di onnipotenza e non riesce più a distinguere la realtà dalla fantasia. Può affermare con convinzione qualcosa e, dopo pochi giorni, sostenere esattamente il contrario con altrettanta convinzione, per giunta dimenticando che prima la pensava in un altro modo.» 43 Uno dei primari commentò preoccupato: «Te n’eri già accorto? Perché non hai detto nulla? Se quello che dici è vero, non si può lasciare in mano a una persona così instabile la guida del paese.» «Perché non l’ho detto? L’ho fatto presente! L’ho comunicato al ‘grande vecchio’ ma lui mi ha fatto capire che la situazione era sotto controllo... e comunque vi consiglio di tenere tutto per voi: può essere molto pericoloso rivelare certi segreti. Io non vi ho detto nulla.» Nel frattempo, i più stretti collaboratori del Presidente erano in agitazione. La richiesta era precisa: bisognava contattare il dottor House e convincerlo a effettuare una visita su un caso che poteva non interessargli. Di per sé l’impresa era già titanica, ma diventava impossibile dal momento che il dottor House non esiste! È solo il personaggio immaginario di una serie televisiva. Gli esperti dell’Unità di Crisi non riuscivano a trovare una soluzione accettabile. Per il momento il Presidente era trattenuto nella sua camera, ma se fossero trapelate le sue richieste pazzesche, le conseguenze per il governo sarebbero state drammatiche. Alla fine, il più recente acquisto dell’Unità, un giovane ragioniere, propose la sua idea con la spavalderia della gioventù: «Il Presidente vuole il dottor House. Pensavamo che dopo qualche ora avrebbe cambiato idea, ma insiste. Non resta che assecondarlo. Diamogli il dottor House!» Gli altri membri dell’unità si guardarono esterrefatti, convinti ormai che quella forma di pazzia fosse contagiosa. Il ‘grande vecchio’, che era presente alla riunione e aveva ascoltato tutto ma non aveva detto nulla, interruppe la discussione e disse: «Giusto! Chiamiamo il dottor House!» e, prima di uscire dalla sala, camminan44 do appoggiato al suo bastone, aggiunse: «Il ragazzo ha delle buone idee. Promuovetelo ragioniere capo.» Non fu facile convincere Katie Jacobs, la produttrice esecutiva della serie “Dr. House - Medical Division”, a interrompere le riprese della decima stagione che erano in pieno corso. Non si trattava solo di una questione di denaro, ma anche di scadenze. Alla fine, la produzione si convinse a lasciar partire una parte del cast: Hugh Laurie, Robert Sean Leonard, Omar Epps e Peter Jacobson. Nel frattempo, avrebbero continuato la lavorazione con gli attori rimasti. Il costo fu notevole, il solo Hugh Laurie guadagna 400 mila dollari a episodio e, vista la richiesta così particolare, fu necessario anticipare il 70% dell’onorario e accendere un mutuo per il resto. Fortunatamente, il sistema sanitario nazionale prevede che queste prestazioni siano interamente a suo carico e quindi non fu un problema reperire i fondi. Quella sera stessa l’aereo presidenziale decollò dal New Jersey con a bordo i quattro attori. Il mattino dopo erano già pronti per prendere servizio in ospedale. Roma, 4 luglio 2013. Chris Taub (interpretato da Peter Jacobson) ed Eric Foreman (Omar Epps) si ritrovarono di fronte alla porta a vetri dello studio di House su cui era riportata la scritta ‘Gregory House – MD’. «Però! Hanno fatto le cose per bene, è tutto come sul set» disse Taub. Foreman aggiunse: «È perfino troppo realistico. Senza la confusione della troupe e le telecamere mi sento a disagio.» Entrarono nello studio. All’interno House (Hugh Laurie), James Wilson (Robert Sean Leonard) e il medico personale del Presidente stavano già discutendo. Taub 45 indossava il camice, mentre Foreman e Wilson erano in giacca e cravatta. Anche House aveva la giacca, ma senza cravatta e la camicia aperta mostrava una t-shirt blu. Era seduto alla scrivania e giocherellava con il suo bastone. Come sempre Hugh Laurie era immediatamente entrato nella parte. Il medico del Presidente si era appena presentato: «È un grande onore conoscerla. Ho seguito tutte le puntate del suo telefilm e le trovo molto istruttive» disse tendendo la mano. House osservò la mano tesa e facendo roteare il bastone con la destra disse: «Ti ringrazio per il benvenuto e ti stringerei volentieri la mano, se la mia non fosse occupata.» Il medico perplesso ritirò la mano e osservando gli assistenti che erano appena entrati aggiunse: «Benvenuti! Sono molto contento che abbiate accettato di darci... ehm... una mano per risolvere il nostro ‘piccolo’ problema. Troverete tutta la documentazione in questi faldoni» disse indicando una pila di cartelle, «e il paziente è a vostra disposizione per le visite. È impaziente di conoscervi.» «Carina questa!» disse House. «A quanto pare il paziente è impaziente... che sottile senso dell’umorismo.» Wilson, sorvolando sulla battuta di House, disse: «Grazie di tutto. Ora ci riuniremo per discutere il da farsi. Se avremo bisogno la chiameremo.» Il medico sembrava titubante a lasciare lo studio. Dopo qualche istante si decise e disse: «Prima di lasciarvi, volevo sottoporvi un mio piccolo problema personale.» House smise di far roteare il bastone e replicò: «Ci piacerebbe tanto risolverlo, ma non siamo ginecologi.» Wilson lanciò un’occhiataccia a House e disse: «Ci dica, saremo felici di esserle d’aiuto.» 46 Il medico prese coraggio e iniziò a raccontare. Mentre parlava, House aveva l’aria di un uomo la cui pratica della misantropia, ormai esercitata da una vita, era prossima al conseguimento della massima perfezione. «Ecco, ho questo dolore...» iniziò a dire. «Un momento» lo interruppe House, «facciamo un passo alla volta. Sei malato?» «Beh, non lo so, era appunto per questo...» «Non divaghiamo, non ho tutta la giornata. Ho fatto una domanda molto semplice, sei malato sì o no?» «Penso di sì.» «È già qualcosa. E quali sono i sintomi?» chiese House con il tono di chi sta pensando a qualcosa di più interessante. Il medico prese coraggio e cominciò a elencare: «Bene, dottore, ho un terribile mal di testa, la mia schiena mi sta uccidendo, ho problemi nel camminare ed è comparso un grosso bubbone sotto l’ascella destra.» Wilson, Foreman e Taub si guardarono allarmati, mentre House con tranquillità disse: «Non ti preoccupare, sarai morto entro la settimana e poi non ti farà più male.» Il medico più sorpreso che preoccupato replicò: «Speravo in qualcosa di più ottimistico!» «Non lavoro nel ramo della speranza.» «Ma non mi potrebbe dare qualche suggerimento su come ridurre il dolore, rimanere in vita, o cose utili come queste?» House sospirò e disse: «Il dolore è un toccasana per l’anima. Ritieniti fortunato.» «Ma mi permetta di parlarle degli altri miei sintomi...» 47 House sbottò: «Non farlo, sono sicuramente molto noiosi. Il tuo non è un caso interessante dal punto di vista clinico. Ora lasciaci lavorare.»1 Wilson più comprensivo chiese: «C’è qualcos’altro che possiamo fare?» «No» disse il medico sconsolato, «penso che il dottor House mi sia già stato abbastanza utile.» «Faccio del mio meglio» disse House, «e chiudi la porta prima di andartene.» Il medico personale del Presidente tolse il disturbo e chiuse la porta dietro di sé. Wilson rimproverò House: «Per 400 mila dollari potevi almeno stringergli la mano.» «Wilson, mi stupisco di te. Sai perché ci hanno chiamati: perché io sono il dottor Gregory House! Perciò devo comportarmi da Gregory House. Violerei il contratto altrimenti. Devo fare quello che si aspettano da me e mi ha teso la mano solo perché si aspettava che non gliela stringessi.» Allora Foreman intervenne: «Io mi sto chiedendo che cosa ci stiamo a fare qui il 4 luglio. È festa! È l’unico giorno libero dalle riprese e saremmo potuti stare con le nostre famiglie. Invece ci ritroviamo qui, mi sento come un pesce fuor d’acqua e non c’è lo straccio di un copione.» Pure Taub aveva qualcosa da dire: «Anch’io mi chiedo che cosa ci sto a fare qui. Sono morto alla fine della nona stagione e ho superato i provini per ‘CSI: Chicago’. Mi sento fuori luogo.» Wilson rispose: «Non preoccuparti, in questo paese hanno appena iniziato a trasmettere gli episodi della sta1 Dialogo da “Doctor Kilpatient”, tratto da un esempio del Conversation Package, un’estensione di Eric Eve a Inform7 48 gione scorsa, per loro sei ancora vivo. Però anch’io mi sto chiedendo cosa ci facciamo qui tutti quanti noi.» «Ti rispondo io, Wilson» disse House. «Io sono qui perché ho dei vizi molto costosi e devo guadagnare abbastanza per mantenerli. I vizi costosi sono più esigenti delle ex-mogli. Tu invece mi hai accompagnato perché sei un buon amico e non volevi che mi annoiassi qui tutto solo. Foreman è venuto perché non vuole togliermi il piacere di smascherare le sue diagnosi sbagliate e Taub è qui perché... non lo so, perché sei qui Taub? Tu sei morto!» Taub rispose sinceramente: «La produzione si è privata volentieri di me, visto che non sono più nel cast. Inoltre, le riprese di ‘CSI: Chicago’ iniziano il mese prossimo e quindi sono libero.» «Bene, ora che tutti sappiamo perché siamo qui» disse Wilson, «come ci regoliamo? Dobbiamo davvero studiare tutte queste cartelle cliniche? Senza copione mi trovo anch’io un po’ a disagio.» «Non vedo il problema» disse House, «dopo dieci anni di episodi qualche tecnica di pronto soccorso l’avrà imparata pure Foreman! Per conseguire una laurea in medicina con relativa specializzazione ci vuole molto meno tempo.» Detto questo, si mise a cancellare la lavagna, mentre i tre attori si accomodavano al tavolo occupando i loro soliti posti. Wilson, prese la lastra dove compariva la macchiolina nel cervello del Presidente e cominciò a osservarla controluce. House disse: «Forza, elencate i sintomi!» e mentre li dettavano prese a scrivere sulla lavagna. - Manie di grandezza! - Mania di persecuzione! - Dice una cosa poi ne fa un’altra! - Promette cose assolutamente irrealizzabili! 49 - Si convince di aver mantenuto le promesse fatte! House si fermò a riflettere e disse: «Noi, anche noi siamo un sintomo. Crede che il Dr. House esista veramente. Confonde la realtà con la fantasia. Ma ci deve essere ancora un altro sintomo nascosto, che non riusciamo a vedere. Servono delle analisi. Cosa proponete?» Foreman azzardò: «Per me è sifilide. Ho sentito dire che il Presidente conduce una vita sessuale sregolata. La sifilide porta alla pazzia e tutti i sintomi la confermano.» House rispose: «Deve sperare che lo sia perché è curabile. Tu che hai dei trascorsi da scassinatore, andrai a casa del Presidente e la perquisirai. Ogni indizio può essere determinante.» Era il turno di Wilson: «Potrebbe essere un falso positivo. Io propongo di rifare la TAC.» «Sei tu l’oncologo. Una macchia è sempre una macchia, ma meglio che si trovi sull’obiettivo piuttosto che nel cervello. Ti occuperai della TAC.» Infine, venne il turno di Taub: «L’unica cosa che mi viene in mente è che sia un tumore maligno con metastasi nel cervello non ancora diffuse nel resto del corpo.» «Questa diagnosi non serve a nulla» disse House, «perché se fosse così non ci sarebbe più niente da fare. Quell’incompetente del medico personale ha sottovalutato i segnali e ora potrebbe essere tardi. Ma non può essere come dici, Taub, perché manca un sintomo: l’allopecia androgenetica da cui il Presidente non è assolutamente affetto. Aiuterai Wilson con la TAC. Io invece rimarrò qui a guardare la TV, a quest’ora trasmettono le repliche della prima stagione del Dr. House e doppiate nella lingua locale... uno spasso!» I collaboratori uscirono rapidamente dallo studio ognuno con il suo compito da svolgere. House rimase solo e 50 ripeteva tra sé e sé: «Manca un solo sintomo... l’allopecia androgenetica...» Roma, 5 luglio 2013, mattina. Taub si trovava accanto alla macchina della TAC vicino al Presidente, che era disteso sul lettino, pronto per essere introdotto nel solenoide. Nella sala di controllo assistevano all’esame il ‘grande vecchio’, sempre appoggiato al suo bastone, il medico personale del Presidente e il giovane ragioniere appena promosso ragioniere capo, mentre Wilson era seduto di fronte ai monitor. Taub chiese: «Presidente, le hanno già fatto queste domande, ma è bene essere sicuri. Ha qualche oggetto di metallo addosso, o chiodi nelle ossa, oppure otturazioni?» Il Presidente osservò Taub, sfoderò un sorriso che sembrava composto da 36 denti e disse con tono affabile: «Dottor Taub, le sembra che con questo camicione io abbia la possibilità di nascondere oggetti metallici? Per il resto non ho fratture chiodate e i miei denti sono impianti in pura ceramica.» «Vedo» disse Taub, «lo chiedo solo perché la TAC...» «Io, invece, mi chiedevo dottor Taub, perché un professionista come lei insiste a lavorare per il dottor House. Non mi pare che dimostri di apprezzare le sue qualità. Lei invece, a quanto mi risulta, era uno stimato chirurgo plastico.» «Sì, è così, però...» «Secondo lei, c’è qualcosa che potrei migliorare nel mio aspetto? Ho 77 anni, anche se non li dimostro per nulla, e i miei concorrenti politici sono molto più giovani di me. Devo sostenere una competizione serrata. Cosa ne pensa?» Taub rifletté per qualche istante, pensava tra sé e sé che il Presidente rischiava di essere seriamente malato, ma 51 continuava a preoccuparsi solo per il suo aspetto esteriore. È proprio vero, il mondo della politica è tutta apparenza e nessun contenuto. Poi si scosse e disse: «Non lo so, Presidente. Lei fisicamente mi sembra in piena forma. Forse le orecchie, sì le orecchie sono un po’ sproporzionate...» «Le ho già fatte sistemare. Mi hanno assicurato che di più non si può fare.» «Allora, l’altezza» ritentò Taub, «si potrebbero segare i femori e con degli inserimenti in osso antirigetto si possono recuperare fino a 10 centimetri.» «È un’operazione che si può ripetere più volte?» «No.» «Anche questa l’ho già fatta» concluse il Presidente deluso, poi cambiò discorso: «Quando potrò vedere il dottor House? Sono impaziente di conoscerlo di persona.» Intervenne Wilson attraverso l’interfono: «Se è pronto, Presidente, iniziamo l’esame. Deve rimanere immobile per i prossimi dieci minuti.» Il lettino cominciò a scivolare all’interno del solenoide. «Se dovesse provare un senso di claustrofobia, è sufficiente che faccia un cenno e interromperemo immediatamente l’esame.» Mentre la macchina cominciava l’analisi, House entrò nella sala controllo: «Come stiamo andando?» «Abbiamo appena iniziato» rispose Wilson. House notò il ‘grande vecchio’ che osservava tutto in disparte e pensò che avesse un gran bel bastone, in fibra di titanio, leggerissimo. Aerografato a dovere sarebbe stato perfetto. All’improvviso entrò anche Foreman, tutto trafelato. «Che è successo?» chiese sorpreso House. «Sembra che tu sia stato rincorso da una muta di rottweilers.» Foreman era infuriato: «Questa è l’ultima volta che vado a ispezionare l’abitazione di un paziente per te! 52 Prima ho dovuto scoprire dove abitava il Presidente. Nel paese ha 18 ville e 9 palazzi, altrettanti all’estero. Così ho scelto la residenza più vicina. Mi sono introdotto furtivamente dall’entrata secondaria come facciamo sempre, ma sono stato immediatamente illuminato dalle fotoelettriche, è comparso dal nulla un reggimento di teste di cuoio e una muta di rottweilers mi ha inseguito per chilometri. Sono vivo per miracolo!» «C’è un lato positivo: ora hai qualcosa da raccontare, quando qualche studente ti dirà che ha scelto medicina perché fare il medico è un lavoro tranquillo.» Il ‘grande vecchio’ intervenne: «Perché non avete chiesto le chiavi? Non ci sarebbero state obiezioni.» House rispose: «Avreste fatto sparire gli indizi più compromettenti, mentre noi abbiamo bisogno di scoprire come stanno veramente le cose. I pazienti hanno una strana abitudine: mentono sempre e se hanno qualcosa da nascondere... la nascondono. Ironia della sorte, è proprio ciò che nascondono che li fa stare male.» «Questo vale anche per i politici: nascondono quello che sono perché la verità fa perdere loro voti» aggiunse il ‘grande vecchio’, «ma è quello che sono che fa stare male il paese.» Poi continuò: «Io non ho problemi a mostrarmi per ciò che sono, un vecchio di 97 anni. Il mio corpo cade a pezzi, ma il mio cervello è ancora pronto e reattivo come quello di un settantenne. L’ho sempre tenuto allenato. Ho tramato nell’ombra per decenni, ho manovrato come marionette tutti questi politici senza talento, questi bei sepolcri imbiancati utili solo per rastrellare i voti degli allocchi. Consideriamo il Presidente. La sua vita è tutta apparenza. Ha fatto da prestanome sin da quando ha iniziato la sua attività d’impresario. Risulta multi-miliardario ma in realtà i soldi non sono suoi. È anziano ma vuol sem53 brare giovane e così si è sottoposto a molti generi di tortura. Non ne sente più la necessità da anni, ma si fa sorprendere in compagnia di stuoli di belle donne come se non potesse farne a meno. Si è fatto allungare i femori per essere più alto, ma non gli basta e usa scarpe col tacco rialzato. Ha un bel sorriso a 32 denti, in ceramica, ma gli sembravano pochi e ne ha fatti aggiungere quattro. Ha rimosso borse e zampe di gallina con la chirurgia plastica, ma teme che si vedano ancora e si spalma cerone a volontà. Ha nascosto la calvizie con un trapianto di capelli sintetici, ma...» Lo interruppe House: «Capelli trapiantati?» A quel punto, Wilson disse: «Analisi completata. Ora...» «… si vedono quattro macchie» disse House. Wilson stupito chiese: «Come fai a saperlo?» «L’allopecia androgenetica: il sintomo mancante, la calvizie. Associata agli altri sintomi rende la diagnosi evidente: il Presidente ha pochi giorni di vita.» Quindi House premette il pulsante dell’interfono: «Taub! Avevi i capelli sintetici a mezzo metro e non te ne sei accorto? Ma che chirurgo plastico sei? Sei licenziato! Anzi, come non detto, dimenticavo che sei già morto!» Taub scosse le spalle come per dire: «Non sono un vero chirurgo estetico, sono solo un attore e poi adesso sono nel cast di ‘CSI: Chicago’.» Il medico personale chiese: «Allora non c’è più nulla da fare?» «Sì» disse House, «si potrebbe radiarti dall’albo! Se fosse stato diagnosticato in tempo, poteva bastare una sonda per sistemare tutto, ma adesso è troppo diffuso. Per ora è solo nel cervello, ma presto interesserà gli altri organi. Un paio di giorni e poi...» 54 Wilson confermò: «Purtroppo, come oncologo... beh sì, interpretando un oncologo, non posso che confermare la diagnosi di House. Lo comunicherò io al paziente, ci sono abituato. Non c’è davvero più nulla da fare.» Il giovane ragioniere, che era rimasto in disparte e aveva seguito tutto, intervenne: «Non si potrebbe eseguire un trapianto di cervello?» House e Foreman risero, mentre Wilson spiegò pazientemente: «Un trapianto di cervello non presenta al giorno d’oggi difficoltà insormontabili, neppure per quanto riguarda il possibile rigetto, ma non si risolverebbe nulla trapiantando il cervello malato in un altro corpo sano.» Il ‘grande vecchio’, che aveva ascoltato la spiegazione in silenzio, lo interruppe: «Questo ragazzo è un genio! Da questo momento siete tutti vincolati dal segreto di stato. Quello che ci vuole è proprio un trapianto di cervello! Non dite nulla al Presidente e preparate la sala operatoria!» Roma, 5 luglio 2013, sera. La sala operatoria era pronta. L’ingresso era presidiato da guardie armate. Tutto si stava svolgendo nella massima segretezza, come aveva disposto il ‘grande vecchio’. House osservava la sala dall’alto. Poteva vedere i lettucci bianchi su cui erano distesi i due pazienti. Su uno di essi giaceva il Presidente. Chissà cosa gli avevano raccontato per convincerlo, forse che era possibile una nuova riduzione delle orecchie? Quella situazione non gli piaceva per niente, ma allo stesso tempo era eccitato e voleva assistere all’operazione: non gli era mai capitato di seguire un vero trapianto di cervello. Al piano di sotto, nell’anticamera della sala operatoria. Foreman, Taub e Wilson si stavano preparando. Taub era preoccupato: «Perché proprio noi?» 55 Wilson cercava di rassicurarlo: «Te l’ho già spiegato. Vogliono che tutto rimanga ristretto a poche persone. Il tempo stringe e non c’è nessuno abilitato a questo genere di operazioni in tutto il paese.» «Noi invece lo siamo?» chiese Taub, ma era una domanda retorica. Foreman, che aveva appena finito di prepararsi, disse con orgoglio: «Io sì. Nella settima stagione ho assistito proprio a questo tipo di operazione.» «Ma sei impazzito? Era per finta, non sei un vero medico, tanto meno un chirurgo!» «Certo» disse Foreman, «avremmo dovuto portarci Chase: è lui il chirurgo dell’equipe. Io comunque gli ho fatto da assistente durante il trapianto di cervello della settima stagione. Sai come ci tengono i produttori esecutivi al realismo della serie. Mi avevano fatto seguire un corso di ben due settimane!» Wilson interruppe il battibecco: «È inutile litigare, ci tocca. Chase non c’è, e forse è meglio perché ha il vizio di far fuori i dittatori. Il tempo stringe e dobbiamo arrangiarci. Foreman che è più pratico eseguirà il trasferimento, io assisto e tu ti occuperai dell’anestesia. House farà il tifo al piano di sopra. Andiamo!» House vide i tre chirurghi entrare nella sala. Prima iniziarono a preparare il Presidente. Taub monitorava l’anestesia, mentre Foreman radeva i costosi capelli sintetici. Poi prese la sega circolare e... ma questi particolari tecnici non sono interessanti, fatto sta che il cervello malato fu rimosso e riposto nel congelatore. Ora toccava al secondo paziente. Si avvicinarono al lettuccio su cui giaceva il donatore addormentato dall’anestesia. House aveva cercato di dissuaderlo. Era un’operazione difficile e il suo corpo malandato non sarebbe sopravvissuto, ma il ‘grande vecchio’ era stato irremovibile. 56 Era quella l’unica soluzione: avrebbe donato il proprio cervello perché il Presidente potesse vivere e continuare la sua opera. Nessuno meglio di lui poteva farlo, perché erano decenni che ne guidava le scelte. Lo avrebbe sostituito egregiamente e, finalmente, avrebbe agito in prima persona, non avrebbe più dovuto muovere i fili di una marionetta inanimata che, per giunta, spesso lo metteva in imbarazzo con i suoi comportamenti al di sopra delle righe. Wilson, con voce tremante, chiese a Foreman: «Sei pronto? Da questo punto in poi non si può più tornare indietro. Ripetimi come farai a eseguire correttamente i collegamenti.» Foreman rispose: «Questi sono particolari tecnici di cui non ti devi preoccupare, basta seguire i codici dei colori delle connessioni.» Wilson non osò più chiedere altro. L’operazione durò undici ore, fino al mattino seguente. Al termine, riposizionate le calotte, Taub procedette alla rianimazione dei pazienti, mentre Foreman si accasciava su una sedia, distrutto. Per il ‘grande vecchio’ però non ci fu nulla da fare. Il suo fisico debilitato non aveva retto allo stress dell’operazione e ne venne dichiarata la morte. Il Presidente invece aveva ripristinato autonomamente le funzioni vitali. Ore dopo, nel reparto di terapia intensiva, gli infermieri si agitavano intorno al letto del Presidente. Erano presenti anche alcuni suoi amici intimi. Uno di questi conversava sottovoce con House: «Il Presidente rimarrà sconvolto dalla notizia. Lui e il ‘grande vecchio’ erano così legati! La sua dipartita ci ha colti tutti di sorpresa. Morire così a soli... beh sì, aveva 97 anni ma li portava bene... beh, diciamo che li portava. Il Presidente invece 57 è stato fortunato, la rimozione della cisti benigna sembra che abbia un decorso positivo.» A un tratto, il Presidente riprese conoscenza e si guardò intorno. Ci volle qualche minuto, ma sembrava riconoscere i volti e le persone. Quando vide House, sorrise con i suoi 36 denti e disse, con una voce ancora impastata dall’anestesia: «Signori, lasciateci. Devo parlare da solo con il dottor House.» Rimasti soli, House si sedette sul bordo del letto e chiese: «Come va?» «Ho un cerchio alla testa, ma mi sento vent’anni di meno» disse il Presidente sorridendo. «Prova a muovere la mano destra.» Dopo qualche istante, il Presidente riuscì a muovere la sinistra. «Non ti preoccupare, può succedere. È questione di alcune connessioni intrecciate, ma con qualche seduta di fisioterapia tornerà tutto normale.» «Non so come...» «Niente ringraziamenti. Questo era l’unico modo per salvare la vita al Presidente. Qualcuno si è dovuto sacrificare, ma era l’unico modo. Non è da tutti avere una seconda occasione, non sprecarla.» Poi, dopo aver riflettuto per qualche secondo, House disse: «Ho due richieste.» «Tutto quello che volete.» «La prima è da parte di Taub. Ha paura di doversi guardare le spalle per tutto il resto della sua vita. In effetti, qualche preoccupazione ce l’ho anch’io. Nessuno ha saputo della sostituzione... a parte noi. Il fatto che il medico personale e il ragioniere capo non si siano più visti in giro ci preoccupa un po’, perché anche loro sapevano.» Il Presidente rispose: «Voi non dovete preoccuparvi. Il medico aveva sbagliato e ha dovuto pagare. La sua negligenza poteva avere gravi conseguenze, o meglio le 58 ha avute, ma ci abbiamo messo una pezza. Il giovane, invece, era intelligente, troppo intelligente, forse anche più di me. Meglio non correre rischi. Voi invece potete stare tranquilli, se anche ne parlaste con qualcuno, chi mai vi crederebbe?» Quindi domandò: «Qual è la seconda richiesta?» House voltò lo sguardo verso un angolo della stanza. Laggiù era appoggiato il bastone del ‘grande vecchio’. Il Presidente capì: «House, prendilo pure. Te lo regalo, a me non serve più.» Dal nostro consulente medico 2013: La stagista e l’intervista al Presidente Roma, 6 luglio 2013. Le voci che descrivevano un Presidente gravemente malato, dopo alcuni giorni di assenza dalla scena politica, si sono rivelate clamorosamente infondate. Ecco la trascrizione dell’intervista a cui la giornalista Clara Bonucci ha sottoposto il Premier, il quale, nel rispondere alle domande, si è dimostrato come sempre in ottima forma. L’intervista è stata proposta in sintesi ai telegiornali della sera e in forma completa negli approfondimenti in seconda serata. [Segue l’intervista] Questo è il comunicato ufficiale, ma grazie alle nostre fonti bene informate, possiamo rivelare ai lettori che cosa è accaduto veramente... Lo staff dell’Unità di Crisi era riunito per fronteggiare l’emergenza. Tre giorni senza mostrarsi in pubblico sono troppi, soprattutto quando la situazione del paese richiede interventi continui. Inoltre, sarebbero trascorse alcune settimane prima di poter garantire una presenza 59 efficace. I nemici interni ed esterni ne avrebbero sicuramente approfittato. Il direttore dell’Unità di Crisi percorreva con lunghi passi nervosi l’intera lunghezza della sala, mentre gli altri membri dello staff ne seguivano con apprensione le evoluzioni. A un tratto si fermò e disse: «Qui ci vuole un’idea geniale. Dov’è il ragioniere capo?» Nessuno lo sapeva e il neoassunto ultima-ruota-del-carro, un ragioniere di Redipuglia, con la spavalderia della gioventù, azzardò: «Sarà in licenza premio.» Il direttore non ci fece caso, riprese a misurare la sala un passo dopo l’altro e, mentre camminava, pensava ad alta voce: «L’ideale sarebbe un’intervista da far trasmettere nei prossimi giorni a tutti i telegiornali. Deve essere rassicurante. Non il solito comunicato registrato che lascerebbe insoddisfatti tutti, non questo. Piuttosto una vivace intervista dialogata, magari con una bella donna. Il Presidente dovrebbe parlare un po’ di tutto, essere affabile come sa fare, magari anche galante, ma senza esagerare... non deve esagerare come al solito, dobbiamo farglielo presente. Che ne dite?» Un consigliere gli fece notare che sarebbe stato l’ideale, ma non era possibile. «Certo» continuò il direttore, «l’intervista che risolverebbe il nostro problema non è possibile, perché se lo fosse non ci sarebbe un problema da risolvere...» Quando iniziava questi discorsi, gran parte dello staff perdeva il filo. «Ci sarebbe una possibilità!» disse il ragioniere di Redipuglia, sempre con l’incoscienza dell’ultimo arrivato. Il direttore si fermò e tutto lo staff si mise a fissare il giovane con uno sguardo inquisitore che diceva: “Eccone un altro che pensa di sapere tutto. Chissà quanto durerà questo.” 60 Dopo aver attirato l’attenzione, troppa attenzione, si sentiva un po’ a disagio, ma preso coraggio cominciò a spiegare: «Sapete che la tecnologia ha fatto passi da gigante, ora nelle tasche abbiamo dei cellulari che autonomamente ci pianificano la giornata secondo i nostri impegni, rispondono per noi alle telefonate, addirittura ci prenotano le ferie...» Il direttore intervenne: «Non mi dica niente! Il mio telefonino mi ha prenotato una vacanza a Courmayeur. Io non ci voglio andare, odio la montagna, ma lui dice che mi fa bene alla pressione... la pressione! Va beh, continui pure» e lasciò la parola al ragioniere, mentre dalla tasca usciva un bip-bip di rimprovero. «Bene, stavo dicendo che ormai l’intelligenza artificiale ha fatto passi da gigante: riconoscimento vocale e facciale, contestualizzazione del linguaggio, scelta della reazione più appropriata, sono tutte tecniche ormai accessibili...» Il direttore ci rimise il becco: «Non ho capito un’acca, ma continui.» «Dunque, all’Università...» Interruppe ancora il direttore: «Ma lei non è ragioniere?» «Sì, ma sono anche laureato. Nel curriculum non l’ho scritto perché i laureati costano troppo e non mi avreste assunto.» «Molto bene» replicò il direttore lanciando un’occhiata fulminante al responsabile assunzioni, «si vede che ha spirito d’iniziativa. Continui e concluda!» «Dunque, all’Università Roma Quattro ho seguito il corso del professor De Giorgis sull’Intelligenza Artificiale applicata alla comunicazione. Una telecamera riprendeva un soggetto umano, l’immagine veniva elaborata da un cluster di computer e su uno schermo era sintetizzata la rappresentazione di un interlocutore che ri61 spondeva a tono alle domande. Non solo, ma ne proponeva a sua volta e riusciva in questo modo a sostenere una conversazione. Si possono utilizzare anche parti preregistrate, ma il sistema può improvvisare su una serie di parametri programmati. È stato il primo automatismo al mondo a superare il test di Turing: il sistema artificiale veniva riconosciuto come umano molto più spesso delle stesse cavie umane.» Il direttore stupito chiese: «Ho intuito dove vuole arrivare, ma chi è questo professor De Giorgis? Non l’ho mai sentito nominare.» Il ragioniere spiegò l’arcano: «Quando il suo sistema si è dimostrato efficace e le prime attestazioni di merito hanno cominciato a giungere dalla comunità scientifica internazionale, il professore ha interrotto le ricerche perché temeva che il ministero gli togliesse i fondi e di doversi trasferire all’estero.» «Molto bene» disse il direttore, «anche questo De Giorgis si dimostra una persona dotata di intelligenza. Contattiamolo e proviamo il sistema. Per quanto riguarda l’intervista dobbiamo trovare una giornalista giovane e di bella presenza. Qualcuno che non abbia problemi ad accettare una videoconferenza con il Presidente, ma che farebbe i salti mortali per ottenerla, magari una stagista. Le lasceremo carta bianca per quanto riguarda le domande, perché la solita intervista a senso unico potrebbe sembrare sospetta. La facciamo trasmettere in sintesi al TG1 e al TG5 e poi completa in seconda serata.» «Se mi posso permettere» disse ancora il ragioniere, «la mia fidanzata ha appena terminato la scuola di giornalismo e sta svolgendo uno stage presso il giornale ‘La porcata quotidiana’ di Antonio Pataccaro e Marco Bavaglio. Secondo me è molto brava.» «Non importa se è brava, ma è fondamentale che sia carina. E poi lavora per un giornale, se così si può chia62 mare, che non è tenero con il Presidente. Potrebbe essere un’ottima scelta. Le faremo un provino. Come si chiama?» «Clara Bonucci.» «Il nome suona bene» disse il direttore, poi rivolto ai collaboratori ordinò: «Trovatemi questo De Giorgis!» Roma, 7 luglio 2013. Il professor Alberto De Giorgis stava ultimando la preparazione del suo sistema cibernetico nella cabina di regia. Si sentiva a disagio, perché alle sue spalle il direttore dell’Unità di Crisi spiava tutte le sue mosse. «Manca molto?» chiese il direttore. «No» rispose, «ho ultimato l’inserimento di tutte le registrazioni del Presidente, dai filmini in super8 di quando faceva il piazzista di creme di bellezza fino ai kolossal tridimensionali trasmessi nell’ultima campagna elettorale. Il sistema sta completando l’elaborazione delle informazioni e creando la personalità virtuale che risponderà alle domande dell’intervista. La potenza di calcolo necessaria è enorme, ma per le prossime due ore ho prenotato i mainframes del CERN di Ginevra. Dovranno sospendere per tre giorni i loro esperimenti sulla fisica delle particelle elementari e la scoperta del bosone di Higgs potrebbe slittare di settimane, ma il disturbo se lo fanno pagare bene.» Il direttore replicò: «È una fortuna che la RAI abbia una voce di bilancio apposita nel capitolo della divulgazione scientifica, altrimenti non ce lo saremmo potuti permettere.» Nel frattempo, sui monitor della regia si vedeva Clara Bonucci, la fidanzata del ragioniere di Redipuglia, che si stava preparando. La truccatrice dava gli ultimi ritocchi, ma non c’era molto da sistemare: il Presidente virtuale l’avrebbe sicuramente trovata di suo gusto. 63 Il direttore prese il suo cellulare e gli disse: «Quel giovane... come si chiama, quello di Redipuglia... è promettente. Ricordati di proporlo per una promozione. Ragioniere capo potrebbe andare bene.» Il telefonino confermò con una sensuale voce femminile: «Ho già provveduto! La pratica è in amministrazione», ma il direttore si arrabbiò: «Quante volte ti dico di non rispondere con questa voce? Mi fa impressione! Usa i bip» e la risposta fu: «bip-bip.» Di fronte alle telecamere Clara Bonucci sfogliava le note con le domande e se le ripeteva mentalmente. «Vedrai che andrà tutto bene» disse il fidanzato. Era stato deciso di tenerla all’oscuro del fatto che fosse un’intervista artificiale. Il realismo ne avrebbe giovato. «Non so se andrà bene. Alcune domande di sicuro non piaceranno al Presidente, ma non ho intenzione di abbassarmi a compromessi.» «Questa è un’occasione che non capita tutti i giorni. Bisogna capire quando è il caso di abbassarsi, perciò sfruttala bene. Anche a me potrebbe garantire un passo in avanti nella mia carriera e poi potremo sposarci.» «Sì, certo» disse Clara, ma con poca convinzione. Dalla regia giunse una voce gracchiante: «Siamo pronti! Un minuto al collegamento!» Il ragioniere e la truccatrice si dileguarono e Clara rimase da sola nello studio. Illuminata da un occhio di bue, aveva di fronte a sé uno schermo scuro che rifletteva la sua immagine. Intorno a lei tre telecamere. La fissavano accendendo a turno il loro occhio rosso. Clara si chiedeva che cosa ci facesse lì. Diventare giornalista, quello era sempre stato il suo sogno. Voleva emulare le giornaliste RAI d’assalto, come Giovanna 64 Botteri o Monica Maggioni, che aveva seguito in televisione dieci anni prima con i loro reportages dall’Iraq durante le fasi della seconda guerra del Golfo. Era sempre stata quella la sua aspirazione e si era impegnata a fondo per conseguire le competenze necessarie. Aveva addirittura imparato quattro lingue, compreso l’arabo. Ora, però, senza alcuna fatica, si trovava già a poter intervistare il Presidente: cosa avrebbero detto i suoi colleghi più anziani? Per sua fortuna si trattava di una videoconferenza e c’era uno schermo di mezzo, altrimenti chissà cosa avrebbero pensato che fosse successo prima o dopo l’intervista. Tutto poi per colpa di un fidanzato che voleva lasciare da mesi. Quella carta doveva giocarsela bene o sarebbe stata ricordata per il resto della sua carriera come la stagista che, tra le altre cose fatte con il Presidente, lo aveva anche intervistato. «Tre, due, uno!» contarono dalla regia e dopo qualche istante sullo schermo apparve Lui. Era seduto con disinvoltura dietro una scrivania. Alle sue spalle la bandiera italiana e quella dell’Unione Europea facevano bella mostra di sé. La schermata divenne tremolante per qualche istante, ma poi si stabilizzò. «Buongiorno, signorina!» disse l’immagine del Presidente sfoderando un sorriso a 36 denti, sì, proprio quattro più del normale. «Buo... buongiorno, Presidente!» rispose Clara balbettando. Vederselo di fronte, così all’improvviso, l’aveva lasciata senza fiato. L’immagine nel mega-schermo tridimensionale era a grandezza naturale. Era davvero come averlo di fronte di persona, si poteva quasi toccare. Lo sguardo era magnetico, il sorriso sfolgorante, la pelle abbronzata e liscia come quella di un bambino. L’età 65 era indefinibile, sembrava di vedere una sovrapposizione omogenea dei suoi ultimi vent’anni. Nell’assistere a quella reazione, il direttore si chiese se la scelta fosse stata azzeccata. Il provino era andato bene, ma non era stata verificata la reazione a uno stress emotivo. Ci sarebbero stati tanti giornalisti di esperienza che avrebbero dato qualunque cosa, anche la più intima, per quell’intervista: qualche direttore di TG sarebbe forse arrivato anche a strisciare per ottenerla. Ma era toccato a quella stagista e ora sembrava non essere all’altezza. Dalla regia dissero: «Iniziate pure. Cerchiamo di fare un piano sequenza, ma non preoccupatevi se si dovrà tagliare qualcosa. Al montaggio penseremo dopo. Signorina, salti pure l’introduzione, la registriamo alla fine.» Il Presidente, mentre la fissava con quel suo sguardo penetrante, disse: «Grazie, regia. Signorina è pronta? La vedo turbata.» «Tutto bene, grazie. Ora iniziamo» disse lei deglutendo e riprendendo fiato. Si schiarì la voce, mise l’introduzione dietro il blocco, diede una rapida occhiata al secondo foglio e iniziò. «Signor Presidente, nei giorni scorsi sono state formulate molte ipotesi sul suo stato di salute. A vederla così, faccia a faccia, mi sembra in ottima forma. Cosa ci può dire in proposito?» L’immagine fu attraversata da un disturbo impercettibile, poi riprese nitidezza. Lo sguardo, che si era offuscato per un istante, divenne nuovamente vivo e consapevole. «Lei, signorina, sa giudicare bene gli uomini. Mi consenta prima di tutto di ringraziarla per il suo apprezzamento e lo ricambio con altrettanta considerazione nei 66 suoi confronti. Se tutte le giornaliste fossero belle come lei, mi farei intervistare tutti i giorni. Molti hanno osato insinuare che fossi malato. Cosa rispondere... malato io? Sono Superman, anzi Superman a me mi fa ridere...1 In realtà ho dovuto effettuare un check-up per una tendinite alla mano che mi perseguita da qualche anno. Forse ha ragione chi dice che sono troppo vecchio per governare un Paese moderno. Ma ho il merito di affidarmi a persone competenti.2 L’età a volte fa dei brutti scherzi, ma mi consenta una battuta. Stamani in albergo volevo farmi una ciulatina con una cameriera. Ma la ragazza mi ha detto: “Presidente, ma se lo abbiamo fatto un’ora fa”. Vedete che scherzi che fa l’età?3 Spero che questa innocente storiella non l’abbia messa in imbarazzo» disse il Presidente sfoderando un sorriso disarmante. «No, no, ci mancherebbe. La primavera scorsa sono stata in Afghanistan e in caserma i soldati si raccontano storielle come la sua» rispose Clara senza battere ciglio. «È stata già in Afghanistan. Credevo fosse una giornalista precaria.» «È così» rispose, «ma ho già avuto modo di lavorare sul campo e mi sono resa conto di cosa voglia dire operare in una zona di guerra. Una guerra in cui sono coinvolti anche i nostri militari italiani.» «Lei, signorina, si lascia trasportare troppo dalla sua sensibilità. Dal tono che usa sembra che dia la colpa di tutto a me. 1 La Stampa, 2 settembre 2009 Adnkronos, 27 marzo 2008 3 l’Unità, 4 luglio 2010 2 67 Io non sono mai stato convinto che la guerra fosse il sistema migliore per arrivare a rendere democratico un paese e a farlo uscire da una dittatura anche sanguinosa. Io ho tentato a più riprese di convincere il presidente americano a non fare la guerra. Ho tentato di trovare altre vie e altre soluzioni anche attraverso un’attività congiunta con il leader africano Gheddafi. Non ci siamo riusciti e c’è stata l’operazione militare, ma io ritenevo che si sarebbe dovuta evitare un’azione militare. 1 e comunque se lo lasci dire, lei è giovane e bella, ma è precaria, perché sprecare la sua vita nel tentare una carriera faticosa? Da padre, il consiglio che le do è quello di ricercarsi il figlio di Berlusconi o di qualcun altro che non avesse di questi problemi. Con il sorriso che ha potrebbe anche permetterselo.2 È un consiglio che mi viene dal cuore, da vero padre di famiglia.» «Grazie, Presidente, sono certa che molte italiane che hanno un bel sorriso ne approfitteranno. Io, per il momento, voglio realizzarmi facendo affidamento solo sulle mie capacità. Comunque, non divaghiamo, ci sono tante altre domande che meritano una risposta.» «Come sta andando?» chiese preoccupato il professor De Giorgis al direttore dell’unità di crisi. «Benissimo! È da non credere, sembra proprio lui in persona, solo che risulta più bello, affascinante e pure ringiovanito. Ha proprio fatto un buon lavoro!» De Giorgis insistette: «Però, mi sembra che stia un po’ esagerando.» 1 2 Omnibus-La7, 29 ottobre 2005 Tg2, 12 marzo 2008 68 «Macché! Anzi, si sta trattenendo! Lasci i parametri come sono. È perfetto!» Roma, 8 luglio 2013. L’intervista procedeva senza intoppi. Ogni tanto l’immagine del Presidente sembrava tremolante, mentre in certi momenti lo sguardo appariva assente, ma riacquistava subito dopo vivacità. Insomma, Clara Bonucci si sentiva a disagio, a volte credeva di trovarsi di fronte a un automa, però immediatamente si ricredeva nel constatare la coerenza delle risposte e la luce nello sguardo. Clara riprese l’argomento emerso nella risposta precedente, perché non voleva fargliela passare troppo liscia: «Questa sua dichiarazione, sul fatto che una bella donna dovrebbe pensare ad accasarsi piuttosto che impegnarsi in una carriera, non trova che sia offensiva? Lei divide le donne in belle e brutte e ritiene che solo queste ultime debbano essere intelligenti?» Il Presidente sorrise e socchiuse le palpebre lasciando balenare un’occhiata d’intesa: «Ora non mi metta in bocca parole che non ho detto. Mi viene in mente una signora dell’opposizione che... quando si alza la mattina e si guarda allo specchio si è già rovinata la giornata...1 oppure un’altra che... ravviso che è sempre più bella che intelligente. 2 Intendo dire, se non si fosse capito, che se una donna è brutta non è detto che sia intelligente. Certo queste possono essere... battute di spirito conosciute e di largo consumo. Andate a vedere gli insulti che hanno fatto alle mie ministre che 1 2 Si riferisce a Mercedes Bresso, 23 marzo 2009 Si riferisce a Rosy Bindi, 23 marzo 2009 69 sono persone bravissime e assolutamente diverse da ciò che si vuol far pensare che siano.1 Ad esempio, ho una speciale predilezione per... Mara Carfagna. Faccio i complimenti a Mara, che è bella, dolce e intelligente, ma anche una donna con le palle.2 E ho questa stima per tante altre belle donne impegnate in politica nella mia coalizione che si dimostrano intelligenti quanto belle. Mi piacerebbe avere un governo di sole donne. Zapatero ha fatto un governo troppo rosa che noi non possiamo fare anche perché in Italia c’è una prevalenza di uomini.3 Ritengo però che sia un peccato.» «D’altra parte lei, Presidente, non ha mai fatto mistero di essere attratto dal fascino femminile. Ma è certo di essere apprezzato per quello che lei è, come persona e come uomo, e non solo per il suo denaro?» «Non ne ho alcun dubbio, anche recentemente ho dovuto rispolverare le mie doti di playboy con donne presidente di rango pari al mio e il successo che ho ottenuto è stato evidente.» Clara cambiò quindi discorso: «Abbiamo capito che ha una grande stima delle donne del suo governo. E degli uomini cosa ci dice? Bossi e Fini, ad esempio.» Un velo di tristezza scese sul Presidente: «Bossi è un uomo coriaceo, come sanno tutti, ma è sempre stato un realista: senza il suo realismo il Polo delle libertà non sarebbe mai nato.4 Nonostante atteggiamenti volutamente devastanti, il Bossi è un buon italiano: è diverso dai vecchi e nuovi 1 24 marzo 2009 24 marzo 2009 3 Radio Montecarlo, 15 aprile 2008 4 la Repubblica, 5 novembre 1995 2 70 marpioni della politica. E in questo me lo sento fratello. 1 A Fini invece sta stretto il ruolo di presidente della Camera e coglie ogni occasione per ritagliarsi uno spazio, per avere visibilità.2 Ci sono tante possibilità di impegnarsi per il bene del Paese, per cui c’è gloria per tutti.3» Clara quindi chiese: «Tra le tante categorie che si impegnano per il bene del paese, secondo lei, non sembra esserci l’ordine giudiziario...» Il Presidente rispose: «Non posso che ripetere concetti espressi più volte. Secondo me... il pubblico accusatore dovrebbe essere sottoposto periodicamente a esami che ne attestino la sanità mentale. 4 Io non ho mai attaccato i giudici, anzi è il contrario. 5 L’anomalia italiana non è Silvio Berlusconi, lo sono i PM comunisti e i giudici comunisti di Milano. Solo da quando Silvio Berlusconi è sceso in politica e ha sottratto il potere ai comunisti ha subito 103 processi. 6 Questi giudici sono doppiamente matti! Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana.7 La magistratura è una malattia della nostra democrazia, dobbiamo assolutamente cambiare l’ordine giudiziario, 1 Panorama, 4 febbraio 1994 Corriere della sera, 12 maggio 2009 3 la Repubblica, 21 dicembre 2003 4 8 aprile 2008 5 la Repubblica, 27 dicembre 2008 6 Reuters, 28 ottobre 2009 7 la Repubblica, 5 settembre 2003 2 71 non lascerò la politica finché un cittadino non potrà andare davanti a un giudice che sia veramente imparziale.1 Ma queste cose le ho già ripetute troppe volte che ormai solo pochi non ne saranno ancora convinti.» Clara allora provò a ribattere: «Eppure quella di cui parla non è la stessa magistratura che ha riscosso grandi successi sul fronte della lotta alla mafia?» Il Presidente si rabbuiò ancora di più: «Ecco... dobbiamo finire parlando di mafia. Io se trovo però quelli che hanno fatto nove serie de La Piovra e quelli che scrivono i libri sulla mafia, che vanno in giro in tutto il mondo a farci fare così bella figura, giuro li strozzo.2 Non si meriterebbero altro per il danno che hanno fatto e fanno al paese.» «Vuole dire che la Mafia non esiste?» disse Clara cercando di non far esplodere la sua indignazione. «Non dico questo» sostenne il Presidente, «ma... se c’è una persona che per indole, sensibilità, mentalità, formazione, cultura ed impegno politico, è lontanissima dalla mafia questa persona sono io.3 E ho detto tutto.» «C’è un’altra categoria che secondo lei non si impegna per il bene del paese: quella dei giornalisti. Mi sbaglio?» «Non si sbaglia... in Italia c’è un regime, sì, cari giornalisti: i dittatori siete voi. Il futuro è digitale; i giornali hanno fatto il loro tempo. Le vostre battaglie sembrano quelle dei costruttori di carrozze che volevano impedire la diffusione delle auto. Non potete fermare il progresso. Non so indi1 Matrix-Canale 5, 10 marzo 2006 la Repubblica, 28 novembre 2009 3 la Repubblica, 29 novembre 2009 2 72 carvi io la soluzione, ma quando ci sono prodotti che diventano obsoleti bisogna prendere altre strade. 1 Su 5 milioni di copie di quotidiani vendute ogni giorno (esclusi i giornali sportivi), solo 250 mila sono favorevoli all’esecutivo e 750 mila neutrali: quattro milioni sono contro. Mi sono rivolto più volte agli organismi internazionali per un intervento, ma questa verifica non viene fatta e continuo a leggere sugli organi d’informazione internazionali che in Italia c’è una reale preoccupazione per la libertà di stampa.2 È da non credere.» «Ammesso che sia vero, è un fatto anche che la maggior parte delle televisioni sia in mano sua» replicò Clara. Lo sguardo del Presidente mostrò un’evidente delusione: «Non mi aspettavo questo argomento trito e ritrito da una persona intelligente come lei si è dimostrata finora. Diciamolo, avere tre televisioni mi ha danneggiato. 3 In tv, ogni giorno, su tutti i canali, in prima serata mi prendono per il culo. Questa abitudine sta diventando insopportabile. Deve finire.4 C’è una sola cosa che non mi ha penalizzato... il pubblico italiano non è fatto solo di intellettuali, la media è un ragazzo di seconda media che nemmeno siede al primo banco. È a loro che devo parlare.5 Loro mi possono capire.» «Quindi lei ritiene di essere un uomo che riesce a comunicare con la gente comune, questo significa che si ritiene un uomo del popolo?» chiese Clara. 1 10 dicembre 2003 Quotidiano nazionale, 7 novembre 2003 3 maggio 1994 4 la Repubblica, 12 novembre 2008 5 Corriere della sera, 10 dicembre 2004 2 73 «Non so se sono un uomo del popolo, ma sicuramente sono un uomo per il popolo. Che cosa ho fatto per il popolo? Solo Napoleone ha fatto di più.1 Su Napoleone ovviamente scherzo: io sono il Gesù Cristo della politica, una vittima, paziente, sopporto tutto, mi sacrifico per tutti.2 Hanno fatto una prova anche su di me, sulla mia funzionalità cerebrale e fisica e hanno deciso che sono un miracolo che cammina.3 Mi sta venendo un complesso di superiorità tanto che dico: “Meno male che ci sono io”. Non so un altro che cosa avrebbe fatto. Nessuno avrebbe potuto fare meglio di quello che ho fatto io.4 Quando sono entrato in carica ho trovato un Paese che non contava niente sulla scena internazionale. L’Italia, che non contava, ha ora uno smalto internazionale e un suo peso specifico anche in situazioni determinanti.5 Non c’è nessuno sulla scena mondiale che può pretendere di confrontarsi con me, nessuno dei protagonisti della politica che ha il mio passato, che ha la storia che ho io. Da un punto di vista personale se c’è qualcuno che ha una posizione di vantaggio questo qualcuno sono io. Quando mi siedo a fianco di questo o quel premier o capo di stato, c’è sempre qualcuno che vuole dimostrare di essere il più bravo, e questo qualcuno non sono io. La mia bravura è fuori discussione. La mia sostanza umana, la mia storia, gli altri se la sognano. 6 Ecco chi sono.» 1 Matrix-Canale 5, 10 febbraio 2006 ANSA, 12 febbraio 2006 3 ANSA, 5 ottobre 2002 4 Adnkronos, 3 dicembre 2002 5 Rainews24, 30 dicembre 2002 6 ANSA, 7 marzo 2001 2 74 Clara era rimasta a bocca aperta. Non si aspettava una dichiarazione finale su Napoleone, Gesù Cristo e il miracolo che cammina, ma colse l’occasione al balzo e disse: «Nessuno può affermare che lei non abbia fiducia nelle sue capacità e una grande opinione di se stesso. Mi permetta un’ultima domanda prima di congedarla. Poco fa ha detto che lei è un miracolo che cammina... ma dove cammina? Sulle acque?» I riflettori nello studio persero un po’ di luminosità, sembrava che una grande quantità di energia fosse assorbita chissà da quale congegno elettronico. Anche l’immagine del Presidente divenne un po’ opaca, il volto paonazzo, quasi si poteva vedere una goccia di sudore colare sulla fronte, ma poi la luce si stabilizzò e lo schermo riprese luminosità. Allora il Presidente sfoderando un sorriso sfolgorante rispose: «Sulle acque? Non ancora, signorina, ma ci sto lavorando.» Clara sorrise a sua volta, uno a uno e palla al centro. In quell’istante lo schermo si oscurò e dalla regia dissero: «Molto bene signorina, la registrazione è terminata.» Nella sala di regia il direttore si stava complimentando con il professor Alberto De Giorgis: «Un’intervista eccezionale. La mandiamo ai telegiornali così com’è. Quando il Presidente la vedrà, quasi si convincerà di averla sostenuta davvero lui. Ne registreremo altre durante la convalescenza, magari anche dichiarazioni sull’attualità. Avete fatto un ottimo lavoro!» De Giorgis si scherniva, sospettava che potesse derivarne qualche fregatura per lui e il suo tranquillo posto di libero docente. «Il sistema sarebbe perfetto se non fosse limitato ad apparizioni in video. Certo al giorno d’oggi la TV è fondamentale, ma ci sono anche occasioni in cui bisogna 75 apparire di persona. Mi riferisco al G20 prossimo» disse il direttore quasi come se pensasse ad alta voce. De Giorgis inizialmente non aveva intenzione di esporsi così tanto, ma ormai era in ballo e forse era opportuno andare fino in fondo. Fece cenno al direttore di seguirlo. Uscirono dalla sala di regia e scesero una scaletta al fondo di un corridoio. Si trovarono in uno scantinato buio e molto ampio. Si potevano intravedere le pareti di una sala vuota con al centro un tavolo e su questo una figura indistinta. All’improvviso, con uno schiocco, si accesero le fotoelettriche tutt’intorno e la sala si illuminò: sul tavolo ora si poteva vedere una figura umana coperta da un lenzuolo. «Lei voleva qualcosa di più» disse De Giorgis nei pressi del tavolo. Senza aggiungere altro di scatto tolse il lenzuolo e scoprì il corpo. Il direttore riconobbe subito il Presidente, era il corpo nudo del Presidente! Solo che... con raccapriccio, vide che un braccio, il ventre e parte della testa erano privi di pelle. Al di sotto si potevano vedere cavi elettrici, barre d’acciaio e attuatori pneumatici. De Giorgis disse con orgoglio: «Quando sarà completo, nessuno potrà accorgersi della differenza.» «È incredibile! È... è fantastico! Chi ne è a conoscenza?» «Io, lei e il mio allievo di Redipuglia» rispose il professore. Il direttore prese il cellulare con mano tremante e gli disse: «Annulla la promozione per il ragioniere e...», si ricordò in quell’istante che De Giorgis lo stava ascoltando, «e... mandalo in ‘licenza premio’ nello stesso posto dove è andato l’altro ragioniere capo.» Il telefonino rispose bip-bip. Dal nostro esperto in cibernetica 76 09/07/2010 Giornata del silenzio dell’informazione italiana COMUNICATO SINDACALE DELLA FNSI I giornalisti italiani sono chiamati a una forma di protesta straordinaria che si esprimerà in un “rumoroso” silenzio dell’informazione nella giornata di venerdì 9 luglio, contro le norme del “ddl intercettazioni” che limitano pesantemente il diritto dei cittadini a sapere come procedono le inchieste giudiziarie, infliggendo gravi interruzioni al libero circuito delle notizie. Quanti lavorano nel settore della carta stampata si asterranno dalle prestazioni nella giornata di oggi, per impedire l’uscita dei giornali nella giornata di domani. Tutti gli altri, giornalisti dell’emittenza nazionale e locale, pubblica e privata, delle agenzie di stampa, del web, dei new media e degli uffici stampa non lavoreranno nella giornata di domani. Free lance, collaboratori e corrispondenti si asterranno dal lavoro secondo le modalità previste per la testata presso la quale prestano la loro opera. I giornalisti dei periodici, infine, si asterranno dal lavoro domani, ma assicurando, già da ora, la pubblicazione sui numeri in lavorazione delle proprie testate di comunicati sulle motivazioni della giornata del silenzio. Lo sciopero è una protesta straordinaria e insieme la testimonianza di una professione, quella giornalistica, che vuole essere libera per offrire ai cittadini informazione leale e la più completa possibile. Una protesta che si trasforma in un “silenzio” di un giorno per evidenziare i tanti silenzi quotidiani che il “ddl intercettazioni” imporrebbe se passasse con le norme all’esame della Camera, imposte sin qui dal governo e dalla maggioranza parlamentare. Molte notizie e informazioni di interesse pub77 blico sarebbero negate giorno dopo giorno fino a cambiare la percezione della realtà, poiché oscurata, “cancellata” per le norme di una legge sbagliata e illiberale che ne vieterebbe qualsiasi conoscenza. Giornalisti, ma anche gli editori e migliaia di cittadini, da mesi denunciano le mostruosità giuridiche del “ddl intercettazioni”. Sono state anche avanzate proposte serie per rendere ancora più severa e responsabile l’informazione nel rispetto della verità dei fatti e dei diritti delle persone: udienza filtro per stralciare dagli atti conoscibili le parti relative a persone estranee e soprattutto alla dignità dei loro beni più cari protetti dalla privacy; giurì per la lealtà dell’informazione che si pronunci in tempi brevi su eventuali errori o abusi in materia di riservatezza delle persone; tempi limitati del segreto giudiziario; accessibilità alle fonti della informazione contro ogni dossieraggio pilotato. Nessuna risposta di merito. Lo sciopero, con la giornata del silenzio, è espressione di indignazione, di partecipazione, di richiamo responsabile a principi e valori che debbono valere in ogni stagione. Lo sciopero è un momento della protesta e dell’azione incessante che proseguirà, fino al ricorso della Corte europea di Strasburgo per i diritti dell’uomo, qualora la legge fosse approvata così com’è. Lo sciopero è anche segnalazione di un allarme per una ferita che si aggiungerebbe a un sistema informativo che patisce già situazioni di oggettiva difficoltà e precarietà non solo per la crisi economica, ma anche per una politica di soli tagli che rischiano di allargare bavagli oggi altrimenti invisibili. L’informazione è un bene pubblico, non è un privilegio dei giornalisti, né una proprietà dei padroni dei giornali e delle televisioni, né una disponibilità dei governi. E per i giornalisti non è uno sciopero tradizionale contro le aziende, ma un atto di partecipazione e di sacrificio della risorsa professionale per la difesa di un bene pre78 zioso, dei cittadini, proclamato con un silenzio che vuol parlare a tutti. Fnsi (Federazione nazionale stampa italiana) 2015: Frattini: “Come ho impedito lo scoppio della III Guerra Mondiale” Amman (Giordania), 10 luglio 2015. Nei giorni scorsi il mondo si è trovato sull’orlo di una catastrofe senza precedenti. La crisi dei missili iraniani ha tenuto l’umanità con il fiato sospeso per settimane e ha quasi causato lo scoppio della terza guerra mondiale. Ce lo rivela il ministro degli Esteri, Franco Frattini, che si trova ad Amman per la stipula del trattato di collaborazione e non belligeranza tra Israele e Iran della cui stesura è il principale artefice. I colloqui tra il Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, Mahmud Ahmadinejad, e il Primo Ministro dello Stato d’Israele, Benjamin Netanyahu, rappresentano una pietra miliare nella storia del XXI secolo e sono mediati con grande autorevolezza proprio dal nostro ministro degli Esteri. Mai nella storia dell’umanità si è assistito a un vertice a tre più rappresentativo degli equilibri mondiali. Sicuramente i colloqui a Camp David tra il presidente Carter, l’israeliano Begin e l’egiziano Sadat sono stati di minore importanza. Senza timore di essere smentito, mi azzardo a paragonare l’azione di Frattini a quella diplomatica di Papa Giovanni XXIII, che portò alla risoluzione della crisi dei missili cubani tra il presidente Kennedy e il Primo Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Nikita Krusciov. 79 Abbiamo la fortuna di poter intervistare il ministro, in una pausa prima della firma del trattato, e di sentire dalla sua viva voce come si è svolta la drammatica vicenda. Il ministro ci ha ricevuti in una saletta della sua suite al trentesimo piano de “Le Royal Hotel” di Amman. Lo troviamo seduto su una delle poltrone, ma affabilmente si alza e ci viene incontro. Dopo esserci accomodati, arriviamo subito al punto cruciale dell’intervista: «Ministro, nelle scorse settimane tutti abbiamo avuto l’impressione che il mondo si sia trovato sull’orlo del baratro. Lei, che ha assunto un ruolo cruciale nella vicenda, che cosa ci può raccontare?» Il ministro dopo aver riflettuto lungamente con la destra appoggiata sul mento, accavallò le gambe e, appoggiando la sinistra al mento, meditò nuovamente. Poi disse sorridendo amabilmente: «Lei mi attribuisce un merito eccessivo. Certo, se la guerra fosse scoppiata ora ci troveremmo in guerra. Essere in guerra non è come essere in pace. Mentre durante un periodo di pace gli uomini vivono nella concordia fraterna, durante un periodo di guerra gli uomini si combattono con odio fratricida. Secondo noi e il governo che rappresentiamo è meglio che regni la pace piuttosto che la guerra: per questo è un dovere fare tutto ciò che è in nostro potere per scongiurare le guerre e far regnare la pace. Infatti quando regna la pace...» «Mi pare che il concetto sia chiaro e assolutamente condivisibile» dissi interrompendolo con garbo, «ma i nostri lettori sono impazienti di conoscere lo svolgimento dei fatti e il fondamentale ruolo che lei ha svolto.» Il ministro dopo aver riflettuto lungamente con la sinistra appoggiata sul mento, scavallò le gambe e, appog80 giando la destra al mento, meditò nuovamente accavallando le gambe (al contrario rispetto a com’erano prima). Poi disse: «Mi lasci pensare.» Quindi dopo aver meditato a lungo con la destra appoggiata sul mento, scavallò le gambe e, appoggiando la sinistra al mento, rifletté nuovamente accavallando le gambe. Infine, iniziò a raccontare (nel seguito sono eliminate le meditazioni, i cambi di postura e gli accavallamenti di gambe): «Come dicevo, lei mi attribuisce un merito eccessivo. Certo, se la guerra fosse scoppiata... ah, ma questo l’abbiamo già detto. Lei invece vuole conoscere lo svolgimento dei fatti.» Il ministro parlò quindi per un paio d’ore della sua vita, iniziò a mostrare le carte delle caramelle regalate dalla maestra d’asilo perché era stato un bravo bambino e terminò con le diapositive del matrimonio di cinque anni fa. Alla fine arrivò al dunque: «La settimana scorsa mi trovavo a Roma durante una breve pausa tra le mie innumerevoli missioni in tutto il mondo, di cui appunto le raccontavo prima, e fui convocato d’urgenza alla Farnesina. Quando arrivai mi resi subito conto che qualcosa non andava per il verso giusto...» La Farnesina, il palazzo sede del ministero degli Esteri, ha al suo interno una sala denominata War Room. L’accesso a questa sala è consentito solo allo staff dell’Unità di Crisi. Il ministro arrivò trafelato e fu fermato all’ingresso dalla sicurezza. Disse: «Sono il ministro Frattini, devo conferire con il direttore dell’Unità di Crisi.» Il militare di guardia rispose ridendo: «Sì, e io sono il generale Custer.» Un commilitone aggiunse: «Ma mi faccia il piacere, sono otto anni che presto servizio di guardia al palazzo e il ministro non l’ho mai visto. Adesso arriva questo, 81 dice di essere il ministro e vuole entrare. Vedi d’andartene prima che ti pigli a calci in culo.» «Ma io...» interruppe le proteste perché il militare mise mano al mitragliatore. Girò quindi intorno al palazzo ed entrò dall’ingresso secondario. La scena si ripeté varie volte. All’entrata della War Room, grazie al test del DNA, le guardie si convinsero e riuscì ad accedere. Lo accolse il direttore: «Finalmente è arrivato! La situazione sta precipitando! C’è bisogno del suo intervento immediato!» Le pareti della War Room erano tappezzate di pannelli luminosi che mostravano le zone più calde del mondo. Nella semioscurità spiccavano i segnalini dei sommergibili nucleari russi, americani e cinesi disseminati per tutti gli oceani, le lucine dei bombardieri in volo, le basi missilistiche in allerta, le unità d’assalto e da sbarco che combattevano in tutte le missioni di pace del pianeta. Non ci voleva un genio per capire che bastava poco per scatenare la terza guerra mondiale e, infatti, anche il ministro lo capì. Era in atto un’escalation militare nel Medio Oriente che vedeva i bombardieri israeliani, armati di bombe atomiche, fronteggiare i 27 missili iraniani dotati di testate nucleari multiple. Nel caso di un conflitto, gli USA avrebbero attaccato l’Iran, la Cina avrebbe attaccato gli USA, la Russia, per non sbagliare, avrebbe attaccato sia la Cina che gli USA e, intanto che c’era, anche il Giappone, così l’Unione Europea si sarebbe trovata come al solito nel mezzo e solo l’olocausto nucleare avrebbe interrotto l’escalation. Alla fine, gli unici soddisfatti della situazione sarebbero stati gli scarafaggi: dopo i dinosauri e gli uomini, finalmente toccava a loro dominare il pianeta! «Perché non interviene il Presidente? Ha buoni rapporti con tutti i potenti della terra! Con la sua credibilità può 82 certamente cambiare il corso degli eventi» chiese il ministro per togliersi dagli impicci. «Purtroppo ora il Presidente è impegnato» si giustificò il direttore. «A quest’ora di notte?» «Sì, mi ha comunicato che ha in vista un rimpasto di governo e ora si trova a palazzo Grazioli per i provini delle future ministre. Ha anche aggiunto che per una volta doveva sbrigarsela lei e che non la paga solo per farsi dei bei viaggi in giro per il mondo!» «Ma ha detto proprio così?» «Testuali parole.» Il ministro si sedette al tavolo della War Room di fronte ai telefoni in comunicazione diretta con i grandi della terra. Dopo aver meditato lungamente con la destra appoggiata sul mento, accavallò le gambe e, appoggiando la sinistra al mento, disse: «Mi lasci pensare.» Dopo un’altra lunga pausa di riflessione, chiese: «Che cosa devo fare?» Il direttore spiegò pazientemente: «Questi telefoni sono in contatto con tutti i potenti del mondo. I governanti degli Stati Uniti, della Russia, della Cina, della Gran Bretagna, della Francia, della Germania, di Israele, dell’Iran e dello Zimbabwe sono all’altro capo del filo e attendono una sua telefonata. Appena alzerà la cornetta un cicalino avvertirà l’interlocutore che risponderà immediatamente. Queste sono tutte linee rosse, con precedenza assoluta.» Una responsabilità enorme stava schiacciando il ministro. Da ciò che avrebbe detto sarebbero dipese le sorti dell’umanità e doveva riflettere bene. Dopo un’adeguata pausa di meditazione, il ministro chiese: «Qual è il telefono che mette in contatto con la Russia?» 83 Il direttore, che si era appisolato, si svegliò di soprassalto e disse: «Russia? Il telefono bianco, blu e rosso. Come la bandiera russa.» Il ministro prese l’apparecchio e dall’altra parte sentì uno scocciato: «Allò!?» «Putin? Sono il ministro Frattini, volevo... Perché rompo a quest’ora di notte? Ma è questione di vita o di morte... Come non sei Putin?... Sarkozy?... Devo aver sbagliato numero, scusa... Saluti anche alla signora Carlà... Scusa ancora e buonanotte!» Il direttore, con le mani nei capelli, ripeté: «Bianco, blu e rosso! Bianco, blu e rosso! Come la bandiera russa, non blu, bianco e rosso, come la bandiera francese!» «Ah, ecco.» Quindi prese l’apparecchio giusto: «Pronto, Vladimir?... Non c’è?... Sta facendo i provini alle candidate per decidere chi sarà la prossima miss Russia? A quest’ora di notte? Ma chi parla?... Ah, Dimitri Medvedev! Penso di poterti lasciare questa ambasciata... Dimitri, non sento molto bene. Ti dispiacerebbe abbassare un po’ il giradischi? Adesso è molto meglio, sì. Eh... Sì, sì, bene. Ti sento alla perfezione, Dimitri. La voce mi arriva chiara e senza il minimo disturbo. Anch’io non sono disturbato, vero? Bene, bene... Allora vuol dire che né io né te siamo disturbati. Bene. Sì, è una bella cosa che tu stia bene e anch’io. Sono dello stesso parere. È bello stare bene. Senti un po’, Dimitri... Ti ricordi che noi... noi abbiamo sempre parlato di questa possibilità che succedesse qualche inconveniente con la bomba? La bomba, Dimitri. La bomba atomica. Beh, insomma, è successo questo: c’è un po’ di attrito tra Israele e l’Iran e, come sai, è meglio che nel mondo regni la pace piuttosto che la guerra, perché se scoppia la guerra... Ah! Hai capito! Ma lasciami finire, Dimitri! Lasciami finire. Ma cosa credi, che io mi stia divertendo? Tu te l’immagini quel84 lo che sto passando io, Dimitri? E se no perché t’avrei telefonato? Per dirti “ciao”? Certo che mi fa piacere parlarti! Mi fa molto, moltissimo piacere... Non adesso però, un’altra volta. Adesso ti ho chiamato per dirti che è successo qualcosa di... di veramente terribile... È una telefonata amichevole, sicuro che è amichevole... eh... senti, se non fosse amichevole... eh... non te l’avrei fatta proprio. Allora cosa ne pensi?... Ah, devi raggiungere Vladimir ai provini delle aspiranti miss Russia... Dispiace anche a me Dimitri... Mi dispiace molto... Va bene, dispiace più a te che a me, però dispiace anche a me... A me dispiace quanto a te, Dimitri! Non devi dire che a te dispiace più che a me, perché io ho il diritto di essere dispiaciuto quanto lo sei tu, né più né meno... Ci dispiace ugualmente, va bene?... D’accordo. Allora sistemo tutto io. Buoni provini!»1 Dopo aver riattaccato, senza concludere nulla, chiese: «Qual è il telefono degli USA?» «Quello a stelle e strisce» disse esasperato il direttore. Dopo averlo individuato e confrontato più volte con gli altri, alzò il ricevitore: «Pronto, W?... Ciao, sono Franco! Come sta Laura?... La prossima settimana vengo a Camp David e ci facciamo una partitina a golf... Sì, ho sentito la situazione, infatti ti telefono proprio per questo... Lo so che hai un dovere nei confronti degli elettori americani... Lo so che sei stato rieletto dopo Obama perché gli americani vogliono che prendi a calci in culo gli iraniani... Tu invece vuoi evitare la guerra? E perché?... Non vuoi che finisca come in Iraq e in Afghanistan e vuoi stare altri quattro anni alla Casa Bianca. Mi sembra un discorso sensato!... A quanto pare, quattro anni a pascolare le vacche sono serviti... Lo so che Ah- 1 Dal film “Il dottor Stranamore” di Stanley Kubrick 85 madinejad ti vede come il fumo negli occhi. Guarda, non preoccuparti, gli parlo io. Ci penso io.» «Si mette bene» disse il ministro, «lo scoglio più duro è superato. Qual è il telefono cinese?» «Quello rosso» disse sconfortato il direttore. «Pronto, Hu Jintao? Sono Franco Frattini... Come chi? Flanco Flattini... No, non volevo prenderti per il culo... No, mi è venuta così! Scusa... ti chiedo scusa! Senti, mettiamoci una pietla sopla... ehm, una pietra sopra! C’è un problema con l’Iran... Come ti sei rotto? Non ne puoi più dell’Iran?... Sì, quando ci siamo spartiti il mondo ti abbiamo lasciato l’Africa... No, l’Iran non è in Africa... Pronto? Ci sei ancora?» Il ministro constatò: «Ha messo giù, sembra che la cosa non gli interessi.» Il direttore fece il punto della situazione: «Si sta mettendo davvero bene. A quanto pare, nessuno ha intenzione di scatenare un conflitto mondiale. Sono convenienti solo i conflitti regionali, per tenere intere zone del mondo nel loro degrado e depredarle dei loro tesori, oppure le operazioni di pace per salvare la faccia. Le rimangono solo tre telefoni: quello verde è di Gheddafi, quello con la stella di David è israeliano e quello con scritto sopra ‘Iran’ è iraniano. Ci abbiamo scritto ‘Iran’, perché a causa dei colori ci si confondeva sempre con il Messico, la Bulgaria e, talvolta, anche con l’Irlanda.» «Non penso che per questa volta sia il caso di disturbare Gheddafi. A quest’ora sarà nella sua tenda con le Amazzoni. Piuttosto sentiamo i diretti interessati. Qual è il telefono israeliano?» «Quello con la stella di David!!!» Seguì un’intensa opera di convincimento diplomatico da parte del ministro. Gli argomenti erano solidi e articolati: se la guerra fosse scoppiata ci si sarebbe ritrovati in guerra ed essere in guerra non è come essere in pace, 86 infatti, mentre durante un periodo di pace gli uomini vivono nella concordia fraterna, durante un periodo di guerra gli uomini si combattono con odio fratricida; non è meglio che regni la pace piuttosto che la guerra? Per questo è nostro dovere di governanti scongiurare le guerre e far regnare la pace. Infatti, quando regna la pace... Alla fine per sfinimento, i due contendenti si convinsero. Netanyahu si accontentò di una fornitura di vino dei colli Albani, proveniente dai vigneti del ministro, imbottigliato con metodo Kosher, mentre Ahmadinejad accettò una fornitura di cravatte. Per sancire l’accordo si sarebbero ritrovati in zona neutrale, ad Amman, ospiti del re di Giordania. Alla fine, il ministro chiuse l’intervista dichiarando: «Tutto è bene quel che finisce bene e non tutto il male viene per nuocere. A buon intenditor poche parole: a chi non vuol far fatiche il terreno produce ortiche.» «Grazie, ministro, per le sue parole. Io aggiungerei solo: forbici, coltellini e accendini non sono per i bambini.» Un altro pericolo che incombeva sull’umanità è stato scongiurato e ancora una volta grazie a un ingegno nato in Italia, la terra di Guicciardini e Macchiavelli, la terra dove sono nati il diritto e la diplomazia, la patria del volemose bene e dove, troppo spesso, tutto finisce a tarallucci e vino. Dal nostro inviato in medio oriente 87 Mondiale 2014: La nazionale della Padania giunge in finale e contende al Brasile la Coppa del Mondo Rio de Janeiro (Brasile), 11 luglio 2014. Il giorno tanto atteso è arrivato. Come si pronosticava sin dall’inizio del mondiale, la nazionale brasiliana più forte di tutti i tempi è arrivata in finale, subendo una sola sconfitta nel girone eliminatorio. Il tecnico Leonardo ha liquidato quella partita persa 4 a 1 contro la squadra della Padania come un incidente di percorso 1. Oggi, 17 giorni dopo, avrà modo di dimostrarlo, perché le due nazionali si incontrano nuovamente proprio nella finalissima. A Rio De Janeiro è una bellissima giornata di sole e i tifosi brasiliani si accalcano già da ore attorno allo stadio Maracanã. Danze e balli al ritmo di samba e al rumore delle maracas proseguono da giorni. Tutti si aspettano una vittoria e la sesta Coppa del Mondo, ma i tifosi padani la pensano diversamente. Mescolati alla folla con le loro casacche verdi si sono convertiti all’uso delle maracas e festeggiano fraternamente con i variopinti carioca, ma tra poco i cori delle opposte tifoserie si fronteggeranno per sostenere le rispettive squadre. Il numero di persone accalcate è notevole. Lo Stadio Mário Filho, più noto per il suo originario nome di Maracanã, era inizialmente previsto per una capienza di 150 mila spettatori, ma si raggiunsero nel passato anche i 200 mila accessi. Dopo le ristrutturazioni che prevedevano solo posti a sedere, la capienza si è ridotta a circa 130 mila persone, però gli organizzatori confermano una cifra doppia, mentre la questura la metà. 1 v. l’articolo a pag.5 per la cronaca di quella partita. 88 Nella conferenza stampa che tradizionalmente precede gli incontri, Leonardo Nascimento de Araújo, meglio noto solo come Leonardo, allenatore della nazionale brasiliana, si è detto sicuro della vittoria: “Non commetteremo gli errori fatti nel girone eliminatorio. Abbiamo sottovalutato i nostri avversari. La Padania è una squadra con pochi talenti ma bene organizzata, quindi punteremo a ingabbiarne le manovre e a colpire di rimessa con il gioco fantasioso dei nostri attaccanti.” Il mister Giovanni Mazzini, tecnico della Padania, dice invece: “La nostra è una squadra giovane ma quest l’è on vanto per nun. Abbiamo dimostrato di saper lottare ad armi pari con le più forti squadre del mondo e la nostra tecnica è pari alla loro, ai Todisch gh’è piasuu la partida anca se persa. La nostra forza è nel gioco di squadra, infatti nun lavorom per fà stà mej tutti e ‘l lavorà de tucc nun l’è faa mai per vun. Certo, abbiamo anche avuto degli infortuni, però mi disaria che l’è minga el caso che abbiom de fa ona malattia seria, ve par?” Queste sono le dichiarazioni prepartita. Stasera vedremo chi avrà avuto ragione, sebbene un fatto sia già stato appurato: nella prima fase eliminatoria la Padania, che era capitata in un girone di ferro con il favorito Brasile, si è classificata prima con tre vittorie, mentre il Brasile secondo, subendo una sconfitta proprio da parte della nazionale verde. Il cammino delle due squadre si è quindi separato, parte alta del tabellone per la Padania e bassa per il Brasile. Potevano incontrarsi nuovamente solo in finale ed è avvenuto. Ora il tecnico Leonardo sa di quale pasta sia fatto l’undici padano e non sottovaluterà più i suoi schemi. Assisteremo a una partita vera. Dal canto suo la Padania ha battuto tutte le nazionali che hanno tentato di sbarrarle il passo: agli ottavi la 89 Spagna, vincitrice dell’ultima Coppa Del Mondo (2-0), ai quarti l’Argentina (3-1), in semifinale la Germania (4-3) in una rocambolesca partita che ha fatto impallidire anche il ricordo dei leggendari tempi supplementari di Italia-Germania nei mondiali di Messico ‘70. Anche dal punto di vista politico le aspettative sono notevoli. Il presidente della Repubblica Federativa del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, più noto solo come Lula, ha da tempo messo in atto il suo programma di innalzare il Brasile al livello delle più potenti nazioni del mondo. Le grandi manifestazioni sportive, che comprendono oltre a questi Mondiali di calcio anche le Olimpiadi del 2016, sono finalizzate allo stesso scopo e un successo delle squadre sportive brasiliane coronerebbe questo sforzo. Ma anche per il Presidente della Padania, Umberto Bossi, l’obiettivo non è meno importante. Ha recentemente dichiarato: “Il mio scopo era quello di portare una nazione che quattro anni fa ancora non esisteva, una Padania libera dal giogo di Roma Ladrona, sul tetto del mondo. Ci sono voluti trent’anni ma alla fine ci sono quasi riuscito. Ora manca solo l’ultimo passo”. Sempre Bossi, nella giornata di ieri, aveva tenuto alla squadra un discorso di incitamento: “Niente parolai che dopo, al momento opportuno, si tirano indietro; qui per fare marciare le cose ci vogliono ragazzi con gambe forti come a Varese”, e poi rivolto al tecnico Mazzini: “Te lo dico in lombardo che è una lingua a cui sono molto affezionato. Dobbiamo farti un grande applauso, tegn’ dür, mai molar.” Ma è giunto il momento cruciale. Le due squadre sono pronte sul terreno di gioco. Dopo l’inno del Brasile è stato eseguito il “Va’ pensiero” di Giuseppe Verdi, l’inno della Padania. I giocatori e i tifosi sugli spalti hanno 90 cantato con un solo fiato, molti piangevano con la mano sul cuore. Il Brasile schiera i suoi più grandi campioni. Vediamo disposti in campo Giorginho in porta, con i due difensori João Victor e Valente, mentre in attacco spiccano Leonardinho, Platones e Pelinho. Mazzini sceglie invece lo stesso undici che si è imposto nelle partite precedenti: il portiere Brambilla, i difensori Biadego, Cattaneo e Cazzaniga, i centrocampisti Colombo, Fumagalli, Tinelli e Bixio, per finire con gli attaccanti Gorlin, Perasso e Borromeo. Sugli spalti le tifoserie sono nettamente sbilanciate a favore dei brasiliani. In tribuna d’onore, seduti uno vicino all’altro, possiamo vedere il presidente Lula e il presidente Bossi. Accanto a Bossi ha preso posto il ministro della Cultura del governo padano, ovvero il figlio Renzo, recentemente laureatosi in Informatica con specializzazione in Intelligenza Artificiale honoris causa alla LUP, la Libera Università della Padania. L’arbitro fischia. La nazionale verde-oro e la nazionale verde e basta iniziano la finale del Campionato Mondiale 2014. Nella prima mezz’ora la squadra brasiliana ingabbia con un potente catenaccio gli attaccanti padani. Gli stessi tifosi brasiliani fischiano sonoramente la propria squadra delusi dal gioco privo di fantasia dei carioca. Ma ecco che al 35’ Borromeo si impossessa del pallone nel cerchio di centrocampo e, dopo aver dribblato tre avversari, si presenta di fronte a João Victor. Il difensore tenta di arpionare il pallone in scivolata ma Borromeo con una finta di corpo evita l’insidia, quindi Giorginho si avventa sul pallone ma Borromeo con un doppio passo si libera anche dell’estremo difensore e, con un elegante colpo di tacco, insacca con decisione la pal91 la all’incrocio dei pali. Tutti i tifosi, sia padani che brasiliani, sono in estasi. Questo gol, che ha fatto impallidire la cavalcata di Maradona ai mondiali di Messico ‘86, verrà studiato per decenni nelle scuole di calcio. Dopo la rete, tutta la panchina ha esultato abbracciando gli undici eroi padani in campo. In tribuna d’onore il presidente Bossi ha urlato un sonoro “Ciapa” a Lula facendogli più volte il gesto dell’ombrello in mezzo alle personalità ospiti allibite. Il sogno del Brasile di conquistare il sesto titolo si sta trasformando in un incubo. Per il resto del primo tempo i carioca hanno difeso il risultato: la loro preoccupazione è stata quella di arrivare all’intervallo evitando una possibile goleada. Nella ripresa i brasiliani sembravano rinvigoriti. Il tecnico Leonardo deve aver saputo trovare le parole giuste per vincere l’apatia dei propri giocatori. Ecco quindi che al 15’ Platones recupera una palla presso il corner destro e lo ripropone al centro dove Leonardinho, lasciato colpevolmente libero da Cazzaniga, gira di testa alle spalle del pur vigile Brambilla. Il Maracanã è quasi crollato per l’esultanza dei 200 mila tifosi brasiliani (per gli organizzatori, solo 100 mila per la questura). Alla vista di quel pareggio così atteso il presidente Lula ha urlato un sonoro “Tiè” al Bossi facendogli ripetutamente il gesto dell’ombrello, appena imparato, in mezzo alle personalità ospiti esultanti. Il resto del secondo tempo è stato uno scoppiettante e ripetuto cambiamento di fronte, con numerosi contropiede. Le reti però rimanevano inviolate e le squadre sembravano ormai terrorizzate dalla mezz’ora d’agonia dei tempi supplementari e, probabilmente, rassegnate alla lotteria dei rigori. Ma il mister Mazzini aveva un’asso nella manica. Al primo dei cinque minuti di recupero, 92 sostituisce Borromeo con il più fresco Valpreda. Quest’ultimo raccolto il pallone nel cerchio di centrocampo, dribbla tre avversari evitando i loro letali tackle, e si presenta di fronte a João Victor. Il difensore, memore di quanto avvenuto con Borromeo, rimane piantato a terra in attesa dell’attaccante e proprio in quell’istante, con un tunnel, Valpreda beffa lui e l’incolpevole Giorginho. Quel 2 a 1 sancisce la fine della partita e le speranze del Brasile di una vittoria fortunosa ai calci di rigore. I giocatori e i tifosi padani festeggiano, mentre 200 mila brasiliani in lacrime lasciano lo stadio piangendo il sesto titolo mancato. I telecronisti si assiepano intorno al mister Mazzini: “Ci dica mister, ora i suoi ragazzi sono campioni del mondo. Cosa prova?” Mazzini con lacrime di gioia agli occhi e stringendo la coppa tra le mani è senza parole, poi si fa forza e dice: “I miei bauscia se lo meritano. Hanno tanto lavorato. Dedico questa coppa a tutti loro, alla mia famiglia e a Renzo Bossi che ha tanto creduto in noi.” Un altro telecronista disse: “Questo è certamente il giorno più bello della sua vita!” Mazzini senza pensarci rispose: “No, l’ho sempre sostenuto in passato, ma è ancora così. Il giorno più bello della mia vita non è stato il giorno del mio matrimonio, non è stata la nascita di mio figlio Stefano, non è stato neppure oggi vincere la Coppa del Mondo. No, il più bel giorno è stato quello dell’umiliazione sette reti a zero della nazionale della Terronia a Roma Ladrona durante le fasi di qualificazione. Vedere l’inconcludente tecnico Caputo e i suoi undici scansafatiche sconfitti, non ha prezzo.” Dopo questa dichiarazione, il mister Mazzini è diventato il testimonial di una nota carta di credito. 93 Ora è tempo di festeggiamenti, ma presto rivedremo Mazzini e i suoi undici bauscia nuovamente al lavoro, questa volta per salire sul tetto d’Europa e vincere gli europei di calcio con all’attivo, però, la loro prima Coppa del Mondo. Dal nostro inviato in Brasile 2013: Malacoda e l’anima del Presidente Giorno I – Malebolge Roma, 12 luglio 2013. Ieri si è spento, all’età di *** anni, dopo una breve ma inesorabile malattia, il senatore *** ***. Ne danno il triste annuncio la moglie ***, la figlia ***, il figlio ***, onorevole, e i familiari tutti. Ricordiamo doverosamente l’impegno che ha sempre contraddistinto l’attività politica del senatore, ma soprattutto la sua umanità e la disponibilità nei confronti dei suoi concittadini. [Segue l’intero coccodrillo] Questo è l’annuncio ufficiale, ma grazie alle nostre fonti bene informate, possiamo rivelare ai lettori che cosa è accaduto veramente... Bolgia V (Inferno), stesso giorno. L’Inferno, proprio quello con la ‘I’ maiuscola, che Dante attraversò condotto da Virgilio più di settecento anni fa, è un pozzo interminabile, immenso, oscuro, scavato nelle profondità della terra. Non si può immaginare un luogo così ricolmo di sofferenza e di dolore, ma allo stesso tempo così vuoto d’amore e di pietà. Le urla dei dannati lo riempiono in ogni sua parte; gridano la loro disperazione, la perdita di ogni speranza; aspettano come una liberazione la fine dei tempi, il giudizio fina94 le, che, ricongiungendo l’anima al corpo, porrà fine alla loro attesa e chiuderà per l’eternità gli accessi al dominio di Lucifero. Malacoda, uno dei diavoli noti come malebranche, ad ali spiegate, ammirava librato nell’aria cupa quello spettacolo terrificante, ne veniva corroborato e, esaltato da quella visione, affondava ancor più strettamente gli artigli nell’anima sventurata che stava trascinando con sé sempre più in basso. Solo un sottile gemito usciva da quell’anima, ma il tormento degli uncini non era nulla rispetto all’angoscia che quel dannato aveva provato poco prima di fronte a Minosse. Solo la vista di quel giudice inflessibile lo aveva spinto a riconoscere e a confessare tutti i propri peccati più nascosti. In quel momento era una liberazione farlo; poi, però, la consapevolezza della propria condizione, il comprendere di aver sciupato la propria vita per ottenere cose senza importanza, lo stava trascinando nella più nera disperazione, cieca come l’abisso in cui veniva tuffato a capofitto. Malacoda poteva percepire tutte le sensazioni, i rimorsi, i rimpianti che attanagliavano quella povera anima e sapeva che era solo l’inizio. Cominciavano tutti così: acquistavano lentamente consapevolezza della loro condizione, una realtà che avevano finto per tutta la vita di non riconoscere, tanto da aver perso l’occasione per redimersi, mentre ora avevano l’intera eternità per pentirsene inutilmente, un giorno dopo l’altro, per sempre. Il demonio alato sorvolò i primi cerchi dell’Inferno. Passò nel turbine dei lussuriosi accompagnandoli per un breve tratto nelle loro evoluzioni, poi attraversò la pioggia eterna di acqua fetida, grandine e neve, che tormenta i golosi e venne inseguito dal latrare di Cerbero. Planò quindi sugli avari e i prodighi, che cozzano gli uni 95 contro gli altri facendo rotolare inutilmente enormi pesi, e giunse sulla scura palude dello Stige che gorgoglia incessantemente e nelle cui acque i dannati si mordono e percuotono a vicenda. Ecco, finalmente, nell’aria scura, al di sopra della spessa nebbia, le torri arroventate della città di Dite e sulle mura merlate l’orda senza numero dei diavoli guardiani che al suo passaggio lo salutavano sguaiatamente cantando: «... alato malebranche, quante fiate / viaggiasti in suso e in giuso portando / sulle spalle...», ma fu un attimo e subito riprese quota, osservò dall’alto la necropoli di tombe infuocate degli eretici, poi, più giù, la riviera di sangue del fiume Flegetonte, sorvolò la selva dei suicidi e, per ultima, attraversò la pioggia di fuoco che flagella senza fine il deserto di sabbia dei bestemmiatori. Malacoda, che aveva descritto nei minimi particolari quel terrificante paesaggio all’anima dannata che portava artigliata sulle spalle, già sentiva aria di casa. Ammirava l’ordine spietato che regnava nei dieci enormi fossati, attraversati a raggiera da lunghi ponti, del cerchio ottavo. In quell’ultimo tratto volò su schiere di dannati frustati spietatamente da diavoli cornuti e, dopo aver lambito lungamente un canale ricolmo di fetido sterco, planò infine sulle sponde della quinta Bolgia. Era davvero giunto a casa. La quinta Bolgia non è cambiata molto negli ultimi settecento anni, da quando la visitò un Dante trepidante. Alte sponde circondano un ampio fiume di pece in continua ebollizione. Il puzzo e l’elevata temperatura lo rendono un luogo aspro e inospitale, ma Malacoda lo considera dopo tanti secoli come casa sua. È tutto quello che gli rimane dopo che, come gli altri angeli ribelli, è stato cacciato dai cieli del Paradiso. Non c’è nulla che possa eguagliare la vicinanza della sorgente dell’Amore 96 e dissetare per l’eternità come il risplendere della Sua Luce, eppure, accecato dall’orgoglio della propria nullità, aveva creduto di poterne fare a meno, di bastare a se stesso. Quell’idea era subito diventata una certezza in lui e, in quello stesso momento, veniva precipitato sulla terra con Lucifero e i suoi seguaci: era stata una scelta che in lui, puro spirito, non poteva che essere assunta per l’eternità, immediatamente irrevocabile. Ora conduceva quel suo ufficio a contatto con i dannati con solerzia e una compiaciuta abnegazione, tanto che era tenuto in considerazione tra i malebranche come un capo, e allo stesso tempo cercava di evocare il meno possibile il ricordo della sua condizione originaria. Invidiava gli uomini, perché avevano tutta una vita davanti per redimersi, riconoscere la rovina a cui conduce il peccato e rinunziare ad esso, mentre per lui e gli altri nella sua situazione era bastato un attimo per perdersi completamente. Proprio a causa di quell’invidia per l’imperfezione umana, quando si trovava tra gli artigli una di quelle anime sventurate, provava un malsano piacere a saggiarne la consistenza. Giunto sul ponte che attraversava tutta la quinta Bolgia e consentiva, un tempo, il passaggio dalla quarta alla sesta, ma che ormai era diroccato da quasi due millenni, Malacoda si posò leggero e trattenne davanti a sé il dannato, proprio di fronte al baratro. Gli spiegò compiaciuto: «Osserva il tuo nuovo mondo. Abiterai qui per sempre. Questo fiume di pece bollente e maleodorante ti inghiottirà per l’eternità. Solo una cosa cambierà un giorno: alla fine dei tempi, il tuo corpo, ora disfatto, risorgerà e tu, con l’anima ricongiunta al corpo, soffrirai ancora di più. Guarda tutto con attenzione, perché tra poco non vedrai che il nero della pece.» 97 Il dannato, di fronte a quella visione, dimenticò per un attimo i momenti del giudizio, in cui egli stesso aveva riconosciuto le proprie colpe, e si rivolse al demone piangendo e dibattendosi: «Abbi pietà, ti prego! Non merito tutto questo! Cosa ho fatto di male nella mia vita? Niente di più di quello che tanti altri politici e amministratori hanno fatto e continueranno a fare!» Malacoda ascoltando quelle parole non provava alcuna pietà, ma solo disprezzo per quel pusillanime. Gli rinfacciò: «Tu chiedi pietà a me? Dovevi farlo a suo tempo rivolgendoti a chi te l’avrebbe concessa senza chiederti nulla in cambio, se non questo pentimento. Ora è troppo tardi...» e così dicendo lo sollevò oltre il bordo del ponte. «No! Aspetta! Almeno una cosa concedimela... avverti la mia famiglia, fai sapere ai miei figli dove mi ha portato la mia condotta... non devono finire così, seguendo il mio esempio. Ti scongiuro! Il sono il senatore...», ma Malacoda lo scaraventò dal ponte giù nella pece; lo guardò girare su se stesso mentre agitava le braccia e precipitava. L’impatto fu rovinoso e la dura pece fagocitò il dannato in un attimo. La superficie viscosa, turbata da quel tuffo, si calmò per qualche istante ma riprese a bollire rapidamente. Intorno a quel punto si radunarono in volo alcuni malebranche, i demoni dalle pesanti ali, assegnati al tormento dei dannati della quinta Bolgia. Dall’alto del ponte, Malacoda, che in quei momenti si concedeva di essere didascalico, pensava tra sé e sé: “Caro dannato senza nome, questo amore per i tuoi figli dovevi dimostrarglielo in vita, con l’esempio di una condotta retta. Ora è inutile che io mi presenti a loro portandogli i tuoi ammonimenti, perché non hanno ascoltato gli insegnamenti di maestri ben più credibili. Penso invece che, se mi mostrassi loro, più che spaven98 tati per le tue parole, sarebbero attratti dalla seduzione della mia potenza e finirebbero per adorarmi. Come siete ciechi!” Passati lunghi momenti d’attesa, lo sventurato senza nome riemerse dalla pece come se avesse la pelle ustionata dall’elevata temperatura e spalancò la bocca e gli occhi, come se gli fosse mancata l’aria. Subito i malebranche, che l’aspettavano al varco volando lentamente in cerchio come avvoltoi sulla carogna di cui vogliono cibarsi, lo uncinarono senza pietà e lo ricacciarono sotto la crosta bollente, mentre lo insultavano e ridevano sguaiatamente. Malacoda compiaciuto osservava dall’alto la scena e in quel momento gli si avvicinò Barbariccia, uno dei malebranche più considerati, il quale disse: «Eccone un altro. Sembra che non ci sia mai fine a questo scempio. Poco male, per noi il divertimento è assicurato.» Malacoda rispose: «Più ne scoprono e più ne nascono. C’è stato un periodo, qualche anno fa, in cui questi barattieri venivano smascherati a mazzi. Per un po’ sono rimasti tranquilli, in apparenza, ma poi hanno ricominciato peggio di prima. Sembra che lo facciano apposta: dovrebbero sapere che possono essere colti con le mani nel sacco, ma per loro è come se niente fosse. D’altra parte, quei pochi sventurati che per sbaglio finiscono in galera escono subito. Purtroppo per loro, alla fine ci siamo noi!» concluse con un ghigno rivolto al compagno. Barbariccia aggiunse: «Mi hanno raccontato che ora non si chiamano più barattieri, ma concussori.» Malacoda si ripeté mentalmente la parola poi disse: «Suona bene, sembra un appellativo meno lurido, però la sostanza non cambia. Saranno sempre spirito e carne per i nostri artigli.» 99 In quell’istante si udì in lontananza un rumore assordante come di trombe e timpani: un intenso bagliore si stava avvicinando impetuosamente da oriente. I due malebranche si volsero con curiosità verso di esso. Era ancora indistinto ma già non lo si poteva osservare direttamente, perché quella luce accecante squarciava le tenebre e quel suono rompeva la monotonia di gemiti e lamenti. Il bagliore e il rombo aumentavano sempre più, tanto che i due demoni si coprirono gli occhi con gli artigli e si dovettero accovacciare sul ponte riparandosi con le ali. Poi tutto cessò all’improvviso. Malacoda non osava alzare lo sguardo, ma udì una voce che lo chiamava, una voce che non sentiva da secoli. Era talmente soave e dolce che il suo spirito ne fu trafitto dolorosamente da parte a parte e gli fece ricordare quel tormento che teneva represso dentro di sé, ma che lo angosciava incessantemente dall’inizio dei tempi. Giorno II – L’Arcangelo Roma, 13 luglio 2013. Un terremoto di magnitudo 1,8 ha colpito la provincia di Roma. L’epicentro è stato individuato in direzione di Ciampino a 4 km di profondità. Data la lieve entità della scossa non sono stati registrati danni a persone o cose. Questo è il comunicato ufficiale, ma grazie alle nostre fonti bene informate, possiamo rivelare ai lettori che cosa è accaduto veramente... Bolgia V (Inferno), stesso giorno. Malacoda e Barbariccia erano in cima al ponte diroccato che attraversava tutta la quinta Bolgia. Si erano rannicchiati al suolo e riparati con le loro pesanti ali a causa di un turbine di fuoco che li aveva investiti improvvisamente. Ora il vortice aveva perso d’intensità e Mala100 coda si sentiva chiamare per nome, il suo vero nome, quello che nessuno aveva più osato o saputo pronunciare da migliaia di anni. La voce, quella voce! Era così soave che il suo suono lo accarezzava e poteva sentire un brivido sfiorare la sua pelle coriacea. Da quella presenza emanava un calore, non quel caldo soffocante che la pece bollente sbuffava continuamente ribollendo, ma quel calore accogliente che ti ristora nelle fredde sere d’inverno, quando ti siedi di fronte al camino in cui arde un grosso ceppo acceso. Malacoda sentì pronunciare per la terza volta il suo nome, il suo vero nome, e trovò il coraggio di alzare lo sguardo. Aprì lentamente gli occhi e, abituandosi al bagliore, cominciò a distinguere i lineamenti di chi lo stava chiamando. Si trovava in piedi, fermo davanti a lui. Quel volto! Non lo vedeva da millenni e ne provava un’immensa nostalgia, ma adesso era come se l’avesse potuto ammirare da sempre, per tutti i giorni della sua esistenza, perché un tempo erano stati una cosa sola. Si alzò. Gli sembrò di impiegarci un’eternità, ma quando fu in piedi, era ancora sovrastato in altezza e doveva faticare a tenere gli occhi aperti per l’intensa luminosità che veniva emanata. In quel momento, finalmente, lo riconobbe: era uno dei sette Arcangeli, uno dei primi messaggeri di Dio. La sua bellezza era indescrivibile, proprio perché le sue qualità non possono essere catalogate con le categorie umane. Né maschio né femmina, possedeva nei suoi tratti la bellezza di entrambi i sessi, dolcezza e forza, pazienza e fermezza, fecondità e capacità di fecondare. Eppure, tentando di scrutare in quella presenza, quasi ti accorgevi che il suo splendore, la sua essenza, non erano altro che un riflesso del vero Splendore e della vera Essenza. Malacoda in piedi di fronte all’Arcangelo ne veniva schiacciato, ma anche sostenuto, ne era avvolto, ma allo 101 stesso tempo poteva abbracciarlo. In quei lenti istanti, avevano continuato a comunicare, ma non erano parole quelle che Malacoda credeva di udire, era invece la sostanza stessa della volontà che gli veniva trasmessa e così comprese che era chiamato per compiere una missione. Come già gli era capitato altre volte nei secoli passati avrebbe dovuto risalire nel mondo degli uomini, dei vivi, e compiere ciò che gli veniva chiesto, o almeno tentare di farlo. Già, perché Dio lasciava sempre un’ultima possibilità agli uomini, quegli esseri imperfetti che per quanto potessero toccare il fondo della loro misera esistenza, conservavano sempre in loro stessi una scintilla di divinità. Quando tutto fu chiaro nell’intelletto del malebranche, l’Arcangelo impercettibilmente iniziò ad allontanarsi da lui, senza mai voltarsi. Stava tornando da dove era venuto. Malacoda cominciò subito a percepire il gelo dell’Inferno attanagliarlo nuovamente e d’improvviso lo assordò il silenzio fatto di gemiti e lamenti. Si sentì perduto, non poteva tornare già cieco e sordo, dopo aver assaporato per quei pochi istanti cosa significava vedere e udire. Disperatamente si mise a correre lungo il ponte verso la luce che si allontanava e lo illuminava ancora debolmente, poi si lanciò nel buio. Scuotendo le sue pesanti ali tentò di seguire il più possibile quella stella che gli indicava la direzione, ma presto sparì. L’Inferno sembrava ancora più buio e muto di come lo ricordava prima di quell’incontro. Planò sul ponte e tornò dal compagno che si era appena risollevato. «Che cosa ti ha detto?» chiese Barbariccia. «Io ho sentito solo un frastuono assordante. Per fortuna è durato poco!» 102 «Già, per fortuna è durato poco» constatò rattristato Malacoda. «Mi ha assegnato una missione su, nel mondo dei vivi.» Barbariccia al sentire la notizia si entusiasmò subito: «Non sei contento! A me è capitato un paio di secoli fa. Dovevo prendere il posto di un tizio, sai di quelli che finiscono nel nono cerchio; aveva tradito la fiducia di non so quante persone, amici e parenti. In quei casi, prima ancora che sia giunto il momento della morte, se ne rapisce l’anima, perché non abbia la possibilità di pentirsi delle sue azioni. Il corpo rimane lassù, guidato da un demonio, ma l’anima è già quaggiù che paga per la sua condotta. Non mi sono mai divertito tanto in vita mia. Chi devi sostituire?» «Non si tratta di questo» spiegò Malacoda, «ma di un’anima che doveva presentarsi a Caronte qualche giorno fa, però non si è fatta vedere. Deve essere successo qualcosa di strano lassù e devo controllare, forse è il solito pasticcio causato dalla medicina moderna: non è facile per gli uomini capire qual è la linea che separa la vita dalla morte. Comunque vedrò come stanno davvero le cose quando sarò là. Vuoi venire su con me?» Barbariccia si fregava già le mani per la soddisfazione, perché si divertiva molto a lanciare i tranelli delle tentazioni nel mondo dei vivi, sembrava che gli uomini fossero fatti proprio per caderci dentro, ma si ricordò di un impegno e rispose con un po’ di rammarico: «Non posso! Sai quel dannato che è arrivato la settimana scorsa? Ogni sera ci racconta una parte della sua vita giù al ponte diroccato. Io e qualche amico gli permettiamo di rifiatare e lui ce ne racconta delle belle. Ieri è arrivato al suo terzo matrimonio e mi dispiacerebbe perdermi l’episodio.» Malacoda disse perplesso: «Ma hai tutta l’eternità per fartelo raccontare!» 103 «Certo, hai ragione. Ma è più forte di me! Devo scoprire come va a finire e devo saperlo al più presto. È tutto il giorno che ci penso. Se venissi con te, non sarei concentrato e farei dei gran pasticci. Ma ora ti devo salutare... si stanno quasi per riunire. Buon viaggio!» e detto questo si tuffò giù dal ponte planando verso il suo appuntamento. Malacoda guardò oltre il parapetto, verso la pece bollente, e vide due malebranche che litigavano per ottenere un buon posto da cui arpionare i dannati, allora gridò: «Alichino! Calcabrina! Venite qui!» A quell’urlo i due malebranche guardarono in su e, mentre erano distratti, un dannato ne approfittò per emergere, prendere fiato e rituffarsi. A quella vista Alichino e Calcabrina cominciarono ad accusarsi a vicenda dell’appostamento fallito e dalle parole passarono rapidamente ai fatti. Mentre si radunavano altri malebranche che tifavano per l’uno o per l’altro, piombò Malacoda tra di loro riducendoli entrambi a mal partito: «La prossima volta vi affogo nel canale di sterco, altro che pece bollente!» Ristabilito l’ordine e chiarita la gerarchia, i tre iniziarono il cammino. Era una strana compagnia: il capo si muoveva spedito e aveva ancora in testa l’incontro con l’Arcangelo, che gli avrebbe riscaldato il cuore per i prossimi secoli, mentre i gregari non perdevano occasione per farsi sgambetti e darsi spintoni. A un tratto Alichino chiese: «Capo, dove stiamo andando?» «Ecco» disse Calcabrina, «sei il solito stupido. Non vedi dove stiamo andando?» Alichino ci pensò un attimo, ma non ci arrivava proprio, così chiese: «No, dove?» «E che ne so io!» rispose Calcabrina. «Chiedilo al capo!» 104 «Riuscite a stare zitti per qualche minuto? Mi sono già pentito di aver portato voi! Stiamo andando a Roma, perché là abbiamo una missione da compiere.» Alichino disse soddisfatto: «Mi piacciono le capitali dei grandi imperi. Ci sono stato... quand’era? Boh! Saranno un paio di millenni... era una città depravata e lussuriosa, vi abitavano milioni di persone da ogni parte del mondo, una vera bolgia infernale.» Calcabrina lo derise: «Sei rimasto un po’ indietro, ne è bollita di pece sotto ai ponti da allora!» I tre malebranche volarono per ore, poi raggiunsero la volta della crosta terrestre. Trovarono un anfratto e cominciarono la dura risalita. A un tratto il passaggio era talmente ostruito che fu necessario farsi largo a forza e richiedere l’intervento dei grossi calibri. Dopo la potente scossa, Calcabrina disse: «Una bella botta! Pensi che là sopra abbiano sentito qualcosa?» «Penso proprio di sì» rispose Malacoda. Giorno III – Cinzia Roma, 14 luglio 2013. Un macabro furto è stato perpetrato all’Istituto di Medicina Legale. Tre salme sono state trafugate nel corso della notte. Gli inquirenti, intervenuti prontamente sul posto, non stanno escludendo nessuna pista compresa quella, particolarmente esecrabile, del traffico di organi. I corpi trafugati non erano ancora stati identificati al momento della scomparsa e quindi solo nei prossimi giorni sarà possibile formulare ipotesi più precise. Questo è il comunicato ufficiale, ma grazie alle nostre fonti bene informate, possiamo rivelare ai lettori che cosa è accaduto veramente... Malacoda precedeva la terna dei malebranche. Dopo aver strisciato nei meandri delle viscere della terra, non 105 era difficile attraversare quell’ampio tunnel. A intervalli regolari si aprivano pozzetti e caditoie sulla volta della fogna. Attraverso di essi filtrava una debole luce. Non che ne avessero bisogno: i malebranche sono abituati a scrutare nel buio grazie all’allenamento di secoli d’oscurità, che preferiscono di gran lunga alla luce abbagliante del sole. Neppure il fetido fiume che scorreva in quelle fogne dava loro noia, perché il suo puzzo non era nulla in confronto alle esalazioni arroventate che rilasciava la pece bollente. «Che galleria ben costruita!» disse Malacoda ammirato, mentre camminava a passo spedito con la melma al ginocchio. «A quanto pare, in questi ultimi secoli, le tecniche di costruzione sono migliorate notevolmente» aggiunse Alichino, che lo seguiva poco distante. Calcabrina spense subito l’entusiasmo dei compagni dicendo: «Non mi sorprende che i nostri clienti siano aumentati così tanto negli ultimi tempi, infatti queste opere devono smuovere molto denaro e credo proprio che la maggior parte rimanga appiccicata alle mani degli amministratori comunali.» Calcabrina chiamava clienti i dannati che ogni giorno, a frotte, venivano precipitati nella pece bollente della quinta bolgia. Quando le anime, ancora inesperte, riemergevano per trovare sollievo dalle temperature estreme che sembravano cuocerne la pelle e le carni, i malebranche si divertivano a ripescarli con i loro uncini e, dopo averli tormentati con graffi e mutilazioni, ascoltavano le loro patetiche storie. I più avevano vissuto arricchendosi senza alcun ritegno e approfittando della loro posizione. Erano amministratori di città o stati che vendevano permessi di qualsiasi genere al miglior offerente o pretendevano denaro per servizi che invece erano dovuti. Dante li chiamava barattieri, noi li definiamo più 106 pomposamente concussori. Tanti politici che in vita, quelle poche volte che venivano scoperti, si giustificavano dicendo che, in fondo, tutti erano ladri come loro, non trovavano molto sollievo nel ritrovare nella loro stessa situazione tanti altri ladri, come loro, tuffati nella pece bollente e tormentati dagli artigli di demoni spietati. Malacoda interruppe le chiacchiere e ordinò la ricerca di una via discreta per salire in superficie. I compagni si arrampicarono lungo le trombe dei pozzetti facilitati nella scalata dagli uncini di cui erano dotati e così ispezionarono meticolosamente numerosi tombini. Era notte e la luce che filtrava dalle grate era prodotta dai lampioni che illuminavano la strada soprastante. A quell’ora di notte, i luoghi circostanti non erano molto frequentati, ma sempre troppo per tre malebranche corpulenti che volevano passare inosservati. Si vedevano ai lati della strada lunghe file di vetrine illuminate a giorno. Poi, finalmente, dopo aver perso da tempo il conto dei pozzetti ispezionati, Calcabrina annusò nell’aria l’odore caratteristico della carne inanimata. Era quello che stavano cercando, l’ideale per nascondersi e non dare nell’occhio: prendere possesso di un ordinario corpo umano non occupato. «Qui intorno ci sono dei cadaveri freschi», annunciò ai compagni. Malacoda aveva pensato di portarsi il fido Cagnazzo per individuare corpi incustoditi, ma il fiuto di Calcabrina si stava dimostrando all’altezza del compito. Dopo aver rimosso con qualche difficoltà alcune sbarre d’acciaio e una grata di protezione, il gruppo, ripiegate le ali, salì in superficie attraverso la stretta apertura. Nell’oscurità della notte, non si vedeva anima viva. Gli edifici intorno sembravano disabitati e le loro sagome si 107 disegnavano indistinte contro il cielo colorato di un rosso cupo tenebroso. Si trovavano all’interno di un cortile circondato da basse mura sulla cui sommità, per evitare l’ingresso di eventuali intrusi, erano fissati spuntoni metallici e un robusto reticolato. «Seguitemi!» disse Calcabrina e guidò il gruppo verso una delle porte che si aprivano lungo il perimetro. Su una targa c’era scritto ‘Obitorio 4 - Ufficio del Medico Legale’. «Cosa significa?» chiese Alichino. Malacoda rispose: «Ho già visto questo genere di scrittura l’ultima volta che sono salito in missione nel mondo dei vivi, ma ignoro il significato di queste parole. È certo, però, come ormai sentirete tutti, che all’interno ci sono dei corpi disponibili.» I malebranche, approfittando delle sbarre divelte e della loro forza sovrumana, forzarono la porta e penetrarono all’interno dell’edificio. Camminando a passo spedito sul freddo pavimento, si spostavano lungo il corridoio seguendo la traccia disegnata nell’aria che il loro olfatto finissimo riusciva a percepire. Avevano l’aspetto di segugi intenti a seguire la traccia odorosa della loro preda e il ticchettio dei loro artigli sulle mattonelle rafforzava la suggestione di quell’immagine. A un tratto Malacoda si arrestò e fermò al contempo i compagni. Aveva appena provato la netta sensazione che dietro l’angolo del corridoio qualcosa, nella semioscurità delle luci di cortesia, stesse osservando con pazienza il locale deserto. Poteva percepire degli occhi assonnati che distrattamente osservavano la scena immobile, per poi tornare a concentrarsi nella lettura di una rivista. «Ora!» ordinò improvvisamente Malacoda e svoltò l’angolo di corsa, mentre il resto del gruppo era in atte108 sa del segnale. In alto, sopra la porta, si poteva notare una telecamera di sicurezza, ma in quel momento era cieca perché la guardia di sorveglianza, distratta, non stava guardando i monitor. I malebranche passarono velocemente sotto la telecamera chiedendosi di cosa si trattasse ed entrarono nel locale attiguo spingendo le maniglie antipanico. La porta si spalancò. Al centro della stanza semibuia, illuminata da un solo neon che talvolta si spegneva a intermittenza, c’era un freddo tavolo autoptico in acciaio. Era pulito, ma i demoni potevano sentire chiaramente che su quel tavolo erano stati sezionati innumerevoli corpi e che, nel canale di scolo che lo circondava interamente, era scorso il sangue ormai indistinto di uomini e donne. Incrostazioni delle loro vite terrene si erano accumulate su quel tavolo, molte gridavano ancora vendetta, mentre altre chiedevano solo pace. Su un lato della stanza, si aprivano numerosi loculi frigoriferi e i malebranche capirono che ciò che stavano cercando era chiuso al loro interno. Malacoda di avvicinò a uno di essi, senza sapere perché fosse attirato proprio da quel particolare loculo. Un’etichetta riportava un codice e un nome che lesse a fatica: John Doe, maschio, caucasico, 60 anni. Non comprendeva quello che c’era scritto, ma intuì che le prime parole potessero corrispondere al nome. «Questo è mio!» disse perentoriamente e, agendo sulla maniglia, aprì lo sportello. Assieme al carrello, su cui c’era un corpo coperto da un lenzuolo, uscì un zaffata di aria gelata. Alichino e Calcabrina si disposero intorno, mentre Malacoda rimuoveva il lenzuolo, e si misero a osservare il corpo nudo. «Sembra in buone condizioni» disse Alichino, «ma non vuoi vedere gli altri prima di scegliere?» Malacoda rispose: «No, è lui che ha già scelto me.» 109 «Bene, vediamo cosa resta» disse Calcabrina e aprì uno dopo l’altro i loculi, scoprendo i corpi conservati all’interno. Una prima serie era troppo danneggiata. Erano crivellati di colpi e il medico legale aveva già portato a termine il suo lavoro, infatti una vistosa cicatrice a ‘Y’ si apriva sul loro torace. Non era possibile usarli senza dare troppo nell’occhio ed era piuttosto laborioso rimetterli in piena efficienza. Altri invece erano semplicemente troppo vecchi. Calcabrina, infine, scelse un uomo di colore corpulento. Era attirato dall’aspetto sicuro e fiero che ancora incuteva pur in quella posizione estrema. Sull’etichetta c’era scritto: Jim Doe, maschio, centrafricano, 30 anni. «A me piace questo!» disse e aggiunse: «Che strano! Si chiama quasi come il tuo, Malacoda, Jim Doe. Deve essere un cognome comune... oppure questi sono tutti parenti. E tu Alichino, hai trovato?» Alichino era immobile di fronte al corpo di una giovane e rimaneva in silenzio. Calcabrina si avvicinò e lesse a fatica l’etichetta: Jane Doe, femmina, slava, 20 anni. «Un’altra della famiglia!» disse, più beffardo che stupito. Malacoda interruppe le chiacchiere e fece cenno agli altri che lui sarebbe stato il primo. Avrebbero occupato quei corpi, li avrebbero rimessi in efficienza e, dopo averli utilizzati per muoversi nel mondo dei vivi senza dare nell’occhio, li avrebbero restituiti al termine della loro missione. Si trattava solo di un prestito, infatti i loro veri proprietari li avrebbero riavuti intatti alla fine dei tempi. Il mattino dopo, Marcello Mastroianni, il medico legale, giunse in ufficio un’ora prima del solito. Era stato svegliato all’alba da una telefonata della polizia che lo ave110 va informato dell’accaduto. Preoccupato dall’evento decisamente insolito si era vestito in fretta e in moto aveva raggiunto l’Istituto. Non si era rasato e la barba ispida gli dava un aspetto vissuto che lo rendeva più interessante del solito, ma lo invecchiava parecchio. Lo avresti detto più vicino ai cinquanta che ai quaranta. Posteggiò la moto tra due volanti con i lampeggianti accesi. Ai poliziotti che volevano allontanarlo si qualificò, così fu invitato a raggiungere il commissario Contini che stava eseguendo un primo sopralluogo. Salì le scale di corsa, attraversò il corridoio seguito dall’occhio indiscreto della telecamera e si introdusse nella sala delle autopsie. Appena entrato vide un uomo e una donna che ispezionavano l’ambiente in cerca di tracce. Si presentò all’uomo e disse: «Commissario? Sono Mastroianni, il...» «No» lo interruppe l’uomo, «io sono ispettore. Il commissario Cinzia Contini è lei.» Imbarazzato strinse la mano alla donna e, ora che la osservava meglio, notò che era veramente una bella donna. Non più alta di lui, elegante, un bel sorriso sincero e uno sguardo diretto. Di solito nelle donne osservava con attenzione ben altro e anche in quel caso aveva già notato che c’era molto altro da guardare, ma aveva di fronte un commissario e si sforzò di non abbassare gli occhi al di sotto del mento. Stringendole la mano provò a giustificarsi: «Mi scusi, avevo pensato...» «Non si preoccupi, mi capita spesso. Tutti si aspettano un uomo.» «Volevo dire che mi aspettavo qualcuno più vecchio.» Cercò di farle un complimento, ma era sincero, infatti non dimostrava ancora quarant’anni. «La ringrazio. Come le ha detto il collega, sono il commissario Cinzia Contini. È stato convocato così presto perché dobbiamo porle alcune domande.» 111 «Sono a sua disposizione» rispose lasciandole a malincuore la mano e passando il dorso sulla barba di due giorni. «So che si chiama Marcello, come l’attore» disse la Contini sorridendo. «Sì, mia madre era appassionata di cinema. Mio padre invece faceva Mastroianni di cognome» disse nel vano tentativo di sembrare un tipo simpatico, dato che la carta del fascino l’aveva già sprecata. «Non era di questo che volevo parlarle, ovviamente. Abbiamo già effettuato i primi rilievi e consultando il registro i corpi che risultano scomparsi sono tre.» «Vedo, infatti» constatò il dottore, «che le celle frigorifere aperte sono tre.» Il commissario precisò: «Anche le altre erano aperte, ma nulla sembrava manomesso, a parte i lenzuoli sul pavimento, e le abbiamo richiuse.» Poi aggiunse quasi ridendo: «Ho notato le etichette: John Doe, con fratelli e sorelle, e poi quel ‘caucasico’. È un appassionato di CSI?» Il medico si vergognò di quel suo vezzo e spiegò: «Sì, ehm... ecco, lo trovo comodo. Appiccico un’etichetta con una descrizione sommaria prima di compilare il registro e invece di scrivere ‘ignoto’, ‘sconosciuto’, ‘nn’ o ‘nomen nescio’, riporto il nome putativo che si usa negli Stati Uniti. Mi sembra meno freddo.» Quindi chiese: «Chi ha scoperto il... rapimento?» Il commissario spiegò che una delle donne delle pulizie aveva sentito degli strani rumori nel ripostiglio degli armadietti. Insospettita, ma per nulla intimorita, era entrata all’improvviso. Pensava di sorprendere l’autore dei piccoli furti che da qualche tempo venivano commessi ai danni dei dipendenti e, invece, si trovò di fronte tre persone che si stavano vestendo con gli indumenti tro112 vati negli armadietti. Pare che fossero due uomini e una ragazza. Dopo essere stati sorpresi, sono fuggiti. «Due uomini e una ragazza?» disse il medico. «Se ieri sera non avessi visto i corpi chiusi nelle celle, avrei pensato che...» La Contini lo interruppe e gli fece cenno di seguirla. Attraversato a ritroso il corridoio raggiunsero l’ufficio del custode. L’ispettore, che li aveva seguiti, azionò un videoregistratore e sul televisore centrale della stanza cominciarono a scorrere le immagini della sera prima. A un tratto, sullo schermo si videro passare tre enormi figure scure, indistinte. L’ispettore fece ripetere la scena più volte anche al rallentatore e disse: «Eccoli! Sono tre ed entrano nella sala. È troppo scuro, l’immagine è disturbata e non si distinguono. Comunque l’aspetto è decisamente inquietante.» «La guardia non si è accorta di nulla?» chiese Mastroianni. «No» rispose la Contini, «ma il bello deve ancora venire.» L’ispettore fece avanzare il nastro ed, ecco, a un certo punto, tre figure nude, un uomo bianco, uno di colore e una ragazza, uscire dalla sala. Camminavano lentamente e la telecamera li riprendeva di spalle, poi improvvisamente, senza fermarsi, la ragazza voltò la testa e li fissò negli occhi. Quello sguardo gelò il sangue a Mastroianni. «È lei» disse con un filo di voce. «La riconosce?» «Sì, è lei. L’hanno portata ieri sera. Strangolata e gettata nel Tevere. A un primo esame era rimasta in acqua dalla notte precedente. Oggi avrei dovuto farle l’autopsia.» «A quanto pare non ce n’è più bisogno» disse la Contini. «Mi raccomando, finché le indagini sono in corso, nessuno ne deve sapere nulla. Mi riferisco a chiunque, 113 ma soprattutto ai giornali. Io invece diramerò un avviso di ricerca per tre persone scomparse.» Mastroianni annuì, mentre la ragazza del video lo fissava ancora negli occhi. Giorno IV – Isabel Roma, 15 luglio 2013. Un nuovo scandalo sta per sconvolgere la Roma bene. Il noto avvocato *** ***, dirigente del ministero della ***, è stato coinvolto in un incidente con la sua auto blu al Km 20 dell’Appia Nuova in direzione Roma. L’avvocato, che era alla guida in stato di ebbrezza, ha subito alcune fratture ed è in stato di choc. Dalle prime indiscrezioni trapelate sembra che un cadavere, di cui non si conosce ancora l’identità, sia stato ritrovato nel bagagliaio dell’auto. Non disponiamo di altre informazioni e gli inquirenti per il momento si sono chiusi nel più stretto riserbo. Questa è la notizia di cronaca pubblicata dai giornali, ma grazie alle nostre fonti bene informate, possiamo rivelare ai lettori che cosa è accaduto veramente... I tre malebranche si godevano il caldo di quel mezzogiorno di luglio in uno dei parchi cittadini. Dopo aver assunto le loro nuove identità, formavano un trio ancor peggio assortito di prima: un sessantenne brizzolato che dimostrava più dei suoi anni (Malacoda), un trentenne di colore (Calcabrina) e una slava quasi diciottenne (Alichino). Gli indumenti che avevano trovato negli armadietti, t-shirt con scritte di ogni tipo e improbabili bermuda, non sfiguravano al confronto con l’abbigliamento dei turisti che vagavano, nella calura di quella afosa giornata di luglio, alla ricerca del refrigerio di una fontana. 114 «Queste strane scarpe sono comode» disse Calcabrina alzando una gamba e osservando il sabot bianco che aveva al piede. «Ora che siamo ben mimetizzati per entrare in azione, si può sapere che cosa dobbiamo fare?» «Prima mangiamo! Io muoio di fame» disse Malacoda e si avviò verso un chiosco in fondo al parco. Il proprietario di quel chiosco aveva una cattiva abitudine: quando riceveva i pagamenti dei turisti, incassava la banconota e restituiva il resto per un taglio inferiore. Se il malcapitato non se ne accorgeva era un bel guadagno, altrimenti aveva la faccia tosta di fingersi mortificato per l’errore. Con questo sistema aveva imbrogliato già tante nonnine che compravano il gelato ai nipotini, proprio come quella che precedeva Malacoda e diceva al nipote: «Eccoti il gelato, ma stai attento e non ti sporcare», mentre dopo aver dato 50, riceveva il resto di 20. Malacoda che nel frattempo si era servito disse al barista: «Tre hot dog, uno con senape, uno con maionese, uno con ketchup e poi tre diet coke.» «Sono 18 euro» disse il proprietario che nel frattempo pensava: “Se mi da 20 pazienza, ma con 50 ritento il giochetto. A giudicare da come è vestito, questo vecchio non dev’essere molto sveglio... ma cosa aspetta?” I demoni sanno leggere nella mente dei comuni mortali, soprattutto quando progettano qualche malefatta. Il barista ripeté: «18 euro!» «Sì» disse Malacoda, «te ne ho appena dati 50, li hai in mano.» «Ehm, no» rispose sottovoce, «questi me li ha dati la signora.» La nonnina, che era anziana e svampita, ma non sorda, intervenne: «No, io le ho dato 20, ecco qui il mio resto di 20» e poiché le disgrazie non capitano mai da sole, erano comparsi anche due poliziotti di quartiere che 115 avevano ordinato due caffè al bancone e distrattamente osservavano la scena. «Hai sentito la signora? Allora dov’è il mio resto?» Non ci volle molto. Malacoda ricevette i suoi 32 e si porto via lattine e fagotti. «Chi voleva il ketchup?» «Io» disse Calcabrina. «Adesso possiamo sapere perché siamo qui?» Alichino, che era stato in silenzio fino ad allora, gustando il suo hot dog alla maionese, intervenne: «Prima volevo parlarvi di una cosa che mi sta molto a cuore.» I due compagni si guardarono stupiti, infatti Alichino tutto poteva avere fuorché un cuore, ma quelle erano cose che potevano capitare, quando prendevi in prestito un corpo come avevano fatto loro. Nel bene o nel male, i ricordi e i sentimenti del loro ospite potevano farsi strada nel loro animo. Non si può credere quanto le ultime volontà rimangano appiccicate, restando addosso inespresse: non puoi liberartene se non soddisfandole. Accadeva la stessa cosa a tutti e tre, ma Alichino si stava rivelando il più sensibile. Aveva sbagliato a scegliere una ragazza, sono le più difficili da gestire. Malacoda, che aveva capito il problema e sapeva che bisognava risolverlo o avrebbe dovuto fare a meno di Alichino, con rassegnazione e comprensione chiese: «Che cosa ti assilla?» «Già» disse Calcabrina, «oggi non sei il solito stupido rompiscatole. Così combinato mi sei perfino simpatico, hai un certo sex-appeal che mi smuove dentro sentimenti sopiti da...» «Zitto! È una cosa seria. Ascoltiamolo!» Alichino iniziò a raccontare con la voce di una ragazza quasi diciottenne ma che dimostrava più della sua età: «Mi chiamo Isabel e provengo dalla Romania. I miei mi 116 hanno mandata in Italia per trovare un lavoro e far fronte ai problemi economici della famiglia. Sapete, mio padre è invalido e ho sei fratelli più piccoli. Bene, un lontano parente, una specie di cugino, aveva promesso di trovarmi un lavoro. L’unica cosa che ha fatto è stata quella di picchiarmi e di sfruttarmi facendomi lavorare in strada. Di ciò che guadagno lui si tiene quasi tutto e manda qual poco che rimane a mio padre. Quanta brutta gente ho conosciuto...» Malacoda intervenne: «È triste, lo so, ma ne abbiamo sentite di peggiori. Vieni al dunque.» «Due giorni fa, ero con un cliente, una persona distinta, un avvocato. Non era mai stato troppo violento, ma quella notte gli prese un raptus. Forse aveva assunto più droga del solito e, quella sera, aveva avuto anche una discussione con la moglie, credo. Beh, a un tratto, nella foga del momento, mi ha strangolata. Ho ancora sul collo i segni delle sue mani.» «È vero!» disse Calcabrina osservandole la gola. «In realtà non ero ancora morta. Nella sua follia si era fermato appena in tempo, ma avevo perso conoscenza. Quello che segue l’ho saputo dopo: lui era fuori di sé e chiamò quella mia specie di cugino, perché non sapeva cosa fare. Forse avrebbero potuto salvarmi, ma credendomi in fin di vita, insieme decisero che era più conveniente liberarsi subito del mio corpo e perciò mi gettarono nel Tevere.» «Che bastardi!» disse Calcabrina e, rivolto a Malacoda, aggiunse: «Non ti fa rivoltare lo stomaco certa gente?» Malacoda rispose: «No questa schifezza non mi disturba; sparatorie, accoltellate, pestaggi... povere vecchie massacrate e derubate della pensione... insegnanti sbattuti giù dal sesto piano perché bocciano i ragazzi; no tutto questo non mi disturba affatto. Non mi disturba per niente sguazzare nella melma di questa città, travol117 to dalle ondate sempre più fetide della corruzione, apatia, burocrazia. No tutto questo non mi disturba; sai cosa mi disturba? Sai che cosa mi rivolta veramente lo stomaco? Vederti ingozzare avidamente quel salsicciotto, nessuno, ripeto, nessuno ci mette il ketchup, ci vuole la senape!»1 Poi aggiunse, rivolto a Isabel: «È davvero una storia triste, ma noi cosa possiamo farci?» «Non lo so, ma io sento forte dentro di me un impulso irrefrenabile: questa sera a un’ora precisa devo trovarmi al Km 20 dell’Appia Nuova.» Non c’era nulla da fare, quegli impulsi bisogna seguirli o non te ne liberi. Avrebbero accontentato Alichino. L’avvocato era fuori di sé. Aveva appena letto il giornale del mattino e nella pagina della cronaca locale aveva trovato la foto di Isabel, quella ragazza per la quale aveva perso la testa e che aveva ucciso pochi giorni prima. Nell’articolo c’era scritto che era scomparsa, chiunque avesse avuto informazioni era pregato di contattare la polizia. In quel momento il telefonino squillò. Era il suo pusher romeno che gli diceva di accendere la TV sul TG regionale. Lo speaker stava ripetendo la stessa notizia. «Dobbiamo vederci» disse il pusher, «io ti ho dato una mano, ma non ci ho ancora guadagnato nulla e la famiglia di Isabel ha perso la sua fonte di reddito. Per il momento portami 25 mila euro al solito posto così ne parliamo.» «Sono troppi! Dove li trovo a quest’ora... non eravamo d’accordo così.» 1 Dal film “Coraggio… fatti ammazzare” di Clint Eastwood 118 «Arrangiati. L’altra sera ho scattato delle foto. Del corpo ce ne siamo liberati, ma le foto sono sufficienti per incriminarti. 25 mila stasera e trattiamo sul resto.» I due si incontrarono nel luogo convenuto e la trattativa ebbe luogo. L’avvocato aveva capito che non si sarebbe più liberato di quel ricattatore, ma non aveva idea di come fare per toglierselo dai piedi. Ci avrebbe pensato domani. Ora i due si trovavano sul fuoristrada dell’avvocato di ritorno verso Roma. «Vai piano» disse il pusher, «non c’è fretta.» Aveva sulle ginocchia la valigetta con i 25 mila in banconote di piccolo taglio e la stava soppesando. «Tutto è bene quel che finisce bene» disse nel suo italiano approssimativo. «Gli errori si pagano, ma per fortuna hai trovato un buon amico come me.» L’avvocato che aveva bevuto parecchio per smaltire la tensione, spinse ancora di più sull’acceleratore. Era buio e non c’era traffico ma l’asfalto era reso viscido da una leggera pioggerellina. A un certo punto, ad alta velocità, il fuoristrada giunse al Km 20 dell’Appia Nuova. Sembrava ci fosse qualcosa in lontananza al centro della carreggiata e in un istante se la trovarono davanti, troppo tardi per frenare. Gli abbaglianti illuminarono la bianca figura di una ragazza in piedi al centro della corsia, la riconobbero, era Isabel. L’avvocato terrorizzato scartò improvvisamente e il fuoristrada si schiantò contro un albero. Il commissario Cinzia Contini fu svegliata alle tre di quella notte. Amava alzarsi presto, ma era decisamente troppo presto. Quando giunse al Km 20 dell’Appia Nuova c’era ancora un’ambulanza e due volanti con i lampeggianti accesi. C’era anche un uomo accanto a 119 una moto, che riconobbe essere il dottor Mastroianni, ma rimaneva lontano in disparte. «Che cosa è successo? Perché mi avete fatta chiamare dalla Centrale?» Un agente stava esaminando l’interno dell’abitacolo, mentre un altro rispose: «C’è stato un incidente. Questo fuoristrada ha sbandato. Fortunatamente non ci sono altri veicoli coinvolti. Il conducente è rimasto seriamente ferito e ora è ricoverato nel vicino ospedale. Si tratta di un noto avvocato della città. Ci doveva essere anche una seconda persona come passeggero. A giudicare dal parabrezza sfondato e dal sangue perso, secondo il dottor Mastroianni, deve essere deceduto, ma il corpo non si trova. Infine, ecco il motivo per cui l’abbiamo chiamata...» Il poliziotto si spostò sul retro del fuoristrada seguito dalla Contini e aprì, con qualche fatica, il bagagliaio. Alla luce del lampione, il commissario vide il corpo nudo di una ragazza. La osservò da vicino e, mentre le guardava il volto, notò sul collo anche i segni evidenti di uno strangolamento. Non sarebbe stato difficile fare un raffronto con le impronte di un sospettato. Ma quel viso! Ricordava di averlo già visto. Il poliziotto concluse: «È senza dubbio la ragazza di cui avete segnalato la scomparsa ieri. Tenevo l’avviso che avete diramato sul cruscotto e l’ho riconosciuta subito.» «È vero, è lei» confermò la Contini. A quell’ora di notte, non riusciva a collegare bene i fatti. Una ragazza che era già all’obitorio se n’era andata in giro per Roma ed era finita in un portabagagli. E poi anche un secondo corpo mancava all’appello, senza contare gli altri due fuggiti dall’obitorio. «Dite alla scientifica di rilevare al più presto le impronte sul collo. Chiederò un mandato per confrontarle con le mani del conducente.» 120 Mentre il poliziotto tornava al suo lavoro, la Contini guardò un’ultima volta il viso della ragazza. Sembrava sereno. Si tolse l’impermeabile e coprì il corpo. Il dottor Mastroianni nel frattempo si era avvicinato, le mise la sua giacca sulle spalle e disse: «È tutto così... incredibile.» Quella notte piovigginava e faceva freddo per essere luglio. Cinzia Contini rabbrividì e si strinse nella giacca di Marcello, il dottor Mastroianni. Poi lo guardò e disse: «È troppo tardi per tornare a dormire, ma non è presto per un caffè. Andiamo, offro io!» Giorno V – Shopping Roma, 16 luglio 2013. Anche oggi a Roma le temperature hanno superato di gran lunga le medie stagionali. I turisti ne hanno approfittato per dare l’assalto alle fontane della capitale, mentre pochi fortunati si sono rinfrescati all’aria condizionata delle boutique del centro facendo shopping. Tra i numerosi VIP presenti in questi giorni a Roma, segnaliamo George Clooney, Fabrizio Corona e il principe Akeem di Zamunda. Questa è la notizia pubblicata dai giornali, ma grazie alle nostre fonti bene informate, possiamo rivelare ai lettori che cosa è accaduto veramente... Il bar aveva appena aperto. Nel locale non c’era anima viva e il barista si aspettava che non arrivasse nessuno per un bel pezzo in quella mattinata così poco estiva. Invece la porta a vetri si aprì tintinnando ed entrarono tre tipi strani in maglietta, bermuda e zoccoli. «Buongiorno, signori, in cosa posso servirvi?» «Per me cappuccino e cornetto» disse Malacoda sedendosi al bancone. 121 Calcabrina accompagnò Alichino a un tavolo appartato e poi raggiunse Malacoda al bancone: «Pure per me un cappuccino e anche per il mio amico laggiù.» Il barista accese le televisione, poi azionò la macchina per il caffè e mentre manovrava disse: «Che brutta giornata! La pioggia di stanotte è insolita per luglio, vediamo cosa dicono le previsioni del tempo.» Servì due cappuccini e si apprestò a portare il terzo ad Alichino. Calcabrina lo fermò: «No, grazie. Glielo portiamo noi.» «Il vostro amico ha una brutta cera. È pallido come un morto e poi quei tagli sul volto... Non sta bene?» Malacoda rispose: «Non si preoccupi, stamattina ha litigato col rasoio. Quando si alza troppo presto, ci mette sempre parecchio a svegliarsi. Rimane in coma fino al caffè, ma dopo il cappuccino sarà un altro.» Quindi raggiunsero il compagno al tavolo appartato, mentre il barista dubbioso si mise a sciacquare i bicchieri. «Ha ragione» disse Malacoda sottovoce, «hai una brutta faccia! Questo corpo era troppo danneggiato dall’incidente. Ho condiviso con te l’idea di fare lo scambio e lasciare Isabel a terminare la sua vendetta, ma ora non vorrei dovermi trascinare un morto vivente per tutta Roma.» «Te l’ho già detto, ho solo bisogno di un po’ di tempo. Intanto date un’occhiata a questa valigetta. Il rumeno... ah, sì! Non ve l’ho ancora detto, sembra che io adesso sia quella specie di cugino di cui ha parlato Isabel... il rumeno, dicevo, la teneva così stretta che ho faticato a lasciare la presa.» Aprirono e videro i 25 mila euro. «Sembra una bella somma. Propongo di comprare dei vestiti decenti. Sono stanco di sentirmi addosso gli occhi di tutti» disse Calcabrina. 122 Nel frattempo in televisione trasmettevano le ultime notizie. Le previsioni dicevano che nel pomeriggio sarebbe tornato il caldo. Si parlò anche dell’incidente automobilistico capitato poco distante da lì all’avvocato. Infine, comparve in video l’uomo per cui i tre malebranche erano stati mandati in missione. Malacoda lo riconobbe subito e, sorpreso, chiese al barista che cosa dicesse il servizio. Il barista alzò il volume e poi spiegò: «Il Presidente dopodomani parlerà al Midas, ma non ho capito a quale convegno.» «Al Midas?» «Sì, è un hotel qui a Roma, lungo l’Aurelia.» Allora Malacoda spiegò ai compagni in cosa consisteva la loro missione: a quanto pare quel Presidente, o meglio la sua anima, doveva presentarsi a Caronte più di una settimana prima, ma non si era fatto vedere. A quel punto era chiaro che qualcosa di imprevisto era accaduto, infatti, a giudicare dalle immagini, il Presidente era ancora vivo e vegeto. «Per sincerarci di come stanno veramente le cose, potremmo andare dopodomani al convegno» propose Calcabrina, «ma è necessario rimetterci in sesto prima», poi aggiunse riferendosi alla televisione: «Interessante quell’apparecchio. L’ultima volta che sono venuto quassù non c’era. Sono cambiate un sacco di cose. Le automobili ad esempio! Chissà che fine hanno fatto i cavalli, non ne ho ancora visto uno. Adesso che ci penso, i dannati ci raccontavano di carrozze senza cavalli, di uccelli d’acciaio e cose simili. Erano racconti divertenti, ma credevo che ci prendessero per il culo...» In quel momento Cinzia Contini, il commissario, e Marcello Mastroianni, il medico legale, entrarono nel bar, ma erano troppo concentrati nei loro discorsi per fare caso al terzetto in fondo alla sala. Solo dopo che i tre 123 furono usciti dal locale e la porta a vetri si richiuse dietro di loro con il suo solito tintinnio, il barista disse: «Che tipi strani! Per come sono conciati devono lavorare dal fornaio qui vicino, ma non li avevo mai visti prima.» La Contini si voltò verso la vetrina, ma ormai avevano girato l’angolo. La mattinata si era scaldata presto. Durante le notte la pioggerellina aveva rinfrescato l’aria, ma in quel primo pomeriggio l’afa cominciava già a farsi sentire. Malacoda aveva comprato delle bende in una parafarmacia per fasciare la testa di Alichino e coprire i tagli sul viso e sul collo che il rumeno, a quest’ora ormai imbarcato sul traghetto di Caronte, si era procurato la notte precedente contro il parabrezza del fuoristrada. Dopo aver avvolto metri di garza, rimanevano liberi solo gli occhi e la bocca. «Così fasciato dai molto meno nell’occhio e hai anche un colorito migliore» disse Calcabrina ridendo. Proprio in quel momento passò un tale in motorino che data un’occhiata ad Alichino gridò: «Andovai uomo invisibbile!» Avevano anche preso alloggio presso un alberghetto in centro. Il portiere, grazie a una cospicua mazzetta, chiuse un occhio sui documenti mancanti. Poi, dopo aver approfittato delle comodità dei bagni moderni e aver riacquistato una forma umana, uscirono alla ricerca di abiti decenti. Si erano fatti consigliare da un gruppo di turisti giapponesi sullo shopping nella capitale e avevano saputo che i migliori negozi di abbigliamento si trovavano in via Condotti. Eccoli quindi passeggiare per la via guardando le vetrine. 124 Dopo aver camminato a lungo decisero di entrare in una boutique esclusiva e molto elegante. Le commesse guardarono i tre con un malcelato disgusto. Si fece avanti la più coraggiosa e chiese: «In cosa possiamo servirvi?» Malacoda, frugando tra le memorie del suo ospite per cercare di essere convincente, rispose: «Volevamo tre completi da uomo. Sì, abiti eleganti. Siamo arrivati oggi e dopodomani abbiamo un convegno al Midas. Purtroppo all’aeroporto ci hanno perso i bagagli e ora siamo rimasti solo con questi stracci.» La commessa, guardando la maglietta con su scritto ‘Italians do it Better’ e la testa fasciata di Alichino, disse: «Vedo. Temo che abbiate sbagliato atelier. Se mi permettete posso consigliarvi un centro commerciale qui vicino. Troverete sicuramente qualcosa di adatto a voi.» Allora intervenne Calcabrina. Sovrastava in altezza la commessa di un paio di palmi e in quel momento era di un nero che più nero non si poteva: «Da dove proveniamo non siamo abituati ad essere trattati in questo modo! Io sono il principe Akeem di Zamunda ed esigo rispetto. Voglio parlare immediatamente con il direttore.» «Che succede? Cos’è questo chiasso?» chiese un signore distinto con un simpatico pizzetto. «Dove vi credete di essere all’Emporio Armani? Sono il direttore, dite pure.» «Ecco, noi abbiamo tutti questi soldi da spendere per comprarci dei vestiti» disse Malacoda aprendo la valigetta e mostrando i 25 mila, «ma la sua commessa ci vuole consigliare un centro commerciale qui vicino.» «Sicuramente la signorina voleva esservi utile e ci deve essere stato un malinteso» replicò il direttore, mentre faceva segno alla commessa di sparire, «ma ditemi: che 125 somma pensavate di spendere?» e fece capire a Malacoda che non c’era bisogno di tenere la valigetta aperta. «Dobbiamo essere eleganti, diciamo che possiamo spendere una sfacciata somma di denaro.» Il direttore ci tenne a una precisazione: «Per sfacciata intende disinvolta o spudorata?» «Spudorata! Certamente.» Il direttore pensò: “Come amo quest’uomo!” e con un discreto battimani fece accorrere tutte le commesse. «Mi raccomando, ogni desiderio di questi signori è un ordine! Ci tengono al servizio. Da ora sono nostri buoni clienti e vogliono il trattamento. Fatevi in quattro per loro!» Iniziarono quindi a vedere, toccare e indossare camicie, giacche, pantaloni, scarpe e cravatte. Ci vollero ore e lo sfinimento di tutto il personale del negozio, ma alla fine, splendidi come modelli dell’ultima collezione uomo primavera/estate, dalla boutique uscirono nell’ordine: un interessante sessantenne con un elegante principe di Galles, scarpe britanniche e cravatta Regimental; un vigoroso trentenne di colore con completo di seta in tinta unita pastello e foulard al collo; un individuo non meglio identificato con giacca e pantaloni abbinati pied de poule e la testa completamente fasciata. Mentre tornavano in albergo, Alichino disse: «Ragazzi, non mi sono mai divertito tanto. Ora capisco perché tutta questa gente si impegna tanto per fare shopping!» «Io ho una proposta per domani» disse Calcabrina. «Sì, facciamo ancora shopping...» «Ecco, ha parlato la mummia! Lasciami finire. L’obiettivo della nostra missione, il Presidente, l’abbiamo individuato e lo intercettiamo dopodomani. Ieri abbiamo accontentato Alichino e le ultime volontà di Isabel, così 126 domani vorrei approfittarne per togliermi un peso dallo stomaco.» «Anche tu!» disse sconsolato Malacoda. «Di che si tratta?» «Ti spiego stasera. Domani la vendetta sarà compiuta e Benoît sarà soddisfatto.» «Chi è questo Benoît?» «Sono io» rispose Calcabrina. Alichino, che non aveva capito nulla, chiese stupito: «Ma non sei il principe Akeem di Zamunda?» Proprio in quel momento passò un tipo in motorino che data un’occhiata ad Alichino gridò: «A uomo invisibbile! Andò vai? Te vai a sposà?» Giorno VI – Boris Roma, 17 luglio 2013. Una bomba è esplosa alle 22 di oggi nel ristorante “Saint Petersburg’s”. Tre persone sono rimaste dilaniate a causa dello scoppio e non sono ancora state identificate. Il bilancio poteva essere molto più pesante se non fosse stato il giorno di chiusura del locale. Si ritiene che le vittime siano dipendenti del ristorante. Gli inquirenti stanno valutando tutte le piste, ma è probabile un coinvolgimento della criminalità organizzata, infatti il proprietario del ristorante, il georgiano Boris Strelnikov, è sospettato di far parte della mafia russa. L’esplosione quindi farebbe parte di quella catena di regolamenti di conti tra cosche rivali che ha recentemente scosso la capitale. Questa è la notizia letta dagli speakers nei telegiornali della notte, ma grazie a fonti bene informate, possiamo rivelare ai nostri lettori che cosa è accaduto veramente... 127 Nella tranquillità della sua camera d’albergo, Calcabrina cominciò a raccontare la sua storia: «Il mio nome è Benoît N’kane. Sono camerunense, ma ho anche la cittadinanza statunitense da parte di madre. Grazie a una borsa di studio, ho potuto studiare negli Stati Uniti alla Columbia University. Volevo diventare medico per poi tornare in Africa e allestire un’equipe specializzata nella cura dei mali endemici, invece mi solo laureato in chimica industriale e biologia molecolare, così sono finito a produrre armi biologiche nel New Jersey. Si tratta di un lavoro segretissimo, infatti molto di quello che creano è proibito dalle leggi federali. Sei mesi fa sono stato contattato da un esponente della malavita newyorkese, Andrew D’Angelo della famiglia Buonocore, che era interessato a comprare le formule frutto delle ultime ricerche dell’industria per cui lavoravo. Ho pensato che fosse la mia occasione per mettere da parte abbastanza denaro, tornare in Africa e coronare il mio vecchio sogno.» «Tutto a fin di bene, quindi» commentò Malacoda. Alichino invece disse: «Che bella storia! Quando torneremo a casa e la racconterai, spopolerai la bolgia.» «Veniamo al dunque» tagliò corto Malacoda, «che ci fai qui in Italia e perché ti hanno sparato una revolverata?» «Avevo sentito dire che se avessi trattato direttamente con il compratore avrei fatto molti più soldi, e ce ne vogliono tanti per allestire un ospedale...» «D’accordo, vai avanti!» «Il compratore, un russo, si trovava in Italia. Opera in tutta Europa, ma soprattutto a Roma dove attraverso le sue molteplici attività ricicla il denaro della mafia e dirige il traffico degli stupefacenti per il cartello balcanico. Tutto questo me lo confidò lo stesso Andrew D’Angelo, perché non credeva che io avessi il fegato di tentare l’avventura da solo. Il mese scorso presi un volo per 128 Roma. Non fu difficile trovare il compratore e neppure convincerlo che il materiale che potevo offrire valeva il prezzo che chiedevo. Evidentemente aveva preso le sue informazioni e si era reso conto della mia buona fede...» «Io la chiamerei stupidità! Tratti con un mafioso tentando di fregare la mafia e pensi di uscirne vivo?» chiese retoricamente Malacoda, mentre Alichino disse: «Non interromperlo, ora dovrebbe arrivare il bello!» «Sì, sono alla fine. Combinammo lo scambio, mi presentai all’appuntamento, ma prima che fosse effettuato, qualcuno mi sparò alla schiena.» «Non sai chi è stato?» «No, mi ha colpito alle spalle.» «Così ora non sai di chi devi vendicarti e, per giunta, sei stato rapinato dei segreti che volevi vendere?» «No, ecco la merce!», disse mostrando due schedine di memoria. «Qui sono contenuti 512 gigabytes di segreti militari. Valgono svariati milioni di dollari, ma io mi ero accordato per 2 milioni di euro.» «Beh, gli hai fatto un buon prezzo» disse Malacoda, «ma mi rimane un dubbio. Da dove diavolo arrivano quelle schedine di memoria? Quando ti abbiamo recuperato all’obitorio eri nudo come un verme. Non li avrai mica nascosti...» «Sì, proprio lì. Per questo, dopo avermi ucciso, non li hanno trovati. Il sicario mi ha frugato nelle tasche, ma è dovuto fuggire perché qualcuno aveva assistito alla scena e ha chiamato la polizia.» Malacoda rifletté per qualche istante, poi tirò le somme: «Immagino che tu sospetti del compratore. Ora, se noi avessimo tempo, potremmo ricontattarlo facendogli credere di voler portare a termine l’affare e tu potresti consumare la tua vendetta.» Calcabrina precisò: «Io non posso ricontattarlo, sicuramente sa che sono morto e scoprirmi ancora vivo lo al129 larmerebbe. Lo contatterai tu: ti presenterai come un inviato della famiglia Buonocore, magari ti potresti presentare proprio come Andrew D’Angelo, e dopo esserti sincerato della sua colpevolezza lo sistemerai.» Malacoda scocciato rispose: «Non è facile quello che mi chiedi, ma siamo amici da così tanto tempo che, per te, lo farò. Se dopo questo ti sentirai meglio, sarà tanto di guadagnato, potremo finalmente portare a termine la nostra missione e tornarcene a casa.» «C’è ancora una cosa che devi sapere: il russo che devi contattare si chiama Boris Strelnikov, ma in realtà è un georgiano. Possiede vari locali in tutta Roma ed è un individuo molto pericoloso.» Malacoda non sembrava impressionato e disse sghignazzando: «Non sa ancora con chi ha a che fare, ma se devo impersonare questo D’Angelo, qualcosa di lui dovrò sapere.» «Non preoccuparti. È lo stereotipo del mafioso italo-americano. Ne abbiamo conosciuti tanti all’Inferno che non faticherai a impersonarlo. Ha più o meno la tua età, o meglio l’età del tuo ospite, ma ha i capelli bianchi. Una sola particolarità: sua madre è di origine polacca.» Era la sera del 16 luglio. Malacoda, utilizzando il numero suggerito da Calcabrina, chiamò Boris sfoderando il suo migliore accento italo-americano e si fece passare per Andrew D’Angelo. Spiegò che Benoît aveva tentato di imbrogliare entrambi, ma che il materiale era tornato in suo possesso ed era ancora interessato allo scambio. Si sarebbero incontrati alle tre di notte all’Hell’s Pleasures, uno dei locali di Boris. Dato che non era credibile, per un mafioso di un certo peso, andare a un appuntamento da solo, Alichino si trovò a interpretare la parte di Nick Sollozzo, guardaspalle di Andrew. 130 Il locale di Boris Strelnikov, l’Hell’s Pleasures, era quel genere di bolgia infernale in cui gli uomini amano perdersi. Se avevi la fortuna di essere tra gli eletti a cui era consentito l’accesso, potevi trovare qualunque cosa di cui tu avessi bisogno, secondo i tuoi gusti: dai passatempi più innocenti, come la musica ad alto volume e gli energy drinks, a quelli più trasgressivi, come ogni genere di droga, dalla cocaina alle anfetamine, e donne o uomini disponibili, di ogni genere e rotti a qualsiasi esperienza. Tutto era accomunato da una certa dose di classe, perché di Boris, il cui soprannome era “lo schiaccianoci”, si poteva dire tutto, ma non che fosse privo di gusto. Il taxi si era appena fermato di fronte all’entrata del locale, dove una lunga fila di persone, vestita alla moda, aspettava il proprio turno per entrare, affrontando il caldo della notte e con la remota speranza di non essere respinta dai buttafuori. All’interno del taxi c’erano Andrew D’Angelo, o meglio il sessantenne che ospitava Malacoda, e Nick Sollozzo, o meglio il rumeno che era quasi cugino di Isabel, l’ospite di Alichino. «Sono 19 euro e 50» disse il tassista. «Ecco buon uomo e tenga il resto» rispose prodigo Nick passandogli 20 euro. «Grazie, me ce strafogherò» rispose il tassista e se ne andò sgommando, mentre aggiungeva qualche simpatico complimento in romanesco. Nick diede un’occhiata alla lunga fila e commentò: «C’è molta confusione.» Andrew guardò distrattamente l’entrata e rispose: «Meglio così, passeremo inosservati.» In piedi sul marciapiede Andrew, nel suo completo principe di Galles in fresco lana, era più alto del compagno e, così sistemato, dimostrava meno dei suoi sessan131 t’anni. Non ostentava un’eleganza appariscente, ma non passava certo inosservato. Nick invece, se non fosse stato per le cicatrici ormai ben rimarginate sul volto e per il suo abbinato pied de poule, si sarebbe potuto confondere tra la folla e non avreste notato la sua mancanza. Entrato nel suo ruolo, si sarebbe tenuto sempre un passo indietro rispetto al suo capo e lo avrebbe seguito con discrezione. Uno dei buttafuori all’ingresso, quello più robusto, si avvicinò alla coppia e disse: «Mister D’Angelo? Da questa parte, il direttore la sta aspettando.» I due si scambiarono uno sguardo d’intesa divertito: «Non dovevamo passare inosservati?» Il terzetto si introdusse da un ingresso laterale evitando la fila di quello principale. All’interno la temperatura era confortevole. Il buttafuori li perquisì attentamente e, per essere più comodi, lasciarono le giacche a una guardarobiera dal fisico decisamente interessante, come si poteva notare sotto la buona volontà di cui era vestita. L’ampio locale era occupato dalla pista da ballo, illuminata da luci intermittenti e fasci laser, dove si trovava assiepata una folla indistinta di gambe e braccia che si agitavano a tempo di musica. Tutt’intorno si vedevano divani e bassi tavoli su cui era appoggiata un’infinità di bicchieri, riempiti a ciclo continuo da tre isole-bar, mentre più in alto c’era la postazione dei DJ e, su cubi distribuiti in tutta la sala, ballavano numerose ragazze che tentavano di tutto per farsi notare. Il buttafuori attirò l’attenzione di Andrew e gli indicò un privè in un angolo tranquillo del locale, dove avrebbe incontrato Boris, e iniziò a fendere la folla. Attraversò la sala, incontrando difficoltà solo nel dividere alcuni gruppi di ragazze assatanate, e dopo aver scortato gli ospiti disse laconico: «Sono puliti» e si dileguò. 132 «Benvenuti! Sedetevi qui accanto a me e prendete da bere. Avrete sicuramente sete» disse Boris, mentre indicava due poltrone intorno al basso tavolino. Non avresti mai detto che Boris fosse russo, se non per quel suo forte accento. Dall’aspetto e dall’abbigliamento raffinato l’avresti scambiato per un francese. Era seduto tra due ragazze, una asiatica e l’altra probabilmente dell’Europa dell’est, che si comportavano con lui con estrema familiarità, per non dire con spudorata intimità. Non avresti neppure detto che avesse già cinquant’anni, perché in quel contesto dimostrava la vitalità di un ventenne. «Bene, passiamo alle presentazioni» disse il russo stringendo la mano ai due ospiti e facendo solo il cenno di alzarsi. «Io sono Boris e so chi sono. Voi invece chi siete?» Andrew rispose sfoderando un accento italo-americano piuttosto approssimativo: «Io sono Andrew D’Angelo della famiglia Buonocore, mentre lui è Nick Sollozzo, uno dei miei uomini.» «Sollozzo... Sollozzo...» disse Boris, «questo nome non mi è nuovo.» Poi osservando le cicatrici sul volto di Nick, disse a Andrew: «Sai cosa si dice dalle mie parti? Se hai bisogno di uno che ti guardi le spalle, non assoldare un uomo con le cicatrici, ma assumi quello che gliele ha fatte!» e concluse con una sonora risata. Nick, che sapeva di non avere un bell’aspetto, ma non sopportava di essere preso in giro, si dimenticò di dover restare in silenzio per tutto il tempo e replicò: «È difficile assumerlo, l’uomo che me le ha fatte è morto.» «Ah, è spiritoso e sa anche parlare. Non è facile trovare dei gorilla che sappiano parlare al giorno d’oggi!» Boris disse quest’ultima battuta ad alta voce affinché gli ospiti nei tavoli vicini sentissero, nonostante la musica, 133 e tutti risero di gusto, tranne Nick. Poi con un gesto fece portare da bere. «Questi drink li dovete proprio provare. È il cocktail della serata. Non so cosa ci abbia messo dentro il barman, ma quel cubano è un mago: i suoi intrugli farebbero resuscitare un morto. Dopo ordinate quello che volete, ma questi li dovete provare. Poi chiedete e vi sarà dato» aggiunse ridendo. «Volete sniffare? Ho ottima roba! Scegliete pure le ragazze che preferite, per due ospiti di riguardo come voi, offre la casa» Andrew lo interruppe dicendo: «Non siamo qui per divertirci, ma per parlare d’affari» «Certo! Voi americani siete concreti, puntate subito al sodo, mai confondere affari e piacere. Ma per me è diverso, per noi dell’ex-Unione Sovietica è diverso. Dobbiamo ricordarci perché facciamo affari: per permetterci tutto questo, il piacere... la felicità. Cosa dice la vostra Dichiarazione d’Indipendenza? Che ogni uomo ha diritto al perseguimento della felicità? La felicità non è un diritto, nessuno te la regala, ma te la devi guadagnare... e guadagnare a caro prezzo. Per questo bisogna ricordare il motivo per cui lavoriamo tanto duramente, soprattutto quando per la felicità si mette in gioco la stessa vita.» «Che cos’è la felicità?» chiese Andrew, che nel frattempo aveva scrutato Boris e soppesato ogni sua parola. «Cos’è la felicità? Tu mi chiedi cos’è la felicità?» chiese a sua volta il russo ridendo. Mentre rideva strinse a sé le due ragazze che ricambiarono prontamente. Quindi sentenziò: «La felicità è essere liberi, poter fare tutto ciò che si vuole, quando si vuole e con chi si vuole. Ma ora parliamo d’affari.» Così dicendo divenne finalmente serio e con un cenno congedò le due ragazze che si allontanarono veloce134 mente e si persero tra la folla che ballava al centro della sala. Andrew chiese: «Qui possiamo parlare liberamente?» «In mezzo alla confusione creata da questa musica ci sentiamo a stento e poi faccio bonificare il locale ogni mattina, infatti mi stupirei se in questo momento non ci fossero agenti della DIA là in pista che fingono di divertirsi, o forse si divertono veramente» concluse Boris ridendo. «Allora ecco uno dei pezzi di cui abbiamo parlato» disse Andrew reggendo tra pollice e indice una schedina di memoria. «Sono affari delicati e vanno condotti personalmente.» Boris disse ammirato: «L’hai portata con te senza alcuna precauzione! Evidentemente ritieni che tra uomini d’affari ci si possa fidare, ma naturalmente non ti dispiacerà se ne verifico il contenuto» e con un cenno richiamò l’attenzione di un uomo che era stato fino a quel momento in disparte. Quell’uomo non poteva passare inosservato in quell’ambiente: era il classico pesce fuor d’acqua, con barba e capelli lunghi, jeans sdruciti e maglietta dell’UCLA, gli mancavano solo i sandali e sarebbe stato il perfetto stereotipo di se stesso. Prese con sicurezza la schedina dalle mani di Andrew e la inserì nel suo moderno smartphone. «La parola d’accesso è ‘mortenera’ minuscolo e tutto attaccato» rivelò Andrew. L’uomo con dispetto affermò: «Una password così semplice l’avrei individuata in meno di cinque minuti.» L’hacker armeggiò lungamente con i pollici sul touch screen e nel frattempo pronunciava estasiato termini tecnici incomprensibili. Sullo schermo venivano visualizzati genomi sequenziati, strutture proteiche, formule 135 chimiche, progetti di macchinari e di impianti industriali. Dopo qualche minuto di tensione, disse: «Ci vorranno settimane per decifrare tutti questi giga, ma da quel poco che ho verificato corrispondono a ciò che era stato concordato. È del tutto inutile però senza la seconda parte.» Boris era entusiasta: «Molto bene! È un piacere fare affari con te e non ti chiederò come hai fatto a entrare in possesso di questo materiale. Secondo il vostro governo questi progetti non esistono, ma ora il segreto sarà custodito anche dal cartello che rappresento. Quando la seconda schedina sarà nelle mie mani, trasferirò quanto pattuito su un conto di tua scelta.» Andrew disse: «Il prezzo però è aumentato. Ho sentito della disavventura capitata a Benoît N’kane e mi sembra giusto alzare la posta: 3 milioni di euro e in contanti.» «Contanti al giorno d’oggi! Vivi ancora nel XX secolo? Ma sia come vuoi, non mercanteggerò con te. Se è quello che chiedi, è quello che avrai e vada anche per i contanti. Per quanto riguarda l’incidente capitato a Benoît, devo dire che se l’è meritato. Trattare così per conto suo, senza intermediari... sono cose che non si fanno, ma per mia sfortuna si è rivelato un dilettante più furbo del previsto. L’abbiamo eliminato pensando che avesse con se la merce, ma non era così. Poco male, ora la transazione è conclusa tra veri uomini d’onore. Però permettimi di fissare almeno il luogo dell’ultimo scambio: il Saint Petersurg’s. È un mio ristorante qui in città. Te lo consiglio, si mangia bene. Domani sera è chiuso e potremo concludere il nostro affare in tutta tranquillità. Ti invito a cena per le 21.» Andrew rispose: «OK.» 136 Boris poi continuò con un tono che dimostrava vero interesse: «Una cosa però non capisco. Pensavo che voi gangsters americani foste patriottici. Ho faticato parecchio a trovare qualcuno che mi procurasse questa roba, è roba che scotta e se finisse nelle mani sbagliate potrebbe procurare non pochi problemi al tuo paese.» «Sono certo che tu avresti fatto la stessa cosa per me» rispose Andrew. «Se pensi questo, non hai capito nulla di Boris» disse il russo. «Io e te siamo molto diversi.» Andrew replicò divertito: «A me sembra che lavoriamo entrambi nello stesso ramo.» Boris rimase in silenzio per un attimo. Prese lo schiaccianoci che aveva sul tavolo e, con un colpo secco, frantumò una grossa noce, gettò il guscio e ne masticò il gheriglio. Dopo aver concluso la transazione, Boris si dimostrò molto meno affabile di com’era all’inizio del colloquio e così spiegò il suo punto di vista apertamente, come se quello di domani sera fosse l’ultimo affare che avrebbero concluso insieme: «Vedi, come ho già detto, io e te siamo molto diversi. Tutti i miei affari, di qualunque genere siano, si svolgono con il tacito consenso del mio governo, invece i tuoi sono contro il tuo governo. Io lavoro per uno scopo. Sono partito dal basso, devo emergere e sto costruendo qualcosa. Tu invece hai ereditato ciò che possiedi, cerchi solo di conservarlo e vivi di rendita. Forse è per questo che non ti sai godere ciò che hai.» «Ora sei tu a non aver capito nulla di me. Diventare quello che sono mi è costato molto» disse Andrew, «e ti stupiresti nel sapere quanto anch’io faccia affari con gli uomini che rappresentano il mio governo.» Boris allora continuò, come un fiume in piena: «La mia padronanza della lingua è scarsa ed evidentemente devo 137 spiegarmi meglio. Voi americani di origine italiana vi siete dati da fare per arricchirvi, ma dopo esservi dimenticati di aver avuto la pancia vuota, vi siete imborghesiti e avete perso le palle. Ora pensate solo alla famiglia. Bisogna avere fame per afferrare il potere e tenerlo per i testicoli. Per questo cinesi, russi, sudamericani vi stanno togliendo quote di mercato: hanno più attributi di voi!» «Mi sembra che tu abbia espresso il concetto molto chiaramente» disse Andrew. «Io, però, sono italiano solo a metà» aggiunse ricordandosi della sua copertura. «Già! Ho preso le mie informazioni. Per l’altra metà sei polacco» aggiunse con disprezzo Boris. Poi, ad alta voce per farsi sentire nella confusione, rivolto ad alcuni ospiti seduti poco lontano, Boris disse: «In America si raccontano tante barzellette divertenti sui polacchi. Sentite questa: un uomo entra in un bar e chiede al barista: “La sai l’ultima sui polacchi?”, allora il barista gli risponde: “No, ma devi sapere che io sono polacco” e l’uomo dice: “Non c’è problema, parlerò lentamente.”» Tutti quelli che erano a portata di voce e che, nonostante il rumore, avevano potuto ascoltare, risero compiacenti. Anche Andrew rise, mentre Boris gli rivolgeva uno sguardo beffardo. «Davvero divertente» disse Andrew e senza battere ciglio aggiunse: «Io ti posso raccontare questa sui georgiani: due georgiani parlano di un loro amico emigrato in America: “Hai saputo di Sasha? Dopo solo un anno ha aperto una gioielleria”, l’altro stupito chiede: “E come ha fatto?” ed il primo gli risponde: “Ha usato un piede di porco!”» Quindi Andrew si alzò, seguito da Nick, tra gli ospiti raggelati che fissavano Boris e andandosene disse: 138 «Penso che a questo punto ci siamo detti tutto. A domani sera.» Mentre si allontanava tra la folla che ballava al ritmo martellante della musica, Andrew poteva sentire ancora le risate di Boris. Lo immaginava di nuovo circondato da ragazze, mentre si preparava una pista di cocaina e assaporava il cocktail della serata. Nel frattempo pensava: “Sono contento che tu sia felice. Goditi i piaceri della vita, finché puoi. La vita è così breve...” La mattina del 17, Malacoda aggiornò Calcabrina, il quale ebbe la conferma del tradimento di Boris e quindi il lavoro che aveva portato a termine, durante la notte precedente, non era stato vano. Con le sue conoscenze di chimica, o meglio le conoscenze di Benoît, aveva farcito i gusci di una grossa noce con una miscela esplosiva. È incredibile quanto possano essere pericolosi dei detersivi quando vengono mescolati nelle giuste proporzioni. Una volta rotto il guscio, l’esplosione avrebbe investito il malcapitato che reggeva lo schiaccianoci provocandone la morte. Alichino disse: «Non c’è un metodo più semplice per vendicarsi? Potremmo lasciare una buccia di banana fuori dal ristorante e sperare che Boris ci metta un piede sopra.» «Non cogli il contrappasso di questa vendetta» rispose Calcabrina. «Un goloso deve morire a causa della sua golosità, altrimenti che gusto c’è nella vendetta? È l’ultima cosa che vi chiedo.» Malacoda meditava tra sé e sé di portare dei compagni meno sensibili la prossima volta, se mai gli fosse capitata ancora un’avventura del genere. Dovevano recuperare un’anima che aveva perso la strada per l’Inferno e, invece, si ritrovavano a compiere vendette, che in fondo 139 in fondo erano delle buone azioni, per conto di persone che ora magari se ne stavano belle comode in Paradiso. Il ristorante di Strelnikov, il “Saint Petersburg’s”, si trovava in una traversa sul Lungotevere. Ci volle una buona mezz’ora per raggiungerlo in taxi. Andrew ebbe tutto il tempo per riflettere su come comportarsi e, mentre pensava, giocava con la noce farcita, la lanciava e la riprendeva, la faceva rotolare sul dorso della mano e l’afferrava al volo. Nick, che l’accompagnava, osservava la scena perplesso. «Non preoccuparti, è tutto sotto controllo» disse Andrew ridendo. Nick rispose: «Ne sono certo, ma Benoît ha raccomandato di trattarla con cura. A proposito, come pensi di portarla all’interno del locale? Sicuramente gli uomini di Strelnikov ti perquisiranno con molta attenzione all’ingresso del ristorante e la noce è bella grossa.» «Non lo so ancora, ma come ti ho detto, è tutto sotto controllo. Nel locale mi fermerò un quarto d’ora al massimo. Aspettami in taxi poco lontano dall’ingresso, ma non farti notare dagli uomini della sorveglianza.» Nick annuì. Era più tranquillo ora che la noce era stata riposta nella tasca interna della giacca, ma Andrew stava pensando a un posto più sicuro dove nasconderla. Anche la scheda di memoria avrebbe dovuto essere nascosta, altrimenti non gli avrebbero dato il denaro, se ne fossero entrati subito in possesso. Nasconderla... sì, ma dove? Dopo aver percorso ancora un bel tratto, il taxi si fermò davanti all’entrata del ristorante. Era la serata di chiusura, ma la luce che filtrava faceva capire che all’interno c’era movimento. I due gorilla in attesa all’esterno aprirono la porta e invitarono Andrew a entrare. Uno dei 140 due lo seguì e si prese la giacca, mentre altre due guardie del corpo iniziarono l’opera di perquisizione: uno con un metal-detector portatile, l’altro, più sbrigativo, a mani nude. Intanto un gruppo di persone, seduto a un tavolo appartato in fondo al locale, era in paziente attesa. Il ristorante era arredato in modo tradizionale ed era accogliente, un tipico ristorante francese in piena Roma. D’altra parte, di Boris tutto si poteva dire, ma non che fosse privo di gusto, o che non avesse a libro paga dei bravi arredatori. Come risultato dell’operazione, addosso ad Andrew non fu trovato nulla. Intorno al tavolo appartato erano seduti tre uomini, Boris Strelnikov e altri due commensali, uno giovane e biondo e l’altro anziano con i capelli bianchi. Completavano il quadro alcune guardie del corpo assortite in un tavolo separato e due camerieri in livrea bianca. Il russo tese la mano a Andrew e quella stretta terminò in una lotta tra due morse. Fu evidente il fatto che il soprannome di “schiaccianoci” non gli era stato affibbiato solo per la sua nota passione per le noci. Boris, senza presentare i due ospiti, disse: «Mio caro Andrej, spero che il mio humor di ieri notte non ti abbia infastidito. Sai, a volte mi lascio trascinare e dico quello che non penso. Ma ora ceniamo. Si ragiona meglio dopo aver mangiato e bevuto qualche bicchiere di buon vino.» «Io preferirei concludere subito l’affare.» «Come sei impaziente, non sai goderti la vita! Come vuoi» e, detto questo, fece cenno a una delle guardie del corpo di portargli la valigia. All’interno c’erano i 3 milioni di euro che, pur suddivisi in parte in tagli da 500 euro, occupavano un volume notevole. Andrew fece un rapido conto: c’era tutto. 141 «Sarai contento. Ora dov’è l’ultima schedina di memoria? Mi aspettavo che tu non la portassi addosso. Per quanto piccola, non sarebbe sfuggita ai miei uomini durante la perquisizione accurata a cui ti hanno sottoposto.» Andrew si alzò e disse: «Se non ti dispiace, vado un attimo in bagno e la recupero.» I presenti, dopo un attimo di perplessità, si guardarono e risero di gusto. Al ritorno consegnò la schedina a uno dei gorilla che la prese in consegna adottando le necessarie precauzioni. «L’esperto ne controllerà il contenuto, ma sono certo di non dovermi aspettare delle sorprese da te. Però siediti un attimo, ti voglio presentare un amico.» Nel frattempo i camerieri avevano portato la frutta. Misero anche un cestino di noci della California di fronte a Boris, che nella concitazione del momento non ci fece caso. Andrew si sedette con la valigia al fianco e disse: «Una noce l’assaggio volentieri. Chi è questo tuo amico?», quindi allungò una mano prendendo una noce dal cestino di fronte a Boris, mentre, non visto, ne lasciava cadere un’altra. Poi, frantumando la noce, aggiunse: «Se è tuo amico, deve essere di certo una persona interessante da conoscere.» «Come no» disse Boris, «vedi questo giovane biondo sorridente? È il killer che ha ucciso Benoît N’kane. Invece quest’altro signore canuto e così simpatico si chiama Andrew D’Angelo della famiglia Buonocore.» I tre commensali si lasciarono andare a una grassa risata e Malacoda capì che la sua impostura era stata scoperta. Andrew lasciò i pezzi della noce frantumata sulla tovaglia bianca. «Caro Andrej, se a questo punto ti chiedessi di restituirmi la valigia, cosa mi risponderesti?» 142 Mentre formulava questa domanda il vero Andrew D’Angelo allungò la mano verso il cestino di fronte al russo per prendere una noce, la noce più grossa che si trovava in cima, ma Boris gli bloccò la mano: «No, vecchio mio, dovresti saperlo. La noce più grossa è riservata a me» e così dicendo la prese con avidità. Nel taxi, poco distante dal ristorante, Alichino era preoccupato. Malacoda ci stava mettendo troppo, ma improvvisamente un forte spostamento d’aria investì il taxi. Un’esplosione aveva frantumato le vetrine del ristorante e lo scoppio buttò a terra i due gorilla appostati all’entrata. Subito, dalla porta scardinata, saltando gli infissi, uscì un tale correndo. Si riparava la testa con una grossa valigia e indossava un elegante principe di Galles in fresco lana. In un attimo saltò sul taxi, mentre Alichino diceva: «Presto, andiamocene di qui!» e il tassista terrorizzato partì sgommando. Quando furono lontani, Alichino chiese: «È andato tutto bene?» Malacoda, un po’ strinato, rispose: «Sì, ma Calcabrina deve aver esagerato col detersivo.» Giorno VII – Il Golem Roma, 18 luglio 2013. Questo pomeriggio nella sala conferenze dell’Hotel Midas in Roma, il Presidente ha avuto un malore. Lo svenimento è avvenuto mentre intratteneva la platea di un convegno di venditori di prodotti di bellezza, di cui era l’ospite d’onore. Il Presidente, prontamente soccorso, è stato trasferito al policlinico per accertamenti. Dalle prime analisi sembra trattarsi solo di un colpo di calore, ma per precauzione non verrà dimesso prima di un paio 143 di giorni. Numerosi attestati di solidarietà sono stati inviati dai rappresentanti di tutte le parti politiche. Questa è la notizia letta dagli speakers nei telegiornali della sera, ma grazie a fonti bene informate, possiamo rivelare ai nostri lettori che cosa è accaduto veramente... Il commissario Contini arrivò sul luogo dell’esplosione in mattinata, mentre il medico legale e i tecnici della scientifica stavano ancora esaminando la scena del crimine. Il “Saint Petersbug’s” era seriamente danneggiato. Lo si poteva dedurre anche solo osservandone l’esterno. Il commissario, dopo aver calpestato metri di vetri infranti, scavalcò l’infisso che un tempo era la porta ed entrò all’interno. Alcune lampade portatili illuminavano la sala. In fondo si potevano notare due uomini con la casacca della scientifica che prendevano delle misure con un metro a nastro. Un medico invece stava esaminando uno dei corpi. «Marcello!» Il dottor Mastroianni si voltò: «Ciao, Cinzia! Ormai ci si incontra tutti i giorni.» «Dobbiamo smettere di incontrarci così» rispose sorridendo, «o forse è solo ora che i nostri colleghi tornino dalle ferie.» Poi, facendosi seria, aggiunse: «Che cosa abbiamo?» «Tre cadaveri intorno a un tavolo sconquassato. Anche quel tavolo laggiù era occupato, ma gli avventori si sono procurati solo bruciature e lievi escoriazioni, così come altri due uomini che si trovavano sulla strada. Più gravi due camerieri, che sono stati ricoverati con ustioni piuttosto estese e una commozione, perché l’esplosione li ha investiti e sbalzati a qualche metro di distanza.» «Questi tre invece non sono stai così fortunati. Da cosa è stato generato lo scoppio?» 144 «Quest’uomo doveva avere la bomba in mano» disse Mastroianni indicando un corpo ormai irriconoscibile. «Stando a quanto ci hanno riferito i sopravvissuti, era il proprietario del locale, Boris Strelnikov.» «Ne avevo sentito parlare in questura. Non mi stupisco che abbia fatto questa fine, ma sono incidenti da mettere in conto per certa gente: inconvenienti del mestiere.» «Quest’altro non si sa ancora chi sia, perché non portava documenti. Il terzo, invece, questo più anziano, è stato identificato proprio grazie ai documenti. Era cittadino americano e si chiamava Andrew D’Angelo. L’esplosione l’ha investito, ma è sicuramente un danno collaterale, perché posso affermare con certezza che l’obiettivo era Boris ed è stato colpito in pieno... si tratta sicuramente di professionisti.» «Vedo. Un lavoro fatto per bene. Ho un dubbio, però. Da come erano disposti a tavola ci dovrebbe essere un quarto cadavere, ma non ce n’è traccia» disse la Contini dopo aver girato intorno al tavolo. «Forse ha avuto la fortuna di andarsene in tempo. Tutti i sopravvissuti sono stati molto reticenti. Sembra che non abbiano ancora capito cosa sia opportuno riferire e cosa no, ma farli parlare è il tuo mestiere.» Uno dei tecnici intervenne: «Abbiamo recuperato le registrazioni da un bancomat e dai negozi vicini. Sono già in centrale. Dovrebbero chiarire il quadro.» «Ho ancora una domanda sull’ordigno» disse la Contini. «Avete idea di che tipo sia?» Il tecnico scrollò le spalle e disse: «Piuttosto rudimentale a giudicare dall’esplosione. Se si tratta di professionisti, avevano a disposizione materiali poveri. Come reagenti potrebbero aver usato miscele di detersivi...» «Detersivi?» domandò Mastroianni. «Sì, determinate miscele con un adeguato innesco sono dirompenti. Basta uno studente al primo anno di chimi145 ca per confezionarle e... una connessione a internet per scaricare le istruzioni.» Allora Mastroianni prese un attrezzo che aveva trovato esaminando il corpo di Boris. «A giudicare da come è danneggiato, io credo che abbia avuto a che fare direttamente con l’esplosione.» «Che cos’è?» chiese la Contini, che non riconosceva l’oggetto da come era contorto, e Mastroianni rispose: «Uno schiaccianoci.» In quel momento entrò nella sala un uomo in borghese vestito di grigio. I tecnici cercarono di fermarlo gridandogli: «Non può entrare, è la scena di un crimine!», ma l’uomo esibì un tesserino della DIA e disse: «Commissario Contini? Devo mostrarle una cosa, vuole seguirmi? Venga anche lei dottor Mastroianni.» Il funzionario della DIA li accompagnò nel palazzo di fronte. Salirono fino al secondo piano ed entrarono in un appartamento spoglio. C’erano solo alcune sedie sparse, un tavolino con gli avanzi di una cena cinese per due, una scrivania con un computer portatile e due telecamere alle finestre, con i vetri infranti, che davano sulla strada. C’era anche un altro uomo in borghese vicino a una delle finestre, pure lui vestito di grigio e con un binocolo in mano. Nel vederli entrare, li salutò. «Buongiorno» disse il commissario, «vi siete sistemati bene qui. Da quanto dura l’appostamento?» «Tre mesi. Stavamo monitorando l’attività di Strelnikov. Ci sono postazioni come queste in prossimità di tutti i suoi locali. Ancora un mese e avremmo avuto elementi sufficienti per far crollare tutta la sua organizzazione...» «Ma qualcuno vi ha preceduti» disse il dottore, «però l’importante è che il problema sia stato risolto, giusto?» 146 «No» rispose uno degli uomini in grigio, «Strelnikov era solo una pedina, ma grazie a lui potevamo arrivare ai pezzi più importanti. Forse tre mesi sono stati buttati via e la colpa è vostra.» «Nostra?» disse la Contini stupita. «Non c’è bisogno che visioniate le registrazioni del bancomat e dei negozi vicini. Abbiamo ripreso tutto noi. Guardate!» L’uomo si spostò al computer ed eseguì un video. Si vedeva l’arrivo, registrato la sera precedente, del falso Andrew D’Angelo in completo di fresco lana, alias Malacoda, di fronte al ristorante. Fece avanzare il filmato e si vide l’esplosione, poi quasi immediatamente lo stesso falso D’Angelo, con una grossa valigia sulla testa, schizzare fuori dalla porta tra le schegge di vetro, mentre i gorilla di guardia cadevano a terra. Poi la corsa verso il taxi e la sua sgommata. La ripresa era stata disturbata dall’esplosione e una telecamera era caduta, ma l’individuo in fuga era perfettamente riconoscibile. La Contini disse: «Quell’uomo è il nostro primo sospetto attentatore. Ha avuto del sangue freddo ad aspettare l’ultimo momento per fuggire. Ma perché ci accusa di aver mandato a monte mesi d’appostamenti?» «Abbiamo svolto delle ricerche sulle registrazioni video di tutta la città. Noi della DIA possiamo fare questo e altro, ma tenetelo per voi, e abbiamo scoperto alcune corrispondenze.» Armeggiò sul portatile e mostrò in sequenza alcuni filmati. Nel primo si vedevano Malacoda, Calcabrina e Alichino uscire da una boutique eleganti come damerini. L’uomo in grigio disse: «Questo è l’uomo sfuggito all’esplosione» e indicò Malacoda. Nel secondo i tre entravano nella boutique in t-shirt, bermuda e zoccoli. L’uomo commentò: «I commessi 147 che abbiamo interrogato questa mattina presto, hanno detto che erano tipi strani. Hanno pagato in contanti.» Nel terzo filmato si vedevano il commissario Contini e il dottor Mastroianni entrare in un bar e, poco dopo, il terzetto uscire in bermuda e zoccoli. Mastroianni stupito disse: «Questo bar lo ricordo! Ci siamo stati l’altro giorno, ma i tre non li avevo notati.» Infine, il quarto filmato proveniva dall’obitorio. Si vedevano tre persone nude di spalle attraversare il corridoio. A Mastroianni gelò il sangue nelle vene quando rivide Isabel che si voltava a fissarlo. «Cosa c’entra quest’ultimo filmato?» chiese la Contini. «Le analisi dicono che c’è una corrispondenza del 95% tra la corporatura degli uomini dell’ultimo filmato, con due degli uomini del secondo e, comunque, le foto segnaletiche dei cadaveri che avete diramato corrispondono. Sul terzo uomo stiamo ancora indagando. In poche parole, se non vi foste lasciati sfuggire quei tre cadaveri» disse l’uomo in grigio, «ora Strelnikov sarebbe ancora vivo.» Non faceva una grinza, il povero Boris era morto per colpa loro. Nel frattempo, il terzetto di malebranche si era organizzato per raggiungere l’Hotel Midas. Calcabrina era contento perché si era liberato della volontà di vendetta di Benoît N’Kane che lo angustiava; Alichino era felice perché aveva imparato tante nuove storie da raccontare nelle noiose giornate infernali; Malacoda era soddisfatto perché finalmente erano tutti concentrati sulla missione. Il taxi li depositò all’entrata del Midas. I cartelloni annunciavano una convention dei rappresentanti di una nota marca di prodotti di bellezza. Malacoda entrò per informarsi. Aveva ancora con sé l’ingombrante valigia con i 3 milioni di euro. 148 «Prodotti di bellezza?» lesse stupito Alichino. «Cosa c’entrano i prodotti di bellezza con un Presidente.» «Boh, magari è uno dei testimonial» disse Calcabrina. «Testimonial?» «Sì» spiegò Calcabrina, «me l’ha raccontato un dannato della bolgia dei mentitori. In pratica si tratta di persone importanti o famose che dicono di usare un prodotto anche se non è vero e ne decantano le qualità anche se quel prodotto non ne ha.» «Che bugiardi!» «A chi lo dici! La bolgia dei mentitori è piena di questi testimonial. Dicono è una bugietta che non fa male a nessuno, ma una bugia è una bugia poche ciance!» Malacoda tornò e spiegò ai compagni che non aveva capito bene, ma sembrava che il Presidente molto prima di entrare in politica, parecchio prima di comprare una squadra di calcio, e anche prima di fare l’impresario edile, aveva fatto per un certo tempo il musicista sulle navi da crociera. «Ma che c’entra?» «Ah, scusate! Mi ero dimenticato che ha fatto anche il rappresentante porta a porta di prodotti di bellezza, appunto.» «Ora capisco» disse Alichino, «lo hanno invitato perché è uno di loro che ha fatto carriera, uno dei pochi immagino.» Non ebbero difficoltà a entrare nella sala convegni e si accomodarono in una delle ultime file. Malacoda, con la sua valigia, sembrava davvero un rappresentante con il suo campionario. Intorno c’erano congressisti provenienti da ogni zona d’Italia, ognuno con il suo cappellino a punta e la lingua di Menelicche. «Questi convegni sembrano divertenti» commentò Alichino che andò subito a procurarsi un cappellino e una trombetta. 149 Ma ecco entrare finalmente sul palco l’ospite d’onore. Un grande applauso gli fu tributato da ogni angolo della sala. «Eccolo, è lui!» disse Malacoda, ma subito una strana sensazione lo attanagliò. L’aspetto era quello del Presidente, ma aveva l’impressione di osservare una scatola vuota, un corpo senz’anima. Com’era possibile? Il Presidente prese posto dietro al leggìo e fece un cenno ai presenti che immediatamente si zittirono. «Cari amici...» e subito un’ovazione salì dalla platea che pian piano si quietò dopo ripetuti cenni di ringraziamento, «... e carissimi colleghi!» A quelle parole il tripudio dei presenti toccò immediatamente vette irraggiungibili. Era già un trionfo e il discorso era stato solo di cinque parole. Poi riprese a parlare sfoderando il suo solito sorriso, gigioneggiando a più riprese e gesticolando con sicurezza: «Vi ringrazio per avermi invitato. Io non dimentico le mie origini. Non dimentico di essere stato uno di voi. Poi, altre imprese hanno richiesto il mio intervento, ma quello che ho imparato da gente come voi, mi ha forgiato per la vita.» Gli fu tributata un’altra ovazione. «Ora vi starete chiedendo che cosa voglio che voi facciate per me. Vi sbagliate, colleghi carissimi! Io sono qui per dirvi che cosa IO farò per voi.» Un altro trionfo coronò le sue parole. Mancava solo il memento che gli ripetesse all’orecchio: «Ricordati che sei solo un uomo», come ai generali romani di ritorno da campagne militari vittoriose, e poi sarebbe sembrato veramente un Cesare, un piccolo Cesare. Durante il discorso, Malacoda lo scrutava con attenzione. Aveva sempre la sgradevole sensazione che si trattasse di una scatola vuota, ma non riusciva a darne una 150 spiegazione. In effetti, talvolta lo sguardo sembrava assente, ma subito dopo riprendeva vita. La luce negli occhi si affievoliva, però l’istante successivo riacquistava forza. Per il resto, nient’altro faceva dubitare che ci fosse qualcosa di strano. «Che cosa posso fare per voi, dunque. Voi sapete che la pubblicità è l’anima del commercio, lo sanno anche i bambini delle medie che non siedono nei primi banchi. Ecco, le mie sei televisioni, che presto diventeranno sette, avranno sempre spazi pubblicitari aperti per voi. Vi domanderete: a prezzi di favore? E io vi risponderò: no, purtroppo, altrimenti l’Unione Europea ci comminerebbe delle sanzioni per concorrenza sleale. Questa maledetta Europa è la causa di tutti i mali che ci affliggono. Qualcosa va bene? È merito mio! Qualcosa va male? Colpa dell’Europa!» Dalla platea cominciarono ad alzarsi delle urla d’odio nei confronti dell’Europa, ma il Presidente le calmò subito con magnanimità. «In questi giorni si ricomincia a parlare di tetti pubblicitari. Alcuni si chiedono se le interruzioni degli spot pubblicitari per colpa dei film siano poche. A me vengono i brividi lungo la schiena quando penso a proposte di controllo. Noi ci siamo battuti sul mercato. Abbiamo trovato il nostro spazio, ma è soltanto la libera scelta dei telespettatori ad assegnarcelo. Grazie a questi risultati le aziende decidono liberamente di fare pubblicità sui nostri network. Quindi qualunque norma che fissi dei limiti mi sembrerebbe incostituzionale, perché andrebbe contro la libera scelta del pubblico e delle aziende. Ma io penso che non dovete preoccuparvi. Come vi ho promesso, per voi gli spazi pubblicitari saranno sempre assicurati.» 151 Malacoda cominciò a notare un rivolo di sudore scendere sulla fronte del Presidente. Anche il colorito era passato dall’abbronzato al paonazzo e fu un crescendo durante quest’ultimo interminabile elogio di se stesso. «Ma cosa garantisce che riuscirò a mantenere questa promessa? Quello che io ho fatto in tutta la mia vita. Solo Napoleone ha fatto di più… Su Napoleone ovviamente scherzo: io sono il Gesù Cristo della politica, una vittima, paziente, sopporto tutto, mi sacrifico per tutti. Hanno fatto una prova anche su di me, sulla mia funzionalità cerebrale e fisica e hanno deciso che sono un miracolo che cammina. Mi sta venendo un complesso di superiorità tanto che dico: “Meno male che ci sono io”. Non so un altro che cosa avrebbe fatto. Nessuno avrebbe potuto fare meglio di quello che ho fatto io. Quando sono entrato in carica ho trovato un Paese che non contava niente sulla scena internazionale. L’Italia, che non contava, ha ora uno smalto internazionale e un suo peso specifico anche in situazioni determinanti. Non c’è nessuno sulla scena mondiale che può pretendere di confrontarsi con me, nessuno dei protagonisti della politica che ha il mio passato, che ha la storia che ho io. Da un punto di vista personale se c’è qualcuno che ha una posizione di vantaggio questo qualcuno sono io. Quando mi siedo a fianco di questo o quel premier o capo di stato, c’è sempre qualcuno che vuole dimostrare di essere il più bravo, e questo qualcuno non sono io. La mia bravura è fuori discussione. La mia sostanza umana, la mia storia, gli altri se la sognano...» L’elogio di se stesso raggiunse il parossismo. Non solo Malacoda, ma anche altri presenti cominciavano a notare che il Presidente assomigliava sempre più a un disco rotto e speravano che non cominciasse con la solita tiritera paranoica dei comunisti-magistrati-giornalisti che ce l’avevano con lui, ma per fortuna non ce ne fu il tem152 po. Il Presidente, infatti, iniziò a farfugliare con lo sguardo nel vuoto, poi strabuzzò gli occhi afferrandosi al leggìo e rimase così, immobile. Sembrava andato in tilt. Subito gli uomini di scorta si avventarono su di lui e cominciò la bagarre dei fotografi. Anche in platea c’era gran confusione. Qualcuno si sentì male per simpatia, ma fu ignorato. «Ma cosa gli è successo?» chiese Alichino mentre soffiava ancora una volta con la lingua di Menelicche. «Te lo spiego dopo, ora non dobbiamo perderlo di vista» ordinò Malacoda. Mentre i malebranche raggiungevano l’uscita, la scorta portò sulle spalle il Presidente irrigidito e, giunti all’esterno, lo caricò su un’ambulanza che partì immediatamente a sirene spiegate. I tre, arrivati sulla strada, fermarono un provvidenziale taxi e Malacoda, dopo aver scaraventato la valigia all’interno, intimò all’autista: «Segua quell’ambulanza!» Lungo il tragitto, Alichino chiese ancora: «Si può sapere adesso che cosa è successo?» «Già! Cos’è successo?» incalzò Calcabrina. Malacoda spiegò: «Quello non era il Presidente! Quello era un Golem!» I due malebranche curiosi, al sentir parlare di Golem, si zittirono subito terrorizzati. Giorno VIII – Albert I Roma, 19 luglio 2013. Secondo gli amici più intimi, nel suo primo giorno di convalescenza dopo il malore che lo ha colpito ieri, il Presidente si è prontamente ristabilito. Ha appetito, è di buon umore e ha immediatamente ripreso alcune delle sue normali attività istituzionali. I medici curanti si di153 cono ottimisti e prevedono di dimetterlo dall’ospedale dopo un’ultima serie di controlli. Questa è la notizia pubblicata sui giornali, ma grazie alle nostre fonti, possiamo rivelare ai lettori che cosa è accaduto veramente... Il taxi dei tre malebranche raggiunse l’ambulanza mentre questa superava le sbarre del policlinico. Si introdussero nell’ospedale fingendosi normali visitatori e, quando Malacoda passò davanti alla portineria, fu scambiato per un paziente in attesa di ricovero. «Ehi, dico a lei» gridò il portiere, «lei con la valigia. In che reparto deve essere ricoverato?» «Ehm, non ricordo, ha un nome difficile» rispose Malacoda che, nel frattempo, si era girato verso Calcabrina per un aiuto. «Dobbiamo andare nel reparto dove ricoverano la gente che sviene mentre tiene un discorso» suggerì Calcabrina. Il portiere, sulla base di quell’informazione, azzardò una diagnosi, diede ai tre un pass per il reparto di cardiologia e disse: «Secondo ascensore, quarto piano. Seguite la linea rossa.» Seguirono per un tratto la linea rossa finché non furono fuori vista. Alichino, che fino a quel momento era quello dei tre che si divertiva di più, si rivelò particolarmente preoccupato: «Non capisco perché stiamo inseguendo questo Golem.» Il Golem nella tradizione ebraica è un essere portato in vita, se così si può chiamare, da rabbini con particolari conoscenze magiche. Della semplice argilla inanimata, modellata in sembianze umanoidi, si trasforma in un essere capace di obbedire agli ordini e diventa servo di chi lo ha creato, che lo sfrutta per eseguire dei lavori di bas154 sa manovalanza. Si tratta solo di un corpo adatto al lavoro, ma privo di anima. Proprio per questo i malebranche si trovavano a disagio avendo a che fare con uno di questi Golem. I demoni sono maestri nel manipolare le coscienze, nel tormentare le anime e non hanno alcun potere su un essere di quel genere. Anche Calcabrina era perplesso e disse a sua volta: «Dovevamo rintracciare un’anima dispersa e ora rincorriamo un corpo privo di anima? Quello che stiamo facendo non ha senso.» Malacoda, il più coraggioso e intelligente del gruppo, spiegò: «È probabile che il finto Presidente ci porti da quello vero, ma ora ne abbiamo perso le tracce...» Proprio in quel momento passò in fondo al corridoio il seguito del Presidente con il Golem su una barella a ruote e i tre si misero, con più o meno entusiasmo, al suo inseguimento. Dopo aver percorso vari corridoi e utilizzato l’ascensore, sempre fiutando la pista, il terzetto si ritrovò al piano attico con sei fucili mitragliatori spianati contro. Un plotone di teste di cuoio con anfibi, passamontagna e pesanti giubbotti antiproiettili li stava attendendo all’uscita dell’ascensore. C’era anche un cecchino in fondo al corridoio che li teneva sotto tiro con un mirino laser e il suo fucile di precisione. Alichino non trovò niente di meglio da dire e farfugliò: «Veniamo in pace!» alzando le mani sopra la testa. Il sergente delle teste di cuoio lesse il loro pass e disse: «Signori, avete sbagliato strada.» «Sì, sì! È vero! Cercavamo il reparto di cardiologia» affermò subito Alichino, «ma abbiamo perso la linea rossa. O dovevamo seguire la gialla? Beh, il fatto è che, con lo spavento che ho preso, anch’io adesso ho bisogno di un cardiologo...» 155 Il sergente si toccò l’orecchio sinistro coperto dal passamontagna, mentre li teneva sotto tiro con la mitraglietta nella destra. Sembrava ascoltare una comunicazione in cuffia. Alichino insistette: «Se ci potesse indicare gentilmente la strada...», ma Calcabrina gli diede una discreta, benché dolorosa, gomitata e gli disse sottovoce: «Taci! Non vorrei che gli partisse una sventagliata e mi rovinasse il vestito.» Dopo aver ascoltato in cuffia, il sergente si portò il polso alla bocca e disse: «Sissignore!» Poi rivolto ai tre nell’ascensore ordinò: «Uscite! Il Presidente vi attende» e, mentre abbassava l’arma, ammorbidì il tono: «Prego, da questa parte. Non ci avevano avvertiti del vostro arrivo e la prudenza non è mai troppa.» «Non si preoccupi, cose che capitano» disse Alichino con tono comprensivo, riprendendo fiducia. Dopo aver seguito un dedalo di corridoi, vennero condotti in un’ampia sala dalle luci attenuate. Malacoda disse sottovoce: «A quanto pare, il Presidente ha trovato noi.» All’interno della sala erano presenti tre persone. Si poteva riconoscere il Presidente che aveva tenuto il discorso all’Hotel Midas disteso su un letto e un altro Presidente in vestaglia in piedi vicino al letto. La terza persona non la conoscevano. Il Presidente in vestaglia ringraziò il sergente e lo congedò, poi si rivolse al terzetto: «Vi stavo aspettando da giorni. Quando vi ho visti ripresi dalle telecamere a circuito chiuso dell’ascensore, vi ho riconosciuti subito. Siete la soluzione di un problema che mi assilla, ma prima devo sistemare una cosa. Innanzitutto, dovete scusare le mie cattive maniere, vi presento il professor Alber156 to De Giorgis dell’Università Roma Quattro, docente di Cibernetica.» Il terzo uomo fece un cenno di saluto con il capo e, senza fare troppo caso ai nuovi arrivati, disse: «Presidente, non mi capacito. Dopo tutte le prove fatte, la prima uscita in pubblico doveva essere un successo e invece...» I tre malebranche non capivano quello che stava accadendo, si stavano domandando perché i presidenti fossero due, uguali come gocce d’acqua, e non sapevano per quale ragione fossero stati accolti con quel tono amichevole, insomma, un bel po’ di misteri dovevano essere svelati. Il Presidente in vestaglia chiese: «Non può ipotizzare la causa del malfunzionamento?» «Può essere stato il caldo di questi giorni. Ha surriscaldato i circuiti e il cervello positronico si è fuso. L’odore è quello» azzardò il professore. Quindi il Presidente si rivolse a Malacoda: «Caro amico, devi sapere che ultimamente ho avuto qualche problema di salute e ho dovuto sottopormi a una operazione. Se i miei nemici sapessero in quali condizioni mi trovo, avrei le ore contate. Ma grazie all’illustre professor De Giorgis avevo trovato un degno sostituto, che a quanto pare non era così degno.»1 Malacoda disse ammirato: «In effetti, non si notava alcuna differenza. Solo un occhio allenato poteva notare qualcosa di strano» e, mentre osservava con attenzione l’uomo in vestaglia, Malacoda cominciava a notare di nuovo qualcosa di sospetto. Ma in quell’istante l’automa-sosia si riprese e, con uno scatto, si alzò a sedere sul letto. Lo sguardo era assente 1 v. l’articolo a pag.59 per un resoconto delle vicende che hanno portato alla sostituzione del Presidente con un androide 157 e l’odore di circuiti bruciati si faceva sempre più intenso. Il professor Alberto De Giorgis, dopo essersi allontanato di un passo, chiese con preoccupazione: «Androide Albert I, che cosa è successo? Cosa sta succedendo?» L’androide non rispose subito. Il programma diagnostico era in esecuzione e, quando fu completato, l’automa rispose con la voce metallica d’emergenza: «A causa delle elevate temperature d’esercizio il cervello positronico ha fuso il nocciolo.» De Giorgis, che capiva solo in quel momento quanto fosse grave la situazione, urlò: «Ma così esploderà entro pochi minuti!» e prese a correre verso l’uscita. «Entro quattro minuti e trentasette, per la precisione» disse l’androide. «Dove sta andando? Mi spiega che cosa sta succedendo?» chiese il Presidente. Il professore si fermò di fronte all’uscita e disse sconsolato: «È inutile fuggire. L’esplosione nucleare raderà al suolo tutta Roma. Non faremo in tempo ad allontanarci abbastanza per sopravvivere. Il funzionamento del robot richiede grandi quantità di energia e abbiamo utilizzato una pila atomica miniaturizzata che ora è in avaria.» Calcabrina si intromise, perché la faccenda dell’esplosione atomica lo preoccupava alquanto, più che altro per il vestito nuovo, e chiese: «Ma non si può fermare in qualche modo?» «Solo l’androide può farlo! Disattivandosi, cioè morendo! Qualsiasi intervento dall’esterno non farebbe che accelerare il processo di fusione» rispose De Giorgis ormai caduto in ginocchio. Calcabrina commentò: «Ma guarda che situazione. Caronte dovrà fare gli straordinari: gli sta per arrivare qualche milione d’anime tutto d’un botto.» 158 L’androide però disse: «Non voglio morire io e altri sei milioni di persone... vorrei che morissero solo gli altri sei milioni di persone.» De Giorgis strabuzzava gli occhi, era ammutolito, mentre i tre malebranche erano perplessi sul da farsi. Il Presidente in vestaglia, invece, mantenne il suo sangue freddo. Sembrava che non gli importasse dell’esplosione, come in fondo non importava ai tre malebranche, ma provò ad articolare un ragionamento: «Pensaci bene, Albert I. Se la bomba scoppierà, noi qui saremo tutti volatilizzati e nessuno saprà mai che sei esistito. Invece, se interromperai il processo, ti prometto, e come ben sai le promesse le mantengo, che tutti i licei d’Italia saranno intitolati al tuo nome e ti seguirà una generazione di Albert II. Per te personalmente non cambierà nulla, sarai sempre morto, ma la seconda possibilità è più rosea, non credi?» L’androide ci pensò qualche interminabile secondo e poi disse: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Ho simulato tutti i possibili esiti del torneo di scacchi tra Kramnik e Topalov del 2006... e ho previsto le conseguenze storiche dell’ermeneutica di Jürgen Habermas. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo... come lacrime... nella pioggia. È tempo di morire» e sulla parola ‘morire’ reclinò il capo. In quell’istante il silenzio divenne assoluto, come se il ronzio di una piccola ventola di raffreddamento, forse troppo piccola, fosse cessato improvvisamente. Non si saprà mai perché quell’androide, quel Golem, quella scatola vuota, salvò la vita a sei milioni di persone. Forse in quegli ultimi momenti amava la vita più di quanto l’avesse mai amata... Non solo la sua vita: la vita di chiunque, la vita di sei milioni di sconosciuti. Tutto ciò che voleva erano le stesse risposte che tutti gli uo159 mini vogliono: da dove vengo? Dove vado? Quanto mi resta ancora? Non si è potuto far altro che restare lì e guardarlo morire.1 Il professor De Giorgis balzò in piedi, verificò lo stato dell’androide e ricadde sulle ginocchia piangendo di gioia. Il Presidente disse: «Professore, la prossima volta, cerchi di rispettare con più attenzione le norme di sicurezza. Per queste negligenze non ci sono condoni edilizi che tengano.» Quindi si rivolse al terzetto: «Bene, cari amici. Dopo aver risolto questa crisi, veniamo a noi. Come vi dicevo, vi stavo aspettando. Seguitemi nei miei alloggi.» Il passo del Presidente in vestaglia era molto incerto. Spesso sembrava che i suoi movimenti fossero invertiti, confondeva la destra con la sinistra e ci voleva qualche istante perché imbroccasse la direzione giusta a un bivio. Giunsero di fronte a una camera, ma prima di aprire la porta, il Presidente si voltò e osservo i tre malebranche negli occhi: «Sono passati tanti anni, cari amici, ma davvero non mi riconoscete?» Malacoda scrutò nel profondo di quegli occhi e infine lo riconobbe: «Graffiacane!» Calcabrina e Alichino si unirono in coro e stupiti ripeterono: «Graffiacane?» Giorno IX – Graffiacane Roma, 20 luglio 2013. Oggi il Presidente si è affacciato alla finestra della sua camera al piano attico del Policlinico. La folla oceanica in attesa da ore ha inneggiato all’apparizione con un tifo 1 Dal film “Blade Runner” di Ridley Scott 160 da stadio. Questo saluto non ha soddisfatto le opposizioni che parlano di un Presidente ormai incapace di svolgere le sue funzioni. Lo staff presidenziale ha dichiarato che una conferenza stampa verrà organizzata al più presto per fugare tutti i dubbi residui. Questa è la notizia pubblicata sui giornali, ma grazie alle nostre fonti, possiamo rivelare ai lettori che cosa è accaduto veramente... «Graffiacane, sei proprio tu?» Malacoda non riusciva a capacitarsi, tanto meno Calcabrina o Alichino. Graffiacane era un malebranche come loro, forse uno dei più accaniti e beffardi nei confronti dei dannati. In effetti, da un po’ di tempo l’avevano perso di vista e non ricordavano di averlo incontrato nella bolgia di recente. «Cari amici e compagni d’avventure, sì! Sono proprio io, Graffiacane. Ormai sono qui nel mondo dei vivi da quasi cinquant’anni.» «Cinquant’anni!?» ripeté sempre più stupito Alichino. Tentò di controbattere: «Ma sembra ieri che...», però non gli venne in mente nessun ricordo comune che non fosse più vecchio di qualche secolo. Malacoda disse: «A quanto pare il tempo è passato in un lampo! Comunque devo dire che ti trovo bene e sono contento di rivederti.» Calcabrina troncò i convenevoli e venne al dunque tentando un riepilogo: «Cosa ci fai al posto del Presidente? Non ci sto più capendo nulla. Ci mandano a recuperare un’anima dispersa, ma scopriamo che il proprietario non è ancora passato a peggior vita. Rintracciamo quello che crediamo il nostro obiettivo, ma scopriamo che è solo un pezzo di latta che va in giro a tenere discorsi come sosia del vero Presidente. Infine, finalmente pen161 siamo di aver trovato quello vero in carne e ossa, ma dentro ci sei tu!» «È una storia lunga» disse Graffiacane. «Non è il caso di raccontarla qui in corridoio, meglio sedersi comodamente.» Aprì la porta della stanza e il terzetto, ancora piuttosto perplesso, si accomodò sulle poltrone di un piccolo salotto che faceva da anticamera alla vera stanza da letto. Mentre Graffiacane serviva da bere, chiese com’era la situazione della bolgia, perché dopo tanto tempo ne sentiva nostalgia. Malacoda rispose: «Non ti sei perso nulla, è il solito mortorio. L’unico vantaggio è che i clienti non ci mancano, ne arrivano sempre a frotte.» Graffiacane, dopo averli serviti, si sedette a sua volta con un Jack Daniel’s liscio nella destra. Fece per bere, ma portò alla bocca la sinistra. I tre, vedendo la scena, ne furono turbati. «Scusate» disse il loro ospite, «sono i postumi di una operazione che ho subito recentemente. Sono ancora sottoposto a sedute di fisioterapia, ma andiamo con ordine.» Graffiacane cominciò a raccontare e spiegò che a metà degli anni ‘60 era stato inviato in missione per prendere il posto di un personaggio importante che aveva agganci con i politici più in vista, con il mondo degli affari e con la criminalità organizzata. Aveva tradito, ricattato e fatto eliminare talmente tanta gente, compresi amici e parenti, che quel tale fu subito tradotto nel nono cerchio dell’Inferno, benché avesse davanti a sé molti decenni ancora da vivere, e lui prese il suo posto. «Potevi almeno salutarci, quando sei partito» lo rimproverò Malacoda. Graffiacane si giustificò dicendo che aveva pensato si trattasse di un lavoro di poche settimane e, invece, dopo 162 cinquant’anni... comunque, riprendendo il filo del racconto, dopo alcuni anni, si rese conto di essere tagliato per manovrare nell’ombra: i politici si rivolgevano a lui per avere la sicurezza di essere eletti, gli affaristi per ottenere leggi che li favorissero, i mafiosi per ottenere leggi che non li ostacolassero. Era un cerchio che si chiudeva. Tutti dovevano qualcosa a tutti gli altri e lui era l’intermediario. Non c’era periodo storico in cui si trovasse in difficoltà: la fine del boom economico, l’austerity, gli anni del terrorismo, gli anni di fango di tangentopoli, fino all’attuale crisi economica globalizzata. Non importava chi fosse al governo, o se fosse pro o contro: lui tramava sempre nell’ombra, grazie ai ricatti, alle offerte che non si potevano rifiutare, alle bombe, otteneva sempre ciò che voleva. Con l’età era divenuto una figura leggendaria, tanto che veniva soprannominato il ‘grande vecchio’ e nessuno ormai sapeva se esistesse veramente o se fosse solo una diceria. «Il vero ‘grande vecchio’ sarebbe orgoglioso di me, se non fosse nel Cocito a congelare» concluse Graffiacane. Malacoda replicò stupito: «Vuoi dire che sei tu la causa dei mali di cinquant’anni di storia italiana?» «Se sostenessi questo, mi assumerei dei meriti che non ho. Gli uomini spesso danno la colpa dei loro peccati al diavolo tentatore, ma in realtà li hanno commessi loro quei peccati, in piena consapevolezza. Io ho solo proposto, consigliato e suggerito, ma altri hanno apprezzato le mie proposte, accettato i miei consigli e meditato sui miei suggerimenti. Devo ammettere che quasi sempre i risultati superavano le mie aspettative: il male che ne derivava era centuplicato dal contributo degli uomini.» Mancava però ancora un elemento e Malacoda lo fece presente: «Un’ultima cosa non mi è chiara. Il Presidente è troppo giovane e troppo in vista per essere il ‘grande vecchio’, come tu lo hai descritto.» 163 «Infatti» confermò Graffiacane, «dopo cinquant’anni ho finalmente la possibilità di agire in prima persona, non più solo nell’ombra. Qualche tempo fa si è scoperto che il vero Presidente era afflitto da un male incurabile che aveva attaccato irrimediabilmente il cervello. Io ho subito ordinato di trapiantare il mio cervello, che era ospitato dal mio vecchio corpo ormai malandato, nel corpo ancora giovane del Presidente.»1 «Incredibile» disse Alichino, «la medicina ha fatto passi da gigante! Se penso agli inutili salassi di qualche secolo fa... però non capisco bene le implicazioni di un simile trapianto. C’è una tale commistione di organi... insomma, alla fine, chi è chi?» «Ti posso assicurare che io sono io» disse Graffiacane. «Sono io che penso, io che comando le azioni di questo corpo. Ma purtroppo ci sono stati due inconvenienti.» Calcabrina intervenne e disse: «Mi sembrava strano che tutto potesse essere così facile. E poi non avresti potuto trasferirti direttamente nel Presidente? Devo ammettere che questa storia mi sta facendo venire l’emicrania.» «No, non potevo, perché il mio ospite precedente non è ancora morto. Il cervello che è qui dentro» disse indicandosi la testa, «è ancora quello originale e, per contratto, non posso abbandonarlo, se non interrompendo la missione. Ma c’è ancora tanto bisogno di me qui, che non posso lasciare tutto al suo destino e tornare all’ottavo cerchio.» Malacoda riprese il filo del discorso: «Ci stavi dicendo di due inconvenienti.» «Ah, sì. I miei medici stanno cercando di risolvere il primo. Sembra che il chirurgo che ha effettuato il trapianto abbia invertito alcuni collegamenti. Se penso di 1 v. l’articolo a pag.42 per un resoconto dell’operazione a cui è stato sottoposto il Presidente 164 alzare la mano destra si alza la sinistra e viceversa. Finché non risolvo la situazione, non posso presentarmi in pubblico, per questo ho fatto ricorso, con scarso successo, al sosia robotizzato. Ci vorrà tempo, ma la rieducazione alla fine risolverà la situazione, o almeno la migliorerà.» «Bene» disse Malacoda, «sono contento per te. Deve essere frustrante voler fare qualcosa mentre il tuo... corpo ne fa un’altra. Ma qual è il secondo inconveniente?» Graffiacane guardò verso la stanza da letto e disse: «Questo è il punto cruciale dove intervenite voi.» Alzandosi dalla poltrona ordinò: «Seguitemi!» Si diresse verso la camera da letto. La porta era socchiusa. Entrò con circospezione e gli altri malebranche fecero altrettanto. Nella stanza, illuminata dalla luce di una finestra, c’erano alcune suppellettili ordinarie e un letto singolo. Insomma, era una normale camera d’ospedale, magari un po’ più lussuosa, ma non si notava nulla di insolito. «Ascoltate!» disse Graffiacane. I tre si misero in ascolto, ma sentivano solo il ticchettio di una sveglia, lo stormire discreto delle foglie di un albero all’esterno, il cigolio di un carrello che passava in corridoio. Poi, però, cominciarono a udire anche uno strano suono, persistente, simile a un gemito, un indefinibile rantolo prolungato. «Ma che è?» chiese Alichino. «Mi capite adesso? Con le cure che faccio, io ho bisogno di riposare, ma è impossibile. Nel silenzio della notte è ancora più fastidioso.» «Non capisco cosa sia, ma è veramente... inquietante... fa gelare il sangue nelle vene. Ti consiglio di cambiare stanza» propose Calcabrina. Graffiacane scosse la testa: «Ci ho provato, ma mi insegue, mi perseguita, non mi vuole lasciare in pace.» 165 «Insomma» disse Malacoda, «si può sapere cos’è!?» «Guarda tu stesso! È sotto il letto!» Malacoda era titubante. Guardò i due compagni, ma quelli fecero come un passo indietro, più terrorizzati di lui. Allora si fece coraggio, si chinò e diede un’occhiata furtiva. Si tranquillizzò, perché a un primo sguardo non c’era nulla. Probabilmente Graffiacane, dopo tanti anni tra i vivi, cominciava a dare i numeri. Eppure quel suono, quel gemito era ancora nell’aria e sembrava provenire da... in quel momento si sentì toccare la spalla, si voltò di scatto spaventato e vide il volto sfregiato di Alichino. «Accidenti a te!» «Scusa non volevo spaventarti» si giustificò Alichino, «volevo solo chiederti se hai visto qualcosa.» «No! Lasciami il tempo di guardare bene» disse chinandosi di nuovo. Riecco quel suono, sembrava proprio provenire da quell’angolo buio. “Se riuscissi ad avvicinarmi di più” pensava tra sé e sé Malacoda, “ma è così buio...” Abituando gli occhi all’oscurità, cominciò a intravedere qualcosa, una forma immobile contro la parete... no, anzi, non era immobile, sembrava respirare... ah, se fosse riuscito ad avvicinarsi di più... Poi, improvviso come il guizzo di una serpe, quella cosa indefinibile cominciò ad avanzare verso di lui, e mentre lui indietreggiava sempre più velocemente, incespicando, anche quella cosa avanzava correndo e se la ritrovò addosso! «Aaaargh! Per tutti i satanassi dell’inferno! Toglietemelo di dosso!» Ma il suo appello cadde inascoltato perché Calcabrina era saltato in piedi sul letto urlando: «Tizzone d’inferno!», mentre Alichino, dopo aver gridato: «Che io sia 166 dannato!», aveva guadagnato un angolo della stanza e brandiva una sedia tremante, come se avesse dovuto domare un leone. L’unico preparato a ogni evenienza era stato Graffiacane, che era prontamente fuggito nel salotto e guardava la scena da dietro la porta socchiusa. Facendo appello a tutte le sue energie, Malacoda riuscì a liberarsi di quella cosa che l’aveva artigliato e la scaraventò in un angolo, poi afferrò un portaflebo e cominciò a brandeggiarlo come se fosse stato un’alabarda. La cosa, per il momento sconfitta, ansimava in un angolo della stanza. Era certamente un’ectoplasma, ma il suo aspetto era raccapricciante, tanto che mancavano le parole per descriverlo. «Per tutti i diavoli!», gridò ancora Malacoda. «Che cos’è quel mostro!» Graffiacane, da dietro la porta socchiusa, disse: «È ciò per cui siete stati inviati qui. È l’anima del Presidente! Capisci perché non posso dormire la notte? Nel letto, passo intere ore con gli occhi spalancati, mentre aspetto che il gemito continuo si affievolisca, poi verso l’alba le forze mi abbandonano e mi addormento. Ecco allora che quella cosa mi assale e dice che rivuole il suo corpo, che è suo, che gli serve. Io mi sveglio di soprassalto, mi difendo come posso e poi entrano le teste di cuoio con i mitragliatori spianati. Allora lui si nasconde, loro non lo vedono e credono che io abbia avuto un incubo. Non gli ho spiegato nulla e li ho lasciati nel dubbio dell’incubo, altrimenti avrebbero creduto che fossi diventato completamente pazzo.» Malacoda osservava la cosa nell’angolo, pronto a difendersi con il portaflebo. Guardandola meglio riconobbe l’anima di un uomo, ma era talmente corrosa e abbrutita. Ne aveva viste di orribili in millenni di servizio, ma quella proprio non sfigurava al confronto. 167 Quando guardi una persona a modo, posata, magari anche divertente, non puoi renderti conto di come sia veramente, ma se si potesse vedere l’anima! Oh, sì! Allora sì che si capirebbe davvero com’è quella persona. Se ti abbandoni ai piaceri della carne, forse anche crogiolandoti per tutta la vita nella lussuria, potrebbe non rimanere una sola ruga sul tuo corpo. Se ti vanti di te stesso umiliando gli altri, forse anche eccedendo nella superbia più sfrenata, la patina dorata di cui ti ricopri potrebbe resistere per anni. Se ti circondi di ricchezze inutili, forse anche giustificandole con elemosine miserabili, le nefandezze con cui sono state rubate potrebbero restare nascoste per sempre. Il mondo potrà solo bramare la tua bellezza, tributarti ammirazione, invidiare la tua ricchezza. Ma se si potesse vedere la tua anima! Tutto l’opposto! Disgustosa, miserabile, pezzente. L’anima non può mentire, viene corrosa giorno dopo giorno dal peccato, la lebbra dei vizi ne intacca l’essenza e il suo aspetto col tempo si decompone, diviene irriconoscibile, raccapricciante. Alichino ruppe il silenzio: «Che facciamo?» «Se tu avessi anche una frusta oltre alla sedia, potresti provare a domarlo» gli rispose Calcabrina. Malacoda, nel vedere quell’essere disperato, pensò a sé stesso. Si ricordò che il suo aspetto non era poi così differente quando si trovava a svolgere le sue funzioni nella quinta bolgia. Se ti allontani dalla fonte dell’Amore, finisci per odiare ciecamente; se ti allontani dalla Verità, non fai altro che nutrirti della menzogna. Per riportarti indietro ci vuole qualcuno che ti doni un po’ di quell’Amore con il coraggio di dirti una parte di quella Verità. «Hai provato a parlargli?» chiese Malacoda a Graffiacane. 168 «A che servirebbe? Hai visto com’è ridotto.» Malacoda disse: «E tu? Hai visto come sei ridotto? Vedi come sono ridotto io? Un tempo abbiamo rincorso un sogno, ma si è rivelato un incubo. Ora, prova a metterti nei suoi panni... beh, in parte già ci sei... allora pensa che cosa proveresti se ti fosse stato portato via tutto ciò a cui tenevi di più. Ti sei affannato per anni a curare il tuo corpo, ad adornare il tuo abito, ad aumentare il tuo potere, a circondarti di persone che ti dicessero quanto eri bello, splendido e potente. Poi un bel giorno ti rendi conto che ti sei ingannato: hai inseguito il vento per tutta la vita, eri soltanto polvere, polvere e cibo per i vermi. A scoprirlo, come ti sentiresti?» Alichino rispose: «Un po’ incazzato?» Malacoda posò il portaflebo e cercò nei cassetti della camera finché non trovò uno specchio. Poi si avvicinò all’angolo dove la cosa stava ancora ansimando. Più si avvicinava, più il gemito si trasformava in un ringhio sempre più minaccioso. Malacoda si fermò quando vide che la cosa era pronta ad assalirlo di nuovo e tese lo specchio di fronte a sé. La cosa non ci fece caso subito, era soltanto pronta ad azzannare alla gola, ma a un certo punto si rese conto che la sua immagine era riflessa nello specchio e si riconobbe. Vide la corruzione, la lebbra che la deturpava, si vide deforme, disgustoso, raccapricciante e, mentre acquisiva consapevolezza della propria condizione, la crosta decomposta saltava via a grosse scaglie. Quando Malacoda fu a un solo passo, un’anima finalmente riconoscibile si guardò allo specchio e attraverso i suoi occhi vide una vita spesa nell’odio e nella menzogna. Quegli stessi occhi furono alla fine capaci di piangere. 169 Malacoda disse, come se parlasse a se stesso: «A volte mi chiedo a cosa serve accumulare tutto l’oro del mondo se per farlo bisogna vendere la propria anima.» «Ora la situazione sembra sotto controllo» constatò Calcabrina, che scese dal letto spolverando il suo completo di seta. Alichino posò la sedia che aveva in mano, ci si sedette sopra con un sospiro e disse: «La prossima volta marco visita. Cercatevi qualcun altro per queste missioni. Mi sento invecchiato di duecento anni.» «Per un momento» disse Graffiacane a Malacoda, «mi è sembrato che tutto quel discorso lo facessi a noi.» «Se fosse come dici, sarebbe stato fiato sprecato. Per noi non c’è più nulla da fare. È un discorso che può capire solo un uomo, anche se ormai neppure per lui c’è più nulla da fare.» I quattro malebranche, portando con sé l’anima dispersa ancora singhiozzante, si spostarono nel corridoio. «Grazie a voi ora potrò dormire sonni tranquilli» disse Graffiacane. Malacoda commentò: «Sei fortunato perché non hai una coscienza, altrimenti sai che incubi. Comunque riguardati e spero che quel tuo problema di coordinazione si risolva presto. Ma ora dimmi, come facciamo ad andarcene di qui?» «Prendete il mio ascensore privato. Noterete un pulsante con scritto ‘-666’. Porta dritto all’Inferno. L’ho preparato per quando, finalmente, me ne potrò andare.» «Molto comodo!» disse Alichino. «Ricordati che noi laggiù ti aspettiamo e non far passare altri cinquant’anni per farci avere tue notizie!» Calcabrina chiese dove potevano lasciare i loro corpi e Graffiacane spiegò che, al quinto piano sotterraneo del 170 Policlinico, c’erano le caldaie. Gli inservienti avrebbero pensato a far sparire tutte le tracce. L’ascensore per l’Inferno scendeva velocemente, ma Malacoda fece in modo che si bloccasse al piano terra. I compagni stupiti gliene chiesero il motivo. «Consegnate voi l’anima a Caronte» disse voltandosi dopo essere uscito dall’ascensore. «Prima di lasciare il mondo dei vivi, ho ancora una cosa da fare.» I due malebranche, con l’anima dispersa sottobraccio, si raccomandarono che non si perdesse per strada come era capitato a Graffiacane. «Non preoccupatevi, domani vi raggiungo» e così dicendo aspettò che l’ascensore ripartisse. Quando le porte si richiusero, si vide riflesso sulla loro superficie lucida. Vide un uomo sulla sessantina, brizzolato, vestito con un principe di Galles in fresco lana. La missione di Malacoda era compiuta, ma quell’uomo brizzolato gli aveva appiccicato la sua ultima volontà, come era capitato agli altri malebranche. Si guardò ancora una volta riflesso nelle porte, si aggiustò la cravatta, prese la grossa valigia che aveva posato sul pavimento e uscì rapidamente dall’ospedale. Giorno X – L’angelo custode Roma, 21 luglio 2013. Anche questo pomeriggio il corpo di un uomo è stato ripescato senza vita nel Tevere. È stato avvistato da un gruppo di turisti giapponesi che si trovavano a passare sul ponte di Castel Sant’Angelo. Una squadra del nucleo sommozzatori della Polizia di Stato è subito intervenuta. La vittima risulta essere un sessantenne, vestito in modo elegante, di cui si ignora ancora l’identità perché privo di documenti. 171 Non passa settimana di questo luglio afoso senza che disgrazie di questo tipo salgano alla ribalta della cronaca nera. Gli esperti dicono che il caldo eccessivo può spingere individui già disturbati a comportamenti estremi. Non sappiamo ancora se anche in questo caso si possa parlare di suicidio, perché le indagini sono ancora in corso e gli inquirenti stanno vagliando tutte le ipotesi. Questa è la notizia letta dallo speaker nel telegiornale regionale della notte, ma grazie alle nostre fonti bene informate, possiamo rivelare ai lettori ciò che è accaduto veramente... Malacoda scese alla fermata dell’autobus di fronte a un alto condominio. Si trattava di un palazzo fatto costruire negli anni ‘30 per gli impiegati delle Poste. L’autobus ripartì. L’entrata del condominio era a pochi passi. Malacoda si trovò di fronte al portone a vetri e rivide la propria immagine riflessa, sempre elegante, sempre con la valigia in mano. Di quell’uomo sapeva tutto. Si chiamava Giacomo Lombardi, quasi laureato in farmacia, informatore scientifico per un certo periodo della sua vita, rappresentante di articoli sanitari per un altro, sposato con Chiara e padre di Francesca, poi disoccupato, ricoverato per alcuni anni in un reparto psichiatrico e infine, nell’ultimo decennio, barbone costretto a vivere di espedienti e a dormire nelle stazioni, nei ricoveri, nei parchi o sotto i ponti. Così vestito bene non si riconosceva, così sbarbato e ripulito non sembrava lui. Chissà se sua figlia l’avrebbe riconosciuto. No, certo che no. Giacomo lesse i nomi sul citofono, ma non trovò quello che cercava. Controllò il numero civico. Sì, è giusto, è il 48. Scorse nuovamente la lista dei nomi. Nulla. Non sapeva cosa fare. 172 A un certo punto, uscì un’anziana con un cagnolino, un pechinese, vestito come se fosse suo figlio. «Mi scusi, signora, sto cercando Francesca Lombardi. Credevo che abitasse qui, ma non trovo l’interno.» La donna, a cui non sembrava vero di poter scambiare due parole con un signore così distinto, si rese subito utile: «Sì, abita qui. Deve citofonare Trovaioli, perché usa ancora il cognome dell’ex-marito anche se ormai è divorziata da un anno. Dice che nessuno la cercherebbe con il cognome da nubile, mentre le madri delle amichette della figlia citofonano Trovaioli. Io le ho fatto presente che potrebbe aggiungere anche il suo...» «La ringrazio per l’informazione» disse Giacomo tagliando corto e, individuato Trovaioli, provò a suonare. L’anziana riprese: «Ma ora è inutile che provi. Non c’è nessuno. La signora Francesca starà tornando dal lavoro adesso, ma prima deve andare a prendere Chiara. Questione di venti minuti e sarà qui. Se mi dice il suo nome, riferirò che...» «Grazie ancora. Non si disturbi, aspetterò qui fuori.» Salutò la donna, che se ne andò a malincuore, e si diresse lungo il marciapiede verso una panchina all’ombra di due grandi platani. Su quella panchina era già seduto un uomo di pelle scura, o forse solo molto abbronzato, che portava occhiali da sole ed era vestito di nero. Giacomo gli si sedette accanto e posò la valigia vicino a sé. L’uomo in nero disse: «Oggi è una bella giornata, non trovi?» Giacomo pensò che proprio quel giorno tutti avessero deciso di voler parlare con qualcuno e impicciarsi degli affari degli altri. Rispose solo con un cenno del capo. L’uomo ripeté: «Veramente! È proprio una bella giornata. Pensa, qualcuno può tornare a casa dal lavoro, felice perché tiene la propria bimba per mano e poi si presenta qualcuno... qualcuno che non si aspettava. Una 173 montagna di brutti ricordi le crolla addosso e la bella giornata è rovinata.» Malacoda a quelle parole si scosse e tenne a bada Giacomo per un po’, si voltò stupito verso l’uomo in nero e gli chiese: «Chi sei?» «Davvero non lo immagini?» «Sì, è evidente. Sei l’angelo custode di... mia figlia? O di mia nipote?» «Non di Chiara, non sono così fortunato. Lo sai, gli angeli dei bambini contemplano continuamente il volto di Dio, ma poi purtroppo i bimbi crescono. Io sono l’angelo di Francesca.» Malacoda aveva trascorso quei dieci giorni tra i vivi e non aveva ancora visto gli angeli che abitano tra gli uomini, anche se ne aveva sempre avvertito la presenza. Vivono ben nascosti e intervengono solo quando serve, questo significa che agiscono spesso, ma quasi sempre la sordità delle persone ai loro richiami rende la loro azione inutile. Eppure non si perdono d’animo, sono sempre pronti a confortare nelle avversità, a essere d’aiuto nei momenti difficili. L’angelo continuò: «Lo so perché sei qui. Pensi di fare una buona azione, ma ragiona un attimo. Non farti trascinare da sentimenti che non sono tuoi. Voi demoni vi lasciate travolgere da emozioni a cui non siete abituati e finite per fare ancora più danni. Pensa a ciò che Isabel e Benoît vi hanno...» «Loro ce l’hanno fatto fare, ma voi non ci avete fermati.» «Fermarvi, certo. Noi lo chiediamo continuamente al Padrone della messe: vuoi che andiamo a raccogliere la zizzania nel campo? La zizzania che ha sparso il Nemico? E Lui ci risponde: no, perché cogliendo la zizzania rischiereste di estirpare anche il grano; lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e, giunta 174 la mietitura, legate la zizzania in fastelli per bruciarla, il grano invece riponetelo nel mio granaio.» «Questo risponde?» «Sì, in ogni uomo c’è il male e c’è il bene, la zizzania e il grano, ma Lui vuole che non si perda neppure una spiga di grano. Lo so, questo discorso per te è duro.» Malacoda confermò: «In questo momento ti invidio, perché a suo tempo hai fatto la scelta giusta; ma tra poche ore so già che ti compatirò, perché ti riterrò una schiavo.» «Ognuno di noi ha potuto scegliere, ma questa possibilità non ci rende uguali. Io non ti invidio per la tua presunta libertà e neppure ti compatirò quando crederai di averla, io invece continuerò ad amarti anche quando sarai tornato dove tu vorrai tornare. Tra di noi si è aperta una voragine: voi l’avete scavata, noi non la possiamo colmare.» Malacoda questo non lo poteva capire, se avesse potuto sarebbe stato da sempre al posto di quell’angelo. Ma le pulsioni di Giacomo ripresero il sopravvento e chiese: «Hai parlato di una bella giornata rovinata, perché?» L’angelo disse: «Tu vuoi scaricarti la coscienza. Porti una valigia piena di denaro e vuoi comprare l’affetto di una figlia alla quale non hai mai saputo darne. Prima l’hai ignorata e lasciata crescere a sua madre per coltivare la tua carriera, ma certo non era colpa tua se dovevi viaggiare; poi l’hai ignorata perché dovevi lavorare, ma sicuramente non era colpa tua se dovevi mantenere la famiglia; poi è arrivata la malattia di cui , questa volta sì, non avevi colpa. Hai perso i momenti più belli della sua vita: la laurea, il matrimonio, la nascita di Chiara; ma soprattutto hai perso la possibilità di lasciarti amare da chi di amore ne ha da dare tanto.» Mentre l’angelo parlava, i sentimenti di Giacomo turbinavano in Malacoda che cominciò a capire perché aves175 se trovato quel corpo nel loculo di un obitorio. Sentiva quanto potesse gravare una vita di fallimenti, una vita che aveva finito per ritenere inutile. «Non è mai inutile» disse l’angelo e aggiunse: «Guarda laggiù!» Giacomo vide Francesca che tornava a piedi lungo il marciapiede. Teneva per mano Chiara. Erano bellissime. Ridevano. Erano felici ed era una bella giornata. Le lacrime di Giacomo bruciavano negli occhi di Malacoda. Avrebbe voluto correre, abbracciarle e provare anche lui quella loro gioia, ma l’angelo, ponendogli una mano sulla spalla, lo trattenne. Francesca aprì il portone che si richiuse dietro di loro. L’angelo riprese: «Ora tu puoi fare ciò che vuoi, non proverò più a fermarti, ma pensaci bene. Tu ricomparirai nella sua vita dopo tanti anni. Lei ti perdonerà, come ha perdonato per anni quel suo stupido marito, ma poi tu dovrai andartene di nuovo, così come alla fine se n’è andato anche quel suo stupido marito. Non è stata fortunata con gli uomini.» Malacoda sapeva quello che avrebbe dovuto fare, ma per cinque minuti sarebbe stato ancora preda di Giacomo. Sentiva gli occhi dell’angelo su di sé, però prese la valigia e, senza voltarsi, si diresse verso il condominio. In quel momento uscì un tale e Giacomo si infilò nel portone aperto, salì le scale di corsa, cercò affannosamente l’interno e alla fine lo trovò al terzo piano. Riprese fiato e suonò il campanello. Dopo qualche istante si sentì chiedere da una vocina: «Chi è?», ma non ci fu risposta. «Mamma, non dice chi è.» «Sarà qualcuno in vena di scherzi» disse Francesca mentre attraverso lo spioncino vedeva un corridoio vuoto, così aprì la porta. 176 Non c’era davvero nessuno. Solo una valigia sullo zerbino che portava incisa la scritta ‘Per Chiara’. Il gruppo di giapponesi continuava a vociare lungo i parapetti del ponte. I sommozzatori avevano faticato, ma alla fine erano riusciti a trascinare quel corpo a riva. Sugli argini si formò il solito assembramento di curiosi, mentre il medico legale constatava il decesso. «Marcello, che cosa abbiamo?» «Ciao Cinzia! Dobbiamo smettere...» «di vederci così, lo so! Dopo ti invito a cena, offro io!» disse sorridendo il commissario Contini. Il dottor Mastroianni ridendo replicò: «Devi anche smettere di offrire tu, la mia virilità ne soffre.» Si intromise l’ispettore che, dopo essersi schiarito la voce, disse: «Scusate, sono dispiaciuto di dover interrompere, ma qui sopra di sono decine di curiosi e un intero pullman di giapponesi. Se magari non diamo a vedere che un cadavere ormai non ci fa più né caldo né freddo...» I due assunsero un tono più adatto al momento e Cinzia ripeté: «Allora, cosa abbiamo?» «Dei tre fuggiaschi era il più vecchio. Vedi, ha ancora il suo principe di Galles...» «In fresco lana» aggiunse Cinzia. Poi, dopo aver riflettuto sul da farsi, disse: «Ne mancano ancora due all’appello. Stanotte farò piantonare l’obitorio, non vorrei che i... redivivi fuggissero di nuovo prima che l’indagine sia conclusa.» Quella sera Cinzia invitò Marcello a casa sua per una cena a lume di candela. Si sentiva sempre un po’ a disagio tra i fornelli, perché era abituata a mangiare spesso fuori per lavoro, ma questa volta le sembrava tutto per177 fetto. Portò il vassoio in sala da pranzo dove Marcello, in piedi, sorseggiava un aperitivo e guardava il TG. «Aspetta, ti aiuto» disse posando l’aperitivo. «C’è qualche notizia interessante?» chiese Cinzia. «Le solite notizie estive. Dicono che fa caldo, come se non lo sapessimo già.» «Ci mancavano solo le candele!» aggiunse Cinzia ridendo. «Parlavano anche del Presidente, della sua prima uscita pubblica dopo il malore di qualche giorno fa. Pare che sia successa una cosa strana: c’era non so quale commemorazione e una banda suonava l’inno, molti dei presenti hanno portato la mano al cuore e...» «E cosa?» chiese Cinzia mentre si sedeva al tavolo. «... e il Presidente ha portato la sinistra al petto» concluse Marcello. «Avrà voluto fare lo spiritoso come al solito. Ehi! Sembra tutto molto buono, complimenti alla cuoca!» «Ti ringrazio, ma per i complimenti è meglio che aspetti la fine.» Fine Dal nostro redattore di cronaca nera 2013: Renzo Bossi si laurea in Intelligenza Artificiale honoris causa Milano, 22 luglio 2013. Oggi si è laureato in Informatica con lode alla LUP di Milano (la Libera Università Padana) il consigliere regionale Renzo Bossi, figlio di Umberto, l’attuale ministro per le Riforme e il Federalismo. Si tratta della sua seconda laurea, dopo quella in Economia conseguita all’estero perché, come lui stesso aveva dichiarato, “non 178 voglio trovarmi i giornalisti in aula quando faccio gli esami”. È evidente che si tratta di un ulteriore caso, purtroppo, di quella piaga, tutta italiana, dei cervelli in fuga all’estero. Il neodottore ha discusso una tesi di Intelligenza Artificiale ed è stato il primo ad essere ascoltato dalla commissione. Durante la proclamazione è giunto alla LUP anche il ministro Bossi che, secondo quanto riferito dall’Università, si è semplicemente seduto ad ascoltare la cerimonia. Al termine, dopo il bacio accademico e il conferimento di una accessoria laurea honoris causa, c’è stato il tradizionale lancio in aria del tocco, il cappello dei laureati. Oltre al padre Umberto, che si è dichiarato orgoglioso del suo trota, erano presenti anche altre personalità politiche, tra cui i ministri Maroni e Calderoli. Quest’ultimo era decisamente commosso e ha pianto per tutto il tempo. Durante la proclamazione il rettore *** ha proposto a Renzo Bossi un posto come docente presso l’Università, ma la richiesta ha suscitato un coro di polemiche. È stato subito evidente che tale proposta non faceva che sminuire le capacità del neodottore e gli strascichi di questo incidente hanno portato alla rimozione dello stesso rettore dal suo incarico, che ricopriva da quando la LUP è stata fondata, con la pena accessoria della cancellazione del nome da tutti i documenti ufficiali e dalle lapidi marmoree commemorative. Il rettore rimosso è stato prontamente sostituito dallo stesso Renzo Bossi. Numerosi sono i figli di politici che negli ultimi anni hanno conseguito la laurea a pieni voti. Ricordiamo pochi anni fa la laurea in filosofia di Barbara Berlusconi, figlia del Presidente Silvio Berlusconi, che ormai da tre anni è docente alla facoltà di Economia dell’Università 179 San Raffaele di Milano. Inoltre, rimanendo in tema, nei prossimi giorni si laureerà all’Accademia di Arte Drammatica anche Noemi Letizia, la giovane napoletana che chiama “papi” il Presidente. Quest’ultima aveva dichiarato tempo fa: “Ho paura che la commissione d’esame abbia dei pregiudizi quando saprà che io sono quella Noemi di cui si parla per l’amicizia con Silvio. Chiedo solo di essere trattata come tutti gli altri”. Questa dichiarazione aveva nuovamente fatto pensare a un reale legame di parentela, suggerito anche dall’uso del nomignolo “papi”, vista la repulsione, che accomuna entrambi, a lasciarsi esaminare con serenità da organi preposti a giudicare. Si è pensato infatti a una tara familiare, ma l’ipotesi è stata smentita categoricamente dalle parti interessate. Ma veniamo all’argomento della tesi discussa dal consigliere Bossi. Abbiamo chiesto al professor Alberto De Giorgis dell’Università Roma Quattro, che era il relatore della tesi, di descriverci in parole povere in cosa è consistito il contributo del neodottore. Ci ha spiegato: “Come è noto, la Cibernetica e l’Intelligenza Artificiale, branche della Scienza dell’Informazione, hanno lo scopo di simulare comportamenti razionali in quei sistemi dove l’intelligenza è poca o nulla. Noi relatori spesso proponiamo agli studenti ricerche di frontiera utilizzandoli come cavie. Solo in questo modo il progresso può avanzare. Grazie al fondamentale contributo del nostro neolaureato, abbiamo sperimentato protesi cibernetiche, congegni elettronici di sussidio alla mente umana, capaci di potenziare il quoziente intellettivo dei soggetti a cui vengono impiantati. I risultati delle ricerche sono stati eclatanti. Pensate: un individuo che, per varie ragioni, aveva dovuto riprovare gli Esami di Stato per ben tre volte pri180 ma di superarli, quando invece il 97,95% dei candidati ha successo, grazie agli impianti è riuscito a conseguire ben due lauree. Questa è la più evidente dimostrazione dell’efficacia della nostra linea di ricerca, di cui le lascio immaginare le notevoli ricadute.” I miracoli della scienza e della tecnica non smettono mai di stupirci. Ciò che un tempo sembrava impossibile diventa spesso realtà. Speriamo che le nuove iniezioni di intelligenza giovino agli italiani, popolo di poeti, di santi, di navigatori e di intelligenti artificiali. Dal nostro inviato a Milano 2060: Stefano Caldoro santo subito Roma, 23 luglio 2060. A pochi mesi dai cento anni dalla nascita, è stato dato il via al “procedimento per lo svolgimento dell’inchiesta diocesana finalizzata alla raccolta delle prove per raggiungere la certezza morale sulle virtù eroiche”, in poche parole la procedura di beatificazione, del presidente Stefano Caldoro, del quale, già da molto tempo, si chiede a furor di popolo la canonizzazione. Come è noto, la causa di beatificazione riguarda un fedele cattolico che in vita, in morte e dopo morte abbia goduto fama di santità, cioè l’opinione diffusa tra i fedeli circa la purezza e l’integrità della sua condotta, vivendo in maniera eroica tutte le virtù cristiane. Il postulatore della causa, padre Anselmo Cercignani, ha presentato il libello di domanda (supplex libellus) che contiene, oltre alla biografia e agli scritti editi o pubblicati, anche l’elenco, trattandosi di causa recente, dei testimoni che possono contribuire ad accertare la ve181 rità sulle virtù, non trascurando coloro che potrebbero impugnare tale fama. Questo libello, oltre al materiale raccolto aggiuntivo, cioè i pareri dei Censori teologi sugli scritti, è stato consegnato al Promotore di Giustizia, monsignor Nicola Venturiello, che redigerà gli interrogatori per l’escussione dei testi. Sono state consegnate anche le dichiarazioni “ad futuram rei memoriam” rilasciate, ai tempi in cui causa non era in corso, da persone in età avanzata affinché le loro testimonianze non andassero perdute. Ma ricordiamo come si è diffusa tra la gente comune la fama di santità del presidente Caldoro. I fatti risalgono al 2010, cinquant’anni fa esatti, quando Stefano Caldoro era candidato presidente della Regione Campania. A quei tempi, pare che la sua candidatura fosse appoggiata dal presidente della Camera dell’epoca, Gianfranco Fini, ma osteggiata da altri esponenti dell’allora Popolo delle Libertà, che avrebbero preferito un altro candidato. Sembra che, al fine di screditare il Caldoro e quindi spianare la strada alle alternative, un’associazione segreta del tempo, denominata P3 e composta da politici e faccendieri guidati da un tal Flavio Carboni, in quel periodo piuttosto noto, si attivasse per trovare elementi che potessero metterlo in cattiva luce presso i sostenitori e l’elettorato. La pratica del ricatto era normale a quel tempo. In realtà, l’opinione pubblica era piuttosto flessibile: era solita indignarsi solo quando veniva opportunamente aizzata dai mezzi d’informazione, infatti alcuni personaggi assolutamente ignobili potevano permettersi azioni di qualunque tipo e tale condotta veniva annoverata tra i loro meriti, mentre altri, per molto meno, venivano messi alla pubblica gogna e totalmente screditati. 182 Per fortuna, pare che l’impegno dell’associazione P3 sia stato ripetutamente frustrato: non si trovò nulla, ma proprio nulla, nella vita integerrima e irreprensibile di Stefano Caldoro, tanto che l’estrema ratio fu quella di inventare di sana pianta un dossier farcito di false prove in cui si denunciavano sue sordide, quanto false, frequentazioni con transessuali. Probabilmente l’idea era stata presa pari pari da uno scandalo che aveva colpito un presidente di regione proprio in quel periodo, o forse si pensò ai transessuali solo perché quello era il vizio più diffuso tra i politici dell’epoca. Alla fine Caldoro la spuntò come candidato e il “dossier froci” non fu utilizzato. Se ne venne a conoscenza solo successivamente a causa di un altro scandalo in cui venne coinvolta l’associazione P3. Da questo nacque la fama di santità di Stefano Caldoro tra i ceti popolari, fama che lui stesso, dimostrando una grande umiltà, sosteneva essere infondata: “Eviterei la santificazione. Sono un peccatore come tanti, ma non per i peccati che mi attribuiscono”. Ora finalmente, a cinquant’anni dai fatti, il processo di beatificazione ha avuto inizio e presto i devoti italiani potranno ottenere ciò che chiedono a gran voce da tempo: “Caldoro santo subito”. Dal nostro vaticanista 183 2015: Marchionne liquida la FIAT e fonda la SFAB Srpska Fabrika Automobila Beograd Belgrado, 24 luglio 2015. Gli anni ‘90 del secolo scorso sono ormai lontani, così come il miraggio accarezzato da Slobodan Miloševic di una “Grande Serbia” destinata a dominare i Balcani. Perciò, archiviata una delle pagine più nere in cui la pacifica Europa si è vista colpire al cuore con la guerra e l’odio razziale, la Serbia è rinata e si è dimostrata uno dei paesi più attivi e con maggiori potenzialità di sviluppo del vecchio continente. Un paese che ha saputo approfittare della crisi economica in cui si sono dibattute le nazioni più industrializzate e che si è proposto come serbatoio di operai a basso costo e senza pretese. Grazie a queste caratteristiche gli investimenti delle grandi imprese sono stati dirottati verso Belgrado, sottraendoli ai paesi d’origine. Questo è anche il caso della FIAT Group Automobiles S.p.A. che, nata in Italia a Torino nel 1899, dopo aver attraversato con varie vicissitudini il novecento, si è ritrovata nei primi anni di questo secolo ad accorpare alcune industrie automobilistiche in difficoltà finanziarie, come l’americana Chrysler, e ad espandere la sua influenza sui mercati mondiali. Di pari passo con il risanamento e la crescita del gruppo, la società ha progressivamente ridotto la propria produzione in Italia, approfittando però il più possibile degli incentivi statali concessi per sostenere l’occupazione. Lo sganciamento del gruppo dall’Italia ha coinciso anche con il declino del movimento sindacale, iniziato già nei primi anni ‘80 a partire dalla marcia dei quarantami184 la. I diritti che i lavoratori si erano conquistati con decenni di sacrifici, scioperi e lutti sono stati sempre più erosi. Il diritto a non essere licenziati senza giusta causa, o in caso di malattia, e il diritto di sciopero erano malvisti dai dirigenti. È chiaro che se non puoi licenziare chi vuoi, in particolare gli ammalati, per far posto a forze fresche, o se si perdono giornate di lavoro a causa degli scioperi di protesta, i profitti calano, perciò si tratta di diritti che sono in modo evidente contro la logica del profitto propugnata dal Capitalismo. A parte alcune frange considerate estremiste, molti lavoratori, pur di difendere il loro posto, hanno accettato di annacquare l’efficacia di questi diritti, previsti in modo inalienabile nella carta costituzionale, che altri lavoratori in condizioni decisamente peggiori delle loro avevano conquistato a caro prezzo, anche pagando con la vita. Neppure questo però è bastato. Quando le mammelle statali non sono state più in grado di sostenere il ricatto del “pagami o me ne vado”, l’azienda ha trasferito progressivamente le proprie attività verso mercati più promettenti. La Serbia è uno di questi: un serbatoio di operai senza pretese, che gode di investimenti a pioggia dei gruppi finanziari che fiutano un mercato vergine da far crescere, per poi roderlo fino all’osso. C’era un solo particolare che fino ad ora teneva ancora legata la FIAT all’Italia: il fatto che nel nome “Fabbrica Italiana Automobili Torino” ci fosse la ‘I’ di Italia e la ‘T’ di Torino. Dopo una lotta durata alcuni anni, il sindaco di Torino ha vinto la causa che lo vedeva contrapposto all’ex-azienda del Lingotto. Il TAR piemontese ha sancito che la FIAT non potesse più fregiarsi della ‘T’ di Torino, visto che la sede era stata trasferita, e il TAR del Lazio 185 ha dedotto la stessa conclusione per quanto riguarda la ‘I’ di Italia. L’amministratore delegato del gruppo FIAT, Sergio Marchionne, noto anche alla gente comune per i suoi dimessi maglioncini scuri che indossa in ogni occasione, è subito corso ai ripari e ha fondato in Serbia la SFAB, ovvero la “Srpska Fabrika Automobila Beograd”, che tradotto significa “Fabbrica Serba Automobili Belgrado”. I lavoratori serbi hanno dovuto svolgere un elevato numero di ore di straordinario senza stipendio per produrre i nuovi loghi da sostituire a quelli vecchi, mentre i delegati sindacali passavano nelle catene di montaggio lodando l’amministrazione e dando la colpa di tutto quel lavoro aggiuntivo alla FIOM-CGIL. Rimane un solo dubbio. Una regola ferrea del Capitalismo giapponese dice che bisogna lasciare abbastanza tempo libero agli operai perché consumino ciò che producono. La logica è semplice: i lavoratori producono, guadagnano, comprano ciò che hanno prodotto, consumano, tornano a produrre e così via ciclicamente; il plusvalore della mano d’opera arricchisce l’azienda. Il dubbio è che gli operai serbi non guadagnino abbastanza denaro per permettersi di acquistare la monovolume da loro prodotta: chi comprerà quindi quelle auto? Dal nostro inviato nei Balcani 2018: Claudio Scajola: “Mi dimetto per coerenza” Roma, 27 luglio 2018. Dopo 21 giorni di gogna mediatica, Claudio Scajola, il ministro alla Logistica delle Politiche Federali, ha rassegnato le dimissioni e lo ha fatto con il suo consueto sen186 so di responsabilità: “Mi dimetto nonostante la mia completa estraneità ai fatti contestati per potermi difendere senza impedimenti nelle sedi opportune, per tenere fede alla mia coerenza e per non ostacolare l’azione di governo”. Il presidente del Consiglio, che le aveva ripetutamente sconsigliate, ha accettato le dimissioni con gratitudine per il lavoro svolto: “Abbiamo manifestato in più occasioni la nostra fiducia nell’operato del ministro, ma per la stima, l’amicizia che ci lega e le solide motivazioni addotte non possiamo respingere queste dimissioni. Le accettiamo con i ringraziamenti per il fattivo contributo apportato all’esecutivo.” L’Affaire Pallavicini ha quindi immolato una nuova vittima sacrificale sull’altare del giustizialismo. Questo scandalo, che da mesi scuote le fondamenta dei palazzi romani, sembra non riuscire a placare la sua sete di capri espiatori, ma nei prossimi anni si passerà finalmente dallo stillicidio di rivelazioni alla verità giudiziaria. Sempre troppo tardi, purtroppo. Le dimissioni del ministro giungono a sorpresa, ma l’effetto è quello di assistere a un deja-vù. In effetti, altre due volte si era già verificata una situazione simile nella storia della politica italiana. È un evento che sembra ripetersi ogni otto anni. Ma ripercorriamo brevemente la cronaca dei precedenti. Solo un cenno alla vicenda di sedici anni fa. Nel 2002, il professore universitario Marco Biagi, consulente del governo, fu assassinato dalle Brigate Rosse. Fu rinfacciato al ministro, allora agli Interni, di aver revocato la scorta a Marco Biagi nonostante questi avesse manifestato preoccupazione per la propria vita. Scajola replicò con una serie di considerazioni, ma due in particolare furono messe sotto accusa. 187 La prima: “Biagi era senza protezione, ma se lì ci fosse stata la scorta i morti sarebbero stati tre”. Come dargli torto! Nella strage mafiosa in via D’Amelio del 1992, quella che uccise Paolo Borsellino, morirono con il magistrato anche sette agenti di scorta. Lo stesso è accaduto in tante altre stragi di mafia o agguati terroristici. Non è saggio, sulla base di queste drammatiche esperienze, revocare la scorta a chi è un obiettivo conclamato di possibili attentati? Ma la risposta che provocò all’epoca le dimissioni del ministro riguardava l’importanza del consulente: “Figura centrale Biagi? Fatevi dire da Maroni se era una figura centrale: era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza”. La frase suscitò un moto d’indignazione. In effetti, alcuni osservatori notavano una certa incongruenza tra la scorta negata a Marco Biagi e le auto della polizia che presidiavano a Imperia, città natale del ministro, alcune abitazioni di opinabile rilevanza strategica. Ma queste sono vicende ormai datate. Su di esse si è già discusso molto e il giudizio morale che le accompagna è lampante. Più vicini a noi, invece, sono i fatti del 2010. In una sorta di regolamento di conti interno all’allora Pdl, si sono susseguite una serie si rivelazioni-scandalo con cui un’ala del partito ha cercato di liberarsi dell’altra parte ritenuta corrotta, eversiva e mafiosa. Quanto questa analisi fosse corretta è ormai un problema che devono dibattere gli storici, ma fatto sta che il tentativo fallì e il gruppo che si definiva dei “3-Anti” (anticorruzione, antieversivo e antimafioso), definito anche la “serpe nel seno del Pdl”, nel giro di pochi mesi finì per essere epurato, sostituito negli equilibri parlamentari da altre forze politiche in precedenza all’opposizione. 188 Proprio in quel periodo la Guardia di Finanza trovò traccia di assegni circolari per circa 900 mila euro, tratti da un conto corrente bancario intestato ad un professionista vicino al gruppo Anemone, che era coinvolto in un’inchiesta di appalti pubblici ottenuti dalla Protezione Civile con fraudolenza. Tali assegni sembra siano stati utilizzati (il condizionale è d’obbligo perché il procedimento giudiziario, a otto anni di distanza, è ancora in corso) per l’acquisto di un appartamento a Roma davanti al Colosseo a favore del ministro Scajola. L’interessato ha smentito le circostanze, ribadendo in più occasioni di aver pagato l’immobile di tasca propria con i 600 mila euro attestati nell’atto notarile. Che il fatto fosse avvenuto a sua insaputa, il ministro lo ha giurato ripetutamente e per dimostrare la sua buona fede, dopo essersi dimesso, ha dichiarato: “Se dovessi acclarare che la mia abitazione fosse stata pagata da altri senza saperne io il motivo, il tornaconto e l’interesse, i miei legali eserciterebbero le azioni necessarie per l’annullamento del contratto”. Da quel giorno molti politici si sono accorti di essere proprietari di appartamenti, ville, vetture di lusso, imbarcazioni da diporto e titoli azionari, tutti acquistati a loro insaputa da terzi. Si è verificata anche l’apertura di conti bancari esteri in paradisi fiscali, sempre all’insaputa dei titolari, da parte di questi subdoli soggetti. Negli anni successivi, il fenomeno si era talmente espanso che il Parlamento fu costretto a varare un disegno di legge contro chi acquista beni all’insaputa dei beneficiari, ma la legge è ancora al vaglio delle camere e l’approvazione è lontana. Il provvedimento sarà esteso anche a coloro i quali paghino le escort all’insaputa di chi gode delle loro prestazioni. Pare, infatti, che molti politici credano che donne bellissime e sensuali, oppure procaci transessuali 189 a seconda dei gusti, siano attratte dalla loro prestanza fisica e non, come invece si scopre successivamente, abbiano ottemperato con disgusto perché pagate profumatamente per i loro servizi professionali da terzi soggetti all’insaputa del cliente. Grazie alle dimissioni e alle sue nobili dichiarazioni, il ministro è quindi uscito a testa alta dalla vicenda di otto anni fa, conservando il sostegno di tutto il suo elettorato. Lo dimostrano gli innumerevoli attestati di stima millantati sul sito internet personale. Quanto fosse altruista l’atteggiamento di Scajola lo ha confermato anche la moglie che all’epoca dichiarò: “Se [mio marito] non parla ancora, è per non creare problemi a persone molto più coinvolte di lui in questa vicenda”. Naturalmente il ministro, con la sua consueta umiltà, ha smentito l’incauta dichiarazione della consorte. Nulla comunque ha potuto incrinare il legame tra il ministro e l’incrollabile fiducia dell’elettorato di Imperia, suo collegio elettorale. Nota è l’efficace preghiera che alcuni postulanti sono soliti recitare, parafrasando san Bernardo di Chiaravalle, prima di essere ricevuti: “Non si è mai udito al mondo che qualcuno abbia ricorso al tuo patrocinio, implorato il tuo aiuto, chiesto la tua protezione e sia stato abbandonato. Animato da tale confidenza, a te ricorro...” Questo riferimento alla religione non è peregrino o fuori luogo. È noto quanto Scajola sia un cristiano devoto. Tutti gli imperiesi, infatti, sono a conoscenza di come il ministro sia legato a sua moglie e alla sua famiglia. Mai è giunta una notizia di uno screzio tra i coniugi o di avventure extra-coniugali che invece sono la regola per altri politici di moralità più elastica. Non si è mai posto il problema, ma è nota la posizione del ministro nei confronti della legge sul divorzio. È 190 una legge dello stato a cui, ovviamente, non dovrà mai fare ricorso proprio grazie alla serenità che regna in famiglia. Analoghe considerazioni valgono per la legge sull’aborto. Tutti gli imperiesi conoscono anche su questo punto l’opinione del ministro: mai e poi mai potrebbe arrivare a suggerire l’aborto a chicchessia. Ma quali saranno gli effetti immediati delle dimissioni? Sicuramente la prima conseguenza riguarda il volo Albenga-Fiumicino, collegamento fondamentale per lo sviluppo del Ponente ligure. Ogni volta che Scajola diventa ministro, l’Alitalia o la consociata Air One attivano un volo tra l’aeroporto di Albenga, a pochi chilometri da Imperia, e Roma Fiumicino. Poco importa se il numero massimo di passeggeri registrato sulla tratta è stato, in tanti anni di esercizio, di soli 18, è innegabile che un volo del genere può fare da volano all’intera economia ligure e non per niente ha potuto usufruire dei contributi statali a disposizione per i collegamenti aerei delle aree più disagiate. Come è accaduto nei due eventi precedenti, il primo a risentire delle dimissioni sarà proprio il volo AlbengaFiumicino, che purtroppo sarà cancellato, con grande disagio di 18 passeggeri al massimo. N.B. In ottemperanza al comma 29 della cosiddetta “legge bavaglio”, che recita: “per i siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”, la presente pagina pubblica immediatamente la preventiva doverosa rettifica in blocco a tutto quanto è stato scritto. 191 Dal nostro inviato in Parlamento 192